giovedì 31 marzo 2022

Vie d’uscita…

La «Critica della dissociazione del valore», è una corrente teorica che mira a rinnovare la critica radicale dell'economia politica, e si basa su una rilettura del Capitale di Karl Marx. Questa corrente si è sviluppata in Germania, Austria e Francia. Le sue figure più note, riunite nei gruppi e nelle riviste "Krisis" e "Exit!" sono: Robert Kurz, Roswitha Scholz, Norbert Trenkle, Anselm Jappe e Claus Peter Ortlieb.

I - Critica del valore

Dissociazione del valore
La critica del valore intende il capitalismo come una forma di feticismo, e identifica nel valore il vero «soggetto-automatico» del capitalismo. Borghesia e Proletariato, si limitano a perpetuare il processo di valorizzazione del capitale, senza che, ovviamente, ciascuna classe ne tragga i medesimi benefici. Roswitha Scholz, ha completato questa critica sostenendo che «il valore è il maschio». Il valore, in quanto soggetto-automatico non rappresenta la totalità costitutiva della società capitalista. Va presa in considerazione anche l'esistenza di attività di riproduzione, o di rigenerazione della forza lavoro (cura, nutrimento, manutenzione della casa, educazione dei figli...) le quali vengono realizzate soprattutto dalle donne.
«Il concetto di "dissociazione dal valore" sottolinea l'idea secondo cui queste attività di riproduzione, determinate come femminuli, sono, per l'appunto, dissociate dal valore.»
In altri termini, la sfera del non-valore è stata essenzialmente devoluta alle donne. Nella società capitalista, il valore e la dissociazione vanno intesi come se intrattenessero una relazione dialettica. Ciascuno non può essere dedotto dall'altro, ma nascono entrambi l'uno dall'altro. Tuttavia, per poter chiarire questo concetto di «dissociazione-valore», è necessario prima spiegare che cosa si intenda con il concetto androcentrico di «valore» così come viene inteso dalla «critica fondamentale del valore».

Valore e lavoro
Nelle condizioni capitalistiche della produzione, rivolta a dei mercati anonimi, i membri della società, anziché utilizzare le proprie risorse mettendole in comune al fine di una produzione ragionata della loro esistenza, producono in maniera separata gli uni dagli altri. E le merci,  gli oggetti o i servizi prodotti, diventano dei prodotti sociali solo dopo essere stati scambiati sul mercato. Ora, per far sì che le merci possano essere interscambiabili, è necessario presupporre che abbiano tutte qualcosa in comune. Questo denominatore comune è il «valore». La sostanza del valore è il «lavoro astratto», inteso come dispendio di tempo, della forza e dell'energia umana. È pertanto nella misura in cui rappresentano il lavoro passato che le merci costituiscono «valore». Questa rappresentazione, a sua volta, si esprime attraverso un dispositivo, il denaro, il quale è la forma generale che il valore assume in tutto l'universo delle merci, e che in quanto equivalente generale è in grado di essere scambiato con tutti i prodotti del lavoro umano.

Feticismo del valore
La relazione sociale che viene mediata attraverso il «valore» rovescia, mettendola a testa in giù, le relazioni che le persone intrattengono con i prodotti materiali. I membri della società appaiono come dei semplici produttori privati. Gli individui sembrano privi di qualsiasi legame tra loro. La relazione sociale appare come se fosse un rapporto tra delle merci che entrano in relazione a partire dalle quantità astratte di valore che esse rappresentano. Il concetto di feticismo del valore coglie e descrive un tale capovolgimento dell'attività sociale, la quale sottomette e assoggetta gli esseri umani a quelle che sono delle relazioni create dai loro stessi prodotti. Questo feticismo fa un ulteriore passo avanti nel momento in cui trasforma il valore in capitale.

Trasformazione del denaro in capitale
Una delle definizioni del capitale. data da Karl Marx, è quella di «valore in processo». Il capitale è un valore che si incrementa, passando dalla forma denaro (A) alla forma merce (M), e poi nuovamente viceversa, secondo la formula: A - M - A' , dove A' > A. Il risultato di questo movimento fornisce un nuovo punto di partenza possibile: A' - M - A'', dove A'' > A'. Un tale movimento può essere ripetuto all'infinito, purché il termine iniziale e quello finale siano nella medesima forma di denaro. Le condizioni di questa valorizzazione del valore in sé, sono due e distinguono il modo di produzione capitalista dalla produzione precapitalista di merci.
1) - La forza lavoro umana deve diventare essa stessa una merce. Privata di qualsiasi accesso autonomo alle risorse, una parte sempre più grande della società viene costretta a vendere la sua capacità di produrre. Il movimento A - M - A' è possibile solo nella misura in cui il valore del lavoro che viene riversato in M è sempre superiore alla remunerazione della forza lavoro: il plusvalore, la differenza tra il valore del lavoro e il valore della forza lavoro, è ciò che permette che A' > A.
2) - La produzione di beni d'uso - che è la ragion d'essere di tutta la produzione nelle società precapitaliste - si trasforma in un semplice veicolo del «valore». La soddisfazione dei bisogni umani diventa un «sottoprodotto» dell'accumulazione di capitale. Il fine e i mezzi vengono invertiti.

