martedì 6 ottobre 2020

Fermiamo tutto!

Il lavoro, all'incrocio di tutta la nostra rabbia
- di Gilles Tal-Kuntrabandu -

Il lavoro, in quanto tale, continua ad essere il punto cieco delle lotte sociali, l'angolo morto del sociale. Si impone su tutti, condiziona al massimo la nostra vita, ma interessa il dibatto solamente in termini relativi a quelle che sono solo dinamiche settoriali. Tuttavia, estendere la nostra analisi alla critica fondamentale del lavoro, potrebbe forse consentirci di collegare le lotte, scardinando la fatalità dell'isolamento militante (la cattiva «depoliticizzazione», il cattivo «individualismo», portando ad un'invenzione collettiva di nuovi modi di produzione, mirati ad un vero cambiamento della società.
«Non serve a niente essere vivi per tutto il tempo in cui si lavora.» - André Breton, Nadja (1928) -

Su Facebook, durante il confinamento, sta succedendo questo. È il 3 aprile, lo stabilimento della Toyota annuncia che ha intenzione di riprendere la produzione il giorno 21. «Ma noi non vogliamo che la fabbrica della Toyota riparta!», non riesce a trattenersi dal dire un compagno,  Jean-Christophe Menu. «Né quella, né nessun'altra fabbrica di automobili!». Grazie a quello che ha dimostrato di essere un granello di sabbia nella meccanica capitalistica, ci troviamo ad un punto insperato dell'umanità, in cui il tempo è ridiventato reale, potenzialmente utili all'essere umano ed alla sua vita, assolutamente inutile al capitale mortifero, e questa potrebbe anche essere la nostra ultima chance. Questa opportunità, non va assolutamente sprecata. La Toyota non deve ripartire».
Ben presto, a fronte di questa bella reazione si assiste allo schierarsi di due fronti: «Non dimenticate di andarne a parlare con gli operai della Toyota», dice una di esse. Mentre l'altra, più laconica ancora: «210 mila posti di lavoro nell'industria automobilistica... ».  Brandendo il cartello «attenzione, lavoro», questi arbitri, che sostengono di non essere tanto dei Geoffroy Roux de Bézieux [*1] quanto piuttosto dei Jean Jaurès, si fanno carico di sostenere un punto di vista ed un metodo che viene molto apprezzato dai datori di lavoro, nel momento in cui si cacano addosso per la paura, e che viene definito come il «ricatto del lavoro». Dal momento che il lavoro non si discute, ed il rifiuto del dibattito trascende le posizioni sociali e politiche. È vero che le persone scendono in strada per dei motivi che assai spesso sono legati al lavoro: o perché non lavorano o perché lavorano troppo, o perché chiedono adeguamenti in termini di retribuzione, di orario di lavoro, di ambiente di lavoro; insomma, perché hanno dei problemi che riguardano le loro condizioni lavorative. Ma non si scende mai in strada contro il lavoro. La questione che attiene alla domanda circa il «perché si deve lavorare?» ammette come sua risposta universale: «perché dobbiamo mangiare!». Lavorare, avrebbe addirittura a che fare con una questione di dignità umana. In Francia, il principio del «diritto al lavoro» divenne centrale durante la rivoluzione del 1848, quando la popolazione parigina crepava di fame, e perciò, un secolo più tardi [*2] le Nazioni Unite lo consacrarono nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo. Non offenderemo le lotte sindacali e politiche se affermiamo che storicamente esse si sono unite agli sforzi padronali nel contesto della dinamica della mistificazione del lavoro in quanto costante antropologica (quel piccolo ritornello secondo cui il lavoro sarebbe sempre esistito e che si troverebbe inscritto nei nostri geni)[*3]. Né si offenderanno i Gilet gialli per il fatto che stanno sostenendo tale dinamica con le loro colorate rivendicazioni di una maggiore giustizia sociale, vale a dire, a favore di una più equa ripartizione di quelli che sono i frutti della distribuzione, e quindi del lavoro, senza rimettere mai in discussione la produzione stessa. Il gilet giallo «si riferisce in maniera specifica alle persone che utilizzano il loro veicolo per andare al lavoro», osserva del resto lo storico Gérard Noiriel [*4]. «Cosa che ci consente di fare anche un collegamento con tutta una parte del mondo operaio: gli impiegati comunali, gli operai dei cantieri, ecc., i quali sono tutti obbligati a portare questo indumento di protezione». In maniera più generale, si noterà che le lotte si interessano assai poco alla critica del lavoro. Malgrado le loro divergenze, la maggior parte dei sindacalisti, dei gilet gialli e degli ambientalisti si ritrovano tutti nella medesima impasse a causa delle loro riflessioni frammentate, che servono assai male le cause che ciascuno di loro vorrebbe difendere: questa non vuole essere un postulato, ma piuttosto una constatazione, considerato lo stato in cui versa il mondo.

