venerdì 1 agosto 2025

Tempeste per un Altro Sogno

Il Continente Américo
di Sébastien Navarro

Sir William Walker, è un retore tanto formidabile quanto affascinante. Di fronte a un areopago di coloni portoghesi vestiti con il loro abito della domenica, davanti a questi signori, egli ha appena paragonato quali sarebbero per loro i vantaggi derivanti dal mantenere una donna mulatta «pagata a cottimo», piuttosto che una donna della loro classe sociale, a un costo assai più alto. Scioccati e solleticati, gli uomini ridono. Poi, lasciato il terreno caro ai lascivi, per quello degli economici, Sir William Walker si fa serio e chiede: «E allora, signori, ditemi, secondo voi, che cosa è più redditizio: uno schiavo o un lavoratore salariato?». Ci troviamo all'inizio dell'Ottocento, a Queimada, un'isola "immaginaria" dei Caraibi che viene sfruttata attraverso la sua monocoltura di canna da zucchero. E siamo in un film – Queimada – diretto da Gillo Pontecorvo e uscito sugli schermi nel gennaio del 1971. Qualche anno prima, sempre lo stesso Pontecorvo, aveva diretto "La battaglia di Algeri". Su di lui, la questione coloniale deve aver lavorato parecchio; così come deve aver fatto questo suo corollario: il mito della liberazione nazionale. Queimada, è un film esteticamente e politicamente brillante. Nel film vediamo l'intrigante Sir William Walker – interpretato da un subdolo e magnetico Marlon Brando – che fomenta una rivoluzione indigena al solo scopo di fare in modo che la Corona britannica spodesti l'Impero portoghese, mettendo così le mani sulle risorse di zucchero presenti sull'isola. Abolire la schiavitù, per scardinare le regole del "libero mercato": il cinismo dei funzionari del Capitale è senza limiti. Pertanto, Walker-Brando spiega ai coloni quali sarebbero i termini dell'accordo: «E allora, cos'è meglio per voi? Il dominio portoghese, con le sue tasse, la sua legislazione e il suo monopolio commerciale, oppure preferite l'indipendenza, con un governo e un esercito vostro, con un'amministrazione vostra, e con la libertà di commerciare con tutti coloro che obbediscono solo alle regole, e al prezzo, del commercio internazionale?». I coloni appaiono sedotti, e l'idea di essere a capo di una nazione indipendente sembra piuttosto allettante. Ma uno di loro, tuttavia, è titubante: «E se il nostro lavoratore, nel momento in cui cessa di essere uno schiavo e, anziché diventare un lavoratore, volesse invece diventare un datore di lavoro?» Walker-Brando coglie l'occasione: non era certo interesse, né delle imprese internazionali né del futuro Stato insulare , che il processo rivoluzionario arrivasse fino alle sue "estreme conseguenze". Facciamoci a capire: gli schiavi, i futuri lavoratori "emancipati", dovranno rimanere comunque al loro posto. Cambiare tutto affinché non cambi nulla, l'adagio promosso da un altro regista italiano – Luchino Visconti con il suo Gattopardo – incontra la sua ennesima fredda illustrazione nella Queimada di Pontecorvo.

