sabato 31 ottobre 2020

Il bastardo

« Così come, nel campo della letteratura occidentale, la comparsa di Don Chisciotte e di Robinson Crusoe si viene a trovare in una relazione diretta con una situazione storica definita: per il primo, le aberrazioni sociali e spirituali causate da un ordine teocratico retrogrado; per il secondo, la rivoluzione borghese di Cromwell e le prospettive che essa aprì al sogno individuale. Allo stesso modo, anche la traiettoria che viene tracciata dal Bastardo nel secolo della Storia del Romanzo è del tutto inconcepibile senza l'ascesa di Napoleone Bonaparte. L'avventuriero senza nascita né fortuna - il quale, in un batter d'occhio, si incorona da sé solo, piazza i suoi fratelli su tutti i troni d'Europa da lui espropriati e si forgia un impero nel contesto di una nuovissima repubblica di cui lui è fondatore - appartiene al romanzo in tutto e per tutte quelle che sono le fibre della sua personalità: Napoleone è romanzo dall'inizio alla fine, un romanzo che si scrive nella misura in cui influenza gli avvenimenti e le vicende della storia. È il Bastardo incarnato, il rinnegato perfetto, che nel realizzare, senza scrupoli né rimorsi, ciò che i suoi simili non osano neppure sognare, si lascia alle spalle un mondo in fiamme. Diventa così, in questo modo, per il Bastardo contemporaneo, l'ispiratore, il maestro, l'idolo che non annienta i suoi fedeli, ma li incorona; e per il romanzo moderno diventa il genio liberatore, il cui solo gesto, che si colloca al confine tra azione e sogno, spinge in avanti, come mai era successo prima, quelli che sono i limiti dell'immaginazione. »

(da:  Marthe Robert, "Roman des origines et origines du roman". Gallimard)

venerdì 30 ottobre 2020

Trovare il colpevole !?!

Il soggetto moderno e le ideologie irrazionali, cospirazioniste e isteriche
- di Clément Homs -

Nel corso di quelle che sono le fasi della crisi o della decomposizione del capitalismo, in questi periodi le ideologie diventano particolarmente irrazionali e isteriche, e possono servire da sollievo per la coscienza, la quale può così fare a meno di sottoporre ad un esame critico le proprie condizioni di esistenza. Le ideologie irrazionali ed isteriche, così come quelli che ne sono «oggetto fobico» (le «élite», i «migranti», gli «ebrei» ecc.) provengono da un'angoscia degli individui di fronte alle forme soggettive ed oggettive delle loro condizioni di esistenza. Il principale meccanismo irrazionale è quello del capro espiatorio; una categoria che non può essere utilizzata in maniera trans-storica e che ha bisogno di essere specificata nel contesto delle forme sociali di pratiche storicamente determinate. Anziché mettere in discussione le impersonali strutture sociali capitalistiche - le quali in ogni modo si trovano ad essere state interiorizzate dagli individui come se si trattasse di una «seconda natura» - ecco che la responsabilità di ogni esperienza negativa che è stata vissuta dagli stessi, viene ad essere proiettata su degli individui, su dei gruppi o su delle istituzioni che vengono rese colpevoli di quelle che sono state e sono tutte le disfunzioni del capitalismo.
Questa «Tecnica di Personificazione superficiale dei Problemi e dei Disastri» (Robert Kurz), è un sollievo soggettivo per quegli individui sussunti sotto la forma soggetto, che in questo modo li esonera da ogni analisi critica e dallo svolgere una riflessione sulla totalità sociale, ma è anche allo stesso tempo qualcosa che si trova ad essere oggettivamente radicata nel modo stesso in cui viene fenomenalizzata quella che è l'essenza del capitalismo, attraverso la dicotomia che oppone il concreto all'astratto; cosa questa su cui torneremo ancora più avanti.
Tale tecnica colpisce tutti gli individui - tanto le élite funzionali quanto le diverse classi e strati sociali che sono gli esecutori dei movimenti del «soggetto automatico», di cui costituiscono il fondamento quotidiano. Questi individui - attraverso tali proiezioni superficiali - assimilano e gestiscono, in maniera riflessiva-affermativa e repressiva a partire dall'interno stesso della forma di coscienza adeguata alle relazioni sociali capitalistiche che li modella in quanto «soggetti», le contraddizioni profonde della «seconda natura» capitalistica, che emergono durante il processo di crisi.
«O la base accusa i governanti e gli organi dirigenti di essere degli imbecilli incompetenti» - sottolinea Kurz - «oppure sono quelli ad invertire i ruoli e ad accusare la base di essere inaffidabile, di non voler fare alcuno sforzo, ecc. Nella politica moderna, questo meccanismo di designazione del colpevole costituisce in un certo senso il principio stesso del suo funzionamento. La folla insulta i politici, e i politici insultano la folla. Allo stesso modo, come sappiamo, non c'è nessun partito di opposizione che attribuisca i problemi sociali al sistema politico in quanto tale e al modo di produzione su cui questo sistema si basa, ma sempre al fatto che attualmente al potere ci sono i loro avversari, e che la loro politica è "cattiva"»
Nel capitalismo di emergenza, le ideologie di crisi e le logiche di esclusione sociale che prevalgono, non saranno tanto una conseguenza dell'oggettività della posizione delle classi sociali  viste nella loro condizione di produttrici di ideologie necessarie e specifiche, quanto piuttosto del modo in cui questa oggettività esplode in ciascun singolo individuo; quale che sia la sua data posizione, l'esperienza negativa della crisi della forma del soggetto del lavoro, del diritto, della politica, della nazione, dei diritti sociali, ecc. che egli ha interiorizzato, o da cui è stato escluso in quanto dichiarato superfluo.
Questa interiorizzazione soggettiva, da un lato, risponde a tutto un insieme di fattori sociali determinanti che vanno dal contesto sociale di crisi e arrivano al modo in cui l'essenza del capitalismo si manifesta in quelle che sono le sue forme fenomeniche (che lo esprimono allo stesso tempo in cui lo dissimulano), passando per la costituzione di un sistema di disposizioni  incorporate nell'habitus sociale, nel senso in cui lo intende Bourdieu, e che costituiscono la forma del soggetto moderno; il quale fa sì che, a partire da queste determinazioni derivate (come se si trattasse di una stratificazione geologica) e collegate alle diverse «maschere di carattere», gli individui indossino in qualità di «portatori» ed «esecutori» viventi della logica feticista della valorizzazione. La soggettivazione dell'esperienza negativa della sofferenza sociale vissuta dall'individuo sotto il capitalismo di crisi, dipende anche dall'interiorità degli individui. Un'interiorità che non viene soppressa dall'incorporazione delle strutture e dalla sussunzione dell'individuo sotto la forma del soggetto. Qui - in forza della modellazione specifica dell'individuo fin dalla sua più giovane età e del fatto della sua possibilità di non indentificarsi con tutto ciò che egli fa in quanto «esecutore» della teleologia dell'accumulazione del capitale - la singolarità individuale gioca un ruolo perfino anche quando una tale «interiorità è fragile, solitaria e velleitaria, e fa continuamente riferimento alla sua propria impotenza».

Estratto da: Clément Homs, "I mastini del popolo e del capitale. Tesi sui populismi che portano alla costruzione della crisi nella dinamica del capitalismo"; in Jaggernaut n°1, Editions Crise & Critique, 2019

giovedì 29 ottobre 2020

Come in tanti romanzi…

Il successo, per Luigi Pirandello, giunse alle soglie della vecchiaia, travolgente, improvviso, forse nemmeno più atteso. E fu un successo planetario, coronato nel 1934 dal premio Nobel per la letteratura. Il frutto tardivo di centinaia di novelle, racconti, romanzi, saggi, opere teatrali rappresentate sui palcoscenici di tutto il mondo. Ma prima? Com'era la vita prima che si alzasse il sipario? Prima che i personaggi diventassero le «maschere» della condizione umana? Prima cioè che Pirandello diventasse Pirandello? Divorato dall'ansia di emergere e disposto ad annientare se stesso pur di vedere riconosciuti il proprio talento e la propria arte, per quarant'anni lo scrittore siciliano non si risparmiò sofferenze e frustrazioni. Lo testimoniano innumerevoli documenti che consentono di seguire il processo della sua creazione artistica, la messa in prova della «vita che si scrive», dell'io che si narra. Impareggiabile, Pirandello si racconta nelle lettere ai famigliari, un universo impastato di affetti, interessi, dipendenze e ricatti, un groviglio di finzioni e menzogne, di desideri spacciati per realtà in cui l'autore comincia a dare un volto e una voce a quei fantasmi della mente che non lo avrebbero mai abbandonato. Attraverso questi documenti - molti dei quali indagati qui per la prima volta - Annamaria Andreoli ricostruisce gli anni della giovinezza dello scrittore, le tappe della sua formazione a Palermo, a Roma, a Bonn, la sua vicenda intima e sentimentale, le spigolosità del suo carattere, i malesseri tormentosi. Poi gli esordi letterari, l'assidua ricerca di un editore, la scrittura a getto continuo di opere straordinarie e tuttavia misconosciute. Il bisogno di denaro, un matrimonio che presto si rivela una prigione infernale, la grigia routine dell'insegnamento all'Istituto Superiore di Magistero, i contrasti con i committenti. E soprattutto il confronto a distanza - soffertissimo - con d'Annunzio, smagliante protagonista della nascente industria culturale italiana, capace di trasformare come d'incanto ogni parola, ogni gesto in un successo senza precedenti. Il confronto si risolverà soltanto dopo la prima guerra mondiale, quando la fama dello scrittore del Caos varcherà i confini nazionali. Ma a quel punto, gravato dall'«obbligo di vivere», della gloria del suo tempo l'artista sembrerà non curarsi affatto. Un'altra, l'ennesima maschera di un autore che più di tutti sembra "uno, nessuno e centomila".