È bello il mio pennacchio, è bello
La demarcazione tra, da una parte, i proletari o i declassati della piccola borghesia che ha indossato spontaneamente il gilet e, dall'altra parte, la classe media del tipo «CPIS» [*5] che oppone resistenza all'agitazione delle rotatorie, materializza la mutazione ideologica messa in atto a partire dagli anni '80 dalla sinistra governativa, quando ha deciso di ignorare il sociale a vantaggio della società. La lotta di classe non interessa più i mattinali radiofonici e i palinsesti televisivi? A partire dall'autunno del 2018, è improvvisamente ricomparsa vestita di giallo, con le sue rivendicazioni riguardo il prezzo del gasolio.
Nessuno vuole lasciare un pianeta marcio ai propri figli. E dai gilet gialli non si può di certo pretendere il contrario. Beninteso, c'è tuttavia una certa diffidenza da parte di alcune persone nei confronti degli ecologisti, che vengono percepiti come se fossero dei privilegiati che si danno da fare per degradare ancora di più le condizioni di vita di «quelli che lavorano». Come contropartita, bisogna ammettere che le associazioni e gli attivisti verdi si sono spesso tappati il naso per non respirare le esalazioni al carbonio dei barbecue ai caselli. Il collegamento tuttavia è stato comunque stabilito, sebbene un po' tardi, e indubbiamente in maniera marginale, attraverso quello che è risuonato come uno dei più bei slogan del periodo: «fine del mondo e fine del mese, la stessa lotta». Per quanto non si possa affatto parlare di osmosi, sia gli uni che gli altri si affannano a convincersi che appartengano tutti allo stesso mondo [*6].
Per un certo periodo, la «giletgiallizzazione» del movimento sociale - e perfino quella del movimento ecologico - è riuscita a ridare un certo colore alle manifestazioni, ma le vecchie abitudini hanno la pelle dura e sono dure a morire. Rivendicazioni di categoria prima delle contrattazioni, gestione strategica del calendario, dichiarazioni in prefettura, segmentazione dei cortei con la traiettoria Place de la Liberté- Prefettura adattata secondo quella che è la configurazione locale, e tutti in cerca di qualcuno per potergli dire: «Hai visto? Ci sono ancora meno persone di quante ce n'erano l'ultima volta». Una volta che la cosa si sarà sgonfiata, potremo tornare a casa. Si deve tornare a casa. A volte, nelle grandi città dei personaggi tutti vestiti di nero spuntano dal nulla per ultra-violentare i distributori automatici e intimidire la polizia. Si continuerà a parlare all'infinito delle loro motivazioni, si dirà che recano danno a quello che è il "messaggio", e che sono controproducenti. Fino alla prossima volta in cui succederanno le stesse cose. Nel frattempo, la «necessaria riforma», lo sfruttamento dei corpi, il saccheggio delle risorse e la cementificazione continueranno a seguire il loro corso. Prima di ogni nuovo anno scolastico, si vorrebbe essere persuasi che «il prossimo ritorno a scuola sarà caldo» ma il Grande Giorno si allontana via via che ci si avvicina. Il sindacalismo è alla frutta ed i bei giorni dei Gilet gialli sono ormai alle nostre spalle, malgrado gli annunci troppo roboanti per poter essere considerati del tutto sereni. Gli ecologisti, da parte loro, dopo la sarabanda elettorale particolarmente grottesca del 2020, hanno una grande considerazione di sé stessi, ma i fatti sono ostinati: le utopie veicolate dall'ecologia politica continuano a fondersi nel gioco della rappresentazione. Fondamentalmente, non c'è da aspettarsi niente di buono dal modo in cui il mondo viene gestito. In breve, di fronte ad un potere sempre più repressivo, i rapporti di forza sono sempre più in una situazione di stallo. Ed ecco che allora la tentazione diventa quella di attaccare coloro che disertano la lotta, o che non vi hanno mai aderito. I militanti e gli attivisti impegnati nel miglioramento delle condizioni di vita, devono fare i conti con la propria amarezza, costretti all'angolo e convinti di star difendendo la giusta causa di fronte all'indifferenza della maggioranza. Eppure, c'è un denominatore comune all'insieme delle lotte, che è difficile da discernere quando ci si ferma a metà del ragionamento. Voi, movimento sociale, vorreste far ragionare il governo, e i suoi mandanti, i padroni. Vorreste perfino licenziarli, «espropriare i proprietari». Forse ritenete che l'autogestione della vostra azienda possa bastare a garantire l'uguaglianza sociale e la giusta ripartizione della ricchezza. Ma di quale ricchezza state parlando? L'autogestione di una fabbrica di spara-proiettili di gomma, per esempio, vi sembra qualcosa di auspicabile? [*7] E voi, che siete nella lotta ecologista, che pensate come Cyril Dion che un altro capitalismo sia possibile. Voi, vorreste accelerare la «conversione ecologica» in modo da «rispondere alle sfide climatiche del nostro secolo». Toyota, così come i suoi concorrenti, vi risponde «provateci!». Toyota vorrà vendere sempre più automobili, e accetterà solo di dipingerle blu cielo, o in giallo, a seconda delle circostanze. Jean Castex, quando è diventato capo del governo ha fissato quali sono le basi: «Credo nella crescita ecologica, e non nella decrescita verde» [*8]. In tal modo, questa transizione ci annuncia l'ennesima mutazione del capitalismo, come quando si cambiano le gomme all'arrivo dell'inverno: quali che siano i rischi metereologici, l'importante è continuare ad andare. Ma, esattamente, in un mondo finito, come pensate di conciliare il principio della crescita perpetua e la preservazione delle risorse? Perciò, sia che ci si concentri sull'occupazione o sull'impatto ambientale della produzione, assai raramente ci si interessa alla produzione in sé, alla natura di quelle che sono le merci prodotte. La produzione sfugge alla decisione degli esseri umani, i quali tuttavia la subiscono attraverso il lavoro ed il consumo. La natura della merce (bene o servizio) viene lasciata al libero apprezzamento di un'entità astratta, che è anche una categoria capitalistica: si tratta di ciò che viene chiamato «l'Economia». Ed è l'Economia ad imporre il 5G in modo da poter connettere quelli che sono tutti gli oggetti che abbiamo in cucina, e poter far dire al frigo ce «dovresti comprare dello yogurt». È l'Economia che ci indica quali sono i settori «emergenti e innovativi» dove dovranno lavorare i vostri figli, ora piccoli. È sempre l'Economia a dettare le condizioni per lo sfruttamento delle materie prime e delle «risorse umane».

