Un Marx che amava il Capitalismo?
- A proposito di un dibattito su tecnologia e disoccupazione -
di Maurilio L. Botelho, con la collaborazione di Marcos Barreira
«Gli imbecilli pensano che Marx odiasse il capitalismo. No! Era un suo entusiasta ammiratore» Reinaldo Azevedo
Marx, ha mai detto che «la tecnologia avrebbe fatto sparire i posti di lavoro»? Qual era per lui la relazione che si era venuta a stabilire tra la tecnologia e il progresso sociale?
Per un lettore di Marx, la prima idea, qui sostenuta da un "irriducibile" economista liberale, suona un po' strana, dal momento che il teorico tedesco non è che pensi esattamente secondo quelli che sarebbero i termini di "occupazione" e "reddito", allo stesso modo in cui farebbe qualsiasi economista ordinario rimasto fermo alla sfera della circolazione; bensì lo fa piuttosto soprattutto in termini di analisi della forma di produzione che abbiamo nel capitalismo, e delle sue contraddizioni; cosa che ovviamente include anche la circolazione, vista come un momento della totalità. Il problema della relazione esistente tra tecnologia e fine del "lavoro", ci consente tuttavia di aprire nel discorso circolazionista, una breccia dalla quale far passare un'interpretazione attuale della teoria della crisi di Marx. Nel dibattito, il contrappunto che viene fatto dal "lettore di Marx", sembra invece essere invece però proprio quello di chi vuole semplicemente rifiutarsi di stabilire una simile relazione. Qui, il punto decisivo è che - rispetto alla crescita del capitale globale - non esiste una crescita "proporzionale" della forza lavoro. Per cui, anziché di «distruzione creativa», Marx parla invece di una tendenza a ridurre l'uso (l'impiego) della forza lavoro rispetto alla grandezza del capitale globale.
Il risultato di una cosa del genere?
Un ampliamento assoluto dell'«esercito industriale di riserva», vale a dire di quelli che gli economisti chiamano "disoccupati". Ed è questo è ciò che troviamo allorché apriamo il Capitale, «quel libro noiosissimo» - come dice l'economista - nel quale Marx descrive la relazione esistente tra «l'aumento della tecnologia», l'espansione della produttività e l'uso della forza lavoro [il capitale variabile]:
«Il modo di produzione specificamente capitalistico, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro a esso corrispondente, e il cambiamento così causato nella composizione organica del capitale che ne deriva, non vanno soltanto di pari passo con il progresso dell’accumulazione, ovvero con l’aumento della ricchezza sociale. ESSI PROCEDONO A UN PASSO INCOMPARABILMENTE PIÙ RAPIDO, perché l’accumulazione semplice, ossia l’estensione assoluta del capitale complessivo, è accompagnata dalla centralizzazione dei suoi elementi individuali, così come la rivoluzione tecnologica del capitale addizionale è accompagnata dalla rivoluzione tecnologica del capitale originario. Con l'avanzare dell'accumulazione, quindi, cambia la proporzione tra la parte costante e quella variabile del capitale. Siccome la domanda di lavoro è determinata non dal volume del capitale complessivo, ma dal volume della sua parte costitutiva variabile, essa
diminuisce in proporzione progressiva con l’aumento del capitale complessivo, invece di aumentare in proporzione di esso, come è stato presupposto prima. Essa diminuisce in rapporto alla grandezza del capitale complessivo, e diminuisce in progressione accelerata con l’aumento di questa grandezza. È vero che, con l’aumento del capitale complessivo, cresce pure la sua parte componente variabile, ossia la forza di lavoro incorporata a esso, ma cresce IN PROPORZIONE COSTANTEMENTE DECRESCENTE» (Il Capitale, libro I. maiuscole mie).