(dal risvolto di copertina di: "Diventare Pirandello. L'uomo e la maschera", di Annamaria Andreoli. Mondadori)

Pirandello, bugiardo da Premio Nobel
- di Salvatore Silvano Nigro -

L'episodio risale al mese di dicembre del 1889. Luigi Pirandello ha ventidue anni. Si trova a Bonn dove studia Filologia romanza. Invia una lettera alla famiglia. Scrive: «Io vi comunico, miei Cari, che in aprile sarò Dottore in Filologia romanza, e che appena ottenuta la laurea e il titolo passerò a insegnare Lettere italiane in questa università di Bonn con emolumento annuo di circa 4 mila lire italiane, suscettibili d'illimitato aumento, oltre il provento delle iscrizioni al mio corso e un'indennità di alloggio. Di ciò vado debitore al pofessor Foerster, del quale non so perché, mi sono cattivata tutta la simpatia». La notizia è da festeggiare con invio di soldi da parte del padre. Bisogna comprare una rendigote e pagare il diploma. La famiglia è orgogliosa. E desidera avere una fotografia del figlio che si addottora. Luigi manda un ritratto disegnato da lui. Aggiunge una didascalia: «Prof.Dott. Luigi Pirandello con relativa rendigote». Tutto bene, se le notizie non fossero delle sfacciate fandonie. A Bonn, Pirandello si è tenuto lontano da Foerster che lo dava per disperso. Nel primo semestre non ha scritto nessuna tesi di laurea. Piuttosto il mentitore si è trastullato con una giovane amante, Jenny. Pirandello ha montato una mascherata, per prendere tempo e spillare soldi al padre. Prenderà la laurea nel 1891, con una tesi sulla parlata agrigentina.
In Sicilia, Pirandello si è fidanzato ufficialmente con una sua cugina isterica. Considera la promessa di matrimonio un intralcio. Ha sogni di gloria. Ed è impaziente. Vuole rendersi libero. Ricorre a un altro sotterfugio. Indossa la sua maschera di bugiardo. E recita un'altra commedia. Finge svariate (e costose) visite mediche. Servono altri soldi. E in più il responso è triste. Si è aggravata la sua endocardite. I medici gli hanno addirittura proibito di sposarsi. Con il matrimonio andrebbe incontro all'«ansima» e all'«epilessia». Ne sarebbe morto dopo circa due anni di vita matrimoniale. Il bugiardo «condannato a morte» scrive lettere spudorate, alquanto patetiche (subdole e affettivamente ricattatorie) alla fidanzata Lina e al padre: «Cara Lina... tra il sentimento e il dovere a chi debbo appigliarmi? Per me sarebbe nulla - dandomi a te non farei un sacrificio della mia vita, ma raggiungerei il sogno mio più agognato - non importa se per un anno o due - morirei felice a canto a Te. È ad altro che io penso, a esseri a cui si ha il torto di non pensar mai, quando si è ancora in tempo, prima cioè di procrearli. Ho il diritto di legar Te e altri possibilmente, a questa catena? Puoi Tu accettare il peso di tanta responsabilità?»; «Papà mio, consigliami tu, col tuo senno, col tuo amore, con la tua esperienza... Io ho Te, io ho la Mamma, io ho voi tutti, a cui debbo vivere, non è vero?». Alla commedia aggiunge il suo bisogno di uno scarico di coscienza: «Che sarà della Lina? Che dirà ella? Io ho un gran bisogno di sentirmi dire che non sono colpevole. È forse questo un segno che io lo sono? Ma se io ho troppo lavorato, se questa è la mia colpa, è stato per lei, per affrettare il tempo, in cui sarei stato in grado di osservar la promessa».
Pirandello agognava il matrimonio, a credergli, e si era sacrificato nel lavoro solo per amore. Luigi si sposerà nel 1894, con un'altra cugina, Maria Antonietta Portulano. E sarà un matrimonio d'interesse, «un affare commerciale»: infelice comunque (la moglie paranoica lo accuserà di essere una «mignatta», una sanguisuga).
Annamaria Andreoli, nella sua documentatissima biografia (Diventare Pirandello. L'uomo e la maschera), non monumentalizza la figura di Pirandello. Il grande scrittore, l'inarrivabile drammaturgo, il poeta, giunse molto tardi al successo. Negli anni giovanili fu un bugiardo compulsivo. Recitò in famiglia una farsa che millantava importanti incontri, decisivi rapporti, entrature nel mondo dell'editoria e del teatro. Si arrabattò. Nelle sue tantissime lettere ai famigliari (lette collegialmente) edificò il sofferto sogno di un genio promesso alla gloria. Anticipò di troppo i tempi. Recitò la maschera di sé stesso. E visse l'immaginazione come realtà. Si fece forza e si aprì la strada facendo di D'Annunzio non solo un concorrente, ma un nemico da odiare ossessivamente. L'elezione di un nemico è un ostacolo funzionale. Ha scritto Umberto Eco: «Avere un nemico è importante non solo per definire la nostra identità ma anche per procurare un ostacolo rispetto al quale misurare il nostro sistema di valori e mostrare, nell'affrontarlo, il valore nostro». Alla fine la gloria arrivò, quella vera non quella inventata. Ma «troppo a lungo», dice l'Andreoli, «Luigi Pirandello ha temuto che la sua grandezza d'artista non sarebbe mai emersa. Desidera la fama fino allo spasimo, e invece per anni e anni il suo talento misconosciuto resta compresso nell'oscurità». Diventò uno scrittore di successo planetario. Nel 1934 venne insignito del premio Nobel per la letteratura.
Le pagine più affascinanti della biografia scritta dalla Andreoli sono quelle che riguardano il Pirandello giovane. C'è anche il resto, naturalmente. Ma già si viaggia nel noto e quasi noto. Il libro è prima di tutto un saggio. Ed è anche uno stupendo florilegio dell'epistolario pirandelliano, criticamente letto tra le righe, dietro e sotto le parole. Sono eleganti le pagine nelle quali Andreoli legge, con fulminante sintesi e profondità di sguardo le opere di Pirandello. Basta l'esempio del Fu Mattia Pascal: «Numerosi i detrattori dell'eroe pirandelliano, che muore appunto fintamente a trent'anni, l'età di Cristo, per risorgere con una falsa identità. Si fatica a comprendere che Pascal è variante degradata dell'uomo-dio: uomo-burattino come Pinocchio, anche lui risorto. Nella trama compaiono in controluce due ladroni (il gatto e la volpe), un sentenzioso teosofo (il grillo parlante), una giovane «mammina» vestita d'azzurro (la fata turchina). Se il naso non diventa lungo, le bugie attanagliano il personaggio finché non è più in grado di sostenerle. Per tornare alla verità deve fingere di morire un'altra volta».
La narrazione procede nella biografia lungo studiati andirivieni che tengono in tensione i lettori, così inchiodati alle pagine, come in un romanzo.

- Salvatore Silvano NigroPubblicato sul Sole del 25/10/2020 -

mercoledì 28 ottobre 2020

Arriva sempre il momento …

È un'espressione araba e serve a troncare una conversazione, o una relazione, che ha fatto, alla lettera, il suo tempo. Parla di un rapporto che è - come dire - ... scaduto. Volendo, si può tradurre, più o meno alla lettera, con qualcosa che assomiglia a «Ci vediamo ieri». Nell'originale, « Ashufakembereh! », è molto più bella. Sembra quasi una formula magica, da pronunciare per far sparire l'indesiderato!

(già pubblicato sul blog il 14 gennaio 2008)

martedì 27 ottobre 2020

Il centro di interesse del pianeta ??!??

Chi se ne frega delle elezioni negli Stati Uniti
- di Raúl Zibechi -

C'è stato un tempo in cui le elezioni negli Stati Uniti suscitavano interesse, e perfino entusiasmo, nel mondo. Non solo tra le élite politiche, ma anche tra la popolazione, e si credeva che il trionfo di una delle due opzioni avrebbe potuto cambiare lo stato delle cose. Tale convinzione si è sgretolata, poiché sia i democratici che i repubblicani hanno dimostrato ben poche differenze nella politica internazionale. Nel bel mezzo della campagna elettorale, ora i democratici promettono di rivedere la politica estera di Trump, e questo non perché la considerino inadeguata, ma perché «altri quattro anni con Donald Trump, pregiudicherebbero la nostra influenza in maniera irreparabile ».
Questa frase tratta dal programma democratico, rivela come le intenzioni dei due candidati siano del tutto identiche: mantenere su tutto il pianeta, il dominio della superpotenza in declino. I democratici si impegnano a fare di più di quella che è la stessa cosa, insistendo sullo stesso candidato, e perfino sulla stessa iconografia che ha fallito nel 2016. Forse è per questo che il bollettino del mese di maggio del Laboratorio Europeo di Anticipazione Politica (LEAP) ha titolato l'articolo sulla campagna elettorale - sotto una foto in cui ci sono Biden e l'ex candidata democratica Hillary Clinton - «Il Ritorno dei Morti Viventi».
«Biden è Hillary Clinton bis», spiega il LEAP. «Visto che questo gruppo ha avuto un particolare successo nell'impossessarsi del partito democratico, ora questo partito non può fare altro se non produrre un'altra volta Biden e Clinton... ancora un'altra volta». Di fatto, la candidatura di Biden rappresenta una versione degli Stati Uniti che non esiste più, quella della Guerra Fredda e dell'egemonia della popolazione bianca e maschile. Gestisce un discorso che i grandi media mainstream riconoscono essere poco entusiasmante tra e per i giovani, i latini, i neri, una parte decisiva dell'elettorato. Per cercare di rimediare a tale svantaggio, Biden ha scelto come candidata alla vicepresidenza Kamala Harris, nella speranza che una donna non bianca attragga un elettorato che, per quanto rifiuti la rielezione di Trump, esita parecchio ad appoggiare Biden. La Harris è stata procuratrice del distretto di San Francisco dal 2004 al 2011, e dopo procuratrice generale della California dal 2011 al 2017, e si definisce «progressista». Nel luglio del 2019, quando la Harris si era candidata nelle elezioni interne dei democratici, Marjorie Cohn, professoressa di diritto nella Thomas Jefferson School of Law di San Diego, California, ed ex presidente della National Bar Association, ha scritto un articolo dal titolo: «Kamala Harris, una brillante carriera al servizio dell'ingiustizia». La Cohn la accusa di «cattiva gestione», in quanto avrebbe coperto l'esistenza di alcuni informatori all'interno delle prigioni della California, per «ottenere confessioni in maniera illegale»; «incentivando la criminalizzazione dell'assenteismo scolastico»; aumentando le cauzioni dei prigionieri utilizzati come manodopera a basso costo; opponendosi alle «indagini indipendenti del Pubblico Ministero su dei conflitti a fuoco con la polizia in cui ci sono stati dei morti». La Cohn afferma che non c'è niente di progressista nella candidata alla vicepresidenza di Biden. Secondo il filosofo e giornalista francese Philippe Grasset, direttore della rivista De Defense, la Harris ha «la reputazione di essere una persona dura, del tipo "Legge e Ordine"», oltre ad essere «estremamente ricca», appartenendo al famoso 0,1%, con un fatturato di 1,8 milioni di US$ nel 2018.
Da parte sua, il LEAP ritiene che le elezioni negli Stati Uniti non siano più «il centro di interesse del pianeta» e che, sebbene a causa della pandemia non ci siano state le primarie, coloro che passano come se fossero la vecchia guardia «appaiono posizionarsi come su un piano bipartitico». La chiave di tutto è che il Think tank europeo considera Trump come «il becchino della vecchia America», aiutato in questo dalla pandemia di Coronavirus. «Trump ha incarnato l'eccesso di una certa America, e così facendo ha messo fine ad essa». Per spiegare meglio questa affermazione, viene offerta una decina di «rivelazioni».
La prima è quella che Trump «ha portato alla luce la volgarità di una cultura imprenditoriale che da decenni gli Stati Uniti continuano ad infliggere al mondo»; così come fanno con «il maschilismo ed il razzismo radicato del sistema di potere americano, risvegliando così dal suo letargo la società civile». Ma ha così mostrato anche la debolezza degli Stati Uniti, i quali non hanno più i mezzi per perseguire i loro obiettivi globali. Tra questi, uno dei più importanti gira intorno al «problema della presenza degli Stati Uniti in Medio Oriente», rivelando in questo modo che essi creano solo dei problemi che sono poi incapaci di risolvere. Tra le altre «rivelazioni», il LEAP conferma il fatto che la presidenza Trump ha dimostrato la dipendenza degli Stati Uniti dalla Cina e dal mondo, a partire dal fatto che la pandemia «è l'ultimo colpo mortale per quello che è il sistema sanitario e sociale della prima potenza mondiale». In sintesi, sotto Trump, proprio nel momento in cui stiamo vivendo il momento di massima flessione del sistema debito-petrolio-dollaro che tiene in pugno il pianeta, ecco che l'impero appare nudo.
E infine, la questione della disuguaglianza, la quale si trova in costante crescita e sta arrivando ad avere dei livelli insostenibili. L'ultima relazione annuale dell'Istituto di Politica Economica afferma che gli stipendi dei CEO [Amministratori delegati] delle 350 maggiori imprese degli Stati Uniti sono 320 volte superiori a quello che è il salario medio di un lavoratore. Nel 2019, i redditi dei principali CEO sono cresciuti del 14%, rispetto al 2018. Ma il fatto più importante è che nel 1989 la differenza di reddito tra i CEO ed i lavoratori era di 61 a 1, cosa che indica che la differenza di reddito si è quadruplicata in solo tre decenni. Gli autori del bollettino ritengono che entro il 2020 gli stipendi dei CEO potrebbero nuovamente aumentare, nonostante il collasso economico causato dal Coronavirus. La disuguaglianza sta distruggendo i sogni dei giovani, delle minoranze razziali e dei migranti, di quelli che il 25 maggio, dopo l'assassinio dell'afroamericano George Floyd sono scesi in strada per denunciare la violenza poliziesca. Ma l'enorme disuguaglianza distrugge anche la legittimità del sistema politico americano e neutralizza la democrazia.
Quando si entra in una crisi sistemica, le differenze tra le proposte politiche che vengono formulate internamente smettono di essere alternative, dal momento che aderiscono alla continuità di ciò che già esiste, e temono di modificarlo; cosa che spiega il perché negli Stati Uniti entrambi i partiti preferiscono affondare con il sistema piuttosto che correre il rischio di modificarlo.

