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domenica 25 febbraio 2024

Intanto in Europa ...

Libertà per la catena di approvvigionamento
- Il Partito Liberale Democratico Tedesco - Freie Demokratische Partei (FDP) - non si preoccupa delle condizioni in cui avviene la produzione al di fuori dell'Europa  -
di Tomasz Konicz

Ancora una volta, le associazioni imprenditoriali tedesche sono riuscite a far valere i propri interessi a livello dell'Unione Europea. Il voto relativo alla legge sulla filiera di approvvigionamento dell'UE, che avrebbe dovuto essere votato dal Consiglio dell'Unione europea il 9 febbraio dopo lunghi negoziati, è stato rinviato. Dopo che la Germania ha annunciato che non avrebbe approvato la legge, diversi paesi hanno cominciato a nutrire dubbi. Ragion per cui, non è stato più considerato sicuro che c’era una maggioranza a favore della legge. La direttiva, in cantiere da anni - prima di essere bocciata a causa di un'obiezione dei ministri dell'FDP - avrebbe dovuto imporre alle aziende europee i minimi standard di civiltà che sarebbero stati vincolanti per quanto attiene all'approvvigionamento di materie prime e alla fabbricazione di prodotti primari al di fuori dell'Europa, ed era già passata al vaglio del Consiglio europeo, della Commissione europea e del Parlamento europeo. L'astensione della Germania - che ha lo stesso peso che avrebbe un rifiuto - scaturisce da una divergenza all'interno della coalizione esplosa a gennaio. I ministri dell'FDP, Christian Lindner (Finanze) e Marco Buschmann (Giustizia), si sono espressi contro la nuova direttiva dell'UE, sostenendo che sarebbe stata dannosa per l'economia tedesca. Secondo il presidio del Partito Liberale Democratico Tedesco, la direttiva dev'essere considerata portatrice di un'eccessiva burocrazia e incertezza giuridica, che non può essere accettata a causa dell'attuale debolezza economica della Germania. Pertanto, i liberali si trovano completamente in linea con le associazioni imprenditoriali tedesche, le quali, secondo l'Handelsblatt, stanno "massicciamente" protestando contro la direttiva dell'Unione Europea. Christoph Werner, presidente del consiglio di amministrazione della catena di farmacie DM,  in un'intervista a N-TV, è arrivato persino a definire il progetto di legge come "intrusivo". Precedentemente, il ministro del Lavoro Hubertus Heil (SPD) e il ministro dell'Economia Robert Habeck (Verdi), che hanno appoggiato la legge UE, avevano invitato invano il cancelliere Olaf Scholz ad avvalersi della sua autorità di emanare direttive e imporsi. Anche il presidente della commissione per gli affari europei del Bundestag, Anton Hofreiter (Verdi), ha lanciato un appello in tal senso, mettendo in guardia circa quella che, per la Germania, sarebbe una perdita di prestigio europeo: «È inaccettabile che all'ultimo minuto la Germania si astenga ripetutamente riguardo quelle che sono delle importanti decisioni europee». Scholz deve impedire che in futuro accadano cose del genere, ha chiesto Hofreiter.

Ciononostante, il 7 febbraio, il Freie Demokratische Partei ha annunciato che avrebbe bloccato all'ultimo minuto anche un regolamento UE - che era stato pienamente negoziato - riguardante gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 per i camion e per gli autobus; e ciò significa che il voto, che veniva prima considerato come una mera formalità, all'ultimo momento ha dovuto essere rinviato. Tuttavia, anche i precedenti governi federali hanno perseguito una politica di ostruzionismo assai simile, basata sugli interessi. Ad esempio, nel periodo del cancellierato di Angela Merkel (CDU), per anni, i limiti di CO2 per le automobili sono stati attenuati a favore dell'industria automobilistica tedesca. Die Zeit, ha espresso la valutazione secondo cui l'approccio dell'FDP sarebbe stato conveniente per il cancelliere Scholz, dal momento che anche per lui la direttiva sulla filiera di approvvigionamento dell'UE si sarebbe spinta troppo in là. Scholz avrebbe ipotizzato che, così facendo, gli ostruzionisti liberali riuscirebbero ad ammorbidire la direttiva dell'UE a un punto tale da riuscire ad avvicinarla alla corrispondente legge tedesca sulla catena di forniture. La Germania ha già una legge sulla catena di approvvigionamento con cui l'economia tedesca riesce a convivere benissimo. Dopotutto, se da qualche parte, nel Sud globale, nel contesto di una catena di approvvigionamento, i bambini rimangono uccisi lavorando all'estrazione di materie prime, o se le distese di terra di intere regioni vengono avvelenate, la legge tedesca non fornisce, alle persone colpite, alcuna base per citare in giudizio, per danni, le aziende tedesche. Ma sarebbe questo, però, ciò che permetterebbe la direttiva UE, ha lamentato il Partito Liberale Democratico Tedesco. Carl-Julius Cronenberg - portavoce per le piccole e medie imprese nel gruppo parlamentare FDP - ha chiesto per l'economia tedesca, in un'intervista al quotidiano Handelsblatt un «Safe-Harbour-Regelung», che dovrebbe ridurre in maniera significativa la responsabilità civile delle aziende; cosa che renderebbe la direttiva UE sulla catena di approvvigionamento altrettanto inefficace della legge tedesca.

La legge tedesca sulla filiera di forniture - entrata in vigore nel 2023 - obbliga le aziende con almeno 3.000 dipendenti (e, da quest'anno con 1.000 dipendenti) a rispettare i diritti umani e gli standard ambientali, dove però questi "obblighi di diligenza" presentano molte lacune e scappatoie - soprattutto per quanto riguarda la biodiversità e la protezione del clima. Tuttavia, in caso di non conformità, l'Ufficio Federale per l'Economia e il Controllo delle Esportazioni può imporre delle multe a quelle società che generano ricavi miliardari. Le violazioni che prevedono una multa di almeno 175.000 euro possono arrivare addirittura a comportare l'esclusione dagli appalti pubblici. La scorsa settimana Lindner ha dichiarato a T-Online di voler rendere la legge tedesca sulla catena di fornitura ancora più flessibile.

- Tomasz Konicz -Pubblicato il 15/2/2024 su Jungle.World -

domenica 24 settembre 2023

Le profezie realizzate !!

Grossi guai nell'Eurozona
- L'inflazione si evita solo al prezzo di una deflazione radicale -
di Robert Kurz

I vari Paesi dell’Europa, si trovano sempre più invischiati nelle contraddizioni della politica monetaria. Solo con l'aiuto di un deficit di bilancio senza precedenti, è stato reso possibile inizialmente assorbire  la crisi economica globale, senza che però si intraveda una ripresa autosufficiente. Ora il postulato di una politica statale di austerità, e di una riduzione del debito, minaccia di soffocare nuovamente una fragile economia. Il consiglio di amministrazione del FMI sta flirtando con la "inflazione controllata"; vista come l’unico modo per rimandare ulteriormente quello che appare come un problema ingestibile. Non è certo una coincidenza, il fatto che l'eurozona si sia spostata, e ora si trovi al centro della crisi della politica monetaria. La costruzione dell'unione monetaria ha consegnato, ai vecchi Stati sovrani - con diversi livelli di produttività e con una forza patrimoniale diseguale - una banca centrale comune, la quale era stata invece progettata proprio per esternalizzare questa contraddizione interna attraverso un'economia in deficit, globalizzata. Via via che il suo potere si indebolisce, il possibile default sovrano dei Paesi dell'euro a capitale debole, è diventato un dispositivo esplosivo innescato nell'unione monetaria. Dopo tutte le garanzie e i sussidi per il sistema bancario in difficoltà, insieme ai programmi di stimolo economico in deficit, l'UE ha ora lanciato un terzo pacchetto di salvataggio, ancora più grande, per le finanze statali dei candidati al fallimento. Che in questa situazione l'Estonia venga ammessa nella comunità dell'euro, e che venga lodata per aver soddisfatto dei criteri di stabilità che ormai non esistono nemmeno più, è una barzelletta. La Banca Centrale Europea (BCE) ha già cominciato ad acquistare titoli di Stato senza valore.

Tuttavia, il problema non è la dimensione nominale dei deficit di quelli che sono i presunti "peccatori", quanto piuttosto il fatto che manchi loro qualsiasi forza patrimoniale. Il deficit nominale, misurato in termini di PIL nazionale, ad esempio, è più alto nella Repubblica Federale Tedesca di quanto non lo sia, ad esempio, in Spagna. Ma finora la RFT, grazie alle sue immense eccedenze di esportazioni, soprattutto nell'eurozona, è stata sempre in grado di tenere la testa fuori dall'acqua. È dal 2009, che gli altri Stati dell'UE fanno pressione per ridurre tale "squilibrio". Del resto, si è detto che la Germania non dovrebbe essere punita per la sua forza di esportazione, ma sono gli altri che dovrebbero creare condizioni simili anche per loro stessi. Tuttavia, queste condizioni consistono nel fatto che la RFT ha il più grande settore a basso salario dell'Europa occidentale, e che lo combina con la sua forza di capitale. Inoltre, le eccedenze di esportazione che ne derivano possono essere finanziate solo grazie ai disavanzi di quelli che, dal punto di vista del capitale, sono i paesi più deboli.

E così, ora il gatto si morde la coda. Il ciclo del deficit intraeuropeo si è interrotto, mettendo così a nudo le contraddizioni dell'unione monetaria. L'inarrestabile e incontrollato eccesso di denaro proveniente dalla BCE, e il completo abbandono dei criteri di Maastricht non porteranno all'inflazione dell'euro solo se, in cambio, i bilanci nazionali verranno tagliati radicalmente. Attualmente, la classe politica e i media tedeschi si stanno abbandonando allo sciovinismo nazionale nei confronti dei "peccatori". Mentre, al contrario, la sinistra si scaglia contro il "diktat" della RFT nell'eurozona e contro l'erosione delle sovranità nazionali. Questo discorso ideologico, non vuole riconoscere che esiste un'interdipendenza. Le politiche di austerità estrema, introdotte per salvare l'euro, porteranno inevitabilmente a uno shock deflazionistico. Nel momento in cui il potere d'acquisto indotto dallo Stato si esaurirà, a sommergere l'eurozona, non sarà solo la svalutazione generale del lavoro, ma anche quella del capitale fisico e delle materie prime. Ciò dimostra che la presunta forza di esportazione autonoma della RFT nell'UE ha i piedi d'argilla. Il salvataggio dell'euro e del sistema bancario, dipendenti già in larga misura dagli stimoli dello Stato, il quale ora poggia anche su titoli di Stato in difficoltà, è possibile solo al prezzo di una depressione nei Paesi dell'euro a capitale debole. La Grecia ha già tracciato la strada da seguire; Spagna, Portogallo e altri paesi seguiranno. Il risultato non può essere altro che quella di un'esplosione della disoccupazione di massa nella RFT, che poi, a sua volta, si ripercuoterà sul resto dell'UE.

Una politica di austerità, fatta con le buone o con le cattive, in quei Paesi dell'euro che hanno saldi commerciali negativi, e che equivale a un crollo dell'economia tedesca di esportazione, minaccia di mettere il bilancio della RFT, già da tempo sovraccarico, nella stessa posizione dei peccatori del deficit, contro i quali si punta il dito. Allora, a quel punto, la forza del capitale si trasformerà in debolezza del capitale. E quando le conseguenze deflazionistiche dei dettami dell'austerità diventeranno evidenti, ecco che allora ci sarà una nuova inversione di rotta che potrebbe portare a una combinazione caotica di tendenze deflazionistiche e inflazionistiche (stagflazione). Il governo Merkel non è in grado di imporre il proprio interesse personale all'UE, ma è indeciso tra la scelta della peste o del colera.

A fortiori, l'orologio non può essere rimesso indietro, riportandoci così in uno spazio economico e monetario nazionale; come vorrebbe quello che è il belante sciovinismo del Marco, il quale si è sempre basato su un orientamento unilaterale alle esportazioni. Ripiegata sulla propria economia interna, la gloria della Germania ora farebbe bene ad abbandonare del tutto quel fantasma. Così, le contraddizioni interne all'Unione monetaria europea diverrebbero il catalizzatore della seconda ondata della crisi.

- Robert Kurz - pubblicato sul settimane tedesco Freitag, il 20/5/2012

mercoledì 7 giugno 2023

«Pacchetti Globali»

La crisi del debito sta diventando multipolare
- In America Latina, Africa e Asia sempre più paesi sono sovra-indebitati, o addirittura in bancarotta. Anche la Cina, in quanto creditore, viene colpita da questa crisi e per proteggere le proprie banche dal rischio di insolvenza, deve concedere prestiti d'emergenza -
di Tomasz Konicz

Negli Stati Uniti, il rialzo dei tassi d'interesse attuato dalle banche centrali occidentali, per mezzo del quale cercano di combattere il persistere dell'inflazione (negli Stati Uniti il tasso d'interesse di riferimento è ora tra il 5 e il 5,25%, e nell'eurozona è del 3,75%), ha già causato il collasso di tre banche regionali, nel mentre che sta frenando la crescita economica su entrambe le sponde dell'Atlantico. Ma simili turbolenze non sono nulla, a confronto degli sconvolgimenti che molti Paesi economicamente più deboli stanno affrontando. A partire dal fatto che sta diventando sempre più costoso prendere in prestito nuovo denaro, questi Paesi hanno sempre più difficoltà a rimborsare i loro debiti esteri, i quali nella loro maggioranza vengono espressi in dollari USA. Specialmente in Africa, Asia, America Latina e Medio Oriente, ci sono sempre più paesi che si trovano presi in quella che appare essere come una classica trappola del debito, nella quale stagnazione economica, recessione e aumento dei costi del prestito interagiscono in maniera mortale. Tale situazione è stata già paragonata al "Volcker Shock" del 1979, allorché l'allora presidente della Federal Reserve Paul Volcker aveva alzato, per un certo periodo, i tassi di interesse di riferimento negli Stati Uniti, aumentandoli di oltre il 20%, al fine di cercare di combattere anni e anni di stagflazione, innescando in tal modo una crisi del debito soprattutto nei Paesi sudamericani e africani. A metà aprile 2023, il Financial Times, citando uno studio della ONG Debt Justice, ha segnalato che quest'anno il servizio del debito estero del gruppo di quelli che sono i 91 Paesi tra i più poveri del mondo, consumerà in media circa il 16% delle loro entrate pubbliche, arrivando l'anno prossimo a un aumento previsto fino al 17%. L'ultima volta che si è raggiunta una cifra così alta, è stato nel 1998. Oggi, il più colpito è lo Sri Lanka, il cui servizio del debito quest'anno equivale a circa il 75% delle entrate previste, motivo per cui il Financial Times prevede che quest'anno la nazione insulare «non riuscirà a pagare». Anche lo Zambia - che lo scorso anno, come lo Sri Lanka, aveva già dovuto affrontare una bancarotta nazionale - si trova ora a essere seriamente minacciato. La situazione è altrettanto grave in Pakistan, dove quest'anno il 47% delle entrate statali dovrà essere utilizzato per poter rimborsare i prestiti esteri. Per le popolazioni di questi e di molti altri Paesi, le conseguenze sono già drammatiche: i governi non riescono più a pagare gli stipendi, o a finanziare l'importazione di fonti energetiche e alimentari, ad esempio, mentre il declino del valore delle loro valute sta ora esacerbando ulteriormente l'inflazione, la povertà e la fame. Ma a essere minacciati non sono solo i Paesi più poveri. In Argentina, ad esempio, dove la banca centrale, per finanziare il deficit di bilancio, sta stampando moneta, l'inflazione è attualmente del 109%, e minaccia di trasformarsi in una distruttiva iperinflazione. Come molti altri Paesi in crisi, l'Argentina ha portato a termine con il Fondo Monetario Internazionale (FMI), un programma di emergenza che prevede prestiti per 44 miliardi di dollari in cambio di misure di austerità. A metà maggio, il Presidente argentino Alberto Fernández - a causa del calo dei raccolti di grano (il più importante prodotto di esportazione) dovuto alla siccità) ha chiesto di rinegoziare il programma con il FMI. La vicepresidente Cristina Fernández de Kirchner ha addirittura definito l'accordo «scandaloso», e una «frode».