Tuttavia – lo diciamo per i "non lettori" del Capitale –per quanto le singole unità aziendali impieghino sempre meno forza lavoro, il capitalismo rimarrebbe però dotato di un'eterna capacità di espansione, la quale porterebbe sempre a compensare questi tagli grazie a ulteriori e nuove "opportunità". Così, nella visione liberale radicale «le nuove tecnologie distruggeranno alcuni posti di lavoro, ma altrove ne creeranno altre». Mentre, invece, nella visione dell'"economista dello sviluppo", «se un Paese raggiunge un livello x di tecnologia, allora la sfida dell'economista lì diventa quella di trovare nuovi campi di accumulazione; ma se raggiunge un punto di altissima complessità economica, ciò che viene dopo è la creazione di servizi tecnologici, e la tendenza dei salari in quel settore diventa quella di alti salari».
La differenza tra il roseo mondo del fondamentalismo di mercato e la panacea sviluppista, consiste nel fatto che nel primo caso il mercato esegue automaticamente l'aggiustamento economico, purché non sia ostacolato da "interventi politici"; mentre nel secondo, l'intervento tecnocratico svolge il ruolo opposto, impedendo così che l'accumulazione si trasformi in "disoccupazione strutturale". In questo dibattito - che ignora le contraddittorie dinamiche strutturali delineate da Marx - gli estremi ideologici divergono solo circa quale debba essere il ruolo della "politica"; ma lo fanno pur sempre sulla medesima base che vede un capitalismo in grado di continuare indefinitamente il processo di accumulazione.
La visione che ha Marx dell'accumulazione capitalistica, invece, è del tutto diversa: egli sostiene che il capitale possiede una dinamica storica quasi oggettiva [feticista], la quale conferisce all'accumulazione un carattere socialmente incontrollabile e distruttivo. La conclusione circa la riduzione relativa della forza lavoro in linea con l'espansione del capitale globale, cui Marx perviene, è talmente importante da essere stata definita come la «legge generale dell'accumulazione capitalistica». Al di là di quelli che sono i cicli periodici di incorporazione della forza lavoro, la tendenza generale dell'impiego della forza lavoro è quella di «diminuire progressivamente con la crescita del capitale globale»:
«Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e il peso della sua crescita, cioè la sua densità e intensità, e quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la produttività del suo lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva. Le stesse cause che sviluppano la forza di espansione del capitale, aumentano la forza di lavoro disponibile. La grandezza proporzionale dell’esercito industriale di riserva cresce dunque insieme con le potenze [meccaniche e astratte, tangibili e intangibili], della ricchezza. Ma quanto maggiore, in rapporto all’esercito operaio attivo, è l’esercito di riserva, tanto maggiore è la sovrappopolazione consolidata, la cui miseria è in proporzione inversa del suo tormento di lavoro. Quanto maggiore, infine, è lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva tanto maggiore è il pauperismo ufficiale. Questa è la legge generale e assoluta dell’accumulazione capitalistica: [a un polo della società si concentra la ricchezza e al polo opposto dilaga la miseria]. La legge di attrazione per la quale una massa sempre crescente di mezzi di
produzione, grazie al progresso compiuto nella produttività del lavoro sociale, può essere messa in moto mediante un dispendio di forza umana progressivamente decrescente, che permette all’uomo della società moderna di produrre di più con meno lavoro, si esprime nel sistema capitalistico –dove non sono i mezzi di produzione al servizio del lavoratore, bensì il lavoratore al servizio dei mezzi di produzione– in legge di repulsione: quanto più alta è la forza produttiva del lavoro, tanto più grande è la pressione degli operai sui mezzi della loro occupazione, e quindi tanto più precaria diventa la condizione di esistenza del salariato e la vendita della sua forza di lavoro per l’aumento della ricchezza altrui, ossia per l’auto-valorizzazione del capitale.» (Capitale, Libro I).