- Raúl Zibechi - Pubblicato il 20 agosto 2020 su La Razòn -

lunedì 26 ottobre 2020

Patografia!

Patografia

Nella sua raccolta di saggi, "La descrizione dell'infelicità" [ Die Beschreibung des Unglücks ], W. G. Sebald scrive, proprio nella prefazione, di essere «certo che autori come Grillparzer, Stifter, Hofmannsthal, Kafka e Bernhard considerino il progresso come una scommessa persa [ den Fortschritt für ein Verlustgeschäft ]». «Tuttavia», egli continua, «la malinconia che deriva da questa situazione, la "riflessione sull'infelicità consumata", non ha niente a che vedere con il "volgare desiderio di morte"; in quanto si tratta di una forma di resistenza  [ eine Form des Widerstands ]».
Altrove, nel suo saggio su Elias Canetti, Sebald si avvicina a questo autore, che egli così tanto ammirava, a partire dalla categoria della «Patografia», la Scrittura del Pathos, della sofferenza, dell'eccesso e della follia (una patografia, per altro, che oscilla tra l'apprensione per la follia altrui e lo sviluppo di un metodo di rappresentazione che riesca a spiegare l'eccesso e possa, per quello che è possibile, assorbirlo). E alla patografia non appartengono solamente le "Memorie di un malato di nervi", del giudice Daniel Paul Schreber, analizzate da Canetti ( e da  Freud, Lacan, Deleuze e tanti altri), ma anche il metodo di lavoro sviluppato da Canetti stesso per scrivere i propri libri, in particolar modo "Massa e Potere". Malinconia, infelicità, narrazione, resistenza: sebbene non sia centrale rispetto a tutti i casi analizzati da Sebald, l'oppressione politica ricorre in quanto filo conduttore che lega i diversi termini.

sabato 24 ottobre 2020

Tacete! Il virus vi ascolta...

Coprifuoco: il messaggio criptato
- Postscript a "De virus illustribus" -

di Sandrine Aumercier, Clément Homs, Anselm Jappe e Gabriel Zacarias

Il 14 ottobre 2020, Emmanuel Macron è stato intervistato in televisione per spiegare ai francesi il coprifuoco che verrà decretato in otto metropoli (oltre alla regione dell'Île-de-France) nel tentativo di frenare il diffondersi del virus. «L'obiettivo», ha spiegato il Presidente della Repubblica, «è di poter continuare ad avere una vita economica, a funzionare, a lavorare, a far sì che le scuole, i licei, le università siano aperte e funzionanti, in modo che i nostri cittadini possano lavorare in modo del tutto normale» (Per inciso: «del tutto normalmente», ma non senza il tele-lavoro, non senza il distanziamento sociale, non senza il gel igienizzante, non senza la mascherina, non senza la paura di rimanere senza un reddito, non senza la preoccupazione o il timore di contrarre il virus o di trasmetterlo a qualcuno, ecc.). Ad aver prevalso è stata la tesi secondo cui «sono gli incontri privati, gli anniversari, i momenti di convivialità» a diffondere il contagio: e in effetti, si tratta dei momenti di relax. A tal fine, nelle grandi città  interessate dal coprifuoco dovranno rimanere chiusi tutti i luoghi di svago notturno, anche se questo «potrà dipendere», ha precisato Macron, in quanto «abbiamo messo in atto degli elementi di concertazione locale».
Immaginiamo che in molti si siano chiesti se sarebbero stati tra i fortunati beneficiari di una deroga, visto che il clima sociale si trova sul punto di diventare quello della concorrenza più sfrenata di alcuni settori economici contro altri. Interrogato a proposito della situazione economica degli esercizi obbligati a chiudere, il Presidente ha risposto che ci sarebbe stato un tentativo di riorganizzare tutto prima delle riprogrammazioni; cosa che faceva subito supporre che il virus fosse meno contagioso alle 18:00, di quanto lo sarebbe poi stato alle 21:00. (È vero che l'alcol che scorre, e quindi il rilassamento  la sera sono minori, ma questo il Presidente non lo ha detto.) Di fronte a questa obiezione, Macron si è giustificato dicendo che «in molti locali, ristoranti, teatri, cinema, abbiamo elaborato collettivamente delle regole che fanno sì che si sia ben protetti.» Arrivato a questo punto del discorso presidenziale, il telespettatore non sapeva più, di fatto, se si trovava ad essere troppo esposto oppure troppo protetto. Evidentemente, Macron stava camminando su delle uova, e ogni suo concittadino era autorizzato a domandarsi se stesse raccontando solo frottole.
Macron era perfettamente consapevole del fatto che alcuni settori verranno duramente colpiti, o addirittura «dovranno chiudere, poiché i loro costi fissi sono troppo elevati»: a questo ha poi fatto seguito tutto l'elenco delle misure di sostegno garantite dal governo ai settori in crisi. Poi, alla domanda sulla contraddizione tra le restrizioni alle uscite e l'esortazione a partire per le vacanze, pronunciata dal segretario di Stato per il Turismo (il quale ha avuto il coraggio di pubblicizzare le vacanze nella Guyana francese), il Presidente ha spiegato, paternalisticamente, che sarebbe stato esagerato rifiutare ai francesi le vacanze di Ognissanti, ma che naturalmente avrebbero dovuto rispettare quelle regole che diventano sempre più invadenti: «vanno mantenute anche all'interno del nucleo familiare, e dappertutto in Francia».
Alle domande sui giovani e sul "divertimento", Macron ha risposto fraintendendo del tutto la questione, vale a dire che con i loro esami annullati e la ricerca di un posto di lavoro rimandata, i giovani stanno vivendo tempi terribili! (A quanto pare, non ha previsto che questo avrebbe potuto giustificare alcuni di loro.) Ma il culmine dell'ambiguità è stato raggiunto quando Macron ha annunciato l'arrivo di una nuova App che si chiamerà «Tous AntiCovid»: sebbene quest'App chiami i francesi a mobilitarsi contro il Covid-19 attraverso il tracciamento delle persone contattate, il suo nome richiama spiacevolmente lo slogan sentito nel corso delle manifestazioni che si sono svolte in Germania, sotto la direzione di diversi movimenti di estrema destra, per denunciare le misure anti-Covid! Dal momento che anti-Covid, può voler dire tanto mobilitarsi contro la sua diffusione quanto negare la sua esistenza e la sua importanza. L'intervista del Presidente si è conclusa con un vibrante appello al sentimento nazionale che non è sembrato troppo diverso rispetto alla retorica che era stata profusa durante la prima ondata. Va ricordato che Macron non ha mai smesso di insistere sulla necessità di continuare a lavorare (soprattutto di giorno) a discapito della convivialità (soprattutto di notte). Dal discorso presidenziale sono emerse delle nuove coppie oppositive: il giorno contro la notte, il lavoro contro la festa, le vacanze contro la vita notturna... Una rete di contraddizioni il cui filo rosso rimane quello di non toccare né il lavoro né l'economia. La «lettura» popolare di un simile monumento di ambiguità e ambivalenza rischia purtroppo di spingere ancora una volta i recalcitranti e gli scettici a non vedere in tutto questo nient'altro che mera malvagità. Come? Il virus è abbastanza grave da poterci privare delle nostre serate, ma quando si tratta di lavorare ecco che esso diventa «sotto controllo»?
Smettiamola di vedere la cosa come se si trattasse solamente di una particolare forma di crudeltà, e consideriamola invece come il mandato essenziale di questo governo e di tutti gli altri governi. Angela Markel non dice niente di diverso; è vero, senza fare però tutte queste contorsioni. Diversamente, come possiamo capire perché attualmente il Senato di Berlino, a fronte dell'aumento dei casi di infezione, consenta eventi chiusi fino a 1.000 persone, mentre le riunioni private non possono superare le 10 persone? I primi fanno funzionare l'economia, i secondi no. Per la prima volta, la pandemia ha intimato agli amministratori della crisi di dover decidere, in tempo reale, tra salvare vite umane e salvare l'economia. Ora, come sanno tutti, «la borsa o la vita» è un scelta impossibile in un mondo in cui proprio la vita dipende dall'economia, che minaccia di mettere fuori gioco milioni di persone; cosa che significa togliere loro indirettamente la vita. Cosa succederebbe se Macron dicesse alla gente di fare baldoria, ma che però devono smettere di lavorare qualunque cosa accada! Molti lo considererebbero un assassino a causa delle conseguenze dirette che dovrebbero affrontare, dal momento che l'economia collasserebbe ancora più rapidamente. I governanti si trovano in una posizione in cui,  indipendentemente da qualsiasi cosa facciano, sbagliano. Ciò dimostra che sua santità il popolo condivide quelle che sono le scelte fondamentali  fatte dai loro rappresentanti intrappolati tra l'incudine sanitaria ed il martello economico.
La critica personificante che cospira contro le élite funzionali, senza mai mettere in discussione la questione dei rapporti sociali, di cui essi sono specifiche «maschere di carattere» (Marx), è sempre insufficiente, nel senso che manca quello che è il suo vero obiettivo. Anziché accusare "ad hominem" i governanti delle conseguenze di questa situazione, sarebbe l'ora di analizzare la struttura e di cominciare a rifiutare una scelta talmente barbara da intrappolare sia «le persone in alto» che «le persone in basso» (ovviamente, con retribuzioni ed oneri molto disuguali, ma dove una migliore ripartizione non cambierebbe in niente quella che è l'impasse sistemica). La mediazione messa in atto da Macron tra un'economia moribonda, da un lato, ed una vita minacciata dappertutto, dall'altra, rappresenta solo un assaggio della crisi che ci aspetta. Non ci possiamo aspettare nient'altro che una risposta politica sempre più repressiva: finché non verranno superati il capitalismo ed il suo dilemma costitutivo, in quanto tali, le crisi  non offriranno alcun scenario di uscita, se non quello di un giro di vite sempre più stretto. Si tratta di fare in modo che la riproduzione della vita cessi radicalmente - e questo non solo al tempo del Coronavirus - di dipendere dall'economia, in modo che una simile mediazione non abbia più ragion d'essere. Tutto questo non avverrà «rafforzando le strutture pubbliche», le quali sono esse stesse intrinsecamente dipendenti dalla crescita economica, e sono perciò coinvolte in quel ciclo di dipendenza infernale del quale stiamo ora realizzando i suoi più intimi effetti su scala planetaria. Anche la salute delle persone è solo una funzione della salute dell'economia (in quanto solo i lavoratori sani possono far girare l'economia). Ma potrà essere ottenuto solo riappropriandosi dell'organizzazione della nostra riproduzione fisica e sociale.
Puntare il dito contro il cinismo dei leader, significa dimenticare che essi sono stati eletti proprio per compiere una tale missione. Pertanto, coloro che denunciano il coprifuoco in nome del loro rifiutarsi «di vedere un porco presidenziale che si diverte in maniera oscena a stringere la vite» (così ha detto il collettivo dei "Cerveaux non disponibles"), ostinandosi a personalizzare in maniera infantile la situazione. Sono quegli stessi che sostengono che «la preoccupazione principale di ogni governo, è solamente il controllo della popolazione» e non vogliono avere niente a che fare con la natura fondamentale del mandato politico - indipendentemente da quale sia il colore del governo - che è quello di preservare a qualsiasi costo l'economia, senza la quale nessuna promessa dello Stato moderno durerebbe più di cinque minuti. È evidente che se crolla l'economia non ci sarà sicurezza pubblica, né sanità pubblica, né istruzione pubblica, né strade pubbliche, e di certo non ci saranno né mascherine né tamponi gratuiti. Emmanuel Macron è ben consapevole della gravità della situazione (economica). Ma né lui né i suoi critici di sinistra sono disposti a menzionare e a superare il dilemma nel quale il sistema capitalista ci stringe sempre più in una morsa. Forse non sono pronti a rinunciare alle sue false promesse: piena occupazione, villa, automobile, vacanze per tutti... Preferiscono rifugiarsi tutti quanti nel discorso regressivo che consiste nel cercare di chi sia la colpa di una simile situazione generale; alcuni indicano i giovani festaioli o le riunioni di famiglia, gli altri accusano i cosiddetti porci che ci guidano. Tali cristallizzazioni vanno a costituire un terreno favorevole ai grandi movimenti anti-élite e cospirazionisti di ogni tipo che fioriscono in questo momento, e che gettano il mondo in un imbarbarimento intellettuale altrettanto drammatico dell'imbarbarimento economico: si tratta di un fuoco incrociato di accuse mirate che evitano di mettere in discussione le categorie fondamentali di un sistema al quale ciascuno partecipa in maniera differente.

