La figura di scrittore di George Orwell è inestricabilmente legata alla sua denuncia dei totalitarismi, quelli descritti in 1984 e nella Fattoria degli animali. Sarebbe molto semplice dimostrare quanto siano attuali quelle descrizioni, in particolare se si pensa all'erosione progressiva della vita privata e ai sistemi sempre più avanzati di controllo sociale, per concludere che Orwell aveva ragione. E invece la strada che Rebecca Solnit sceglie per dimostrare l'attualità del suo pensiero è quella che affonda nelle sue profondità, svelandoci un Orwell intimo, che coltivava rose, riconosceva il canto degli uccelli, e che aveva deciso di vivere su un'isola per poter realizzare il desiderio di possedere e lavorare in una fattoria. A partire da quelle rose, che fanno da filo conduttore all'intera trattazione, Solnit ricostruisce la biografia di Orwell gettando luce sull'importanza della bellezza, della speranza e della gioia nella sua vita e anche nella sua opera, chiamando in causa altre figure per diversi motivi emblematiche, da Tina Modotti a Stalin, dal fondatore della banca delle sementi sovietica alle lavoratrici delle serre colombiane, dove le rose vengono coltivate in una mostruosa catena di montaggio. Alla fine rileggeremo alcuni passi di 1984 scoprendo quanta bellezza contengano, la bellezza che Orwell indicava quando scriveva: «Finché sarò vivo e in buona salute continuerò ad appassionarmi alla prosa, ad amare la superficie della terra e a prender piacere dagli oggetti solidi e da ritagli di informazioni inutili. Non c’è modo di sopprimere questa parte di me».
(dal risvolto di copertina di: Rebecca Solnit. "Le rose di Orwell". Ponte alle Grazie, pagg. 352. €20
Il senso di Orwell per le rose
- La scrittrice Rebecca Solnit riesce a mostrare l’inquietudine dell’intellettuale facendoci rileggere con occhi nuovi i suoi capolavori -
di Michela Marzano
«Nella primavera del 1936, uno scrittore piantava rose. Lo sapevo da più di trent’anni, ma non avevo mai riflettuto su cosa significasse fino a un giorno di novembre di qualche anno fa quando, invece di essere a casa, a San Francisco, a riposare come mi aveva raccomandato il medico, viaggiavo in treno da Londra a Cambridge, dove avrei dovuto incontrare un altro scrittore per parlare di un mio libro».
Le rose di Orwell è un saggio anomalo e originale. Come già nei suoi precedenti libri, la scrittrice statunitense Rebecca Solnit parte da un dettaglio, le rose e gli alberi che George Orwell coltivava negli anni Trenta, e poi divaga, approfondisce, collega e immagina. Esponente di rilievo della creative non-fiction, quel genere letterario che mescola saggistica e letteratura riuscendo così a evitare sia la noia di tanti saggi contemporanei sia la futilità di molti romanzi, Solnit racconta con sagacità e grazia la storia di un Orwell ancora poco conosciuto. Certo, la scrittrice non commette l’errore di sorvolare sulla complessità del pensiero orwelliano, e interi capitoli sono dedicati all’analisi del legame profondo che esiste tra lo scrittore britannico e Hannah Arendt, soprattutto quando entrambi affrontano il tema dei totalitarismi e della menzogna in politica:
«Nei regimi totalitari le menzogne che regnano sovrane finiscono per disintegrare la psiche di un gran numero di persone che vivono nella loro morsa, e le convincono ad abbandonare anche nei propri e negli altrui pensieri e parole la ricerca della verità e della correttezza. Capita che ciò prenda la forma di una resa intellettuale, di una disponibilità a credere a qualsiasi cosa sia conveniente credere, a volte sfociando nel cinismo inteso come rifiuto di credere e basta, sostenendo che tutto è comunque frutto di manipolazione».
Ma invece di scrivere l’ennesima (e forse inutile) biografia di Georges Orwell, Solnit ce ne svela l’intimità, mettendo in luce l’importanza che hanno sempre avuto, nella sua vita e nella sua opera, la bellezza, la speranza e la gioia. Se è vero, infatti, che la sua intera esistenza fu percorsa dalle guerre – era stato adolescente durante la Prima guerra mondiale; quando entrò nell’età adulta infuriavano la Rivoluzione russa e la Guerra d’indipendenza irlandese; quando i tedeschi bombardarono l’Inghilterra era a Londra; quando iniziò la “guerra fredda” fu lui stesso a coniarne il termine – quelle guerre e quegli orrori non si portarono mai via tutta la sua attenzione. Anzi. Come lui stesso riconobbe, anche i momenti più bui della storia non avrebbero mai potuto sopprimere quella parte di sé capace di appassionarsi alla prosa, di amare la superficie della terra e di prendere piacere dagli oggetti più desueti:
«Che un socialista o un utilitarista o una persona pragmatica pianti alberi da frutto non stupisce: essi hanno un valore economico tangibile e producono quel bene necessario che è il cibo, anche se in realtà producono anche molto di più. Ma che pianti una rosa – o, nel caso del giardino a cui aveva dato nuova vita nel 1936, sette rose per cominciare, seguite da altre – può significare tantissime cose».
È d’altronde proprio partendo dalle rose che Rebecca Solnit inizia a mettere in discussione tutto ciò che ha sempre pensato di Orwell, non solo chiedendosi chi fosse davvero quest’uomo, ma anche riflettendo sul posto che il piacere, la bellezza e il tempo trascorso senza un tornaconto quantificabile occupano nella vita di chiunque abbia a cuore la giustizia, la verità e i diritti. Anche semplicemente perché, talvolta, è proprio attraverso la percezione della bellezza nel mondo esterno che si riesce poi a dare una giusta collocazione alle parole nei discorsi e negli scritti:
«Un giardino è quello che vuoi (e che puoi gestire e permetterti), e quello che vuoi è quello che sei, e quello che sei è sempre una questione politica e culturale».
Chiamando in causa artisti come Tina Modotti e una delle sue foto del 1924, Rose – che divenne una delle immagini più celebrate della storia della fotografia –, o dittatori come Stalin, che nel 1946 ordinava che venissero piantati alberi di limone, e figure apparentemente marginali come le lavoratrici delle serre colombiane, dove le rose vengono coltivate con la stessa velocità e lo stesso accanimento con cui si producono pezzi di ricambio per le macchine, Rebecca Solnit riesce così a mostrare l’inquietante attualità di un intellettuale come Orwell, e costringendoci a rileggere con occhi nuovi opere come 1984 o La fattoria degli animali:
«Cosa permette di realizzare ciò che ha il massimo valore per gli altri e che per noi è lo scopo principale della vita? La risposta è: qualcosa che potrebbe sembrare – agli altri, ma talvolta anche a noi stessi – banale, irrilevante, una concessione, inutile, una distrazione, o uno qualunque tra tutti gli attributi peggiorativi con i quali il quantificabile ha la meglio sul non quantificabile».
- Michela Marzano - Pubblicato su Robinson del 12/11/2022 -
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