A essere qui in discussione, non è solo un ampliamento assoluto del "proletariato" - il quale del resto può essere definito come quelle persone che non possiedono direttamente i mezzi di produzione – ma la crescita dell'esercito degli esclusi in «rapporto all'esercito attivo dei lavoratori». La "legge generale dell'accumulazione capitalistica" rende evidente il carattere mendace di affermazioni come quelle che sostengono che «in Marx non esiste una simile relazione secondo la quale la tecnologia distruggerebbe i posti di lavoro», ma serve oltretutto anche a chiarire il problema della condizione del lavoratore inserito nel processo produttivo e la cosiddetta "legge di bronzo", o "legge di ferro" dei salari.
La "legge di bronzo dei salari" divenne famosa grazie ai dibattiti all'interno del Partito Socialdemocratico Tedesco. Nel 1875, i rappresentanti dei due partiti operai si incontrarono nella città di Gotha ed elaborarono un programma comune che, tra le altre cose, si batteva per uno «Stato libero», per una «società socialista» e per il superamento del sistema salariale e della «legge di bronzo del salario». Il principale ispiratore di un simile dibattito non era stato Marx, bensì il socialista Ferdinand Lassalle, l'ideatore della "legge di bronzo". Secondo lui, il salario dei lavoratori tenderebbe sempre al minimo di sussistenza, e farebbe questo in funzione dell'aumento della popolazione. La confusione tra marxismo e lassalismo, all'interno del movimento operaio e nei programmi dei partiti socialisti, avrebbe portato, nel corso del XX secolo, allo stigma dell'«errore di Marx», secondo cui al centro del capitalismo si sarebbe verificato - almeno fino agli anni Settanta - un reale miglioramento della "condizione operaia". Tuttavia, Marx aveva immediatamente respinto la "legge di bronzo" lassalliana, nella Critica del Programma di Gotha, dove sottolineava che l'origine di questa legge risiede nell'economia politica classica, nel pastore Malthus, il quale vaticinava a proposito di un aumento costante della popolazione, visto come causa della povertà. La critica di Marx a questa "legge del bronzo" non si limita solo al fatto che la crescita della popolazione dipende da dei criteri sociali (critica al malthusianesimo), ma asserisce che anche la determinazione del livello salariale dipende da delle condizioni storiche: il valore della forza lavoro viene definito come l'insieme dei "mezzi di sussistenza", ma questi mezzi, a loro volta, sono determinati dal "livello di civiltà" della classe operaia. Così, se esistesse una legge della povertà legata alla crescita naturale della popolazione, anche il futuro previsto dai socialisti sarebbe condannato alla povertà, dal momento che «questa [legge naturale] governa non solo il sistema del lavoro salariato, ma l'intero sistema sociale» (Marx, Critica del programma di Gotha).
Come è noto, Marx fu il più grande critico della tesi di «un'astratta legge demografica [che] esiste solo per le piante e gli animali».
Proponendo l'esistenza di una relazione immanente tra la composizione organica del capitale e l'aumento progressivo del capitale fisso, Marx si misurava con una "legge naturale della società": una legge sociale "quasi naturale" del capitalismo, un processo sociale che agisce come se fosse una forza anonima che viene esercitata sugli individui. Questa legge preme - dietro le spalle dei soggetti e al di là di quelle che sono le variazioni congiunturali dei salari - in direzione di una miseria delle masse, vale a dire di un allargamento dello «strato lazzaro della classe operaia» e dell'«esercito industriale di riserva». Nel momento in cui l'esclusione sociale si aggrava, quando la "rivoluzione tecnologica" espelle i lavoratori dal processo produttivo, ecco che la pressione sui salari costringe a una caduta generale del livello salariale, che porta al "pauperismo ufficiale", che viene oggi chiamato "precarizzazione". Nel primo libro del Capitale, la "legge generale dell'accumulazione capitalistica" corrisponde a quella che nel terzo libro Marx chiamerà "legge tendenziale della caduta del saggio di profitto"; e