Non siamo soli nelle nostre città. Confuse tra i fiori dei balconi volteggiano farfalle variopinte; al limitare della strada, volpi furtive sgusciano e si nascondono fra gli arbusti dei parchi, scomparendo nel loro labirintico sottobosco in cerca di cibo; nel buio della notte metropolitana, una civetta va a caccia, padrona delle ombre. Per quanto impressionante ci possa sembrare, ognuno di loro – zanzare e topi compresi – contribuisce a mantenere in equilibrio un ecosistema unico e che perlopiù ci è ignoto, sebbene proliferi sotto i nostri occhi. Il biologo Marco Granata ci apre le pagine di questo sorprendente bestiario urbano. Il suo è un inedito manuale illustrato dell’ecosistema cittadino, che ci porta alla scoperta degli animali che abitano gli spazi a noi più prossimi, raccontandoci in che modo si siano adattati alla nostra presenza: dalle cornacchie, che hanno imparato a riconoscere le luci dei semafori per farsi aprire le noci dalle automobili, alle vespe, la cui femmina dopo la fecondazione inizia da sola la costruzione del proprio nido nei sottotetti o nelle cavità dei muri in cemento; dai grandi scarabei eremiti che profumano di pesca alle testuggini dalle orecchie rosse, alieni che hanno invaso i laghetti dei nostri parchi. Un racconto scientifico in prima persona dei misteriosi collegamenti che la biologia intesse tra la sala e il tetto, tra le grondaie e le fognature, tra i campi di periferia e le grandi piazze. Bestiario invisibile ci svela i segreti delle città selvatiche, dell’universo che vive silenziosamente accanto a noi. Un’opera che ci mostra come in ogni momento e in ogni contesto sia possibile trovare qualcosa di straordinario nascosto nelle pieghe dell’ordinario, perfino sotto la terra di un vaso o tra i fili d’erba al centro di una rotonda.
(dal risvolto di copertina di: Marco Granata, "Bestiario invisibile. Guida agli animali delle nostre città". il Saggiatore, pagg. 320, € 22)
Le nostre città, habitat ideale di blatte e gabbiani
- di Giulia Bignami -
Di bestiari ne ho letti tanti: letterari, immaginari, fantastici, metafisici, poetici, moderni, sentimentali, ma nessuno invisibile, come quello del biologo Marco Granata. E forse è proprio quello che ci mancava per ritrovare e riscoprire gli animali persino dove non pensiamo di vederne, grazie a una meticolosa e paziente educazione del nostro sguardo. Il sottotitolo, Guida agli animali delle nostre città, potrebbe far pensare a una guida da campo tradizionale, ma l’introduzione fa capire che si tratta invece di «un tentativo personale, scientifico, sentimentale e partigiano di raccontare la vita e la morte degli animali che vivono nelle nostre città». Tuttavia, l’attenzione del pubblico è spesso concentrata sui vertebrati, tralasciando quei «tanti piccoli coinquilini» che sono i protagonisti indiscussi della prima parte del libro. Grazie ad approfonditi appunti di entomologia domestica ci si avventura negli interstizi tra mobili e pareti, nelle fessure tra le piastrelle, sotto frigoriferi e lavatrici per scoprire che le nostre case non sono veramente nostre, ma inevitabilmente ecosistemi abitati da una varietà di specie. Il primo traumatico incontro casalingo avviene a colazione con delle blatte, per la precisione con uno scarafaggio nero già morto ma eterna sorgente di disgusto umano (nonché inconfessata passione dell’autore). Questa nobile casata del mondo animale è vecchia di circa trecento milioni di anni, è sopravvissuta a estinzioni di massa e realisticamente, nonostante lo schifo che ci fa, ci sopravvivrà. D’altronde si racconta che il biologo inglese John B. S. Haldane, interpellato da un ecclesiastico circa la sua concezione di Dio, abbia risposto che Dio doveva avere un entusiasmo inconsulto per gli scarafaggi. Come dargli torto. Uscendo di casa, si attraversano pagine in cui strade, giardini e periferie assumono le sembianze di veri e propri laboratori urbani per lo studio dei processi ecologici ed evolutivi, approdando a quello che può essere definito il paradosso dell’inurbamento: se le città, infatti, sono tristemente note per frammentare, sottrarre e distruggere gli habitat naturali, allo stesso tempo offrono ad alcune specie, in particolar modo a quelle più generaliste, grandi opportunità per prosperare.
Questo perché le città offrono abbondanza di cibo, basti pensare alle discariche e prestare attenzione ai gabbiani che, immemori del loro passato di pescatori, frugano tra i nostri rifiuti in modo «poco dignitoso, ma redditizio» per usare le parole del gabbiano reale di Chivasso, immaginariamente intervistato da Primo Levi. In aggiunta, negli ambienti urbani la temperatura è tipicamente più alta di diversi gradi rispetto alla campagna, grazie al fenomeno dell’isola di calore, dovuto al fatto che, oltre al traffico, alle industrie e alle attività domestiche, le superfici di edifici e strade hanno un’elevata capacità di assorbire l’energia della radiazione solare, poi rilasciata in forma di calore soprattutto di notte. Infine nella città si possono trovare grandi opportunità di rifugio per difendersi dai predatori: anfratti, fessure, cavità di vecchi edifici, grondaie e tetti rappresentano quella «città negativa» di calviniana memoria e, in fin dei conti, non sono poi così diversi da una parete rocciosa. Le città possono quindi offrire molto, ma solo a chi si sa adattare anche alle minacce più subdole, come quella della frammentazione degli habitat: un contesto nel quale l’ambiente naturale non viene distrutto o deteriorato, ma interrotto dall’intervento umano come, per esempio, nel caso delle strade che attraversano i parchi.
Se, per esperienza personale, garantisco che istruire un cigno o un rospo ad attraversare la strada sia impresa davvero ardua, le cornacchie, al contrario, hanno addirittura imparato a sfruttare i semafori rossi, per depositare le loro noci in strada di fronte alle macchine, verdi, per farle schiacciare dagli pneumatici in transito, e nuovamente rossi, per andare a recuperarle aperte e pronte da mangiare. Sopravvivere in città però, alle volte, non è solo questione di semafori, ma anche di cravatte, come succede al maschio cittadino di cinciallegra, che porta sul petto giallo una cravattina nera più sottile rispetto al maschio delle campagne, a rappresentazione della maggior prudenza premiata nella frenetica vita cittadina. Pure il canto della cinciallegra di città si è dovuto adattare, alzando la frequenza per superare l’inquinamento acustico urbano e riuscire a farsi sentire dai propri simili. Questi adattamenti ovviamente non salvano tutti, le comunità naturali si disgregano, gli habitat si perdono e un processo di omogeneizzazione della fauna porta alla diffusione di una manciata di specie generaliste a spese della biodiversità originale. Ci sarebbe da chiedersi quale sia la percentuale minima di pianeta che dovrebbe essere protetta per salvare la biodiversità e l’entomologo statunitense Edward O. Wilson, in effetti, se lo è chiesto, arrivando alla conclusione che basterebbe proteggere il 50% della Terra per salvare oltre l’85% delle specie. È perciò importante riconoscere, salvaguardare e magari solo imparare a vedere la natura in città, come ci insegna a fare questo libro, perché tutte le specie meritano l’attenzione dei cittadini e, come scriveva il grande esploratore tedesco Alexander von Humboldt, perché «La visione del mondo più pericolosa è quella di coloro che non hanno visto il mondo».
- Giulia Bignami - Pubblicato su Domenica del 10/9/2023
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