La Cina, che negli ultimi anni è diventata uno dei maggiori creditori del mondo, da parte sua, svolge un ruolo particolare nell'attuale crisi del debito. In tal senso, fino alla fine del 2021, nell'ambito del programma di sviluppo globale dell'Iniziativa "Una strada, un percorso" - nota anche come "Nuova via della seta" -  sono stati effettuati prestiti e transazioni per un totale di almeno 838 miliardi di dollari americani, volti soprattutto a finanziare infrastrutture e altri grandi progetti in Africa, Asia e America Latina. La maggior parte dei prestiti è stata erogata da banche cinesi. Facendo questo, la Cina intendeva gettare le basi per una futura egemonia economica. Ma ora - in seguito alla pandemia di Covid-19 e all'invasione dell'Ucraina da parte della Russia, e dopo l'aumento dell'inflazione globale e il conseguente rallentamento della crescita della Cina stessa - le banche cinesi sono sempre più riluttanti a concedere prestiti ai Paesi più poveri. Secondo uno studio del Rhodium Group, nel 2021 circa il 16% dei 118 miliardi di dollari dei prestiti esteri della Cina erano già a rischio di insolvenza, e avrebbero dovuto essere rinegoziati. Solo un anno dopo - secondo uno studio dell'Istituto per l'Economia Mondiale (IfW) di Kiel - la crisi del debito estero cinese si è notevolmente allargata. Secondo tale studio, il 60% dei prestiti, già nel 2022 si trovava  a rischio di insolvenza, ragion per cui Pechino ha dovuto concedere 128 prestiti di emergenza a 22 Paesi debitori, per un valore di 240 miliardi di dollari. Nella maggior parte dei casi, i Paesi debitori beneficiano solo di un differimento, grazie all'emissione di nuovi prestiti che servono per rimborsare i pagamenti già dovuti; il che consente una «proroga delle scadenze o dei termini di pagamento». La cancellazione del debito, secondo l'IfW, «avviene solo assai raramente». La maggior parte di questi prestiti di rifinanziamento sono stati erogati dalla banca centrale cinese, che in questo modo, di fatto, salva le banche cinesi che hanno originariamente concesso i prestiti. Gli autori dello studio dell'IfW paragonano quindi le attuali azioni della Cina alla concessione di quelli che sono stati i cosiddetti prestiti di emergenza alla Grecia e ad altri Paesi dell'Europa meridionale durante la crisi dell'euro; anch'essi finalizzati a salvare le banche che rischiavano il default. Sempre secondo l'IfW, i prestiti per la crisi e i prestiti ponte sono tutti destinati principalmente a quei «Paesi a medio reddito», e rappresentano l'80% del volume di tutti prestiti esteri della Cina, ragion per cui rappresentano dei «grossi rischi per i bilanci delle banche cinesi».

I Paesi a basso reddito, invece, non hanno ricevuto quasi nessun prestito anticrisi, dal momento che il fallimento di questi Stati difficilmente potrebbero mettere in pericolo il settore bancario cinese. Inoltre, il tasso di interesse sui prestiti anticrisi cinesi, è in media del cinque per cento, mentre per il FMI è comune un tasso del due per cento. Tra i Paesi debitori che hanno beneficiato di prestiti anticrisi, figurano paesi come lo Sri Lanka, il Pakistan, l'Argentina, l'Egitto, la Turchia e il Venezuela. L'IfW ha anche osservato come, per gran parte di questi prestiti di salvataggio, le modalità e le dimensioni dei programmi di prestito non sono consultabili pubblicamente. Questa situazione rende «l'architettura finanziaria internazionale più multipolare, meno istituzionalizzata e meno trasparente». Una tale mancanza di trasparenza, riguarda anche tutti i prestiti precedentemente concessi dalle banche cinesi. In un recente rapporto dettagliato, sulla crisi del debito, l'agenzia di stampa Associated Press (AP) ha citato i risultati di uno studio del gruppo di ricerca Aid Data, nel quale si rileva che, in 88 paesi, solo fino al 2021, per almeno 385 miliardi di dollari, vengono registrati prestiti cinesi «nascosti o non sufficientemente documentati». Molti dei Paesi più poveri dell'Africa o dell'Asia, all'apice della bolla di liquidità globale, tra il 2010 e il 2020, hanno avuto prontamente accesso al denaro cinese, in modo da finanziare così infrastrutture e progetti di prestigio, i quali oggi,  nell'attuale fase di crisi, si stanno sempre più trasformando in relitti di investimenti. Per questi Paesi, la segretezza rappresenta ora un problema serio, perché in caso di inadempienza, i creditori internazionali del Paese colpito devono accordarsi su chi dovrà differire i prestiti, o rinunciare ai rimborsi, e in che misura. Tuttavia, i creditori occidentali, e le istituzioni come il FMI o la Banca Mondiale, in molti casi stanno attualmente rifiutando i programmi di emergenza, perché le modalità dei programmi di prestito cinesi non sono chiare, e non riescono a raggiungere un accordo con la Cina. Alcuni Stati poveri si trovano quindi in una «situazione di limbo», scrive AP, e questo perché la Cina non è disposta ad accettare perdite, mentre il FMI si rifiuta di concedere prestiti a basso tasso di interesse se con essi poi verrebbero pagati solo i debiti cinesi. I negoziati con i creditori vengono ulteriormente appesantiti a causa dell'intensificarsi della competizione politica globale tra i Paesi occidentali e la Cina. La crescente frammentazione dell'economia mondiale rende ancora «più difficile risolvere le crisi del debito sovrano, soprattutto quando esistono delle divisioni geopolitiche tra i principali creditori sovrani»; ha avvertito a gennaio il direttore generale del FMI Kristalina Georgieva.

I Paesi occidentali, da parte loro, sperano di utilizzare la crisi del debito estero cinese in modo da far retrocedere così l'influenza che la Cina ha costruito attraverso i suoi prestiti in molte regioni del mondo. La presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, a maggio ha dichiarato che esiste ora una «finestra di opportunità» per i Paesi del G7 e i loro partner, dopo che «molti Paesi del Sud globale hanno avuto delle brutte esperienze con la Cina», trovandosi ora in «crisi di debito», mentre la Russia invece ha da offrire solo «mercenari e armi». Se agisse rapidamente, l''Occidente potrebbe stabilire con questi Paesi delle partnership che sarebbero reciprocamente vantaggiose. Imprese e banche potrebbero venire coinvolte nell'elaborazione di «pacchetti globali» che trasferirebbero anche parti delle catene di produzione verso i Paesi in via di sviluppo. L'UE vuole promuovere «non solo l'estrazione di materie prime, ma anche la loro lavorazione e raffinazione locale». Von der Leyen sta pertanto speculando su un brutto ricordo dei suoi potenziali "partner" del Sud globale, i quali, a partire dagli anni Settanta, hanno già avuto esperienze dolorose con i programmi di credito occidentali.

- Tomasz Konicz - Pubblicato originariamente in JUNGLE WORLD 22/2023, 01.06.2023 -

domenica 29 gennaio 2023

«Volontà di Confrontarsi» !!??!!

La mancata occasione di Kiev?
- di Tomasz Konicz -

Per l'Ucraina, nella guerra si profila un nuovo punto di svolta: un'ulteriore escalation dalle conseguenze incalcolabili. A posteriori, la riconquista, da parte dell'esercito ucraino nel novembre 2022, della città meridionale di Kherson verrà probabilmente identificata come quel momento, irrimediabilmente perduto, durante il quale prevalevano le condizioni ottimali per avviare dei seri colloqui di pace [*1]. Dopo l'umiliante sconfitta subita, il morale delle forze d'invasione [russe] era ai minimi termini , mentre i segnali, provenienti in tal senso dal Cremlino erano al culmine, e a dicembre si era potuta vedere un'offerta ufficiale di negoziati da parte di Putin [*2]. All'epoca, Kiev rifiutò un potenziale accordo con il Cremlino. Nel frattempo, una legge ora vieta al presidente ucraino, finché Putin è in carica, di partecipare ai negoziati con Mosca.

Il trionfo di Kherson, era stato preceduto dalla riuscita offensiva lampo nell'oblast' di Kharkov [*3], dove le forze russe erano letteralmente crollate, e in pochi giorni erano stati riconquistati vasti territori dalle forze ucraine. La vittoria ucraina nell'oblast' di Kharkov aveva segnato un punto di svolta nella guerra. A questo punto, l'iniziativa strategica era passata all'Ucraina, e Kiev determinava così il corso della guerra, nel momento in cui la Russia era militarmente sulla difensiva e poteva solo reagire. Ma la riconquista di Kherson era stata laboriosa, prolungata, e l'esercito ucraino aveva dovuto pagare il prezzo di altissime perdite di uomini e materiali; ed era stato reso possibile solo in seguito al taglio delle linee di rifornimento russe realizzato con la distruzione dei ponti sul Dnieper da parte dell'artiglieria [*4].
Ora, a poco più di due mesi dalla ritirata russa da Kherson, è l'esercito ucraino a doversi ritirare, subendo pesanti perdite nell'insediamento minerario di Soledar, a nord della città di Bachmut, che è stato conteso per mesi [*5]. Le truppe mercenarie dell'oligarca del Cremlino Yevgeny Prigozhin, erano riuscite ad accerchiare le formazioni ucraine e a conquistare la cittadina. Queste truppe, dopo aver rifiutato di arrendersi, sono state completamente annientate. I canali Telegram russi sono pieni di video di centinaia di soldati ucraini uccisi a Soledar. Nella battaglia, entrambe le parti hanno perso migliaia di soldati e grandi quantità di materiale. Da tempo, la guerra è diventata una guerra di logoramento, con il Cremlino che si aspetta che «l'Ucraina esaurisca per prima le risorse», come ha dichiarato un insider al Financial Times [*6].
È la stessa logica di Verdun, che consiste nel «dissanguare» il nemico [cioè, tagliare i rifornimenti] quella che viene applicata ora in questa fase della guerra. Nel 1916, il capo di Stato Maggiore Erich von Falkenhayn volle letteralmente spogliare l'esercito francese del suo «materiale umano» - in quella battaglia di logoramento che si svolse allora intorno al luogo diventato simbolo - che doveva essere letteralmente fatto a pezzi in un processo industriale di annientamento. Ora, sul fronte di Bachmut, che da tempo è diventato un simbolo della guerra nell'Ucraina orientale, la situazione è simile. Per anni, l'Ucraina è stata in grado di costruire una solida linea di difesa statica nel Donbass - fin dalla guerra civile del 2014 - la quale ora è stata violata a Soledar. Tuttavia, una volta che una tale linea di difesa, statica e fortificata, è stata parzialmente violata, bisogna che nel medio termine venga abbandonata nel suo complesso, e deve essere costruita una nuova linea di difesa, altrimenti l'intero fronte può essere «schiacciato» da attacchi laterali. Una nuova linea di difesa è già in costruzione vicino a Kramatorsk/Slovyansk.

Ecco perché l'esercito ucraino sta cercando disperatamente di impedire, con ogni mezzo, lo sfondamento russo a Soledar; il che rende il ritiro da Bachmut una mera questione di tempo. Entrambe le parti stanno privilegiando l'uso di materiale bellico umano. Nuove unità, devono essere lanciate incessantemente nella battaglia in modo da colmare il divario del fronte, o per ampliare lo sfondamento, mentre l'altra parte le fa a pezzi usando il tracciamento assistito da droni unitamente ai colpi di artiglieria. In questa guerra, la maggior parte dei morti sono delle vittime di proiettili di artiglieria, che muoiono senza aver mai visto un nemico in un combattimento ravvicinato. Senza esagerare, si può già affermare che questa guerra farà centinaia di migliaia di vittime. I cimiteri ucraini, in rapida espansione, assomigliano attualmente a un mare di bandiere, dove devono essere scavate continuamente nuove tombe per i caduti [*7]. Entrambe le parti hanno già perso migliaia di soldati nella sola battaglia di Soledar, ma  dopo i disastri e le catastrofi degli ultimi mesi, il Cremlino è apparentemente riuscito a stabilizzare la sua macchina militare. Per quanto l'apparato militare, lento e corrotto, commetta ancora a volte gravi errori, che costano la vita a centinaia di riservisti arruolati [*8], la situazione delle forniture delle unità dell'esercito russo si è almeno alleggerita. Le carenze catastrofiche che avevano caratterizzato i primi mesi della guerra, sono state ora chiaramente alleviate da un miglioramento della logistica russa. L'idea secondo cui gli attacchi terroristici russi alle infrastrutture civili ucraine, sarebbero stati interrotti a causa di una carenza di missili, è stata smentita dall'ultima ondata di attacchi di metà gennaio, in cui sono stati colpiti decine di obiettivi [*9]. I danni più gravi alle infrastrutture ucraine vengono ora inflitti dagli attacchi invernali alle forniture energetiche, poiché le prolungate interruzioni di corrente durante i periodi di gelo distruggono i sistemi idrici e fognari a causa della rottura delle tubature. In questo processo possono verificarsi danni per miliardi di dollari. Inoltre, il Cremlino sta organizzando l'economia russa in vista di una lunga guerra, mentre gli sforzi di riorganizzazione dell'amministrazione e delle infrastrutture militari dovrebbero consentire un tasso di mobilitazione sempre più alto in termini di personale militare. Il Cremlino pensa già alla guerra in termini di anni: il numero del personale militare russo, entro il 2026 dovrebbe passare da un milione a 1,5 milioni [*10]. In un simile contesto, l'Istituto per lo studio della guerra (ISW) parla di passi organizzativi che permetteranno alla Russia di combattere una «grande guerra convenzionale» [*11]. Secondo l'ISW, nei prossimi sei mesi si prevede un'«azione strategica decisiva» da parte dell'esercito russo, in modo ribaltare le sorti della guerra.