Scritto dagli autori di "De virus illustribus. Crise du coronavirus et épuisement structurel du capitalisme", Editions Crise & Critique, septembre 2020.
Sandrine Aumercier, Clément Homs, Anselm Jappe e Gabriel Zacarias - 18 ottobre 2020

fonte:  Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

venerdì 23 ottobre 2020

Strato su strato, giace sepolto…

Già a partire dal suo primo libro sull'interpretazione dei sogni (pubblicato nel 1899 con la data 1900), Freud insiste sulla "ricostruzione archeologica dell'inconscio": la memoria è fatta a strati, come di livelli pressati insieme, di sopravvivenze compattate che si riferiscono a differenti periodi di esperienza. Nel suo saggio de 1937 (scritto nel 1934), "Costruzioni in Analisi", Freud sostiene che il lavoro dell'analista e quello dell'archeologo sono «identici», anche se il primo lavora in condizioni migliori, dal momento che ha accesso a più materiale ausiliario, perché è rivolto a qualcosa che è «vivo, non un oggetto distrutto». L'archeologo si occupa di artefatti che hanno perso delle parti - l'oggetto psichico, da parte sua, ha una sua preistoria che viene indagata dal lavoro analitico. E ciò perché, in tal caso, «tutto quanto l'essenziale si è conservato, sebbene sembri essere del tutto dimenticato; eppure questo è ancora presente in qualche modo e da qualche parte, solo che si trova sepolto, inaccessibile all'individuo».

fonte: Um túnel no fim da luz

giovedì 22 ottobre 2020

Cemento

Cemento
Arma di costruzione di massa del capitalismo
di Anselm Jappe
Edizioni L'Echappée - Data di uscita: 6 novembre 2020

Il cemento incarna la logica capitalistica. Rappresenta il lato concreto dell'astrazione mercantile. Così come fa questa, esso annulla ogni differenza ed è praticamente sempre la medesima cosa. Prodotto in maniera industriale ed in quantità astronomica, con delle conseguenze ecologiche e sanitarie disastrose, ha ormai esteso la sua diffusione al mondo intero, assassinando l'architettura tradizionale ed omogeneizzando tutti i luoghi attraverso la sua presenza.
Monotonia del materiale, monotonia delle costruzioni, le quali vengono costruite in serie a partire da alcuni modelli di base e con durata assai limitata, in conformità con il Regno dell'Obsolescenza Programmata. Trasformando definitivamente le costruzioni in merce, questo materiale contribuisce a creare un mondo in cui non riusciamo più a trovare noi stessi.
Ragion per cui si è reso necessario ripercorrerne la sua storia: rievocare i progetti dei suoi innumerevoli adepti - di ogni tendenza ideologica - e le perplessità e le riserve dei pochi detrattori; denunciare le catastrofi che ha generato a più livelli; rivelare il ruolo che ha avuto nella perdita di tutto un bagaglio di competenze, e nel declino dell'artigianato; e infine dimostrare come questo materiale si inscriva a pieno titolo nella logica valore e del lavoro astratto.
Questa critica implacabile del cemento, illustrata per mezzo di numerosi esempi, è anche - e forse soprattutto - la critica dell'architettura moderna e dell'urbanistica contemporanea.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

La sostanza di un’epoca

« La posizione che un'epoca occupa nel processo storico, può essere determinata in maniera più significativa a partire dall'analisi delle sue espressioni meno appariscenti alla superficie, piuttosto che dai giudizi che quell'epoca dà di sé stessa. Poiché tali giudizi sono espressione delle tendenze di una particolare epoca, essi non offrono alcuna testimonianza definitiva circa quella che è la costituzione complessiva generale dell'epoca stessa. Invece, le espressioni di superficie, meno appariscenti, in virtù della loro natura inconscia, forniscono un accesso immediato alla sostanza fondamentale dello stato delle cose. Viceversa, la conoscenza di questo stato delle cose dipende proprio dall'interpretazione di quelle espressioni superficiali e meno appariscenti. La sostanza fondamentale di un'epoca e quelli che sono i suoi impulsi inascoltati e ignorati, si illuminano vicendevolmente. »

- da: Siegfried Kracauer, "The Mass Ornament", 1927 -

mercoledì 21 ottobre 2020

Una gabbia di matti!!

La città di Jena è stata la Silicon Valley del pensiero filosofico del XIX secolo; una comunità straordinaria di pensatori, che ha aperto la strada all'aurora intellettuale della nostra epoca.
Jena 1800: all’inizio del XIX secolo, un flusso ininterrotto di giovani intellettuali e poeti tedeschi si raduna in una cittadina della Turingia di circa 4000 abitanti e fa la storia. La storia intellettuale, certo, ma la storia. Mentre l’ordine sociale e politico in Europa è frastornato dalle idee della Rivoluzione francese, Jena è il luogo dove si ritrovano i giovani ribelli, il luogo di un nuovo inizio, di uno stravolgimento filosofico. Le figure principali – i fratelli Schlegel e le loro mogli, Schelling, Novalis e Hegel – si spingono a pensare il mondo in modo nuovo, per stabilire una «repubblica degli spiriti liberi». Essi non mettono in dubbio soltanto le tradizioni della società. Con le loro tesi provocatorie sull’individuo e la natura, rivoluzionano la nostra comprensione della libertà e della realtà – una rivoluzione il cui impatto è giunto fino a noi.
Jena, nel 1800, è l’epicentro intellettuale e culturale della Germania. La città non conta neppure cinquemila abitanti, circa un quinto dei quali studenti. Una città che si trova al centro del ducato di Sassonia-Weimar, in una conca tra ripidi pendii di calcare conchilifero, e vive dell’Università, di artigianato e di commercio. Jena è dunque una piccola cittadina, eppure attira tutti coloro che hanno rango e nome oppure che sperano di ottenerli un giorno. Qui, come si sente dire in quasi tutta Europa, è la vera residenza dello spirito. L’Accademia di Platone oggi si trova sulla Saale, il fiume della città. Dal 1794 dimora qui Johann Gottlieb Fichte, un ardente seguace della nuova filosofia, la filosofia critica, Da Königsberg Kant ha suscitato non meno di un terremoto filosofico. La Critica della ragion pura, apparsa a Riga nel 1781, è l’opera del momento. La critica kantiana della ragione scuote il mondo dello spirito. Tuttavia, per il momento, il libro si impolvera sugli scaffali. Soltanto a Jena, alla fine degli anni Ottanta, riceve l’attenzione che gli spetta: qui sarà letto, discusso e commentato, qui comincia la sua marcia trionfale. Come un’onda d’urto il pensiero critico afferra il continente europeo e getta lo spirito in una crisi dalla quale può liberarsi soltanto da sé. Ciò che lì, a Parigi, viene rovesciato dalla Rivoluzione reale, quella politica, qui viene violentemente scardinato dalla Rivoluzione ideale, quella filosofica: i vecchi sistemi di persuasione non valgono più. Kant è la nuova epoca. E Fichte il suo messia.