Una certa urgenza
Fino a quando si ostineranno a considerare l'economia come se fosse una categoria neutrale, eventualmente riformabile qualora non vada nella giusta direzione, le nostre riflessioni individuali e collettive rimarranno isolate ed incomplete, e continueremo a trascurare l'esplorazione di ciò che invece dovrebbe accomunarci: la critica del lavoro. Mettere in discussione il lavoro - e quindi dissezionare ed analizzare il modo di produzione - ci consentirebbe non solo di unire le nostre rabbie, ma anche e soprattutto di tracciare i confini di una produzione che sia direttamente associata ai veri bisogni e desideri umani, e non alla logica astratta del profitto. Mettere in discussione il lavoro, significa cominciare a riprendere in mano la nostra vita, rifiutando i diktat dell'economia: «fermiamo tutto, pensiamoci sopra, non è per niente triste». Lo slogan di Gébé non è invecchiato di un giorno. [*9]
Gli arresti domiciliari della primavera del 2020 hanno forse avuto questa virtù - l'unica - riuscendo a togliere temporaneamente un certo numero di persone dal circuito del lavoro, di riuscire a farci riscoprire la lentezza e il tedio, e permetterci quindi di riuscire ad oggettivare un po' il lavoro, riuscendo a distinguere le attività realmente utili alle comunità umane da quelle che servono meno, o niente del tutto, o che sono addirittura nocive. E infine, fare la cernita delle nostre intime aspirazione, lontano da quella che è la formattazione pubblicitaria. Bisogna mettere in discussione il lavoro, e non solo quelle che sono le sue modalità formali, per poter selezionare in maniera corretta il modo di produzione di cui esso è la sostanza [*10]: per meglio comprendere l'uguaglianza sociale (la conquista del pane e la ricerca del lavoro, non sono affatto la stessa cosa), il concetto di necessità, la concentrazione territoriale, l'educazione, lo sfruttamento delle risorse... Senza dimenticare l'asimmetria delle condizioni di vita e dei rapporti sociali legati al genere, così come al colonialismo che continua ad essere sempre all'opera, così come «l'Economia» lo esige. Dove si trovano le miniere di coltan, senza le quali il nostro cellulare non funzionerebbe, impendendo purtroppo al vostro capo di chiamarvi al telefono al momento giusto? Dove si trovano le miniere di uranio della fata francese dell'elettricità, che illumina per tutta la notte il quartiere della Défense? Chi è che sfrutta il petrolio che vi consentirà domattina di andare a lavorare a trenta chilometri da casa? Mettere in discussione il lavoro, significa pensare all'evoluzione del mondo rifiutando l'opposizione tra liberalismo e populismo che, artificialmente ed in maniera falsamente contraddittoria, distoglie l'attenzione, offrendoci solo delle prospettive di morte. Mettere in discussione il lavoro, infine, non significa certo ignorare le modalità «proletarie» delle lotte sociali ed invalidarne quella che è la loro utilità, cosa che sarebbe assai stupida e rozza riguardo le conquiste storiche che ancora oggi garantiscono ad alcuni di noi benessere ed una forma di sicurezza sociale all'interno del quadro stabilito; ma significa riflettere sul loro superamento, in modo che l'inevitabile fine del modo di produzione capitalistico venga adeguatamente pensata e preparata, nel senso di un reale progresso umano, a guisa di alto e solido argine che faccia da diga contro lo tsunami reazionario in arrivo...