La parziale mobilitazione russa di 300.000 riservisti è stata ormai quasi portata a termine, nonostante tutti gli attriti e le difficoltà. Ciò significa che la leadership militare russa può ora discutere circa quali possono essere le varie opzioni per un'offensiva russa. Nel frattempo, le concentrazioni di truppe russe in Bielorussia stanno costringendo l'Ucraina a dispiegare urgentemente nel nord-ovest, per proteggere il confine, delle unità dell'esercito che invece sarebbero necessarie nell'est. La Russia ha recentemente dichiarato che un «attacco ucraino» contro la Russia o la Bielorussia potrebbe portare a una risposta militare collettiva da parte di entrambi i Paesi; si tratta di un'opzione deliberatamente vaga che serve a descrivere l'entrata in guerra della Bielorussia [*12]. Altri scenari considerano probabile un attacco russo proveniente da sud, che avverrebbe a est del fiume Dnieper, verso Zaporizhzhya e Pavlograd, oppure da nord, dalla regione russa di Belogrod, in modo da pugnalare alle spalle il fronte ucraino negli oblast di Kharkov e Luhansk. La Russia ha un potenziale militare ed economico che è di gran lunga superiore a quello dell'Ucraina, e sono stati solo la megalomania, il clientelismo e la corruzione dilagante dell'oligarchia statale di Putin ad aver causato i disastri russi nel primo anno di guerra. Ma nel frattempo, gli sforzi del Cremlino volti a mobilitare queste risorse superiori, sembrano aver avuto un successo quanto meno parziale. In parole povere, nel medio termine il Cremlino vincerà la guerra, se l'Occidente non sarà disposto a compiere un ulteriore passo di escalation: quello di fornire in modo massiccio equipaggiamenti bellici pesanti come carri armati, elicotteri d'attacco e aerei da combattimento. È per questo che nell'opinione pubblica occidentale sta prendendo piede la discussione in merito a questo [*13]. Ciò costituisce un'ammissione implicita del fatto che l'equilibrio della guerra rischia di pendere a favore della Russia. L'esercito ucraino, così come quello russo, ha subito gravi perdite di uomini e risorse materiali, con poche possibilità di sostituirli. Per Kiev, dal punto di vista militare, ha senso chiedere all'Occidente carri armati tedeschi e veicoli blindati statunitensi in modo da tornare a una guerra di movimento. Se non si vuole che la marea della guerra inverta direzione, allora l'Occidente deve davvero incrementare notevolmente le forniture di armi. La consegna di carri armati britannici a Kiev, è solo una prova generale [*14] per convincere Berlino ad accettare di consegnare i Leopard. Sono stati esportati solo pochi esemplari dello Challenger 2 britannico, e per questo carro armato non esiste alcuna infrastruttura militare, mentre il Leopard 2 è stato talmente un successo di esportazione che ora molti Paesi potrebbero fornire all'Ucraina; insieme a pezzi di ricambio, munizioni e materiale di manutenzione [*15]. Le reazioni alla potenziale consegna di carri armati tedeschi, dei deputati russi della Duma che hanno fatto appello alla mobilitazione generale nel caso di una simile eventualità, hanno reso evidente dove potrebbe portare questa escalation [*16]. La cruda verità, è che non esiste alcuna "buona" uscita da questa guerra imperialista [*17].

O verrà fatto uno sporco accordo geopolitico tra l'Occidente e il Cremlino - in cui parti dell'Ucraina orientale verranno de facto incorporate nell'impero russo, mentre il resto del Paese verrà aggiunto alla sfera d'influenza occidentale - oppure la spirale dell'escalation continuerà e il conflitto si intensificherà fino a quando la guerra non andrà completamente fuori controllo. In vista dell'imminente perdita della Crimea, l'opzione nucleare diventerà più concreta. E dal momento che la Russia, in ultima analisi, ha il coltello dalla parte del manico in questa spirale di escalation convenzionale nei confronti della Nato, la perdita di controllo potrebbe perciò assumere la forma di uno scambio di colpi nucleari. Ma l'Armageddon nucleare può avvenire anche in interazione con una maggiore erosione dello Stato. Le crepe nella struttura del potere statale, sono chiaramente visibili, soprattutto nella Russia autoritaria. La guerra ha messo a nudo proprio la disgregazione e l'erosione interna dello Stato russo. Questo processo di erosione sta già attanagliando il suo nucleo militare. In generale, le strutture statali autoritarie non sono un segno di forza, ma di debolezza socio-economica, che può essere coperta solo per un certo periodo di tempo con mezzi dittatoriali e coercitivi. Il fallimento dell'esercito russo, caratterizzato dalla sua corruzione, contrasta con il successo degli attori militari post-statali: la forza mercenaria della Wagner, la quale gravita attorno al favorito del Cremlino Prigozhin, il quale ora è in aperta competizione con la leadership dell'esercito; oppure le truppe del sovrano ceceno Kadyrov. Quest'ultimo ha di fatto istituito nel Caucaso un principato post-moderno, che è solo formalmente sotto il controllo di Mosca, e questo finché Kadyrov svolge il suo servizio di vassallo militare per il Cremlino. In Russia, il formarsi di strutture di potere parallele che smentiscono l'apparenza di un monopolio statale dell'uso della forza, con il proseguire della guerra è destinata a progredire. È inoltre fondamentalmente sbagliato pensare a Putin come a un autocrate onnipotente, visto che egli svolge piuttosto un ruolo di mediazione tra i vari racket e i diversi clan dell'oligarchia statale russa [*18].

Ma con ogni probabilità, forze centrifughe simili sono all'opera anche nell'apparato statale ucraino, il quale anche prima dello scoppio della guerra era già un mero trastullo di interessi oligarchici [*19]. Uno spaccato di quelle che sono le lotte di potere a Kiev, è stato fornito dal licenziamento del consigliere presidenziale ucraino Oleksiy Arestovych, ufficialmente costretto a dimettersi a causa dei suoi commenti sul mortale attacco missilistico russo a Dnipro [*20]. Inizialmente, Arestovych aveva dichiarato che il missile russo che ha distrutto un grattacielo a Dnipro, e ucciso decine di civili, era stato abbattuto dalle difese aeree ucraine. In precedenza, in un'intervista, Arestovych aveva criticato la politica identitaria dell'Ucraina in tempo di guerra. Secondo l'intervista, la destra ucraina sta conducendo una campagna nazionalista per sopprimere l'identità russa e "post-sovietica" nell'Ucraina orientale, cosa che sta allontanando molti ucraini di lingua russa dal governo di Kiev (l'intervista è condivisa principalmente dagli account filorussi [*21]). I gruppi estremisti di destra, che stanno guadagnando sempre più influenza, e che talvolta entrano ufficialmente anche a far parte delle forze armate [*22], probabilmente finiranno per essere  il più grande fattore di instabilità ucraina nel corso futuro della guerra. Le possibilità che ha l'Ucraina di ottenere ancora dei risultati decisivi sul terreno della guerra contro la Russia sono - se non si oltrepassa la soglia di una grande guerra tra Est e Ovest - estremamente ridotte, mentre a ogni passo di escalation le cifre delle vittime di questa guerra imperialista aumenteranno sempre di più. Questo aumento delle vittime, è visibile sia in termini di vite umane che in termini di devastazione delle infrastrutture in generale delle città ucraine orientali. Queste città sono state sviluppate in quanto punti centrali di difesa dall'esercito ucraino, che qui e ora ha una particolare esperienza nella guerra urbana. Inoltre, va detto che la guerra non porta solo alla devastazione di intere regioni dell'est, ma accelera anche i processi di erosione statale e sociale. E questi processi sono spinti dalla crisi generale, la quale a sua volta interagisce con delle forze centrifughe anomiche e con le formazioni autoritarie [*23].

Rimane comunque da chiedersi, se anche uno sporco accordo imperialista, in cui l'Ucraina verrebbe di fatto divisa tra Occidente e Oriente, sia ancora un'opzione realistica. Putin, nel momento in cui ha messo ai voti i referendum fasulli sull'adesione di quattro regioni amministrative ucraine alla Federazione Russa, si è posto un obiettivo ufficiale minimo per il suo accaparramento imperialista di terre. Tuttavia, il Donbass, Kherson e Zaporizhzhya sono solo parzialmente sotto il controllo russo. Senza il Donbass e Kherson, il Cremlino difficilmente potrebbe vendere come una vittoria il corso disastroso della guerra; guerra che divora grandi quantità di risorse, materiali e denaro, ed è associata a perdite assai elevate. A Kiev, invece, qualsiasi tentativo di negoziazione seria con il Cremlino rischia di incontrare la resistenza dell'estrema destra, armata fino ai denti [*24]. Anche l'Occidente è diviso sulla questione: gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e i vicini orientali della Russia - soprattutto la Polonia - vogliono continuare la guerra, mentre Germania e Francia sarebbero disposte a scendere a patti con Mosca [*25].

La crisi socio-ecologica del capitale, l'intreccio tra i limiti interni ed esterni dell'accumulazione del capitale, la crisi di sovrapproduzione prolungata dalla creazione del debito, così come la crisi climatica e delle risorse, stanno sempre più alimentando nei Mostri Statali una  geopolitica e imperialista «Volontà di Confrontarsi». Le risorse, il fertile suolo di terra nera dell'Ucraina, con l'intensificarsi della crisi ecologica diventeranno sempre più importanti. Il Cremlino, a sua volta, sta anche combattendo, letteralmente, per l'esistenza del suo impero in via di erosione, sconvolto dalle tensioni sociali [*26], mentre i sovra-indebitati Stati Uniti devono contro-affermare il loro dollaro come valuta di riserva mondiale, insieme alla loro posizione egemone. Questa guerra, che sta prendendo sempre più piede, tra l'Oceania (il sistema di alleanze, di Washington, tra Oceano Atlantico e Pacifico) e l'Eurasia (Cina, e Russia), attualmente è in corso solo nell'Europa orientale, ma in futuro potrebbe emergere un secondo fronte anche nel Sud-est asiatico, a Taiwan.

- Tomasz Konicz  - Pubblicato il 23/1/2023 su ZNetwork -

NOTE:

1 https://www.tagesspiegel.de/politik/ukraine-offensive-tag-261-kiews-strategische-glanzleistung-in-cherson-8866336.html

2 https://www.voanews.com/a/putin-says-russia-ready-to-negotiate-over-ukraine-/6890944.html

3 https://www.konicz.info/2022/09/09/wendepunkt-in-der-ukraine/

4 https://www.nytimes.com/2022/09/24/world/europe/ukraine-south-kherson-russia.html

5 https://www.zdf.de/nachrichten/politik/bachmut-soledar-ukraine-krieg-russland-100.html

6 https://www.ft.com/content/d759e24b-dd48-4adc-a0ae-7e53b89e5231

7 https://www.youtube.com/watch?v=1c9dtEeb6EY

8 https://www.bbc.com/news/world-europe-64142650

9 https://www.aljazeera.com/news/liveblog/2023/1/14/russia-ukraine-live-russian-missiles-hits-infrastructure-in-kyiv

10 https://kyivindependent.com/news-feed/russian-defense-ministry-confirms-plan-to-expand-army-to-1-5-million-troops

11 https://www.understandingwar.org/backgrounder/russian-offensive-campaign-assessment-january-15-2023

12 https://www.thedailybeast.com/russia-sets-ultimatum-for-top-ally-belarus-to-formally-join-vladimir-putins-war-in-ukraine?ref=scroll

13 https://www.thedailybeast.com/why-russia-is-terrified-of-americas-patriot-missiles-delivery-to-ukraine

14 https://www.zdf.de/nachrichten/politik/challenger-grossbritannien-ukraine-krieg-russland-100.html

15 https://www.handelsblatt.com/politik/deutschland/ukraine-krieg-deutschland-bereitet-sich-auf-leopard-lieferung-fuer-ukraine-vor/28924168.html

16 https://twitter.com/WarMonitors/status/1614999689304363009

17 https://www.konicz.info/2022/06/23/was-ist-krisenimperialismus/

18 https://www.konicz.info/2022/05/25/rackets-und-rockets/

19 https://www.konicz.info/2022/06/20/zerrissen-zwischen-ost-und-west/

20 https://www.bbc.com/news/world-europe-64304310

21 https://twitter.com/e_l_g_c_a/status/1615138445051195392

22 https://twitter.com/militarylandnet/status/1526132364702887936

23 https://www.konicz.info/2022/05/24/eine-neue-krisenqualitaet/

24 https://twitter.com/militarylandnet/status/1526132364702887936

25 https://www.welt.de/politik/ausland/plus243059565/Ukraine-Krieg-Der-Riss-in-der-Nato-zeigt-sich-an-Deutschland-und-Polen.html

26 https://www.konicz.info/2022/01/18/neoimperialistisches-great-game-in-der-krise/

giovedì 22 settembre 2022

Il debito e le eccedenze commerciali ...

Basta con le eccedenze commerciali
- di Tomasz Konicz -

Per la prima volta in oltre 30 anni, la Germania ha registrato una bilancia commerciale negativa. Il modello economico tedesco, fissato sulle esportazioni, sta entrando in crisi.

Il "campione mondiale delle esportazioni" ormai è una storia del passato: a maggio, per la prima volta dal 1991, la bilancia commerciale tedesca ha registrato un deficit, sebbene ancora di poco inferiore a un miliardo di euro. L'industria tedesca, che era stata viziata dal successo, e che dagli anni '90 era stata responsabile di avanzi commerciali (quasi sempre consistenti), ora a quanto pare si trova di fronte a dei grossi problemi. I fattori decisivi sono due: il rapido aumento dei prezzi delle fonti energetiche e delle materie prime, e la continua perturbazione delle catene di approvvigionamento globali, a causa della quale le aziende tedesche mancano di componenti per la produzione, e i prezzi delle importazioni aumentano. Di conseguenza, rispetto all'anno precedente, il costo delle importazioni è salito del 27,8%, raggiungendo i 126,7 miliardi di euro, mentre le esportazioni sono aumentate solo dell'11,7%, raggiungendo i 125,8 miliardi di euro. Rispetto al mese di aprile, la nuova tendenza appare ancora più chiaramente: il valore delle esportazioni tedesche è aumentato solo dello 0,5%, mentre le importazioni sono aumentate del 2,7%.
Sembra che i rappresentanti delle aziende tedesche si stiano preparando al fatto che l'era degli elevati surplus commerciali tedeschi - già scesi da 224 a 173 miliardi di euro all'anno tra il 2019 e il 2021 a causa della pandemia - rischia di finire. Volker Treier, responsabile del commercio estero dell'Associazione delle Camere dell'Industria e del Commercio tedesche (DIHK), all'inizio di luglio ha parlato di una «flessione delle esportazioni» a lungo termine. E la fine degli aumenti dei prezzi, così come quella dei problemi della catena di approvvigionamento, non si riesce ancora a vedere. La Federazione tedesca del commercio all'ingrosso, del commercio estero e dei servizi (BGA) ha commentato dicendo che le «conseguenze della guerra di aggressione russa, e le interruzioni alle catene di fornitura internazionali» lasceranno nella bilancia commerciale tedesca «tracce assai più grandi», soprattutto se si dovesse verificare «un'interruzione nelle forniture di gas dalla Russia». Ci sono stati dei quotidiani, come il Tagesspiegel, che a causa del deficit commerciale, che mette in pericolo il «modello tedesco di prosperità», hanno visto in tutto questo un'«epocale inversione di tendenza». I giornalisti economici del Die Welt sono arrivati persino a chiedersi se il «declino» della Germania avrebbe portato a una «crisi sociale».