(dal risvolto di copertina di: Peter Neumann, "Jena 1800. La repubblica degli spiriti liberi". Einaudi)

Lo Spirito in persona è sceso a Jena tra un brindisi e l’altro ha cambiato la storia
- di Marco Filoni -

È il tempo che fa rumore. Periodi grandi e piccoli, che durano anni o decenni o anche soltanto pochi giorni. Periodi che stillano storia, la fanno e la determinano, condensando in un luogo preciso una ridda di ingegni. Miniere di uranio nella storia dello spirito, è stato detto. Di certo quando in una piccola, piccolissima cittadina nel mezzo della Germania si ritrovano una decina di filosofi, poeti, intellettuali un po’ straordinari, e questi nel giro di qualche inverno iniziano a pensare il mondo in maniera differente, ecco che allora la miscela di incendi è appiccata. Siamo a Jena intorno al 1800. Un piccolo bordo di origini medievali al centro del ducato di Sassonia-Weimar. È solcato placidamente dalla Saale, il fiume che scorre lento e che ha scavato la conca fra pendii di calcare dove sorge la cittadina. Nemmeno cinquemila abitanti, di cui fra l'altro circa un quinto sono studenti. Già perché qui c'è l'università, di cui vive Jena. La vicina Weimar è il tempio dell'arte, a cui la corte è dedita; qui invece si coltiva lo spirito. Siamo alle soglie di un nuovo secolo; quello passato, impietoso, è stato tumultuoso. L'Europa tutta e le corti e i regni hanno ancora lo spavento negli occhi per ciò che accadeva pochi anni prima a Parigi. Lì però la Rivoluzione è passata, è stata dichiarata finita. A Jena è appena iniziata.
A questa rivoluzione del pensiero avvenuta fra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento è dedicato il bel saggio di Peter Neumann. Un libro curioso, pieno di aneddoti, che racconta come e perché Jena è stata una sorta di Silicon Valley di quell'epoca - e che ha trasformato una volta per tutte le epoche successive. La tesi di Neumann in fondo è semplice: il continente europeo è reduce da conflitti e guerre, decenni di sommosse e sconvolgimenti. Sul piano politico la Rivoluzione francese del 1789 ha scombinato tutto; sul piano filosofico il pensiero di Kant ha fatto pure peggio. E se c'è un posto in cui le idee di Kant vengono lette, discusse, pensate, masticate e digerite quello e Jena. Si prendano tutti i concetti che da allora ad oggi sono al centro del dibattito: libertà, moralità, e poi autocoscienza, storicità, soggettività e riflessività, libera espressione dell'arte e persino la riflessione sul genere. Ecco: tutto questo nasce a Jena, in quegli anni. Per Neumann è la nascita dell'epoca moderna. E ha buon gioco nell'argomentare la tesi facendo intrecciare le storie dei suoi personaggi, gente affatto notevole e rilevante. Già perché ad animare quell'accademia platonica che sorge sulla Saale e che si mostra con più sfarzo in banchetti pieni di spirito (questa volta quella alcolico però), fra liaison erotiche e pettegolezzi, invidie e accanite discussioni, sono prima Fichte e poi Schelling, Schiller, Novalis, i fratelli Schlegel e le loro mogli Carolina e Dorothea, e poi infine Hegel. Una «gabbia di matti», dirà il poeta e scrittore Ludwig Tieck - ma anche lui faceva parte di quel cenacolo jenense, fra sguardi intricanti: del resto si sa, la carne è debole anche là dove lo spirito è possente: Schelling fa spudoratamente la corte a Caroline (che poi sposerà) con i suoi consueti modi bruschi, mentre Novalis li osserva con la coda dell'occhio indovinando l'avvicinarsi di uno scandalo. Ma il punto non è questo. È che queste donne e questi uomini non soltanto civettano e si sollazzano alticci: no, fanno anche altro. Rivoluzionano il pensiero.
Su tutto e su tutti veglia e dispone un diavolo custode, nientemeno che il signor Goethe. Lui è una sorta di deus ex machina di questa accademia dello spirito a Jena: a Weimar, dove risiede e dove vive anche la corte, ha una posizione di potere - è consigliere segreto, ministro di Stato, confidente del duca. E a Jena fa sì che convergano i migliori spiriti del tempo. Ma se quando è a Weimar è troppo preso dai reali intrighi, a Jena si rifugia (passandoci mesi interi) perché lì può essere poeta, studiare, discutere di filosofia - e occuparsi delle sue vere passioni, cioè le scienze naturali, l'anatomia, e poi ancora pietre e minerali, la metamorfosi delle piante, lo studio degli aerostati...
Dal punto di vista filosofico il cenacolo si dà da fare: poco più di una decina d'anni, dal 1794 al 1806, tanto basta. Si comincia con il pensiero critico di Kant: non esiste più nessuna isola di verità, i vecchi sistemi non valgono più. «D'ora in poi basta con tutte le prove metafisiche di Dio. L'esistenza di Dio non si lascia né confermare né confutare. Alle domande ultime circa mondo, anima, Dio, libertà e immortalità si può replicare con sicurezza soltanto che l'uomo, che se lo pone incessantemente, non troverà nessuna risposta». Ma la filosofia è ben lungi dalla sua fine, anzi: il pensiero critico è solo il punto di partenza, mostra forse i risultati, certo, ma mancano le premesse.
Ed eccoli allora lì al lavoro: spazzato via il fastidioso dualismo (e con lui il buon Cartesio, padre fondatore della filosofia moderna), se si vorrà un giorno realizzare la rivoluzione incompiuta di Kant allora bisogna pensare una filosofia «che non conosce più nessun interno e nessun esterno, nessun soggetto e nessun oggetto, ma semplicemente un Assoluto, che si dà da conoscere in tutte le figure della Realtà». La «Natura» e lo «Spirito» piacciono come concetti, come piace l'«anima del mondo», che suona come una parola magica a lungo cercata, che abbraccia la storia e l'intero cosmo e le fratture che nel tempo avevano creato un abisso. «Nel mezzo della Natura lo Spirito si riconosce e giunge a sé stesso; nello Spirito dell'uomo la Natura apre gli occhi e giunge alla conoscenza della propria esistenza. La Natura è soltanto l'altro dello Spirito, non la sua cattiva matrigna».
Altro che il vecchio Illuminismo che imperversa a Berlino e che da qui, da Jena, sembra una critica settaria. Qui c'è tutto e il contrario di tutto. Le discussioni sono accanite, ma su una cosa sono tutti d'accordo: l'organo centrale della filosofia è l'immaginazione. Che non significa «finzione, apparenza, inganno; significa immaginare l'infinito nel finito, affinché l'eternità possa apparire nell'ordine del tempo. L'immaginazione è la facoltà di immaginare i contrari, e al momento attuale di contrari ce ne sono più che a sufficienza».
Poi un giorno arriva anche uno svevo dall'aspetto misurato e saccente, al quale piace la birra e il vino e si diverte un mondo a giocare ai tarocchi. Si chiama Hegel. È un vecchio compagno di studi di Schelling (dividevano casa insieme al poeta Hölderlin): in lui l'entusiasmo per Kant è contenuto, gli sembra che la sua dottrina sia «un'arida cavillosità concettuale». Gli preferisce Rousseau.
Il resto è noto. Sono gli anni in cui Hegel a Jena pensa e scrive la Fenomenologia dello Spirito, mentre la realtà irrompe. Una realtà che ha il volto della guerra: non distante da Jena gli eserciti prussiano e napoleonico si affrontano nel sangue. Una storia finisce, un'altra e pronta a iniziare. Scrive Neumann che «neppure Hegel avrebbe potuto immaginare che lo sconvolgimento della storia del mondo sarebbe avvenuto proprio qui, in questa cittadina universitaria della Turingia, proprio sotto i suoi occhi». Quegli occhi che videro passare a cavallo l'anima del mondo, Napoleone, il 13 ottobre 1806. A Jena, prima delle vacanze estive, Hegel aveva congedato i suoi studenti con queste parole: «lo spirito ha fatto uno scatto in avanti e sta per cambiare forma; la massa delle idee precedenti, i legami del mondo, si sono dissolti e crollano come immagini oniriche; la filosofia deve accogliere la nuova fase dello spirito, perché in essa si manifesta l'eternità della ragione». Era stato profetico. E in fondo ha ragione Neumann: a volte bisogna lasciar stare il passato per vedere quanto può essere bello il futuro.

- Marco Filoni - Pubblicato su Tuttolibri il 24/9/2020 -

martedì 20 ottobre 2020

Natale!!!

Salvare il Natale, a qualsiasi costo!
- di Gilles TK - (immagine di Steve Cutts) - 19/10/2020 -

Le misure cosiddette «sanitarie» del governo, con il progredire dell'autunno, hanno sempre più a che fare con la coercizione, piuttosto che con la cura. Non è certò una novità. Ci viene detto che si tratta di preservare i ritmi ospedalieri. Ci dicono che si tratta di salvare delle vite. Ma quelli che ci governano, e che si fanno curare nelle cliniche private, sembra che abbiano una deplorevole tendenza a confondere le parole «vita» ed «economia». Le giornate dei lavoratori e delle lavoratrici vengono separate in due: c'è il tempo del lavoro, e poi c'è il tempo del «non-lavoro», il quale permette la «riproduzione della forza lavoro»[*1], vale a dire, la soddisfazione dei bisogni primari e la realizzazione di un certo numero di desideri espressi da ciascun individuo (mangiare, riposare, curarsi, nutrirsi intellettualmente, nutrirsi socialmente, fare sesso ecc.). Grazie al non-lavoro, il giorno dopo, il lavoratore e la lavoratrice possono tornare sul posto di lavoro in buone condizioni. Quel che conta, è specificare che «non-lavoro» non è sinonimo di «non-faccio-niente», nella misura in cui un certo numero dei compiti che permettono la riproduzione (il «care», nella versione statunitense) sono ripetitivi e fastidiosi, oltre ad essere screditati sul piano sociale. E sono storicamente assegnate alle donne: preparare il pasto, pulire i bambini, lavare le ferite del marito.
Ma se questa chiara e deliberata dissociazione di quelli che sono i luoghi e i tempi di attività che corrispondono alla realizzazione del capitalismo (prima, le società non si organizzavano in questo modo), il lavoro e il non-lavoro partecipano della medesima dinamica di creazione di «valore» (il profitto, la crescita economica, tutte queste cose). Il non-lavoro è la precondizione per il lavoro. In altri termini, se non c'è un non-lavoro, strutturato nel nome del lavoro, non può esserci Lavoro.
Il tempo di lavoro, il suo orario, viene organizzato dall'impresa (in teoria, sotto il controllo dello Stato), e normalmente la gestione del non-lavoro viene lasciata alla discrezione di ciascun individuo, o a piccoli gruppi di individui («la famiglia»). È esclusivamente in questo tempo di non-lavoro che eventualmente può sbocciare quella libertà, inscritta sul frontone della Repubblica,  e questa democrazia della quale sentiamo così tanto parlare. Appena oltrepassate i cancelli dell'azienda, lasciate perdere: la vostra voce non conterà mai quanto quella degli azionisti e non avrete mai la stessa posizione sociale del vostro capo, e farete quello che lui vi dirà di fare. Ma non è che poiché la libertà e la democrazia vengono tenute a distanza dai luoghi e dal tempo del lavoro, una volta che uno ha finito la sua giornata di lavoro, allora per questo diventa necessaria la loro fioritura nel tempo e nei luoghi del non-lavoro. Lo Stato regola la lancetta dell'autodeterminazione a partire dalla pressione di interessi che sono spesso contrastanti [*2]. Ecco perché per due secoli le lotte sociali e societarie si sono interessate tanto alle condizioni lavorative (aumento dei salari, diminuzione della fatica, 35 ore, ecc.) quanto alle condizioni del non-lavoro (previdenza sociale, pensioni, parità di diritti, depenalizzazione dell'omosessualità, depenalizzazione dell'aborto, protezione dell'infanzia, ecc.).
L'equilibrio tra tempo di produzione e tempo di riproduzione continua ad essere sempre precario. Non appena si verifica una crisi, ecco che le carte vengono subito rimescolate, e in genere ciò non avviene a vantaggio del non-lavoro. Ed è questo ciò che sta esattamente succedendo oggi. Guardiamo, perciò, alle tre fasi della gestione della pandemia da parte del governo:

- Prima fase, all'inizio del mese di Marzo: la Negazione. Non si deve permettere niente di tutto ciò che possa turbare l'ordine produttivo stabilito.
- Seconda fase, Marzo-Aprile: il Confinamento. Imposto sotto la pressione degli specialisti che analizzano le dinamiche internazionali, ciò a partire dal fatto che le strutture sanitarie erano in condizioni fortemente carenti quando è arrivato il Covid, e si era arrivati alla nuova convinzione che persistere nella negazione avrebbe avuto come conseguenza un cataclisma economico [*3]. Per tutta la durata del Lockdown, l'equilibrio si è spostato improvvisamente sul lato del non-lavoro. La macchina si ferma. Ovviamente, ciò dev'essere sfumato a seconda dei diversi settori professionali, e va mitigato attraverso la dinamica del tele-lavoro (alcuni vedono aumentare, e in qualche caso esplodere il loro tempo di lavoro, nella misura in cui bisogna che, mentre lavorano, svolgano simultaneamente anche i lavori domestici, e in più si occupino di amministrare la scuola a domicilio dei loro figli). In ogni caso, il modo di produzione capitalistico si viene a trovare sull'orlo dell'apoplessia.
- Terza fase, a partire dal mese di Maggio: ritorno graduale e progressivo alla normalità: Riequilibrio della bilancia del tempo. I grandi traumatizzati in cravatta rientrano in possesso dei miliardi che sono stati spesi senza alcuna contropartita. La cosa importante è che non si torni MAI più al lockdown, in mondo che non venga MAI più interrotta la produzione.

Ottobre 2020: la terza fase sta facendo il suo corso, ma il virus riprende la sua piena attività. Per ridurre il rischio si devono limitare i contatti; da quando esistono le epidemie, la regola non è cambiata di molto. Appare evidente che i luoghi di lavoro sono altrettanto suscettibili di poter diventare focolai dell'infezione, quanto lo sono i luoghi di non-lavoro [*4]. Senonché, è ormai fuori questione, per i responsabili, che si possano fermare le macchine, e intervenire sul tempo e sui luoghi di lavoro, salvo che per l'installazione di qualche parete in plexiglass, o un po' di stupida segnaletica. L'unica opzione ad essere ormai giudicata come accettabile, rimane solo quella di agire sul tempo del non-lavoro.
A partire da questo, avremmo senz'altro torto se ritenessimo che il governo stia cercando di mettere deliberatamente i vecchi contro i giovani, o la campagna contro la città. E non dovremmo nemmeno perdere troppo tempo a farci delle domande circa l'apparente contraddizione per cui si lascia che le piattaforme della metropolitana si riempiano, nel mentre che si vuotano le sale degli spettacoli, misurando i quattro metri quadri di rigore. In realtà l'unico obiettivo del governo è quello di preservare la produzione, anche se per fare questo si devono sollevare tutta una serie di persone da un certo numero di attività considerate come accessorie, secondarie, o addirittura superflue, anche se esse corrispondo a quello che noi chiamiamo la «qualità della vita». Nel corso della sua intervista del 16 ottobre, Macron non ha detto altro che questo: «Bisogna riuscire a ridurre i nostri contatti un poco inutili, quelli più festivi e conviviali, scusate se lo dico, in modo che si continui ad avere una vita sociale sul posto di lavoro, a scuola, nelle aziende e nelle associazioni». Tutto questo, ovviamente, con l'effetto collaterale di distruggere tutto un settore dell'economia del tempo di non-lavoro, vale a dire, i caffè-ristoranti ed il mondo della cultura vivente. Qualunque sia il costo in termini di disagio psicologico e sociale, e secondariamente di contagio dovuto al fatto che i treni suburbani sono un po' troppo affollati. La propaganda abbinata consiste nel distogliere l'attenzione dirigendola verso la responsabilità individuale e, come al solito, la responsabilizzazione delle vittime. Il governo punta tanto sullo sgomento della popolazione, quanto sulle misure restrittive in termini di aggregazione al fine di evitare la contestazione popolare e ogni conseguente riorganizzazione del movimento sociale.
Il 26 settembre, i premi Nobel per l'economia, del 2019, Abhijit Banerjee ed Esther Duflo hanno pubblicato su Le Monde un intervento i cui raccomandano «l'istituzione di un lockdown dell'intero territorio dal 1° al 20 dicembre, in modo da consentire ai francesi di ricongiungersi con le loro famiglie nel corso delle festività di fine anno». Specificando - per quelli che non hanno capito - che «lo shopping natalizio avrebbe potuto essere incoraggiato invece durante il mese di novembre», dal momento che la cosa più importante è quella di evitare lo shock economico che verrebbe creato da un lockdown di fine anno e dalla «cancellazione del Natale». Per questi esperti, così come per i nostri leader, malgrado qualche divergenza marginale riguardo la ricetta, c'è la medesima incapacità di pensare il mondo al di là dei criteri che lo portano inevitabilmente alla sua rovina. Lavoro, produzione di merci, consumo, profitto, punti di crescita, e basta. Salviamo il trasporto aereo. Salviamo il turismo. Salviamo la barbabietola e l'industria dello zucchero. Salviamo l'automobile. Salviamo il Natale. «Niente sarà più com'era prima», diceva Macron la primavera scorsa. Come si fa ora a convincersi che il suo «Métro boulot dodo» di ottobre possa essere un concetto davvero rivoluzionario...

di Gilles TK - Pubblicato il 19/10/2020 su  Créons nos utopies. Le site de l'Assemblée Populaire du Grand Toulon -

NOTE:

[*1] - L'espressione è di Karl Marx.
[*2] - Naturalmente, oltre allo Stato, ci sono altri fattori determinanti. Se le strade e lo spazio domestico fossero dei luoghi che in sostanza permettono la libertà e l'espressione democratica, lo si saprebbe.
[*3] - A tutte queste ragioni, non va dimenticato di aggiungere quelle forze etiche che strutturano la convivenza, sottolineando, tuttavia, che mentre il governo giustifica sempre le sue misure di "emergenza" argomentando che lo sta facendo per proteggere gli anziani, allo stesso tempo si rifiuta di ammettere ciò che è essenziale, vale a dire la propria incoerenza («governare significa prevedere»?), la propria incostanza, e l'estrema tossicità dell'ideologia del profitto applicata al servizio pubblico.
[*4] - Si veda questo «punto epidemiologico» pubblicato da Santé Publique France il 24 settembre 2020, in cui si citano gli account twitter degli oppositori alla linea di Macron. Tra il 9 maggio e il 21 settembre, «le imprese private e pubbliche (esclusa Ehpad)» hanno visto un netto sviluppo di "cluster" (focolai di contagio) (635) rispetto a quelli «nelle scuole e nelle università» (383) e di quelli negli «eventi pubblici o privati» (290). Si veda qui: https://www.santepubliquefrance.fr/maladies-et-traumatismes/maladies-et-infections-respiratoires/infection-a-coronavirus/documents/bulletin-national/covid-19-point-epidemiologique-du-24-septembre-2020

lunedì 19 ottobre 2020

Si chiude!!

Non passa: Crisi e disoccupazione negli USA
- di Maurilio Botelho -

«Già da lungo tempo abbiamo raggiunto la nostra ultima frontiera, e praticamente non vi è più terra libera. Più di metà della nostra popolazione non vive della terra e non può trarre i suoi mezzi di sussistenza dalla coltivazione della sua proprietà. Per i disoccupati, non c'è più la valvola di sicurezza dell' Est, o di potersi lanciare alla conquista delle praterie del West, dove dove potersi rifare una nuova vita.»

(Franklin Delano Roosevelt, 1932.)