Il funambolo mozambicano
Il caso ha fatto le cose piuttosto bene. La sera prima di vedere "Queimada", avevo appena finito di leggere "Orages pour un autre rêve": l'impero portoghese, la questione coloniale, la fuorviante liberazione nazionale, il medesimo filo storico. Perfino le stesse domande attraversano queste due opere. Con il sotto-titolo "Dal terzomondismo alla sinistra comunista, e oltre", il libro di Américo Nunes dipinge il ritratto del suo autore, nato nel 1939 in Mozambico, poi trovatosi ancora sotto la dominazione portoghese, e infine morto nel gennaio 2024 in Francia. "Américo" - quel nome - non c'è da stupirsi che con una fiammata del genere la vita del giovane mozambicano assomigli a un continente! «Per lui, la strada da percorrere contava più della meta», riassume Freddy Gómez in una prefazione che tenta di dipingere il ritratto di un amico che non può essere incasellato, accampato com'era su una base "marxista-bakuniniana", di una ricchezza così tanto necessariamente complessa, e francamente eterodossa. Quel che c'è di sicuro nel leggere un libro che si presenta sotto forma di una lunga intervista, è il piacere ineffabile che esso dà. È come se il testo stesso venisse indossato, si subisce una sorta di stupefacente incarnazione: ci immaginiamo le voci, i silenzi, i volti che poi invece, tutt’a un tratto, improvvisamente si calmano, si sorridono l’un l’altro, complici, oppure sprofondano nella concentrazione. Se la pasta testuale appare come se fosse stata oggetto di un lungo e paziente lavoro di omogeneizzazione letteraria, "Orages pour un autre rêve" mantiene il fascino spontaneo di una lunga discussione, nel corso della quale il tempo si allunga e si contrae, quasi nel tentativo di cogliere il più possibile la sostanza di un viaggio in cui si viene sballottati dalle accelerazioni della Storia. Sentiamo domande che ne preannunciano altre, e risposte che richiedono a loro volta lunghi sviluppi, fughe controllate, derive, e nuovi punti di fuga. A partire da questa dinamica, condivisa tra i due relatori – Yann Martin come interrogante, e Américo Nunes come testimone di una vita –, il lettore viene coinvolto in un gioco in cui immagina di essere lui  il terzo avventore. La Guerra Fredda, le lotte anticoloniali, il maggio '68, la rivoluzione conservatrice: Américo ne ha passate talmente tante... La sua memoria chirurgica raschia con precisione gli strati di sedimenti storici, alternando un approccio soggettivo a una prospettiva globalizzante. In bilico su una linea sottile, il funambolo mozambicano ripercorre la propria storia, camminando sull’orlo tra la febbre filosofica e la ricerca di una prassi rivoluzionaria. E se il libro si aggrappa a una cronologia, questo avviene però a condizione che essa non serva a raffreddare - sporgendosi da quello che sarebbe uno sguardo invecchiato o mandarino -  le braci di ciò che invece è stato un "evento". Il passato è come la memoria; in movimento, sempre. Ed è sempre il passato che abita il presente, e che lo rafforza a partire dalla sua volontà trasformatrice. Da qui, il magnifico motto enunciato di Américo: «Tutto dev'essere sempre riformulato, eternamente e senza rimorsi».