In realtà, nel XXI secolo, il successo economico della Repubblica Federale si è basato sul fatto che le eccedenze commerciali con l'estero, alle quali erano pervenuti per oltre 60 anni, durante questo periodo avevano toccato vette straordinarie. Per molti altri Paesi questo è stato devastante, poiché alle elevate eccedenze commerciali della Germania, che spesso hanno superato i 200 miliardi di euro - nel 2017 addirittura 247 miliardi di euro - hanno corrisposto deficit altrettanto consistenti. Nel dibattito economico tedesco, guidato dall'ideologia, una tale connessione viene in genere ignorata, ma dovrebbe essere ovvio per tutti che le eccedenze e i deficit nei saldi commerciali con l'estero devono uniformarsi su scala globale. La prosperità della Germania - la cui distribuzione ineguale, tra l'altro, si sta accentuando sempre più - si è quindi basata de facto sull'esportazione del debito verso i Paesi destinatari dell'offensiva tedesca sulle esportazioni. In questo Paese,  il fatto che la Germania sia ancora uno dei principali Paesi industriali viene considerato come un grande successo. La preservazione e l'espansione dell'industria tedesca è avvenuta a spese di altri Paesi, dove la deindustrializzazione ha assunto proporzioni enormi e la disoccupazione e il debito sono cresciuti. Ad esempio, le enormi esportazioni dell'industria tedesca hanno portato al declino della concorrente industria nell'Europa meridionale. Gli screzi che ci sono stati tra il governo federale e il presidente degli Stati Uniti Donald Trump - che aveva promesso ai suoi elettori di ridurre l'enorme deficit commerciale degli Stati Uniti - derivano anche da questo contesto sociale. Trump si era insediato nel 2016, promettendo di restituire prosperità a quei settori in declino della società statunitense, spostando la produzione industriale negli Stati Uniti, sia attraverso il protezionismo sia facendo pressione sui grandi Paesi in surplus, come Cina e Germania, e che per di più avevano approfittato della relativa debolezza dell'euro rispetto al dollaro. E nel mentre che minacciava l'industria automobilistica tedesca con i dazi, la sua amministrazione aveva imposto alla Cina delle tariffe sulle importazioni che, curiosamente, non sono poi state ritirate dall'attuale amministrazione statunitense guidata da Joe Biden.

Queste tendenze protezionistiche, nei conflitti di politica commerciale, preceduti da gare di svalutazione monetaria, sono una conseguenza della crisi sistemica del capitale, il quale non dispone di un nuovo regime di accumulazione, nel quale il lavoro salariato di massa, impiegato nella produzione di merci, possa così essere valorizzato con profitto, a quello che è il livello di produttività globalmente dato. Invece avviene che, al contrario, i capitali in competizione si trovano impegnati in una lotta sempre più feroce, per cercare di tenere a bada al meglio gli effetti della crisi. Così, questa crisi sistemica si manifesta concretamente in un debito globale, che cresce più velocemente dell'economia mondiale, e che ora ammonta a 296.000 miliardi di dollari, circa il 350% della produzione economica mondiale. Il sistema iper-produttivo sta funzionando, per così dire, a credito. La competizione di crisi tra le diverse località economiche, in cui la Repubblica Federale ha ottenuto un grande successo, è consistita nel trasferire il vincolo del debito verso altre economie, attraverso le eccedenze commerciali. Gli elevati avanzi commerciali della Germania, sono una conseguenza dell'introduzione dell'euro e della cosiddetta Agenda 2010. L'attuale saldo del bilancio commerciale tedesco, il quale tiene conto dei servizi, oltre che del commercio di merci, negli anni '90 si trovava ancora in equilibrio, mostrando solo delle eccedenze relativamente gestibili. È stata l'introduzione dell'euro a determinare le enormi eccedenze commerciali della Germania, soprattutto nei confronti degli altri Paesi dell'Eurozona. Questo perché la moneta unica ha impedito ai Paesi dell'euro di reagire al rapido aumento delle eccedenze commerciali tedesche, per mezzo di svalutazioni monetarie, nel mentre che le leggi Hartz hanno garantito la svalutazione del lavoro in Germania.

Questa strategia da parte di quello che poi sarebbe diventato il futuro campione mondiale delle esportazioni, è stata resa possibile solo grazie al corrispondente accumulo di debito pubblico, soprattutto nell'Eurozona meridionale. Le bolle speculative e del debito che ne sono derivate, sono scoppiate nel 2008. Dopo l'esplodere della crisi dell'euro, la Germania - grazie al dettame dell'austerità, incarnato dal ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble (CDU) - è stata in grado di trasferire le conseguenze sociali di quella crisi ai Paesi della periferia meridionale dell'Unione monetaria. Allo stesso tempo, a causa della sottovalutazione strutturale dell'euro rispetto alla performance dell'industria tedesca, veniva attuato simultaneamente un riallineamento geografico dei flussi commerciali tedeschi. Mentre la crisi nell'Europa meridionale indeboliva la domanda di beni tedeschi, le eccedenze commerciali tedesche nelle esportazioni verso i Paesi extraeuropei erano cresciute rapidamente. L'Eurozona, che inizialmente aveva un bilancio commerciale in pareggio, dopo la crisi dell'euro generava crescenti surplus commerciali, e questo dopo che l'unione valutaria era stata trasformata in una "Europa tedesca" per mezzo di politiche di austerità e di svalutazione interna. Ma ora anche questo è arrivato alla sua fine: secondo l'ufficio statistico Eurostat, il deficit commerciale destagionalizzato dell'Eurozona nello scorso aprile è aumentato, dai 13,9 miliardi di euro del mese precedente a 31,7 miliardi di euro. Dalla creazione dell'Unione valutaria, si tratta del deficit commerciale estero di gran lunga più elevato. È questa la ragione sistemica che si trova dietro la crisi dell'industria tedesca delle esportazioni: nei due decenni in cui il debito globale è passato da meno del 200 a più del 350 percento della produzione economica mondiale, la Germania era stata ancora in grado di trasferire la litigiosa crisi ad altri, attraverso il suo surplus di esportazioni, ma ora questa crisi minaccia di estendersi a quello che è il nucleo economico dell'Eurozona.

La situazione di bilancio stabile degli ultimi anni, con tassi di interesse bassi, a volte negativi, sulle obbligazioni emesse, si era basata anche su anni di esportazioni di debito, consentendo al governo tedesco di mobilitare centinaia di miliardi di euro in modo da attutire così anche le conseguenze economiche della pandemia di Covid-19 e della guerra di aggressione russa. Ora tutto questo è a rischio, per quanto il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner (FDP) continui a promettere che si atterrà al cosiddetto freno al debito. Quanto meno, questo dovrebbe mettere a tacere la retorica economica sciovinista dell'opinione pubblica tedesca nei confronti dei Paesi debitori dell'Eurozona, grazie alla quale il più grande esportatore di debito d'Europa si indigna per quelle montagne di debito che esso stesso costringe gli altri Paesi ad accumulare. Tuttavia, è probabile che questa sarà l'unica conseguenza politica interna positiva della temuta «flessione delle esportazioni»; se questa tendenza di crisi dovesse diventare permanente. Alla crisi delle esportazioni, probabilmente le élite funzionali tedesche reagiranno nello stesso modo brutale con cui avevano avviato il boom del commercio estero per mezzo delle leggi Hartz: svalutando all'interno, ulteriormente, la merce lavoro, la bilancia commerciale potrebbe venire riportata in territorio positivo, in modo da difendere così il modello di accumulazione tedesco in crisi. Inoltre, la fine del boom delle esportazioni potrebbe riuscire a dare un nuovo impulso all'estrema destra e all'euroscetticismo nella Repubblica Federale, nel caso che l'Eurozona, da vantaggio competitivo, si dovesse trasformare in un mero fattore di costo, e se le preoccupazioni per un'immagine della Repubblica Federale che promuove le esportazioni all'estero finissero per passare in secondo piano.

Tomasz Konicz - Originariamente pubblicato in Jungle World il 21/7/2022 -

fonte: Exit! in English

mercoledì 13 aprile 2022

Gare & Consigli

Solidi consigli finanziari per l'Europa da Michael Hudson...
- di Jehu -

Diventa sempre più chiaro che la Russia non può vincere la sua gara con gli Stati Uniti, per decidere chi piscia più lontano. Semplicemente, non ha né la portata globale, né il peso economico, e neppure l'astuzia diplomatica per giocare nella stessa lega in cui militano gli Stati Uniti e i suoi vassalli della NATO. In questo "morality play", la parte più sconveniente per la Russia consiste nel fatto che alla fine il gioco non riguarda nemmeno la Russia. Putin, il suo entourage di gangster, e persino i suoi nemici satelliti hanno già svolto il loro ruolo affondando i loro coltelli nei quarti posteriori dell'agonizzante Unione Sovietica; in stile Gheddafi.

Avendo portato a termine per gli Stati Uniti ciò che non avrebbero potuto fare da sé soli, in questa farsa non rimaneva altro che assumere il ruolo scenico del gravoso «precedentemente noto come comunismo». No, in questo interminabile processo di dissoluzione in atto dell'Unione Sovietica, il vero obiettivo non è altri che l'Unione Europea: l'identità segreta, sotto i cui panni si celano i nostri supereroi filo-ucraini noti in tutto il mondo come NATO. Nel suo appropriato travestimento da Unione Europea, la NATO immagina sé stessa come se fosse autonoma rispetto al suo dottor Frankenstein; lo scienziato pazzo che l'ha messa insieme cucendola a partire dai pezzi avanzati dei cadaveri dell'Europa tra le due guerre. L'Unione Europea - una zona totalmente sprovvista di qualsiasi strumento in grado di gestire la sua raccolta di capitali nazionali - a volte arriva a immaginare sé stessa uguale agli Stati Uniti, sebbene nella realtà non abbia alcuna base per simili voli di fantasia; dal momento che in quanto collezione di capitali nazionali, la storia ha già scavalcato questa "Unione". Nondimeno, riconoscere tutto ciò viene reso ancora più evidente a partire dal fatto, correlato, che la sinistra radicale continua a riporre le sue speranze nel mostro di Frankenstein al fine di una sua uscita in direzione di una sorta di "post-capitalismo".

In ogni caso, Michael Hudson ha un'altra proposta che la sinistra radicale farebbe bene a considerare: uccidere il più rapidamente possibile questo creatura zombie.
«Potrei avanzare una modesta proposta. Ora che l'Europa ha praticamente più o meno cessato di essere uno Stato politicamente indipendente, e sta cominciando ad assomigliare più a Panama e alla Liberia - centri bancari offshore "che battono bandiera di convenienza" e che non sono veri "Stati" poiché non hanno una propria moneta, ma usano il dollaro americano. Visto che l'eurozona è stata creata a partire da delle manette monetarie - che oltre il limite del 3% del PIL ne limitano la sua capacità di creare denaro da spendere nell'economia - allora perché non gettare semplicemente la spugna finanziaria, e adottare il dollaro statunitense, come fanno l'Ecuador, la Somalia e le Isole Turks e Caicos? Questo, per il loro crescente commercio, garantirebbe agli investitori stranieri sicurezza rispetto al deprezzamento della valuta e al finanziamento delle esportazioni. Per l'Europa, l'alternativa è che il costo in dollari del suo debito estero venga assunto per finanziare il suo crescente deficit commerciale con gli Stati Uniti per petrolio, armi e cibo. Per gli Stati Uniti, questa è l'egemonia del dollaro basata sugli steroidi; almeno nei confronti dell'Europa. Il continente diventerebbe così una versione un po' più grande di Porto Rico.»

Questo consiglio, se dovesse essere adottato, magari in tandem con la mia proposta di una riduzione radicale delle ore di lavoro, potrebbe mettere fine alle sofferenze di questo abominio trasversale. Ed è assai meno sanguinoso di un coltello piantato nelle terga. Probabilmente, a questo punto, per Putin è troppo tardi per adottare questa idea come sua, ma avrebbe dovuto pensarci quando ha collaborato a uccidere l'Unione Sovietica.

- Jehu - 8 aprile 2022 - Pubblicato su The Real Movement -

fonte: The Real Movement. Communism is free time and nothing else!

venerdì 25 febbraio 2022

I nuovi valori universali …

La crisi dell'Ucraina e l'accordo tra Cina e Russia
- di José Luis Fiori -

«Ormai non esiste più un unico "criterio etico", e nemmeno un unico giudice che abbia il potere di arbitrare tutti i conflitti internazionali sulla base della propria "tavola dei valori". E non è più neanche possibile espellere i "nuovi peccatori" dal "paradiso" inventato dagli europei, come avvenne con i leggendari Adamo ed Eva. Allo stesso modo in cui ha avuto fine questa supremazia, potrebbe essere possibile, se non addirittura necessario, che l'Occidente impari a rispettare e a convivere pacificamente con la 'verità' e con i 'valori' delle altre civiltà.»
(José Luis Fiori, O mito do pecado original, o ceticismo ético e o desafio da paz, Editora Vozes, 2021, p. 464)

All'inizio di questo 2022, ci sono stati due eventi che hanno scosso lo scenario mondiale: il primo è stato l'ultimatum russo, lanciato a metà dicembre 2021 e indirizzato agli Stati Uniti, alla NATO e ai paesi membri dell'Unione Europea, che chiedeva il ritiro immediato della NATO in Ucraina, e proponeva una revisione completa della "mappa militare" dell'Europa centrale, definita dagli Stati Uniti e dai suoi alleati dell'Alleanza Atlantica dopo la vittoria nella guerra fredda. Il secondo è stata la "dichiarazione congiunta" della Federazione Russa e della Repubblica della Cina del 7 febbraio 2022, che proponeva una "rifondazione" dell'ordine mondiale, così come era stato stabilito dopo la seconda guerra mondiale, e approfondito dopo la vittoria degli Stati Uniti e dei loro alleati nella guerra del Golfo nel 1991. I due documenti propongono una "revisione" dello status quo internazionale, ma mentre il primo contiene obiettivi e richieste immediate e localizzate, il secondo rappresenta invece una vera e propria proposta di "rifondazione" del sistema interstatale "inventato" dagli europei. Entrambi, tuttavia, in questo momento stanno puntando a una profonda riconfigurazione del sistema internazionale.

Riguardo l'«ultimatum russo», la questione immediata in gioco è l'incorporazione dell'Ucraina nella NATO, ma il vero problema di fondo è la richiesta russa di una revisione delle "perdite" e delle "limitazioni" che le sono state imposte dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica. Dopo il 1991, la Russia ha perso 5 milioni di chilometri quadrati e 140 milioni di abitanti, ma ora si propone di ridurre queste perdite espandendo la sua influenza nei suoi dintorni strategici e rimuovendo la minaccia al suo territorio costituita dalla NATO e dagli Stati Uniti. Questo ultimatum era perfettamente prevedibile, ed è stato annunciato da molto tempo, almeno dalla "guerra georgiana" del 2008. La grande novità di ora, è che la proposta revisionista dei russi avrebbe dovuto procedere senza guerra, grazie a una partita a scacchi estremamente complessa, nella quale vengono accumulate minacce militari ed economiche, ma dove non dovrebbe esserci uno scontro diretto, nonostante la propaganda e l'isteria psicologica provocata dai successivi annunci dell'«invasione che non c'è stata», soprattutto da parte degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. La Russia ha ottenuto una vittoria immediata riuscendo a portare tutti gli altri attori coinvolti intorno a un tavolo, per discutere i termini della sua proposta. Ed è molto probabile che le sue principali richieste verranno soddisfatte, senza invasione né guerra. Oltre a tutto questo, le discussioni hanno mostrato la divisione tra le potenze occidentali e la mancanza di iniziativa e di leadership da parte del governo nordamericano, il quale si è limitato a ripetere la stessa minaccia di sempre: che avrebbe imposto nuove sanzioni economiche ai russi, nel caso l'invasione fosse avvenuta; cosa che è stata ripetutamente negata dagli stessi russi, mentre l'iniziativa diplomatica è passata quasi interamente nelle mani degli europei. Gli Stati Uniti non hanno ricevuto il sostegno che si aspettavano dai loro vecchi alleati in Medio Oriente (neppure Israele), in Asia (nemmeno l'India), e anche in America Latina (neanche il Brasile). E quel che è peggio, per gli anglosassoni, tutto indica che la Germania giocherà un ruolo fondamentale nella mediazione diplomatica del conflitto, cosa che comporterebbe un riavvicinamento tra tedeschi e russi, con la liberazione immediata del Gasdotto Baltico, che è sempre stato osteggiato dagli americani. Oltre al fatto che un eventuale successo diplomatico tedesco in questo conflitto darebbe alla Germania una centralità geopolitica in Europa, cosa che accelererebbe il declino dell'influenza degli Stati Uniti tra i suoi alleati europei. In questo senso, un accordo diplomatico "intra-europeo" sarebbe anche una sconfitta per gli Stati Uniti, ma allo stesso tempo è impossibile immaginare come un simile accordo possa avere successo senza il sostegno degli stessi Stati Uniti e della NATO, che è in pratica un «braccio armato nordamericano».