Nel mese di maggio, in quello che è stato il momento più critico della pandemia di Covid-19, in cui si è raggiunto il picco dei decessi quotidiani, negli Stati Uniti, dopo il collasso causato dal confinamento sanitario, un'improvvisa creazione di posti di lavoro sembrava indicare una rapida ripresa economica. La previsione di 7.5 milioni di nuovi disoccupati veniva sorprendentemente compensata dalla creazione di 2,5 milioni di posti di lavoro. Sui media, tra i politici e gli investitori l'ottimismo prendeva il sopravvento. Il segretario del Lavoro del Paese dichiarava che «quello che era stato il peggio dell'impatto che il corona-virus aveva avuto sul mercato del lavoro si trovava ormai alle nostre spalle». Trump si rallegrava per la vitalità del recupero economico in atto: «Sarà meglio di un razzo, sarà un missile» [*1].
A luglio, la pandemia provava la sua persistenza, con nuovi record giornalieri di infezione. Anche con l'inizio della riapertura dei diversi settori dell'economia, l'ottimismo di due mesi prima mostrava la corda: agli oltre 30 milioni di nordamericani che ricevevano sussidi per la disoccupazione, nella seconda metà del mese se ne erano aggiunti quasi un altro milione e mezzo. Un economista della banca Mitsubischi negli Stati Uniti, affermava che «per il mercato del lavoro, non c'era stato alcun recupero graduale» [*2].
Era in atto un movimento di avanti e indietro: per quanto la riapertura economica promuovesse una tendenza alla riduzione della disoccupazione - dopo che 1/4 dell'intera forza lavoro statunitense aveva perso il lavoro - le richieste di indennità contro la disoccupazione alternavano settimane di declino ad improvvise impennate. In un mercato del lavoro reso flessibile all'estremo, le variazioni erano dovute al carattere instabile della ripresa stessa. Il dissolversi di molte attività economiche causava un aumento della disoccupazione in settori come il commercio ed i servizi alla persona, ma la bassa domanda da parte dei consumatori, dovuta al timore del contagio, dimostrava che i costi erano stati superiori ai guadagni della riapertura. Sebbene le imprese di commercio on-line stessero aumentando i loro posti di lavoro, i fallimenti che c'erano stati in settori come il turismo e i trasporti mostravano quella che era una tendenza alla distruzione duratura dei posti di lavoro. Ben presto, era diventato chiaro che anche i posti di lavoro riavviati, ben lungi dal compensare le perdite accumulate durante l'anno, erano in gran parte a tempo determinato e, in stragrande maggioranza, rappresentavano salai più bassi di quelli esistenti precedentemente. La concentrazione della ricchezza e la dipendenza del cittadino americano dal credito ne sarebbe uscita rafforzata.
Tutto ciò ci consegna un'immagine del quadro in movimento delle piccole e medie imprese, fondamentalmente il quadro del "settore terziario", il maggior responsabile per i posti di lavoro negli Stati Uniti. Storicamente caratterizzati da salari bassi, precarietà e scarsi "legami occupazionali", questi settori "competitivi" sono quelli che garantiscono ancora occupazione in un'economia che ha ridotto al massimo la forza lavoro occupata nei settori produttivi, con elevata produttività oppure trasferita nelle fabbriche in Oriente.
Nelle ultime settimane, tuttavia, è diventato evidente un movimento di massa anche nei settori «monopolistici» che mantengono ancora in qualche modo alcuni contingenti significativi di lavoratori [*3]. Nell'ultimo giorno di settembre, American Airlines e United hanno annunciato più di 30.000 licenziamenti [*4]. Con una perdita dell'85% dei guadagni nei suoi parchi, la Disney aveva già annunciato un giorno prima il licenziamento di 28.000 dipendenti [*5].  Il più grande gestore di Casinò di Las Vegas, una settimana prima, ha annunciato almeno 18.000 licenziati [*6]. Nei settori finanziari, i licenziamenti sono sempre più in aumento, con le compagnie di assicurazione e le banche che licenziano in ondate sempre più numerose. Una delle spiegazioni ricorrenti è che il sostegno finanziario offerto dal governo degli Stati Uniti aveva stabilito come contropartita il mantenimento dei posti di lavoro; con la fine della quarantena di "salvataggio", i licenziamenti vanno aumentando, Tuttavia, questa è solo una parte di quella che è una spiegazione più completa. È ovvio che la pandemia ha messo al tappeto l'economia, fermando la circolazione delle merci e delle persone [*7]; dal momento che quest'ultimi non sono altro che merci, sempre meno vendibili, ecco che allora il tasso di disoccupazione è esploso in maniera tale che non si era mai visto prima. Tuttavia, parte del licenziamento di massa dev'essere letto come un approfondimento della crisi strutturale del capitalismo, come una continuazione dei processi di ristrutturazione produttiva e come un'accelerazione dell'automazione promossa a partire dalle nuove esigenze imposte dalla pandemia.
Quindi, se i settori finanziari rendono pubblici ora i grandi tagli, questo non è affatto solamente un evento degli ultimi giorni: «il totale dei licenziamenti annunciati quest'anno arriverebbe a 67.844, secondo quelli che sono i dati raccolti da Bloomberg (...). Probabilmente, il totale reale è assai più alto, perché molte banche licenziano i loro funzionari senza annunciare i loro programmi» [*8]. La sola HSBC aveva già annunciato a febbraio una drastica riduzione di 35.000 dipendenti, rafforzando un trend generale nei principali mercati azionari mondiali: «Il totale dei licenziamenti annunciati a partire dall'inizio del 2014 ammonta a circa mezzo milione» [*9].
Ciò che sta dietro questa spinta alla distruzione non è l'avidità dei grandi finanzieri, bensì la progressiva dinamica dell'automazione dei settori monetari: la tecnologia digitale sta convertendo radicalmente tutte le attività contabili, i meccanismi di compensazione ed il controllo dei flussi. Attività di routine che richiedevano un qualche livello di assistenza da parte dei funzionari, come i pagamenti e i trasferimenti di denaro, ora vengono esternalizzati al cliente nei suoi apparati elettronici connessi a Internet. In questo modo, i costi delle attività finanziarie diminuiscono radicalmente economizzando sulla forza lavoro, e anche con la riduzione di quelle apparecchiature per il consumatore (ATM, casse elettroniche, agenzie, ecc.).
La stessa cosa sta succedendo su larga scala con le attività commerciali: i rivenditori stanno convertendo una parte sempre più grande delle loro vendite al commercio elettronico, trasferendo operazioni di compilazione dei dati, acquisto e pagamento da parte dei clienti e riducendo al massimo i negozi e le operazioni fisiche di vendita. L'«effetto Amazon» è la progressiva eliminazione dell'esercito di tradizionali commessi e la sua sostituzione  con attività precarie in quella che è la distribuzione delle merci. Ma queste non rappresentano solo il semplice dislocamento dei posti di lavoro tra settori, o una tendenza alla "distruzione creativa" del posto di lavoro. Oltre al limbo contrattuale che circonda una simile attività (l'«imprenditore» opera con un auto a noleggio fornendo servizi di consegna a domicilio ad un'impresa subappaltata al dettagliante da una grande corporazione), con la razionalizzazione della logistica, la robotizzazione dei magazzini e le nuove tecnologie di automazione delle consegne, la riduzione dei posti di lavoro diventa un rischi costante; durante la pandemia, sono stati fatti dei test effettuando consegne con dei droni in decine di città degli Stati Uniti, soprattutto condotti da Amazon e da Walmart.
Quella che è in atto, nel processo di radicalizzazione con la pandemia, è una tendenza a lungo termine: negli Stati Uniti non c'è più una rigida separazione tra un settore precario del mercato del lavoro (periferico) ed un altro settore regolato per mezzo di norme stabili (centrale), poiché quest'ultimo è sull'orlo dell'estinzione. Come ha affermato 30 anni fa David Harvey, nel suo "classico" libro "La crisi della modernità", la «tendenza attuale a ridurre il numero dei lavoratori "centrali" e di impiegare sempre più una forza lavoro che viene assunta facilmente, e che viene licenziata senza costi quando le cose si mettono male» [*10]. Una «riorganizzazione produttiva» in atto da decenni, pertanto, ecco che ora diventa ancora più profonda attraverso le esperienze del distanziamento sociale, le attività svolte a distanza e l'automazione: «ci sono aziende che si stanno rendendo conto che la domanda non è più tornata a crescere e stanno facendo perciò i necessari aggiustamenti. Alcune di esse stanno accelerando i piani di riduzione dell'attuale forza lavoro impiegata. Altre stanno scoprendo che i tagli che consideravano temporanei in realtà sono sostenibili, e che la produttività non viene direttamente influenzata dalle riduzioni attuate nell'organico. Altre imprese ancora si sono rese conto che i lavoratori a distanza possono essere più produttivi: dal momento che alcuni di loro lavorano anche di più, per paura di perdere il lavoro» [*11].
La tendenza alla precarizzazione dei posti di lavori che vengono ancora offerti nell'economia statunitense era già palese. All'inizio degli anni '90, Robert Reich, ex segretario del Lavoro, ha dimostrato come, a partire dal 1965, i salari medi dei lavoratori statunitensi (escluse le funzioni di vigilanza) fossero sempre più bassi; il che implicava una graduale riduzione del mercato dei consumi, che avrebbe potuto essere compensata dall'indebitamento, «nella misura in cui via via che diminuiva il numero di americano che avevano un reddito medio» [*12]. La critica culturale Barbara Ehrenreich ha vissuto sulla propria pelle il lavoro sottopagato dei colletti bianchi e anche gli impieghi poco qualificati riservati ai neri e agli immigranti, dimostrando che il «lavoro di sopravvivenza» è una condizione che viene vissuta da quasi tutti gli strati sociale. Vivere ai margini, senza preoccuparsi della salute, sempre al di sotto di quello che è livello necessario per la riproduzione, indebitandosi ed impoverendosi sempre più - bloccando in questo modo qualsiasi cambiamento sociale - era ormai diventato un dato comune alla maggior parte degli americani; uno «stato di emergenza generalizzato» [*13].
La realtà post-pandemica approfondirà ulteriormente tale situazione, peggiorando la tragedia quotidiana con un'occupazione sempre più scarsa e costringendo una parte del mercato del lavoro verso le «le attività per conto proprio», un eufemismo che nasconde la disoccupazione di massa. Non esiste niente che assomigli ad un ciclo virtuoso di crescita e che possa intervenire a fronte di una situazione di disoccupazione tecnologia, di compressione dei redditi, di bancarotta diffusa e di una situazione esplosiva dovuta all'indebitamento: l'espansione monetaria ha causato un indebitamento da record, intervenendo su una montagna di debiti che erano già stati accumulati nei precedenti cicli di iniezione di capitale fittizio nei mercati immobiliari, dei totali e del consumo. Il timore è che ora, con la fine delle misure minime di protezione offerte dal governo durante la pandemia, si apra immediatamente un divario ancora più grande. La crisi che è in atto al centro del capitalismo non passa.

- Maurilio Botelho - Pubblicato il 10/10/2020 su Blog Da Consequencia -

NOTE:

[*1] - Il mercato del lavoro dà sollievo agli Stati Uniti con un sorprendente calo della disoccupazione a maggio. Vedi in: El País, 05 giugno 2020.
[*2] - Le richieste settimanali di disoccupazione negli Stati Uniti aumentano inaspettatamente quando il mercato del lavoro fa un passo indietro. Vedi a: El País, 05 giugno 2020: Swissinfo, 23 luglio 2020.
[*3] - James O'Connor ha analizzato sistematicamente la divisione del mercato del lavoro statunitense, nel bel mezzo dell'era di crescita del dopoguerra, tra un settore competitivo, un settore monopolistico e un settore statale.  Si veda: James O'Connor "La crisi fiscale dello Stato" Einaudi, 1977.
[*4] - American Airlines e United annunciano più di 30.000 licenziamenti a causa della pandemia. Vedi in: O Globo, 01 ottobre 2020.
[*5] - Con i parchi chiusi nella pandemia, la Disneys licenzia 28.000 dipendenti. Vedi in: Infomoney, 30 settembre 2020.
[*6] - La MGM annuncia il licenziamento di 18.000 dipendenti. Vedi su: Infomoney, 30 settembre 2020: FDR, 25 settembre 2020.
[*7] - Maurilio Botelho, "Epidemia economica: Covid-19 e crisi capitalistica"; su  https://francosenia.blogspot.com/2020/04/arresto-cardiaco.html
[*8] - I tagli alla Goldman hanno portato a licenziamenti nelle banche per quasi 70.000 persone. Vedi in: Money Times, 01 ottobre 2020.
[*9] - Ivi.
[*10] - David Harvey, "La crisi della modernità". Il Saggiatore, 2010.
[*11] - Il rapporto di agosto sui posti di lavoro può sembrare roseo, ma la maggior parte dei tagli di posti di lavoro devono ancora arrivare, avvertono gli economisti. Vedi in: NBC News, 04 settembre 2020.
[*12]-  Robert Reich, "O trabalho das nações" São Paulo: Educator, 1994, p. 184.
[*13] - Barbara Ehrenreich, "Una paga da fame"; Feltrinelli 2004. Su "occupazione di sopravvivenza" vedi: "O desemprego de colarinho-branco." Rio de Janeiro: Record, 2006, p. 223.