A proposito del "male coloniale" visto come matrice politica
Tutto ebbe inizio in quel pezzo di Africa australe colonizzato dai portoghesi durante la seconda metà del XIX secolo. Il Mozambico è stato la "colonia-discarica", altamente segregata, in cui è cresciuto Américo, «figlio di una madre analfabeta e di un padre supervisore doganale». L'impronta coloniale non divideva solo le "razze" tra di loro, ma anche all'interno del blocco colonizzatore manteneva gli strati sociali emersi dalla matrice metropolitana. È a partire da questa posizione sociale "inferiore", che Américo continua a nutrire un tenace "rancore" - persino un tenace "odio"  - verso le "alte caste". Molti decenni dopo, ammetterà sempre di provare ancora un "odio" rimasto del tutto intatto nei confronti di tutto quanto riguarda la borghesia, qualunque siano le latitudini globali in cui essa infuria.. Ma è stato al liceo che la sua coscienza politica si è cristallizzata, e si è scontrata con il cosiddetto "ethos coloniale". Mentre, con i suoi compagni, accompagnava un giornalista in una piantagione di canna da zucchero, scopre l'infamia del lavoro forzato: «Quello che abbiamo visto lì, è stato terribile: gente in catene, bambini con gli occhi malati coperti di mosche. Eravamo letteralmente inorriditi. Tutto questo lo sapevamo già, ma in astratto. Lì abbiamo constatato de visu questa realtà. E una simile visione ci ha reso per sempre consapevoli di quale sia l'estensione del "male" coloniale, della sua fondamentale disumanità e delle torture che infligge alle anime e ai corpi mutilati.» Lettore bulimico, è grazie ai libri che il giovane mozambicano infittisce e rafforza la propria cultura politica. Américo divora tutto ciò che gli capita sotto tiro. Il giovane ha già capito che una cultura a compartimenti stagni è una cultura atrofizzata. L'ideologia – «il luogo patologico del potere» – è la trappola in cui cadono le visioni bidimensionali: bene/male; il dominante/il dominato; Bianchi/Neri. Il pensiero binario è assai comodo; è anche pigro, funziona come un riflesso pavloviano. Per Américo, è fuori questione lasciarsi bloccare in un simile impoverimento dello spirito. Per lui, l'incontro con un libro è sempre una promessa dell'espansione dell'io intimo. In questo c'è potere e divertimento. Senza mai crogiolarsi nell'esposizione, possiamo intuire qual era l'evidente piacere che egli provava nel citare autori fondamentali che avevano segnato la sua giovane vita: Roland, Istrati, Kazantzakis, Kafka, Proust, Musil, Malraux, Serge, Babeuf. Panoramica non esaustiva. Il giovane Nunes venne anche segnato dall'acme fraterno della Rivoluzione francese. La Comunità degli Uguali è l'universale che ci consente di potersi abbeverare al "romanzo dell'utopia". Va tutto bene, presto leggeranno anche i cosiddetti socialisti "utopisti". Il passato non è più un'inafferrabile zona grigia, ma è l'affresco su cui ci arrampichiamo per misurare il mondo e le sue molteplici possibilità. L'utopia - per tornare ad essa -non ha nulla a che vedere con un futuro congelato in un equilibrio perfetto. Non è una stasi di felicità condivisa - che poi diviene l'altro nome adulterato per le future repubbliche "socialiste" - dove l'altro lato della scena alla fine non è altro che baraccamento, e purghe incessanti. Quella che ci viene così rilevata, è l'effrazione. L'attrito insieme all'alterità. Bisogna pensare contro di esso. Anche contro sé stessi. Più che il loro confronto, è il superamento degli opposti: «Solo la tensione tra vero e falso, è vera, perché è dialettica»; così teorizza brillantemente il mozambicano. E poi, quando i libri si stancano, c'è il Ciné-Club de Beira, una "calamita culturale" che salda una "comunità". Il cinema francese, il neorealismo italiano, il realismo sovietico, i film sono in versione originale e a essi segue un dibattito. Il giovane Américo scopre il mondo attraverso le immagini; socializza, discute degli argomenti che costituiscono la società. La cinefilia non lo avrebbe mai  più abbandonato.