Nel caso, invece, del documento presentato alla «comunità internazionale», da Russia e Cina il 7 febbraio, le rivendicazioni specifiche e locali dei due paesi sono ben note e in questo contesto non hanno importanza maggiore. L'importanza del documento va ben oltre, perché si tratta in realtà di una vera e propria «carta dei princìpi» proposta all'apprezzamento di tutti i popoli del mondo, contenente alcune idee e concetti fondamentali per una "rifondazione" del sistema internazionale creato dagli europei quattro secoli fa. È un documento che richiede un'attenta lettura e una seria riflessione, soprattutto in questo momento di destrutturazione del "blocco occidentale" e di divisione interna e indebolimento degli stessi Stati Uniti.
Il primo aspetto che richiama l'attenzione in questo documento apparentemente insolito, è la sua difesa di alcuni valori molto cari al «sistema della Westfalia», come avviene nella sua intransigente difesa della sovranità nazionale e del diritto di ogni popolo a decidere del proprio destino, purché si rispettino gli stessi diritti di tutti gli altri popoli. Allo stesso tempo, il documento difende anche alcune delle idee più importanti del "liberal-internazionalismo" contemporaneo, come la sua difesa di un ordine internazionale basato sulle leggi, il suo entusiasmo per la globalizzazione economica e il multilateralismo, la sua difesa della "causa climatica" e dello sviluppo sostenibile, e il suo sostegno illimitato alla cooperazione internazionale nei campi della salute, delle infrastrutture, dello sviluppo scientifico e tecnologico, dell'uso pacifico dello spazio e della lotta al terrorismo. Da un punto di vista accademico e occidentale, inoltre, questo «documento russo-cinese» ricorda spesso l'idealismo internazionalista di un Woodrow Wilson, tanto quanto ricorda, altre volte, l'idealismo nazionalista di un Charles de Gaulle.

Ma la sorprendente originalità di questo documento aumenta ulteriormente grazie alla sua difesa universale e illimitata di valori quali la libertà, l'uguaglianza, la giustizia, i diritti umani e la democrazia. Soprattutto quando assume la difesa della democrazia in quanto valore universale, e non come privilegio di qualche popolo particolare o come responsabilità congiunta di tutta la comunità internazionale, con il contemporaneo riconoscimento del fatto che non esiste una sola forma di democrazia, né alcun «popolo eletto» che possa o debba imporre agli altri un qualche modello superiore di democrazia, come se si trattasse di una «verità rivelata» da Dio. Ed è a questo punto che si esplicita la proposta veramente rivoluzionaria di questo documento: che si debba accettare una volta per tutte che, almeno dalla fine del XX secolo, il sistema interstatale non è più un monopolio degli europei e di alcune delle loro ex colonie, poiché esso è oramai formato da varie culture e civiltà, e che nessuna di esse è superiore alle altre; e tanto meno ha il monopolio della verità e della moralità. In altre parole, questa proposta eurasiatica per un nuovo ordine mondiale rifiuta qualsiasi tipo di «universalismo espansivo» o «catechistico», ma tuttavia, simultaneamente, accetta l'esistenza di valori universali.

In tutto ciò, non ci sarebbe nulla di originale se, per esempio, tali idee facessero parte di un testo accademico o di una riflessione filosofica postmoderna. Ciò che fa la differenza in questo documento non è il suo multiculturalismo; ma il fatto che questo multiculturalismo appare qui come una rivendicazione e una proposta universale presentata e sostenuta dalla seconda potenza atomica del mondo, e dalla seconda economia di mercato del mondo. Per di più, è una proposta sostenuta da un potere che fa parte dell'albero genealogico della civiltà occidentale e, allo stesso tempo, da quella che è una potenza e una civiltà che non appartiene a questa stessa matrice, né ha mai avuto alcun tipo di vocazione catechistica. Sì, perché la Cina si è staccata dal suo millenario impero ed è diventata uno stato nazionale solo all'inizio del XX secolo; ed è stato solo alla fine del XX secolo che si è pienamente integrata nel sistema interstatale, incorporandosi nell'economia capitalista mondiale con una velocità e un successo straordinario. Da allora, lo stato nazionale cinese si comporta come tutti gli altri stati europei, ma la Cina, però, non ha mai avuto alcun tipo di religione ufficiale, e non si è mai proposta di essere un modello economico, politico o etico universale - e quindi non si è mai nemmeno proposta di catechizzare il resto del mondo. Al contrario, sembra che la Cina si proponga di relazionarsi con tutti i popoli del mondo, indipendentemente dai regimi politici, dalle religioni o dalle ideologie, perfino quando appare assolutamente inflessibile circa la difesa nazionale dei suoi valori tradizionali e degli interessi della sua civiltà millenaria. Pertanto, di conseguenza, sebbene sia il caso di speculare sul futuro di questa «nuova era» che sta nascendo, è anche necessario essere chiari sul fatto che la Cina non si propone di sostituire gli Stati Uniti come centro di articolazione di una sorta di nuovo «progetto etico universale». Tutto ci indica che l'avanzata di questa nuova «era multi-civilizzatrice» non può più essere invertita, né c'è modo di riportare il sistema mondiale alla sua precedente situazione di completa supremazia eurocentrica.

«E per quanto l'asse del sistema mondiale non si sia ancora spostato interamente verso l'Asia, quel che è certo è che si è già stabilito un nuovo "equilibrio di potere", il quale ha soppiantato la precedente egemonia, quella del progetto universale e del "espansionismo catechistico"  di tradizione greco-romana e giudaico-cristiana.»

- José Luis Fiori - Pubblicato il 24/02/2022 su Blog da Boitempo -

sabato 1 maggio 2021

Siamo noi !!

Convivere in pace, vecchi e nuovi cittadini, ci sembra difficile e probabilmente lo è, ma un problema identico si è posto con ben altra urgenza 40 mila anni fa, quando i veri europei, gli uomini di Neandertal, hanno visto arrivare dall'Africa le avanguardie dei Cro-Magnoidi, i nostri antenati. Da allora, due gruppi umani diversi nell'aspetto, nella cultura e nel DNA, probabilmente due diverse specie umane, hanno coabitato in Europa per millenni: ma alla fine i vecchi europei si sono estinti. E dalla loro scomparsa, attraverso migrazioni, contatti e contaminazioni fra culture diverse, che a poco a poco ha preso forma la popolazione che oggi chiamiamo europea, e con lei un continente dai limiti incerti e (a volte temiamo) dall'incerto futuro. Soprattutto, un continente i cui abitanti hanno avuto una storia complessa, che non si presta a facili semplificazioni, neanche oggi che i test del DNA ci promettono (ma spesso sono promesse da marinai) di rivelarci le nostre caratteristiche più nascoste. Partendo da un passato remoto e dai metodi con cui la scienza riesce a ricostruirlo attraverso lo studio dei fossili, dei reperti archeologici e soprattutto dei nostri geni, questo libro ci accompagna a una sorprendente riscoperta dell'identità europea. Un'identità che non riposa su basi biologiche, e che trae la sua forza non da una o poche radici etniche o religiose, ma dalla molteplicità di contributi che hanno continuato ad aggiungersi, ad arricchirla e a ridefinirla.

(dal risvolto di copertina di: "Europei senza se e senza ma. Storie di neandertaliani e di immigrati", di Guido Barbujani, Bompiani, pagg. 320, € 13.)

Quelle radici africane nel DNA degl europei
- di Guido Barbujani - dalla prefazione dell’autore alla nuova edizione. In libreria dal 31 marzo 2021 -

Non pensavo che per ripubblicare "Europei senza se e senza ma" a tredici anni di distanza dalla prima edizione avrei dovuto riscriverne tre quarti. E invece c’era da aspettarselo: in poco tempo sono cambiati sia i dati scientifici di cui disponiamo, sia il contesto sociale e politico in cui viviamo. La genetica, per cominciare, ha fatto progressi, alimentati da formidabili innovazioni tecnologiche. Se l’impianto dei nostri ragionamenti è rimasto lo stesso, i lavori fondamentali di Luca Cavalli-Sforza e Robert Sokal innestati sul tronco del pensiero darwiniano, tanto di quello che tredici anni fa si poteva solo intuire, adesso lo si può andare direttamente a vedere: nel DNA di milioni di europei, del passato e del presente. Abbiamo capito tante cose; allo stesso tempo, per ogni risposta trovata sono emerse nuove domande, ma va così, quando la scienza funziona: a ogni passo avanti la prospettiva cambia e si cerca di guardare un po’ più in là.
È cambiata anche l’Europa. Tredici anni fa, sotto la spinta non disinteressata di Tony Blair, si discuteva di allargare i confini dell’Unione, arrivando a comprendere anche la Turchia. Ci si guardava bene, però, dal mettere in discussione i meccanismi decisionali, mantenendo il principio dell’unanimità che, come si è visto, paralizza ogni scelta al minimo soffio di vento, anche adesso che il Regno Unito se n’è andato. Blair in seguito ha ampliato il suo raggio d’azione, arrivando a combinare disastri anche in Medio Oriente, ma nel frattempo la grande recessione ha fatto scoppiare la crisi del debito sovrano. La politica di bassi interessi adottata dalla Banca Centrale Europea, la BCE, ha portato a massicci investimenti delle banche del nord nei paesi del sud, che in breve hanno accumulato debiti insostenibili.
Da allora, la contrapposizione fra il cosiddetto Club Méditerranée, i paesi del sud indebitati, e i cosiddetti paesi frugali del nord con i conti in ordine, ha segnato le politiche europee, generando incomprensioni e conflitti. Le misure di austerità imposte ai paesi più indebitati hanno dimostrato plasticamente la fragilità di tante conquiste sociali, gettando nella miseria milioni di cittadini (non solo greci) e nell’angoscia per il futuro buona parte degli altri. Tagli alla sanità, alle pensioni e all’istruzione, precarizzazione del lavoro e, per finire, i crescenti flussi migratori in entrata, hanno fatto il resto. Un’Europa già in difficoltà si è trovata una gatta da pelare dove non se l’aspettava, a quei confini che fino a poco prima pensava di allargare. Ha reagito in maniera scomposta: obbligando il paese di primo approdo a farsi carico dei richiedenti asilo, e chi s’è visto s’è visto. Il Regolamento di Dublino del 2013 è il prodotto di un’impostazione miope, in cui si finge di non capire che il problema (come tanti altri) può essere affrontato solo dall’Unione Europea nel suo complesso, non scaricandolo sul primo malcapitato paese di confine. Nel frattempo, assistiamo a scene già viste: ben coordinate campagne mediatiche gridano all’invasione e scaricano sugli stranieri immigrati la colpa di tutto ciò che non funziona, invocando una chiusura delle frontiere che è con ogni evidenza impossibile da realizzare, anche se la si decidesse. Il fenomeno ha aspetti odiosi, ma anche interessanti. Per esempio, le opinioni pubbliche dell’area mediterranea manifestano sentimenti di rifiuto e anche disprezzo per gli immigrati; ma si risentono quando, dalle opinioni pubbliche dei cosiddetti paesi frugali, analoghi sentimenti vengono espressi nei loro confronti. Ognuno è il terrone di qualcun altro, e rendersene conto potrebbe servire.
Quando è uscita la prima edizione di questo libro, non si parlava ancora di sovranismo. L’atteggiamento nei confronti delle istituzioni europee era più sfumato: comprendeva diffidenze per la cosiddetta burocrazia di Bruxelles, ma anche qualche speranza che a livello europeo si potessero risolvere problemi che da soli non sapevamo o non volevamo affrontare. Insomma, non credo di semplificare troppo se dico che nel corso degli ultimi tredici anni sono state messe in discussione le basi stesse della democrazia europea, con spinte verso modelli autoritari, che incontrano consenso e a cui si stenta a trovare un antidoto. Ma il quadro generale non è solo fosco. L’emergenza sanitaria in cui ci troviamo sembra aver messo in moto anche energie prima troppo timide per esprimersi, che forse permetteranno di rivedere vecchie regole e attenuare vecchie rigidità.
Tutto questo non c’entra con la genetica, ma la genetica ha a che vedere con tutto questo. Non è un gioco di parole. Progressiva perdita di protezione sociale; precarizzazione selvaggia del lavoro; nuove povertà; sordità alle ragioni degli altri; flussi migratori: nessuno di questi fenomeni dipende dal nostro DNA. Ma chi, attraverso la genetica, cerca di ricostruire la nostra storia, va a sbattere contro un sacco di pregiudizi, secondo cui proprio nei geni starebbe scritto il destino dei popoli e degli individui che li compongono. È una semplificazione grossolana, ma, come tutte le semplificazioni, può piacere a chi fatica a fare i conti con la complessità delle relazioni sociali. E allora ho cercato di insistere molto su quanto la storia, che ha lasciato nei nostri geni tracce che sappiamo interpretare, si riveli tanto, ma tanto complessa. Nessun popolo ha mai avuto radici pure e univoche, perché, da milioni di anni, gambe e piedi ci sono serviti per spostarci di qua e di là. Ricostruire queste migrazioni, e i fenomeni per cui certe popolazioni si sono fuse con altre, o non lo hanno fatto, o le hanno rimpiazzate, è interessante e a me, personalmente, piace da matti. Ma è bene metterlo in chiaro: tutto quello che sappiamo o crediamo di sapere ci porta a concludere che c’erano, una volta, i veri europei: ma non eravamo noi, erano i neandertaliani, e una migrazione dall’Africa li ha portato a estinguersi. Noi discendiamo da quegli africani: e dunque, anche tredici anni dopo la prima edizione di questo libro, continuo a credere che non c’è più, da nessuna parte, qualcuno che possiamo chiamare veramente europeo, senza se e senza ma.

- Guido Barbujani - pubblicato sul Sole del 28/3/2021 -

giovedì 13 agosto 2020

Piccolo Borghesi ?!?