Originariamente pubblicato su https://www.igrakniga.com/

domenica 18 ottobre 2020

Ripartire da zero!


All'inizio della seconda parte del suo Discorso sul Metodo, del 1637, Descartes scrive che « nelle opere composte da più pezzi, e realizzate dalle mani di diversi maestri, rispetto a quelle in cui ha lavorato soltanto uno, non c'è altrettanta perfezione ». E poi prosegue: « si crede che gli edifici progettati e portati a termine da un solo architetto siano spesso più belli e meglio organizzati rispetto ai tanti che che molti hanno cercato di ristrutturare, utilizzando dei vecchi muri che erano stati costruiti per altri scopi. Ragion per cui, queste antiche città, essendo stati agli inizi dei piccoli borghi, e che col passare del tempo sono diventate dei grandi centri, di solito si sono urbanizzate malamente, rispetto a quelle piazze regolari tracciate da un ingegnere per mezzo della sua fantasia su una pianura » (si pensi, ad esempio, al lavoro di rarefazione del linguaggio e della soggettività che compie Beckett a partire, tra gli altri riferimenti, proprio da Descartes). Una simile idea, mescolata alla narrazione autobiografica del "Discorso", serve a mascherare in maniera sottile quella che è una volontà iconoclasta: vale a dire, partire da zero, buttar giù tutto quello che è già stato costruito, e ricominciare da zero - e fare in modo che ci sia un unico artista responsabile della costruzione, dalle fondamenta al soffitto. E sebbene Descartes non  lo dica direttamente, il genere di costruzione che più di tutte si avvicina alla sua descrizione sono le chiese: e di solito, le più tradizionali sono state costruite su altre ancora più antiche, alcune delle quali assai spesso erano state erette dove un tempo c'era un altare pagano.
( Va detto anche che nel 1633, tredici anni dopo che era avvenuta la morte di Descartes, il Papa mise all'indice le sue opere, collocandole nell' Index librorum prohibitorum. )

fonte: Um túnel no fim da luz

sabato 17 ottobre 2020

Come aprirsi un vena…


« Scrivere è semplice ... come aprirsi una vena. »

Il filosofo e critico tedesco Walter Benjamin aveva concepito un libro, costituito solamente di citazioni di altri autori.

Nel Dicembre 1957, Guy-Ernest Debord ... pubblica un libro, cui ha dato il titolo di "Memorie". Ma non lo aveva scritto. Si era solo limitati a ritagliare dei pezzi che aveva tratto da paragrafi, aforismi, frasi, a volte persino singole parole, prelevandoli da libri, da riviste, e giornali. Da subito, il libro era apparso come se si trattasse di una metafora ricercata e preziosa. Tant’è che, infatti, raccontava una storia assai particolare, e per di più recava in sé la dichiarazione solenne che quella fosse solo quella l'unica storia che valesse la pena raccontare.

(già pubblicato sul blog il 1° dicembre 2016)

venerdì 16 ottobre 2020

Mal d’amore


Tradotta integralmente in italiano per la prima volta e mai pubblicata finora in nessun Paese col testo originale a fronte, L’anatomia della malinconia (1621-1651) di Robert Burton è la più grande “enciclopedia” dedicata alla «malattia dell’anima». Per natura proteiforme (può essere eccitante o patologica, dolce o amara, religiosa o erotica, feconda o sterile), sarebbe un errore identificare la malinconia con la tristezza o con ciò che oggi chiamiamo “depressione”. Capace di evocare la vasta gamma dei nostri sentimenti, essa si fonda su un paradosso che ha affascinato molti autori del Rinascimento: lo stesso malessere che rende l’uomo simile alle bestie può rivelarsi anche il contrassegno di un essere geniale e creativo. L’anatomia della malinconia è un trattato medico, ma è anche un testo filosofico, una sorta di antologia della poesia europea, un compendio di flora e di fauna, un atlante geografico, uno studio dei fenomeni naturali, un erbario, un ricettario, una sinossi di storia antica e moderna, una riflessione sull’astrologia e sull’astronomia, un resoconto sulla malattia d’amore, un libello satirico, una critica politica e religiosa, un’utopia. Questo volume, oltre all’eccellente traduzione di Luca Manini e all’edizione critica di Oxford University Press, offre ricchi apparati (introduzioni, note, indici e un dizionario biografico redatti da specialisti) oggi indispensabili per orientarsi nel labirinto della monumentale opera di Robert Burton.

(dal risvolto di copertina di: "L'anatomia della malinconia", di Robert Burton. Bompiani)

La malinconia è un paradosso che apre la porta per il cielo o l’inferno
- La ciclopica opera dell’erudito inglese del XVII secolo sulla “malattia dell’anima”: dallo scontento, ai tormenti d’amore, alla pazzia creativa, non risparmia nessuno. -
di Nuccio Ordine

Perché pubblicare, a distanza di quattrocento anni (1621-2020), una traduzione integrale con il testo a fronte de L’Anatomia della malinconia di Robert Burton? Potrei rispondere in tanti modi. Ma, per prima cosa, mi viene da dire in maniera semplice e personale: perché era un’opera che ho sempre desiderato avere nella mia biblioteca. Era necessaria una forte motivazione per affrontare un’ardua impresa che ha richiesto dieci anni di lavoro: senza la straordinaria dedizione e competenza di Luca Manini (che ha tradotto oltre 1300 pagine di un inglese a volte tecnico e difficile) e di Amneris Rosselli (che ha tradotto poesie e citazioni in latino e ha annotato con cura il testo prestando un'attenzione particolare al lessico legato alla medicina) non sarebbe stato possibile raggiungere l'obiettivo.
Adesso i lettori italiani avranno a disposizione la più grande enciclopedia dedicata alla «malattia dell'anima». Nonostante i secoli e tutti i possibili cambiamenti, Burton e la sua opera seguitano a parlarci ancora come parlavano ai suoi contemporanei. Al centro di questo immane libro, infatti, continua ad essere l'umano, in tutta la sua inesausta varietà e molteplicità. Riprendendo la famosa espressione di TerenzioSono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è alieno», afferma il poeta romano nella sua commedia "Il punitore di sé stesso"), l'autore afferma che la malinconia non risparmia nessuno e che tutti, prima o poi, possono esserne presi. Anatomizzarla, quindi, significa analizzarne nel dettaglio ogni sua singola espressione: dalle sue forme più lievi al semplice senso di scontento o insoddisfazione o scoramento, dagli estremi della pazzia furiosa alla straordinaria creatività degli artisti e degli scrittori. Un concetto , quello di malinconia, che finisce per abbracciare, nel passato come nel presente, l'umanità intera e tutto il mondo: ogni continente, ogni nazione, ogni città, ogni villaggio, ogni donna e ogni uomo.
Burton confessa, infatti, d'aver interpretato la scrittura di questo libro soprattutto per curare sé stesso da uno stato di malinconia. Ma poi allarga il discorso anche ai suoi simili. Lui, sacerdote e «terapeuta» delle anime, si fa medico per esperienza e volontà. Così divide l'opera in parti che analizzano i sintomi della malinconia (nei suoi molteplici tipi) per poi esprimere la diagnosi e procedere alla prescrizione delle cure. La materia debordante del libro condiziona anche la scrittura: lo stile ridondante, eccessivo, digressivo si lega perfettamente all'abbondanza del testo e alle infinite citazione latine che lo corredano.
Bibliotecario a Oxford, l'autore rivela nella sua monumentale opera una straordinaria voracità. Pensatori greci e latini, medici e filosofi antichi e contemporanei, scrittori in prosa e in versi di ogni epoca, vengono passati in rassegna per raccogliere ogni riflessione e ogni allusione al tema della malinconia. Così la sua enciclopedia si presenta come un immenso arazzo di questa dolorosa e affascinante «malattia dell'anima» in cui i lettori potranno trovare tutto ciò che gli uomini hanno pensato e scritto.
Una ricca biblioteca che invita a riflettere, a osservare la realtà sociale e politica. Un'esortazione a dialogare con il passato e con tutto ciò che il passato ha prodotto per giovare al presente. Burton ci offre gli strumenti per scandagliare il nostro mondo interiore, per conoscere limiti e varietà del genere umano, per intervenire su di essi, per correggerli, per migliorare sé stessi e il mondo che ci circonda.
Per questo la malinconia non è solo un trattato medico, ma è molto di più: è un trattato filosofico, un excursus della poesia occidentale, una satira politica, un'utopia, un dizionario geografico, un libro di storia, un erbario, un ricettario. una riflessione sull'astronomia e sull'astrologia, un resoconto sulla malattia d'amore, una serie di biografie più o meno ampie, un regesto di aneddoti ora seri ora curiosi. Occorre avere pazienza con Robert Burton. L'autore domanda al suo lettore lo stesso sforzo da lui compiuto per scrivere l'opera: immergersi in questo libro-mondo richiede tempo e dedizione, curiosità e passione. Ma, alla fine dell'avventura, ognuno potrà riconoscere in questa o in quella piega del discorso una parte importante di sé.
Bisogna abbandonarsi al flusso della sua scrittura, lasciarsene avvolgere e trascinare, assumendo quella giusta postura che ci aiuta a cogliere l'essenza di tutto ciò che è umano, veramente vivo, pulsante. Leggere "L'anatomia della malinconia" non può lasciarci indifferenti, La passione di Burton è, per chi la sappia cogliere, contagiosa: è la passione di conoscere, di non porre limiti alla propria curiosità, di ritrovare  nel raccoglimento in sé stessi un momento di pace e di felicità. In un mondo come il nostro, dominato dalla fugacità delle immagini, dalla parola che dura un istante perché immediatamente sostituita da altre parole, dal vuoto chiacchiericcio, dall'assordante rumore di fondo, Burton ci fa scoprire aspetti inediti e sorprendenti della vita. Ci fa capire che dentro un essere umano abita la debolezza ma anche la forza per rialzarsi e superare lo sconforto.
Sarebbe un errore far coincidere la malinconia con la «tristezza» o con ciò che noi oggi chiamiamo «depressione». Perché la sua natura proteiforme è capace di esprimere la vasta gamma dei nostri sentimenti: il suo essere eccitante o patologica, dolce o amara, religiosa o erotica, feconda o sterile, mostra la sua piena sintonia con la varietas di un universo in continua mutazione. Non ha caso la malinconia ha affascinato scrittori antichi e rinascimentali: la sua natura paradossale, infatti, è segno di un malessere che può, nello stesso tempo, rendere l'uomo simile alle bestie o aiutarlo a diventare un essere in grado di creare opere straordinarie. Dal mondo classico al Rinascimento, infatti, grandi pensatori come Aristotele o Marsilio Ficino hanno dedicato pagine avvincenti al fecondo rapporto tra malinconia e genialità.
Per capire la complessità e le contraddizioni del mondo, insomma, Burton ci invita a piangere con Eraclito ma, soprattutto a ridere con Democrito.

- Nuccio Ordine - Pubblicato sulla Stampa del 3/10/2020 -