Da Algeri alla Comune di Censier
Nel luglio del 1961, il Portogallo era ancora sotto lo stivale di Salazar, Américo si rifiuta di prestare servizio militare, fugge e si stabilisce in Francia. Iscritto a un corso preparatorio alla Sorbona, legge filosofi e si batté per l'indipendenza del Mozambico. Nel luglio del 1963, attratto dal "canto delle sirene del socialismo autogestito", attraversa il Mediterraneo e sbarca ad Algeri. Liberata dal dominio francese, l'Algeria, da poco indipendente, intende incarnare una terza via tra le democrazie liberali e il socialismo autoritario. Ahimè, Algeri, "capitale delle rivoluzioni" e faro terzomondista dei paesi non allineati, cela male una realtà in cui il Partito-Stato si dichiara egemonico. Essendo che la geografia è capovolta, è ad Algeri che incontra Cuba. Américo diventa traduttore per l'agenzia cubana "Prensa Latina". Nel febbraio 1965, durante i lavori preparatori per la Conferenza afro-asiatica, incontra il Che. Nonostante la sua aura, l'argentino è già ormai "un uomo solo". Il guerrigliero è colui che impedisce ai rivoluzionari di capitalizzare sulla rivoluzione, in altre parole, di mettere il culo sulle loro nuove sedie di leadership. Américo afferma che, pur essendo cresciuto con il marxismo-leninismo, il Che appare sempre più dubbioso nei confronti del processo rivoluzionario cubano. Peggio ancora: è a conoscenza del carattere mercantile e "imperialista" del cosiddetto "aiuto sovietico a Cuba". Ma il Che può ben capire che la Guerra Fredda è il "glacis"! che impedisce l'emergere di  ogni e qualsiasi rivoluzione veramente autonoma, e tuttavia si blocca nel suo obiettivo rivoluzionario in Sud America. Una testardaggine che causerà la sua caduta e la sua futura trasformazione in un'icona. Ad Américo si fa sempre più chiara la consapevolezza che c'è qualcosa che non va nel bel sogno della liberazione nazionale: come se, appena decolonizzati, i popoli stessero solo cambiando gli oppressori. La frase inesauribile del Gattopardo. Più in generale, è il processo rivoluzionario a mostrare i suoi limiti, e il potere la sua natura fondamentalmente conservatrice e corruttrice. «La tragedia delle rivoluzioni», egli giustamente sottolinea, «è che, una volta esaurito il loro momento aurorale e romantico, questa parentesi in cui si articolano rispetto al sensibile, al mondo umano del sensibile, e al sensibile del mondo umano, si rivoltano contro sé stesse e finiscono per distruggersi». Pochi mesi dopo il colpo di Stato di Boumediene, nel giugno 1965, Américo lascia l'Algeria e torna in Francia. Due anni dopo, la morte del Che segnò la fine della sua "attrazione per il 'donchisciottismo' rivoluzionario terzomondista", il quale, alla fine, fa sempre il gioco degli stati-nazione e delle oligarchie; sia imperialiste che patriottiche.» A Parigi, Américo frequentava la libreria "La Vieille Taupe", "una vera e propria cantina del tesoro" (questo era ben prima della deriva negazionista del suo padrone di casa). Si unisce al "Potere Operaio", una scissione da "Socialismo o Barbarie", e cuore galattico di quello che si chiamava "comunismo di sinistra". Parallelamente al suo attivismo, si iscrive alla "École pratique des hautes études" e scrive una dissertazione su "Ricardo Flores Magón e la rivoluzione sociale in Messico". Basti pensare che, quando scoppia il maggio del '68, egli era un ventinovenne che si rivelò essere abbastanza "armato" da poter pretendere l'impossibile insieme ai disselciatori. Il Maggio '68 è una costellazione. All'interno di essa, la Comune di Censier è una delle stelle incandescenti attorno a cui gravita Amèrico. Censier rappresentava il «controesempio rispetto alla Sorbona, la quale si trovava come immersa nello spettacolo rivoluzionario». Censier vuole tenere a distanza le sette di sinistra e gli ideologhi dei piccoli passi. Censier se ne fotte del programmatismo e delle figure tutelari. «Era uno spazio in movimento, in cui cercavamo di poetizzare le nostre vite, le nostre esistenze in divenire, verso delle relazioni inter-individuali e inter-collettive senza precedenti». «Poetare», prosegue Américo, «per quell'epoca significava accrescere la vita di ciascuno attraverso tutte le altre vite, attraverso discussioni senza alcun preconcetto ideologico, attraverso dibattiti in cui ciascuno potesse esporre, senza alcun tipo di costrizione, ciò che sentiva riguardo al movimento, all'essere compagno, alla verità umana, alla nostra verità in azione, la quale, alla fine, avrebbe potuto realizzarsi solo nella relazione con gli altri.» "Orages pour un autre rêve", è assai più di un'intervista nel corso della quale si rivela un uomo e il suo viaggio. È un'eredità. Un continente. Un'esperienza condivisa per mezzo della quale misuriamo tutto ciò che è andato perso per strada; tutto ciò che ha finito per essere come una sorta di "non trasmissione di pratiche e di conoscenze". Un'eredità, un pensiero, a partire dal quale, l'urgenza ci impone di riconnetterci per smentire i cinici oracoli di Queimada e del Gattopardo. Una storia in cui  alla fine tutto cambi, in modo che, davvero, tutto cambi!

- Américo NUNES, "ORAGES POUR UN AUTRE RÊVE. Du tiers-mondisme à la gauche communiste, et au-delà" Conversations avec Yann Martin. Édition et avant-propos de Freddy Gomez. L’échappée, 2025, 304 p.-

- Sébastien Navarro - Pubblicato  su https://acontretemps.org/

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