Detto in estrema sintesi, questo articolo tenta di applicare alla storia americana quella che è l'idea di Ernst Bloch di una «contraddizione non-contemporanea». Il testo è stato scritto per un simposio su "Religione e Politica" organizzato dalla rivista statunitense "Against the Current". L'argomento, com'è ovvio, era stato suggerito dall'aggressiva ascesa, avvenuta nel decennio precedente nella politica americana, della destra Cristiana. Alcuni di quelli che sono dei riferimenti immediati alla situazione economica, appaiono chiaramente datati, anche se, dopo quasi un decennio di "New Economy", la crisi alla quale si riferiscono è ancora tra noi, sebbene in forma alterata.

Il confluire della tradizione anabattista, indiana e africana nella tradizione radicale americana
- di Loren Gordner -

«Tho' obscured, this is the form of the Angelic land.» [Per quanto oscurata, è questa la forma della terra angelica] ( William Blake, America ).

Dieci anni fa - ma anche cinque - ero abbastanza scettico circa la tradizione radicale dei nativi americani, con le sue origini chiaramente religiose e con tutte le sue sfumature, al punto da non riconoscerne nemmeno l'esistenza. A quel tempo, l'Europa e le sue apparentemente solide tradizioni operaie di classe sembravano essere la regola, e l'America, dove in sostanza quelle correnti "immigrate" avevano avuto ben poco impatto duraturo, era la stranezza. Quello che nell'ultimo decennio mi ha spinto a ribaltare quel punto di vista, e a guardare alla sinistra americana dal punto di vista della tradizione radicale americana, non è certamente dovuto ad una qualche recrudescenza di massa che ci sarebbe stata in America. Si è trattato piuttosto del collasso, in Europa, di quella tradizione europea, vista nel contesto di una profonda crisi in generale della sinistra internazionale, che ha mostrato quale fosse il vero contenuto sociale del movimento europeo - quali fossero le sue attuali dinamiche e le sue realizzazioni, e non la sua auto-comprensione e la sua retorica - e che ha riguardato questioni che in America erano state risolte molto tempo fa. Una volta apparso chiaro che il ruolo della tradizione rivoluzionaria europea, dalla Francia alla Germania e alla Russia, era stato quello di rendere di fatto l'Europa più capitalista - e non meno - a questo punto è sembrato ovvio il motivo per cui questa tradizione avesse avuto un impatto così piccolo in una società totalmente capitalistica come quella americana. Ed era apparso chiaro anche il fatto che la tradizione radicale dei nativi americani - che in ultima analisi aveva avuto origine in quelle correnti religiose che agli albori del capitalismo "avevano perso" - nel suo incontro con i popoli non occidentali, indigeni e africani (i quali avevano contribuito al formarsi della cultura dei primi americani quanto lo avevano fatto le popolazioni bianche), potesse avere qualcosa di veramente unico in grado di dare un contributo all'attuale, ed ancora del tutto irrisolta, crisi della sinistra rivoluzionaria internazionale; qualcosa di ancora più radicale, rispetto a qualsiasi altra cosa che l'Europa moderna avesse mai conosciuto.
Con ogni probabilità, a partire dalla metà degli anni '70, quella sinistra internazionale si è trovata,  da quando era comparso il movimento operaio classico,  nella sua crisi più profonda, tale da avere un impatto simile a quello che ebbe quando, nel 1914, quel movimento collassò nel nazionalismo e nel patriottismo sociale. Tutti i punti di riferimento sono scomparsi. L'esplosione di rivolte operaie in tutto l'Occidente nel periodo 1968-1973, che aveva rivitalizzato ovunque la convinzione che la classe operaia avrebbe potuto, e avrebbe voluto sovvertire questa società, venne ben presto sostituita dalla triste realtà delle «cinture arrugginite» degli Stati Uniti e delle devastate Midlands inglesi, e da tutte le altre simili chiusure di intere regioni industriali in tutto il continente europeo. La classe operaia dell'Occidente, che negli ultimi anni del boom del dopoguerra aveva messo paura al capitalismo con la sua «rivolta contro il lavoro», ora, negli anni '80, era costretta a battersi - e soprattutto a perdere - in delle lotte ancora più militanti, solo per poter cercare di mantenere quelli che nel 1973 sembravano essere gli standard fissati dalle lotte degli anni '30 e '40. L'intensiva innovazione tecnologia, da un lato, e l'emergere e la crescita di un'importante produzione industriale di massa nel Terzo Mondo, dall'altro, hanno come obiettivo principale quello di un assalto su larga scala ai costi salariali dei lavoratori americani ed europei. Fino ad oggi, c'è ben poco, o niente, nell'esperienza del movimento operaio occidentale classico che possa servire da guida per trovare una risposta adeguata a tale situazione, la quale minaccia solo di peggiorare, forse parecchio, prima che possa andare meglio. Ed è proprio il fatto che tutti i punti di riferimento familiari siano scomparsi, a rendere ancora possibile e, cosa più importante, assolutamente necessario guardare alla storia con altri occhi. Per tutto il secolo precedente, il marxismo come ideologia è rimasto associato a due modelli di base, quello tedesco e quello russo. Fino a tutta la prima guerra mondiale, il movimento socialista tedesco e i lavoratori immigrati tedeschi in America hanno dato il la al socialismo americano; dopo il 1917, erano state la rivoluzione russa e l'Europa dell'Est, in prevalenza lavoratori immigrati ebrei, ad assumere quel ruolo. Noi conosciamo questi movimenti nella loro forma moderna, come Socialdemocrazia e Stalinismo, e per la più parte delle persone politicamente consapevoli, non era necessari la crisi dell'ultimo decennio per dimostrarne il loro fallimento. Tuttavia, ciò che l'ultimo decennio ha mostrato è che anche la maggioranza della sinistra antisocialdemocratica ed antistalinista del secondo dopoguerra, senza dirlo condivideva con quelle correnti alcune premesse che l'hanno lasciata disarmata di fronte ai recenti sviluppi. E a causa di queste illusioni condivise, la crisi della Socialdemocrazia e dello Stalinismo (e del Bonapartismo del Terzo Mondo) è risultata essere anche la loro crisi. In ultima analisi, queste illusioni ruotano intorno all'incapacità di vedere che anche le ali più rivoluzionarie del marxismo della Seconda e Terza Internazionale - in pratica, se non in teoria - erano più coinvolte nel completamento della rivoluzione borghese e nell'eliminazione del pre-capitalismo, piuttosto che nell'eliminazione del capitalismo in quanto tale. Dal 1914 fino alla metà degli anni '70, il mondo assomigliava parecchio, più o meno, a quello che era stato anticipato da Lenin nel suo opuscolo del 1916 sull'Imperialismo. Perfino i più risoluti rivoluzionari antistalinisti dei paesi capitalisti avanzati, influenzati dalle teorie di Trotsky sulla rivoluzione permanente e sullo sviluppo ineguale e combinato, presupponevano che un serio sviluppo capitalistico al di fuori dell'Europa occidentale, degli Stati Uniti e del Giappone fosse impossibile. Pur opponendosi ai regimi stalinisti e a quelli bonapartisti del Terzo Mondo, che cercavano di sostituirsi agli investimenti capitalistici occidentale, condividevano i propositi dei movimenti burocratici e le ideologie secondo le quali il mercato mondiale capitalista non avrebbe mai industrializzato quelle aree. Più spesso di quanto non si pensi, arrivavano perfino ad accettare quella che era la spiegazione di Lenin riferita al riformismo dei lavoratori occidentali che sarebbe stato il prodotto dei «super-profitti» generati dagli investimenti imperialisti.
Oggi, la comparsa delle «Quattro Tigri» asiatiche (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore), così come quella delle zone industriali in paesi come il Messico ed il Brasile, ha messo fine al mito del terzomondismo. Simultaneamente, una simile grave deindustrializzazione di aree come quella delle «cinture arrugginite» o delle Midlands britanniche, combinata con l'immigrazione su larga scala negli Stati Uniti e in Europa, proveniente dai Caraibi, dall'America Latina e dalle ex colonie in Africa ed in Asia, ha seriamente offuscato la distinzione tra zone «capitaliste avanzate» e «Terzo Mondo». Il risultato di questi sviluppi, combinato con il decennio di «socialismo di mercato» della Cina, con la debacle del dominio stalinista in Indocina, ed il palese fallimento delle diverse burocrazie statali del Terzo Mondo successive al seconda guerra mondiale (Indonesia, Egitto, Ghana, Algeria), o quello più recente dei regimi di influenza sovietica in Africa (Etiopia, Angola, Mozambico), avvenuto per risolvere quelli che sono i più elementari problemi dello sviluppo, ha fatto sgonfiare l'esaltante atmosfera dello statalismo del Terzo Mondo che si era protratta fino a metà anni '70. Che si trattasse dell'America di Reagan o dell'Inghilterra della Thatcher, della Francia di Mitterand o della Cina di Teng o della Russia di Gorbaciov, alla fine degli anni '70 e all'inizio degli '80, le virtù del mercato contrapposte al peso morto della burocrazia statale come se fossero una rivalsa, e la sinistra internazionale identificata ed associata (a torto o a ragione, e troppo spesso a ragione) con lo Stato ha patito una grave crisi e declino.
Il lettore si potrebbe chiedere che cosa questo abbia a che fare tutto questo con le tendenze anti-socialdemocratiche, antistaliniste, anti-bonapartiste del Terzo Mondo derivate dall'opposizione internazionale di sinistra degli anni '20, che non si era mai fatta simili illusioni? E che cosa abbia a che fare tutto questo con la Riforma Radicale? Quel che sostengo, è che le vecchie idee sono oramai logore e si sono esaurite ed è tempo che i rivoluzionari rivolgano uno sguardo disincantato alle idee che hanno ricevuto dalla storia socialista. Ritegno anche che i tentativi più risoluti di voler dare un senso alla situazione contemporanea armati solo del meglio della tradizione socialista dell'Europa continentale - vale a dire, dei «momenti sani» del socialdemocrazia tedesca e del bolscevismo russo - non si sufficiente. Non lo è sufficiente poiché anche questi movimenti sono oramai irrimediabilmente intrecciati alla screditata tradizione statalista.
Quello stesso lettore potrebbe chiedere anche dove si trova lo Stato in una tradizione che nella Russia del 1917 si basa sulla richiesta di «Tutto il Potere ai Soviet», e che nel 1918-1919, in Germania, sulla battaglia dello Spartakusbund per una «repubblica dei consigli»? In quei giorni esaltanti del potere diretto della classe operaia nelle fabbriche di Pietrograd e in altri centri industriali dell'Europa centrale ed orientale, forse lo Stato non c'era da nessuna parte. lo Stato rimaneva, piuttosto, nelle relazioni che quelle isole di capitalismo industriale avevano con una vasta massa di piccoli produttori - in maggior parte contadini - che le circondavano. Ed esisteva nell'intellighenzia, che si era allontanata dal ruolo di funzionario pubblico assegnatole nelle monarchie dell'Europa centrale ed orientale per diventare rivoluzionaria, e che si proponeva di mediare un'alleanza - soprattutto in Russia - tra la classe operaia e quei contadini. Il capitalismo - la dura esperienza lo ha insegnato alla sinistra rivoluzionaria negli ultimi 70 anni - non è solo una relazione tra gli operai di una fabbrica, da un lato, e i capitalisti ed il loro Stato, dall'altro. Ma è anche una relazione di quel «processo produttivo immediato», come lo aveva chiamato Marx, con gli altri strati sociali con cui interagisce, e che più di una volta sono stati decisive nel determinare il destino politico dei lavoratori in quanto tali. Per più di un secolo, l'ironia della sinistra continentale europea è consistita nel fatto che un certo «Marxismo» abbia avuto più successo tra gli operai proprio in quei paesi dove i contadini erano più oppressi e dove i lavoratori militavano in quella che era una lotta contro l'agricoltura precapitalistica. Svelare questa verità significa portare alla luce quelli che sono i fili nascosti che collegano allo Stato i movimenti che hanno prodotto un Lenin, una Luxemburg o un Trotsky.
Se esaminata da vicino, la tradizione rivoluzionaria continentale messa in moto dalla rivoluzione francese, che si estende fino al 1848, alla socialdemocrazia tedesca e alla rivoluzione russa del 1917-1918, è sempre stata una fusione tra operai e rivoluzionari di professione provenienti dall'intellighenzia. E inoltre, tale fusione ha sempre avuto luogo in uno stretto rapporto con i contadini; infatti, per quel che riguarda la centralità della questione del rapporto tra «partito e classe» nel contesto della degenerazione della rivoluzione russa, il trionfo e la successiva difesa di quella rivoluzione sarebbe stato impensabile senza la simultanea rivoluzione contadina - una rivoluzione borghese per dare la terra ai contadini - nelle campagne. La tradizione socialista dell'Europa continentale è nata nei momenti radicali della rivoluzione francese: ha avuto la sua decisiva formulazione teorica da Marx ed Engels negli anni '40 del 19° secolo ed ha prodotto quella che è stata l'apparentemente inarrestabile socialdemocrazia tedesca, dagli anni '60 del 19° secolo fino al 1914; con la rivoluzione bolscevica del 1917, ha conquistato per la sua prima volta il potere statale.
Ma va notato che essa è stata influente soprattutto in quei paesi come Francia, Germania e Russia dove si è dovuta confrontare con l'eredità statalista dell'assolutismo illuminato e con l'irrisolta questione agraria - che per risolverla, quegli Stati erano stati creati. Le intellighenzie rivoluzionarie che avevano giocato un ruolo decisivo nella tradizione continentale europea sono state, a loro volta, il prodotto di un sistema educativo creato per formare i funzionari statali degli Stati dispotici illuminati. La loro fusione con i movimenti radicali degli operai e dei contadini, avvenuta nel 20° secolo, ha coinciso con la storia del socialismo moderno che entrato in crisi negli anni '70,
L'America, per contro, così come quei paesi europei che errano arriva ad avere una società civile alla fine dell'era della Riforma, a metà del 17° secolo, non ha mai sviluppato un'intellighenzia capace di fondersi con la sua classe operaia militante. (Infatti, con ogni probabilità, dal 1877 fino agli anni '20, negli Stati Uniti si è fatto uso di violenza diretta contro i lavoratori americani più di quanto ce ne sia stata contro qualsiasi altra classe operaia). Nell'Europa continentale, da dove proveniva l'intellighenzia? Come abbiamo accennato prima, proveniva da un sistema educativo che era stato pensato per poter svolgere, dall'alto, quei compiti sociali ed economici che erano già stati realizzati in quelle aree influenzate dal calvinismo e dalle correnti radicali riformatrici. La mia ipotesi è che la questione agraria sia la chiave per comprendere l'ascesa e il crollo della tradizione socialista continentale europea, e che il fallimento di quella tradizione, che ha avuto un serio impatto anche in America, è un riflesso del fatto che l'agricoltura americana - con l'importante eccezione del Sud prima del 1865 -  è sempre stata capitalista. A differenza dell'Europa continentale, negli Stati Uniti non si è mai reso necessario costruire uno sviluppo mercantile di Stato, assistito da un servizio civile, da un sistema educativo, e di conseguenza da quell'intellighenzia disposta ad allearsi con i movimenti dei lavoratori e dei contadini. Malgrado la loro retorica, in realtà i movimenti socialisti in Europa erano assai più coinvolti nel rendere le loro società puramente capitalistiche piuttosto che nel mettere fine al capitalismo (che in alcuni casi si era installato a fatica); e nell'ottenere quelle importanti conquiste democratiche che negli Stati Uniti erano state acquisite molto tempo fa. La loro crisi è cominciata proprio quando, durante il boom del dopoguerra del 1945-1973, le società che li ospitavano alla fine avevano svuotato le loro campagna ed erano diventate pienamente capitaliste, allo stesso modo in cui lo era stata l'America per lungo tempo. È stato questo sviluppo, visto nel contesto della più grande crisi della sinistra internazionale collegata allo Stato ed al completamento della rivoluzione capitalista, che ne svela il suo reale significato storico.