- Gilles Tal-Kuntrabandu - Pubblicato il 29/8/2020 -

NOTE:

[*1] - Presidente del Mede [Movimento delle Imprese in Francia], a partire dal 2018
[*2] - Articolo 23, estratto: «Ogni individuo ha diritto al lavoro, alla libera scelta del suo lavoro, a delle condizioni di lavoro eque e soddisfacenti e alla protezione contro la disoccupazione. [...] Ognuno, per la difesa dei propri interessi, ha il diritto di formare insieme ad altri dei sindacati e di aderire a dei sindacati.»
[*3] - Ricordiamo che la funzione di un sindacato (dei lavoratori) è quella della difesa degli interessi dei lavoratori, e che CGT significa «Confederazione Generale del Lavoro», che FO significa «Forza Operaia», e così via. Rammentiamo anche che i partiti politici di sinistra hanno basato la loro esistenza sull'importanza del lavoro produttivo: prima del PS, c'è stata la SFIOSezione Francese dell'Internazionale Operaia»); e poi a difendere la rivoluzione proletaria, il PCF, così come «Lutte Ouvrière», e così via.
[*4] - Gérard Noiriel, dialogue avec Nicolas Truong, Les Gilets jaunes à la lumière de l’histoire, Le Monde / L’aube – 2019.
[*5] - Cadres et Professions Intellectuelles Supérieures. [Dirigenti e Professioni Intellettuali Superiori].
[*6] - Questa descrizione andrebbe vista come se fosse un'affermazione banale e soggettiva dei fatti. La sociologia dei Gilet gialli resiste ad ogni caricatura, e molti compagni, giustamente, non si preoccuperanno certo per queste affermazioni.
[*7] - Parafrasando Claude Berger, autore di "Pour l’abolition du salariat" (1976), citato da Alastair Hemmens nel suo "Ne travaillez jamais", éditions Crise et Critique – 2019.
[*8] - Discorso all'Assemblea Nazionale, 15 luglio 2020.
[*9] - "L'An 01", un fumetto di Gébé, poi diventato anche un film di Jacques Doillon, Alain Resnais e Jean Rouch (1971-1973).
[*10] - Secondo la tesi di Robert Kurz, teorico della "critica della dissociazione-valore". Su questo argomento, si legga "La substance du capital", pubblicato da éditions L’Échappée nel 2019: indispensabile, sebbene un po' difficile quando non si possiede il gergo.

fonte:  Créons nos utopies. Le site de l'Assemblée Populaire du Grand Toulon

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