questo perché la «rivoluzione tecnica», vale a dire l'aumento della composizione organica del capitale, non solo dissolve le basi sociali della riproduzione della forza-lavoro, gettando le masse nella miseria e nell'emarginazione, ma dissolve anche le basi della stessa produzione capitalistica: la creazione di valore e, con essa, il fine capitalistico in sé sotto forma di profitto, «Poiché lo sviluppo della forza produttiva, e la corrispondente maggiore composizione del capitale mobilitano un "quantum" sempre maggiore di mezzi di produzione per un "quantum" sempre minore di lavoro, ogni aliquota del prodotto globale, ogni singola merce o ogni singola parte di merce della massa complessiva prodotta assorbe meno lavoro vivo e, inoltre, contiene meno lavoro oggettivato, sia a partire dal deprezzamento del capitale fisso che viene impiegato, sia nelle materie prime e ausiliarie utilizzate. Ogni singola merce contiene pertanto si una somma minore di lavoro oggettivato nei mezzi di produzione che di nuovo lavoro aggiunto durante la produzione. A partire da questo, il prezzo della singola merce diminuisce. La massa di profitto contenuta nella singola merce può tuttavia aumentare, nel caso aumenti il tasso di plusvalore assoluto o relativo. Contiene meno nuovo lavoro aggregato, ma rispetto a quella retribuita, la parte non retribuita aumenta. Questo però avviene SOLO ENTRO CERTI LIMITI. Con la diminuzione assoluta, enormemente incrementata nel corso dello sviluppo della produzione, della somma di lavoro vivo che viene aggiunto alla singola merce, anche la massa di lavoro non pagato in essa contenuta diminuirà assolutamente, per quanto possa essere cresciuta relativamente, cioè in proporzione alla parte pagata» (Capitale, libro III - corsivo aggiunto) [*1].
Così, anziché una visione positiva del progresso tecnologico, visto come espressione del "successo capitalistico", l'analisi di Marx sembra piuttosto suggerire che lo sviluppo delle forze produttive - in quanto necessità immanente del capitalismo stesso - spinga il capitale a confrontarsi con i propri limiti storici: «il capitalismo diventa senile» (Capitale, libro III), vale a dire che quando le forze produttive sviluppate dislocano più forza lavoro di quanta ne possano impiegare, allora ecco che «crolla la produzione basata sul valore» (Grundrisse).
Marx ha reso tutto questo ancora più evidente in una delle sue bozze per Il Capitale: «La contraddizione tra capitale e lavoro salariato si sviluppa sino alla sua piena contrapposizione, dal momento che il capitale non solo è il mezzo di svalorizzazione della forza-lavoro vivente,
ma è anche il mezzo che trasforma quest'ultima in superflua, sia che lo faccia completamente in alcuni determinati processi, sia riducendola alla quantità più bassa possibile all'interno della produzione nel suo complesso. II lavoro necessario si trasforma cosi immediatamente in popolazione superflua, in quanto massa incapace di generare plus-lavoro.» (Manoscritti 1861-1863).
Questa visione «tetra e funesta» di Marx si trova in diretta contraddizione con l'idea secondo cui «Marx era entusiasta di ogni innovazione tecnologica che emergeva nel suo tempo», dove in fondo questo entusiasmo sarebbe invece proprio quello che viene professato dall'economista liberale: nonostante la divergenza nella lettura dell'opera di Marx, entrambi rifiutano a priori il carattere dirompente della tecnica, visto che alla fine ogni progresso tecnologico sarebbe in grado di ricreare le basi dell'occupazione precedentemente rimosse. A questo proposito, l'evoluzionismo tecnologico di Elias Jabbour distorce palesemente la teoria di Marx, dal momento che gli attribuisce una visione immediatamente positiva della tecnica vista come «forza produttiva», ignorando i passaggi nei quali sottolinea che nel capitalismo le forze produttive hanno un carattere "unilaterale", e quindi per la maggior parte della società diventano "forze distruttive" (L'ideologia tedesca); o che l'industrializzazione dell'agricoltura «disturba il metabolismo tra l'uomo e la natura» e la «fertilità permanente del suolo» (Il capitale).