Questa non è in alcun modo una critica alla critica del capitalismo svolta da Marx. È una critica al movimento operaio classico, il quale ha tratto la sua «poesia» dalla tradizione dominata dai modelli tedeschi e russi, e dal completamento della rivoluzione borghese che essi implicavano. È giunto pertanto il momento di guardare con attenzione alle altre società - inclusa soprattutto quella degli Stati Uniti - in cui la tradizione socialista europea continentale non ha mai avuto un gran peso, per la semplice ragione che le condizioni perché si desse una sua seria presenza - l'eredità dello Stato assolutista, un'intellighenzia scontenta prodotta da una funzione pubblica statalista e dal suo sistema educativo, ed una questione agraria irrisolta - erano abbastanza assenti. Quando guardiamo a società come la Gran Bretagna, l'Olanda, la Scozia, la Svizzera o gli Stati Uniti (non a caso tutti paesi in cui nel 17° secolo il calvinismo è stato particolarmente influente) vediamo che ciò che li ha messi su una strada diversa da quella della maggior parte dell'Europa continentale, è stato il fatto che erano arrivate ad ottenere un qualche tipo di società civile in quella che era l'era della Riforma e delle guerre di religione che essa aveva generato. Considerato da quella che ora è l'epoca di Ronald Reagan, e vedendola da questi decenni durante i quali gli Stati Uniti sono diventati il centro della controrivoluzione mondiale, può diventare difficile ricordare come gli Stati Uniti siano stati una volta il paese più democratico del mondo, con tutta l'incompletezza di quella democrazia. È stata la prima ad avere il suffragio generale per i maschi bianchi (1828), i primi partiti politici di massa, e persino il primo sedicente partito politico della classe operaia (1836-1837) nel periodo jacksoniano. Ed è ancora più difficile ricordare che tale primo carattere dell'America risale all'eredità dell'epoca delle guerre di Riforma e di alcune di quelle che furono le fazioni sconfitte. Nell'economia politica del 17° e del 18° secolo, essenzialmente «anglo-americana», la religione ha avuto un destino assai diverso rispetto alla sua controparte continentale. In questi paesi, una società capitalista era stata creata da dei radicali che potevano ancora continuare a parlare la lingua della religione. Sul continente, dove il cattolicesimo ed il protestantesimo erano entrambi diventate religioni di Stato, la creazione di una società civile capitalista aveva sempre richiesto un cruento confronto con la religione. In Inghilterra e negli Stati Uniti, al contrario, i radicali religiosi si trovavano in prima linea nelle lotte sociali, come nella battaglia antischiavistica e nella prima agitazione lavorativa moderna, tra la fine del 18° e l'inizio del 19° secolo. Le colonie americane i giovani Stati Uniti, vennero inizialmente insediate in gran parte da dei gruppi che avevano origine nell'ala sinistra inglese e tedesca della Riforma. Sono stati questi gruppi ad aver creato la tradizione radicale americana nativa, ed è tale tradizione ad essere stata soppiantata dall'egemonia mondiale del radicalismo continentale europeo, e dalla sua esplicita o implicita vocazione statalista del secolo scorso. Ed ora, mentre questi ultimi si eclissano, i primi si cominciano a vedere in maniera più precisa. Per chi - come me, non molto tempo fa - «andava a scuola» dai migliori teorici della Seconda e Terza Internazionale, Lenin. Luxemburg o Trotsky, la tradizione radicale nativa americana era teoricamente invisibile. Penso che sia stata meno invisibile per Marx ed Engels, i quali conoscevano quale fosse il significato storico di un Jacon Boheme per la loro tradizione. In effetti, Engels, che proveniva da un contesto profondamente Pietista, sperava che gli Shaker americani si collocassero in una prospettiva operaia.
In America, i rivoluzionari devono fare i conti con il fatto che per i due secoli che hanno preceduto il 1840 il territorio americano  (con l'eccezione del sud-ovest che era di lingua spagnola) che sarebbe diventato gli Stati Uniti era più o meno esclusivamente popolato da coloni che facevano parte della sinistra della Riforma (in gran parte inglesi e tedeschi), di indiani e neri (alla vigilia della guerra civile del 1860, questi ultimi probabilmente il 20% della popolazione). L'interazione tra questi tre gruppi ha creato quelle che sono alcune costanti della cultura americana, che fondamentalmente non sono state modificate né dall'industrializzazione né dall'ulteriore immigrazione; le due principali forza che hanno favorito l'importazione del radicalismo continentale europeo. La vera tradizione radicale americana è nata da questo incontro di anabattisti, indiani e africani, nel 17° e nel 18° secolo.
L'America oggi, è di gran lunga il paese più religioso di tutto il cosiddetto mondo «capitalista avanzato». Nell'indagine mondiale Gallup del 1976, sull'importanza delle credenze religiose, oltre il 50% della popolazione americana ha dichiarato di credere in Dio, e un numero significativo di loro ha definito sé stessi come «nati di nuovo». L'indagine Gallup ha cercato di stabilire una correlazione tra l'importanza delle credenze religiose e gli indici di sviluppo sociale. La maggior parte dei paesi del mondo si sono ordinatamente allineati lungo uno spettro che va dalla Svezia e dal Giappone (alto livello di sviluppo, incidenza del credo religioso bassissima) all'India (basso livello di sviluppo, incidenza del credo religioso molto alta). Significativamente, gli Stati Uniti si sono trovati completamente fuori dal grafico, seguiti assai da vicino dal Canada, con una coesistenza di alti indici di sviluppo economico e una grande importanza attribuita al credo religioso. Ma la questione di un esplicita fede e di una pratica religiosa appare essere del tutto secondaria rispetto a quella che è la pervasività dell'influenza religiosa nella cultura americana, che si manifesta assai più spesso sotto forma secolarizzata. Credo che sia qui che si arrivi al nocciolo delle questioni in gioco, ed al significato che ha, rispetto al presente, la cultura preindustriale precedente al 1840 creata dagli americano che erano parte della «sinistra della Riforma», coloni protestanti, indiani e neri, e che quindi facevano parte dell'ala radicale di quella cultura.
L'eredità «gotico americana» degli attuali Stati Uniti, tuttora in atto, proveniente dai puritani del New England, non può essere sottovalutata. Il nucleo durevole di tale eredità consisteva nel vedere l'America come una «nazione redentrice» storicamente privilegiata, una sorta di «città sulla collina difesa da mura e castelli»  la cui storia è stata la rivelazione di Dino nel mondo, una concezione di sé molto simile a quella degli ebrei dell'antico Israele, con cui i puritani si identificavano profondamente. Questa eredità era inoltre legata anche ad un'idea teologica di «male radicale» che si materializzava nelle forze che si opponevano al legittimo svolgersi virtuoso della provvidenza. Nel 17° secolo, nella guerra Pequot, e poi nella più totale guerra di re Filippo, nel 1676, questa volontà di annientare il male radicale venne esercitata per la prima volta contro gli indiani del New England. Furono i Puritani i fondatori di quella tradizione che porta, in forma laica, direttamente a Rambo (anche se essi erano più interessanti di Rambo), Nel 1692, nei processi alle streghe di Salem, le donne giudicate per stregoneria vennero accusate di avere appreso le «arti nere» da uno schiavo caraibico, e forse da alcuni locali sciamani indiani. Pertanto, tanto il moralismo dell'espansionismo americano quanto l'associare il «male radicale» alle popolazioni non bianche (e alle donne a tali popolazioni collegate) deriva proprio dal puritanesimo del 17° secolo. Tramite l'influenza esercitata dagli istitutori del New England - che erano all'avanguardia nell'insegnamento - e attraverso il fondamentalismo cristiano, questo originale intreccio di mentalità e di posizioni fissò quello che sarebbe stato il tono della cultura americana, ben oltre il New England, nel 19° secolo, perfino quando i puritani avevano perduto la loro antica egemonia. Ma tre secoli dopo, i secolari residui di quelle che erano le loro giustificazioni teologiche dello sterminio degli indiani continuano ad essere potenti.

Ma nella giovane America, i Puritani non sono stati gli unici Protestanti. Anzi, venivano osteggiati nello stesso New England, e in maniera più sostanziale negli stati del medio-Atlantico, da parte dei discendenti dell'altra ala più radicale di sinistra della Riforma, gli Anabattisti (e le altre correnti a loro affini), alcuni dei quali avevano fondato quelle che erano esplicitamente delle comunità cristiane comuniste fin da quando erano arrivati in Nord America. Nel 1868, decenni prima che cominciassero a farlo i ben più noti Quaccheri della Pennsylavania, i Mennoniti tedeschi della regione medio atlantica avevano già attaccato pubblicamente la schiavitù. Nella stessa Colonia della Massachusetts Bay, il libertino inglese Thomas Morton era stato spedito in catene in Inghilterra per aver venduto alcol ed armi agli indiani locali, ma soprattutto con l'accusa di aver "amoreggiato" con le donne indiane. Nel 1740, durante il primo «Grande Risveglio», il movimento di rinascita del protestantesimo americano, che aveva sia toni anti-puritani che di classe, per la prima volta i neri venivano accettati nelle congregazioni del medio-Atlantico. Ogni qual volta, emergeva la rivolta contro il Puritanesimo nel contesto della cultura protestante, essa appariva legata alla simpatia per le condizioni degli indiani e dei neri. È stato questo carattere multirazziale ad aver definitivamente reso questa tradizione radicale qualcosa di più che un Protestantesimo dissidente, inglese o tedesco che fosse, trapiantato.
Infatti, era questo carattere multirazziale ad essere l'unica cosa unicamente americana, rispetto a quasi tutto quello che, nella cultura americana degli inizi, si limitava semplicemente ad imitare l'Europa. In una ricerca della "cultura" americana del 17° e del 18° secolo che si limiti solo alle controparti dell'alta cultura europea, si trova bene poco di originale. Ciò in parte è dovuto al fatto che una tale prospettiva - già segnata dal lascito dell'intellighenzia laica continentale - è già generalmente assai poco incline a prendere sul serio la cultura religiosa. Un simile punto di vista non vede gli inni e i salmi dei Mennoniti, evolutisi quando, durante il Primo Grande Risveglio degli anni '40 del 17000, i neri si sono uniti ai corali e alle congregazioni medio-atlantiche, portando così probabilmente al primo passo di una una lunga ricchissima tradizione musicale afroamericana (una tradizione che costituisce indubbiamente il più straordinario contributo alla cultura mondiale). Non vede la dimensione religiosa propriamente africana, portata nel protestantesimo americano dagli schiavi "convertiti" (che in realtà avevano convertito la cristianità ai loro fini e alle loro tradizioni, quanto viceversa). Non vede le danze afroamericane che vengono assorbite, sotto forma di danza "ring-shout", nella pratica delle riunioni di preghiera in tenda, o all'aperto, nel corso del revival del Secondo Grande Risveglio avvenuto dopo il 1800. Non vede le ricche tradizioni dello spiritual nero - tradizioni su cui europei come i compositori Dvorak e Delius hanno dovuto richiamare l'attenzione degli eurocentrici musicisti americani, proponendola come vera cultura musicale degli Stati Uniti - che sono in definitiva alla radice della musica afroamericana degli ultimi trent'anni del 19° secolo. In un contesto più contemporaneo, una simile prospettiva non prende abbastanza sul serio il background religioso da cui sono emersi quello che sono stati i più importanti leader neri della storia americana recente: Martin Luther King e Malcolm X sono stati alla guida dei movimenti sociali che hanno scosso questa società alle sue fondamenta. Il ruolo avuto dagli indiani nella formazione della cultura americana, rimane ancora più nascosto al moderno occhio "eurocentrico", e per certi versi ancora più complesso rispetto al ruolo che avuto i neri americani. Ma non meno importante, ed in larga misura ha determinato il terreno su cui si sono evolute le relazioni tra bianchi e neri (dopo tutto, è stata l'impossibilità di schiavizzare gli indiani ad aver portato all'utilizzo degli africani).
Sia il Rinascimento che la Riforma hanno riguardato ideologie che parlavano di un «ritorno» ad un qualche passato idealizzato: il Rinascimento guardava al classicismo greco-romano, e la Riforma volgeva il suo sguardo alle prime comunità cristiane, precedenti alla comparsa della Chiesa cattolica. Questa svolta verso le «origini» avvenne, forse non a caso, proprio quando l'esplorazione europea rivelò l'esistenza di terre (in particolare, il Nord America ed il Brasile) e di «popolazioni senza lo Stato» che, per alcuni, sembravano incarnare l'immaginario biblico di «prima della caduta». Si tratta, qui, di una questione complicata (affrontata meglio nel mio "Race and the Enlightenment"), ma c'è da dire che è stata al centro di tre secoli di utopie legate al Nuovo Mondo!
Riprendiamo il filo della questione agraria. La guerra civile americana del 1861-1865 è stata l'epilogo di una crisi che ha dominato la politica americana, dal suo apparire negli '40 del 19° secolo e fino alla sua eclissi degli anni 1870, vale a dire, proprio nel periodo in cui sono nati i moderni movimenti europei ed americani della classe operaia. L'emancipazione degli schiavi, dei quali era un prodotto, faceva infatti parte di una più ampia congiuntura politica internazionale che vedeva l'emancipazione dei servi della gleba in Russia, la Restaurazione Meiji in Giappone, e le unificazioni della Germania e dell'Italia, ciascuna delle quali, nei termini di una riorganizzazione del mercato interno rivolta ad una nuova fase di accumulazione del capitale. Nel 1873, aveva avuto inizio una depressione mondiale, che ebbe l'effetto di sgonfiare i prezzi dei prodotti agricoli fino gli anni 1890. Di conseguenza, gli Stati Uniti, la Russia, il Canada, l'Argentina e l'Australia emergevano in quanto principali esportatori di grano. La drastica diminuzione del costo del cibo rese possibile che il consumo materiale per i lavoratori aumentasse, sebbene i loro salari reali, nella medesima deflazione, diminuissero.
Lo stesso processo iniziò a verificarsi anche per quei prodotti che verranno consumati dai lavoratori una ventina d'anni dopo. A partire dagli anni 1880, in parte stimolati dalla capacità di nutrire un maggior numero di lavoratori industriali urbani per mezzo di salari più bassi, la produzione di massa divenne una priorità assoluta, in particolar modo negli Stati Uniti ed in Germania. A partire dagli anni '20 del Novecento, il capitalismo era sul punto di mettere a disposizione della classe operaia i beni di consumo prodotti in serie e durevoli, così come era avvenuto precedentemente con il cibo. Con il diminuire dei costi di produzione, i lavoratori avrebbero potuto acquistare tali prodotti anche se il loro reddito rimaneva stabile, e perfino nel caso che addirittura diminuisse, in maniera relativa o assoluta. È stata una tale realtà - e non i «super-profitti» derivanti dagli investimenti imperialisti - la base materiale per il riformismo del movimento operaio occidentale classico.
In seguito a tutto questo, a partire dall'inizio del 20° secolo, il capitalismo americano è stato all'avanguardia nella creazione di una cultura urbana di consumo di massa, con sfumature edonistiche, la quale cominciava a minare seriamente la tradizione puritana nella cultura americana, che nel 1900 era rappresentata dalla moralità "vittoriana", dalle leghe anti-alcol, dal revival fondamentalista nella "Bible Belt", e dal boosterismo [*] delle piccole città. Questo consumo urbano di massa, insieme alla cultura edonista che esso ha rapidamente cominciato a produrre, ha reso possibile - a partire dalla rivoluzione nella produttività agricola, prima, e nella produttività industriale, dopo - un sogno che rimaneva lontano per i paesi europei dove i movimenti socialisti militanti erano in primo piano; movimenti che spesso essi stessi hanno avuto più di una ventata di moralità puritana. E al centro del fascino universale di questa cultura, si trovava la musica e la danza di matrice nero-americana, a cominciare dal cakewalk negli anni 1880, seguito poi dal ragtime e infine dall'«altra rivoluzione del 1917», la svolta mondiale del Jazz.
Il fondersi, risalente al 17° secolo, dell'anti-puritanesimo della Riforma Radicale tedesca e del millenarismo della Riforma Radicale inglese con gli indiani, e più tardi con gli africani, nel lungo periodo avrebbe creato la base sotterrane di una sorta di libertà genuina, che rimaneva comunque legata alla reificazione, all'atomismo e a quella passività che l'Europa continentale avrebbe ottenuto seriamente su larga scala solo dopo la seconda guerra mondiale. Questo "Afro-Anabattismo", era e continua ad essere una tradizione rivoluzionaria genuinamente americana, su cui si sono basati, in ultima analisi, tutti i fondatori di ogni giacobinismo,  socialdemocrazia e bolscevismo.
Quello che sto suggerendo è che la sinistra internazionale, appena uscita da oltre un secolo di egemonia, prima "tedesca" e poi "russa", sia stata di fatto colonizzata da una visione del mondo che ha le sue radici nelle problematiche degli Stati dispotici dell'Europa continentale, e di quelle delle loro opposizioni; una visione del mondo che accettava acriticamente tutta quanta l'intera eredità del «Aufklaerung» (uso qui il termine tedesco di «Illuminismo», in quanto esso ha costituito il servizio civile prussiano dei primi anni del 19° secolo, il quale ha condotto quello strato sociale nella tradizione rivoluzionaria, culminata nella filosofia di Hegel) sviluppatasi poi dalla parte del servizio civile statale e dall'intellighenzia, ed ha poi messo in ombra quelle che erano le radici della Riforma Radicale presenti nel marxismo, in particolare per quei paesi, come gli Stati Uniti, dove l'ala sinistra della Riforma era stata effettivamente la fonte diretta della tradizione radicale. Possiamo facilmente immaginare un esponente di questo punto di vista «Aufklaerung» mentre ammette che la Riforma Radicale è stata effettivamente alla base della tradizione radicale nativa americana, solo per poi continuare dicendo in modo del tutto naturale che tale tradizione - in contrasto con la visione ostentatamente marxista da lui difesa - era "piccolo borghese".
Forse è questo un termine utile per cogliere il carattere pre-industriale, o anti-industriale dei Mennoniti, degli Schwenkfelders e degli Hutteriti delle comunità comuniste della Pennsylvania orientale, dei radicali del Grande Risveglio del 1740 che hanno generato il fermento che ha portato alla Rivoluzione Americana, degli Shakers, del partito "anti-massonico" del 1820 nello stato di New York, degli Abolizionisti o di alcune correnti del radicalismo agrario del dopoguerra civile. Presi da sé soli, forse questi seguaci di Jacob Böhme, Immanuel Swedenborg e William Blake - i veri teorici della tradizione americana «nativa» - potrebbero anche essere liquidati con il più sprezzante degli epiteti marxisti. Ma ciò che rende unica l'America, la fonte principale di quello che io chiamo «Afro-Anabattismo», è proprio l'incrocio, il «crossover» tra questi rifugiati provenienti dalla sconfitta della Riforma Radicale Europea e gli indiani, e più tardi gli africani che hanno incontrato qui, come abbiamo rapidamente tratteggiato. E a partire da questo crossover - il progetto storico nascosto di quella che era una «Nuova Gerusalemme» multirazziale che, già alla fine del 17° secolo, indicava qualcosa che si trovava al di là dell'Occidente - sto suggerendo come la tradizione utopica americana sotterranea abbia abbandonato il terreno del radicalismo  «piccolo borghese». Se la tradizione radicale continentale europea si basa sulla fusione dell'intellighenzia con la classe operaia e con quella contadina, allora la tradizione radicale americana, le cui fonti risultano essere precedenti all'«Aufklaerung», si basa sulla fusione tra Riforma Radicale, indiani e africani. Se il nostro ipotetico paladino della corrente «Aufklaerung» del marxismo contemporaneo desidera definire «piccolo borghese» la tradizione radicale nativa, allora dovrebbe quanto meno rendersi conto che egli sta parlando assumendo il punto di vista del servizio civile dello Stato illuminato - quello che industrializza i paesi arretrati - e non quello dell'umanità emancipata, superando così il lavoro e il tempo libero in nuovo tipo di attività della specie. I lettori - alle prese con i problemi pratici dell'attuale crisi e con l'apparente vicolo cieco in cui la tradizione che deriva principalmente da Lenin, Trotsky o Luxemburg sembra condurci, portandoci in un mondo nel quale la robotica e la deindustrializzazione stanno decimando la classe operaia occidentale, su cui le vecchie tradizioni poggiano - a questo punto potrebbero anche domandarsi a cosa possa servire resuscitare le vecchie correnti «native» del radicalismo. Nell'attuale economia globale «sovranazionale», non sarebbe forse solo un'ulteriore utopia «reazionaria» ancora più morta di quanto non lo sia l'eredità della Seconda e della Terza Internazionale? I direi piuttosto: al contrario.

Se il marxismo della Seconda e della Terza Internazionale – includendo in esso quelli che sono stati i suoi migliori rappresentanti - è stato in effetti l'ideologia di un «completamento della rivoluzione borghese», nella quale la questione agraria e il ruolo dei contadini sono stati gli ingredienti meno noti, ma indispensabili, in quelli che erano ostentatamente i movimenti della «classe operaia»; se questi movimenti erano in realtà più orientati all'abolizione del pre-capitalismo, piuttosto che a quella del capitalismo (un progetto nel quale hanno avuto un discreto successo, dalla Germania alla Cina); e se hanno finito per incorporare in sé il «discorso» del servizio civile statale illuminato, ed hanno trasformato il marxismo da quella che era una teoria della «comunità umana materiale» (Manoscritti del 1844) in una strategia per industrializzare i paesi arretrati; allora a questo punto mi sembra giusto dover dire che tali movimenti sono sorti dal mondo dell'egemonia del lavoro che ha imposto sé stessa, prima in Inghilterra e poi altrove, a partire dal 17° secolo in poi.
Ma il marxismo, in quelle che erano le sue sorgenti e le sue aspirazioni più profonde, non ha a che fare solo con l'«umanizzazione» del mondo del lavoro, e neppure con il controllo della produzione (e della riproduzione) da parte della classe operaia; cose che sono state al centro delle più sane correnti marxiste del 20° secolo. Il marxismo riguarda il superamento dell'antagonismo capitalistico tra lavoro e tempo libero in quello che dovrebbe essere un nuovo tipo di attività, la quale possa comprendere le attività attualmente disperse in quelle sfere separate. La tradizione americana della Riforma Radicale/Indiana/Africana proviene da un passato precedente all'istituzione dell'egemonia del lavoro, e indica un futuro che va oltre l'egemonia del lavoro, caratterizzato da una più alta forma di «attività totale» che, nel migliore dei casi, si è manifestata nelle società pre-capitaliste (ad esempio, nelle grandi manifestazioni del Rinascimento), e che in realtà si trova più vicina al comunismo di quanto lo siano le ricette per l'industrializzazione dei paesi arretrati della Seconda e Terza Internazionale.
Non molto tempo fa, i critici del marxismo erano soliti riferirsi allo standard del tenore di vita dei lavoratori occidentali come se esso fosse l'ovvia confutazione della vecchia previsione marxista riguardo il «progressivo immiserimento» del proletariato. La comparsa della «rust belt», nel Midwest, e le legioni di senzatetto che frugano nei bidoni dell'immondizia, in ogni città americana, ha seppellito quel punto di vista, e la maggior parte della gente presagisce che questo è solo l'inizio. Ma simili inconfutabili conferme della teoria marxiana della crisi non servono ad occultare il malessere sentito da quei rivoluzionari socialisti che sentono che le loro migliori tradizioni sono per il presente e per il futuro delle misere guide, e che né l'eredità rivoluzionaria della «Germania» né quella della «Russia», e neppure i più accessibili ricordi della storia americana del lavoro, come Flint '37, possono essere più di grande utilità nel mondo della nuova divisione internazionale del lavoro e delle strategie, ad alta intensità tecnologica, per espellere il lavoro vivente dal processo di produzione. Le fabbriche occupate a Flint erano tra le le più nuove e le più produttive del mondo; oggi, non esistono più, né lì né in altri siti produttivi negli Stati Uniti. Marx, nei Grundrisse (1857), fu anche un visionario, nel prevedere una fase del capitalismo nella quella la scienza si sarebbe appropriata direttamente del processo produttivo, e sarebbe diventata di per sé un'importante fonte di valore. Una simile fase del capitalismo, non solo coesisterebbe con l'espulsione su larga scala del lavoro vivente dalla produzione di massa, ma sarebbe l'altra faccia di tale espulsione. Fondamentalmente, stiamo vivendo in quel mondo. Per la classe operaia americana, e per  i suoi alleati, l'unica scelta è quella di una prospettiva marcatamente internazionalista finalizzata ad una ricostruzione dell'economia globale basata e guidata dalla classe operaia, oppure continuare a subire la continua ristrutturazione capitalistica adesso in corso, con tutta la deindustrializzazione e lo sventramento del tenore di vita che ciò implica, di cui gli ultimi 10-15 anni sono stati solo un assaggio.
Ma dall'altro lato di questa fase «Grundrisse» del capitalismo, che adesso si sta realizzando su scala globale, ad aver dominato - da quando il capitalismo è diventato per la prima volta il modo di produzione dominante - è stata l'emancipazione della società dall'egemonia del lavoro. Questa emancipazione, come abbiamo detto prima, non sarà la Lotusland cibernetica immaginata da alcuni «visionari» degli anni '60 (che si limitava semplicemente ad estrapolare da una visione degradata del tempo libero capitalistico, e dalla sua passività, una tendenza per il futuro), ma piuttosto un nuovo tipo di attività in cui il lato creativo, propositivo del lavoro contemporaneo e gli aspetti dispersi (ad esempio, estetici) del «tempo libero» contemporaneo si fondono in qualcos'altro. In alcune società degli aborigeni australiani, ad esempio, la parola che viene usata per «lavoro» e per «gioco» è la stessa, e non esiste alcuna parola per «arte», dal momento che tutto quanto è permeato da quella dimensione estetica che noi abbiamo isolato nel ghetto dell'«arte». Se tutta questa analisi dell'avvenuta fusione tra Riforma Radicale, Indiani e Africani è giusta, allora i radicali americani posseggono un patrimonio di straordinaria ricchezza che può servire loro a rinnovare il movimento nel prossimo periodo di confronto che li aspetta; un'eredità valida non solo per gli Stati Uniti ma che è finalmente degna anche di quella «forma della terra Angelica», per dirla con Blake, che il mondo ha tentato, ed in qualche misura ancora oggi cerca di provare a vedere nell'incompiuto progetto storico di questo paese.

- Loren Gordner - Luglio 1987 -

NOTE

[*] N.d.T.: Il boosterismo è l'atto di promozione di una città, città o organizzazione, con l'obiettivo di migliorarne la percezione pubblica. Potenziare può essere semplice come parlare dell'entità a una festa o elaborato come stabilire un ufficio dei visitatori. È stato in qualche modo associato alle piccole città americane


BREVE BIBLIOGRAFIA
(I titoli appaiono nell'ordine suggerito dal loro susseguirsi delle idee esposte nel testo)

- Sulla tradizione della Riforma Radicale, si veda; Frederick Engels, "La guerra contadina in Germania".
- Su alcune inadeguatezze del Marxismo divulgato dalla Seconda Internazionale, si veda: Karl Korsch, "Il marxismo e la filosofia".
- Sui NIC (Paesi di Nuova Industrializzazione) ed il loro impatto sull'economia mondiale e sull'ideologia terzomondista, si veda: Nigel Harris, "The End of the Third World: Newly Industrializing Countries and the Decline of an Ideology". In proposito si può leggere questo breve articolo (LA STRANA MORTE DEL TERZO MONDO, di Beverly J. Silver & Giovanni Arrighi in  http://spazioinwind.libero.it/rfiorib/documenti/terzo_arrighi.htm
- Sull'impatto internazionale del calvinismo, si veda Michael Walzer, "La rivoluzione dei santi. Il puritanesimo alle origini del radicalismo politico" (edizioni Comunità).
- Sugli Shakers ed altre correnti del primo comunismo americano, si veda:  Henri Desroches, "Gli Shakers americani" (edizioni Comunità).
- Sull'impatto che la religione secolarizzata ha avuto sulla politica americana, si veda: Robert Bellah, "The Broken Covenant: : American Civil Religion in Time of Trial".
- Riguardo al retaggio del «American Gothic» dei puritani, sottolineo l'eccezionale importanza che hanno avuto per la mia visione della storia americana, due libri di Richard Slotkin: "Regeneration Through Violence: the Mythology of the Frontier 1800-1860" e "The Fatal Environment: The Myth of the Frontier in the Age of Industrialization, 1800-1890".
- È stato anche utile il libro di Richard Drinnon, "Facing West: The Metaphysics of Indian-Hating and Empire-Building"; il quale ripercorre lo sviluppo dalle guerre dei puritani con gli indiani, al Vietnam.
- Sulla crisi della tradizione dei «Rambo», si veda: Tom Engelhardt, "The End of Victory Culture: Cold War America and the Disillusioning of a Generation".
- il libro di W.J. Cash, "The Mind of the South", mostra come l'ideologia pre-1840, l'ideologia pre-industriale del Sud sia stata rielaborata nell'era dell'industrializzazione, e suggerisce come un'analisi simile possa essere sviluppata per gli Stati Uniti nel loro insieme.
- Sull'impatto avuto dall'indiano sulla cultura americana, si veda: Elemire Zolla, "I letterati e lo sciamano" (Marsilio).
- Sullo sviluppo di quella che è stata una musica spiccatamente afroamericana, distinguendosi dall'iniziale eredità africana, "La musica dei neri americani. Dai canti degli schiavi ai Public Enemy" (Il Saggiatore) di Eileen Southern è una buona introduzione.
- Sul confronto diretto della musica nera americana con la tradizione rivoluzionaria europea continentale, si veda: S. Frederick Starr, "Red and Hot: the Fate of Jazz in the Soviet Union".
- Sulla relazione tra la musica nera del 20° secolo e le tradizioni religiose africane ed afroamericane, si veda: Lawrence Levine, "Black Culture and Black Consciousness".

fonte: libcom