Questo disinteresse per gli avvertimenti di Marx circa gli effetti distruttivi dell'accumulazione di capitale per l'ambiente, serve anche a mascherare le contraddizioni piuttosto gravi del «socialismo di mercato» nella Cina di oggi.
Certo, nonostante tutte le critiche radicali, c'è un momento in Marx in cui lo sviluppo delle forze produttive appare come effettivamente positivo; questo "ottimismo", tuttavia, non fa parte dell'orizzonte della società capitalista, ma ha luogo solo nella transizione verso una società emancipata, dove le forze sviluppate potrebbero essere utilizzate al di là del "fine in sé" dell'auto-valorizzazione del capitale; cosa che implica anche una crisi fondamentale del capitalismo. All'interno della forma capitalistica, lo sviluppo delle forze produttive assume un carattere socialmente distruttivo e autodistruttivo, e ciò perché le forze produttive del capitale creano «le condizioni materiali per farlo volare per aria» (Marx, Grundrisse). Le "catastrofi" e le "convulsioni" annunciate da Marx, sono il risultato immediato dello sviluppo tecnologico del capitale, non nel mondo roseo della riduzione della giornata lavorativa e del godimento del "tempo libero" visti come parte di un continuum storico. La crisi del lavoro appare immediatamente come se fosse una recrudescenza della dittatura del lavoro socialmente obsoleto [*2]. Nella sua utopia tecnologica schumpeteriana, che si combina con una teoria della transizione al socialismo attraverso il mercato e, in ultima analisi, anche "verso" un mercato inteso come antitesi del capitalismo [*3], Elias rifiuta categoricamente l'esistenza di un nesso tra «sviluppo della tecnologia e disoccupazione». Egli propugna, inoltre, il salvataggio dell'economia di mercato attraverso l'interventismo statale, che agirebbe come un medico sul letto del capitalismo. Non si può dubitare di Elias quando dice: «Sono comunista, ma non voglio il socialismo per me stesso. Se ho un capitalismo che funziona, mi basta». Qui appare evidente come l'«ammiratore entusiasta del capitalismo» non sia esattamente Marx, bensì l'ideologo della "proiezione" - il quale, a sua volta, "proietta" ingenuamente su Marx il proprio punto di vista. Il pensiero scolastico sosteneva che non esiste una posizione "più" sbagliata o "meno" sbagliata, poiché l'errore sarebbe solo uno stato assoluto, il quale non può essere suddiviso in gradazioni. Sebbene entrambi i partecipanti alla discussione si siano sforzati di dare un carattere quasi assolutamente errato alle loro formulazioni della teoria della crisi di Marx - al punto da dare quasi ragione agli scolastici - è inevitabile concludere che in questo dibattito ad avere più torto è l'amico di Marx, dato che la sua posizione - non meno superficiale di quella del suo avversario - vieta ed esclude completamente qualsiasi dibattito sullo stato reale della crisi capitalistica.
Maurilio L. Botelho, con la collaborazione di Marcos Barreira
NOTE:
[*1] Per un analisi di questa contraddizione capitalista, fatta a partire dal contesto della Terza Rivoluzione Industriale alla fine del XX secolo, vedi: Robert Kurz, “A crise do valor de troca”, Consequencia Ed. RJ, 2018.
[*2] Grupo Krisis, “Manifesto contra o trabalho” [edição de 20 anos], Krisis/ Igra Kniga, 2019.
[*3] Cfr. Maurilio L. Botelho e Marcos Barreira, “Ainda sobre o ‘milagre chinês’” [segunda parte] , Blog da Boitempo: https://blogdaboitempo.com.br/2022/01/19/ainda-sobre-o-milagre-chines-ii/
fonte: Krisis - Crítica da sociedade da mercadoria