Critica fondamentale e critica tronca
L'autonomia del valore si afferma a partire dalla sua capacità di mantenersi e di accumularsi, trasformandosi costantemente da denaro a merce e viceversa. A partire da questo, il feticismo del valore si presenta sotto le sembianze di una «sostanza automatica dotata di vita propria» (Marx). Il valore sembra possedere questo potere di ordine divino, che gli permette di auto-generarsi. La critica del valore si propone di renderci coscienti del fatto che il problema fondamentale del capitalismo risiede nel carattere, totalitario e assurdo, del fine in sé della forma-merce e della forma-denaro. Una critica che si accontenti solamente di denunciare l'appropriazione del plusvalore da parte della classe capitalista, è una critica tronca, ed è superficiale perché, in quanto semplice ideologia della giustizia distributiva, rimane prigioniera del sistema capitalistico e delle restrizioni che esso impone. Una semplice redistribuzione, attuata all'interno della forma-merce, della forma-valore e della forma-denaro, non può né evitare le crisi, né mettere fine alla miseria globale che viene generata dal capitalismo. Il problema centrale non consiste nell'appropriarsi della ricchezza astratta, nella forma del denaro, ma proprio questa forma stessa. La critica tronca, formulata partire dalle medesime categorie del capitalismo stesso (che assume il valore come principio generale basato sul lavoro astratto, insieme alla forma-denaro, e insieme al mercato anonimo come sfera di mediazione...) può riuscire a ottenere solo dei miglioramenti temporanei, immanenti al sistema. Nella crisi che il sistema capitalista sta vivendo, partire dagli anni '80, tutte queste conquiste vengono smantellate, una dopo l'altra.

Un nuovo concetto di rivoluzione
"Rivoluzione" significa cambiamento economico radicale. Il capitalismo è l'alienazione comune di tutti i membri della società, i quali si sottomettono a un rapporto cieco tra quelle che sono delle cose morte, vale a dire, i propri prodotti, organizzati e ordinati a partire dalla forma-denaro. Per poter superare questo rapporto assurdo, è necessaria una rottura con il valore e con le sue categorie (lavoro, merce, denaro, mercato, Stato). Questa autentica transizione sociale presuppone un'amministrazione della produzione, insieme a un utilizzo delle risorse, fatto a partire da delle decisioni coscienti e prese di comune accordo.

II - «Il valore è maschile»
La riflessione sulla dissociazione del valore, procede dalla constatazione del carattere incompleto della Critica del Valore. Essa si concentra sul «valore» e sul «lavoro astratto», considerati come le relazioni centrali della società capitalista delle merci. Dagli anni '90, Roswitha Scholz ha sviluppato la tesi secondo cui, nel sistema capitalista, la centralità del valore si accompagna necessariamente a una «dissociazione» delle attività di riproduzione della forza lavoro, e quindi a una dissociazione del «femminile», che a tutte queste attività viene tradizionalmente associato.

L'incompletezza della critica del valore
Il problema della "Critica del Valore» consiste nel trascurare completamente la relazione tra i sessi. Insieme al «lavoro astratto», viene teorizzato e criticato solo il «valore», ed entrambi i concetti sono visti come dei concetti neutri riguardo al genere. Pertanto, questa critica finisce per ignorare il fatto che, nel sistema di produzione di merci, si debba provvedere anche alla riproduzione, o rigenerazione, della forza lavoro: adempiere ai compiti domestici, allevare i figli, assistere e accudire le persone deboli e malate, confortare i «lavoratori»... Svolgere queste attività necessarie, è di solito un'incombenza attribuita alle donne, per quanto possano avere anche un lavoro retribuito. E tali attività non possono essere coperte solo dai professionisti che le le eseguono, se non parzialmente. E per tutto quello che attiene ai sentimenti, alle qualità soggettive, o agli atteggiamenti (sensualità, emotività, sollecitudine...) a esse legate, be' vengono considerati anch'essi «femminili». Ora, nelle società capitaliste, tutte queste attività e qualità non rientrano in quelle che sono le categorie del Valore e del Lavoro astratto. Sono dissociate dal valore.

La dissociazione del valore come relazione sociale
Ragion per cui, assistiamo al seguente paradosso. Le attività e le caratteristiche psico-culturali cosiddette «femminili» si trovano al di fuori del Valore, ma tuttavia, simultaneamente, ne costituiscono il prerequisito. Infatti, appare ovvio come, senza la rigenerazione della forza lavoro, il movimento del Valore sia impossibile. Le attività e le qualità soggettive che si trovano a essere dissociate dal Valore, non costituiscono un semplice «sottosistema» del capitalismo, come ad esempio avviene con il commercio estero, il sistema giuridico, o anche con la politica. Al contrario, formano una parte essenziale e costitutiva della relazione sociale capitalistica nel suo complesso, globalmente. Tra il Valore e la Dissociazione, non c'è affatto un «rapporto di derivazione», per cui uno deriverebbe dall'altro. Da un punto di vista storico-logico, sono fondamentalmente co-originarie. Non possiamo dire che uno abbia generato l'altro. Ciascuno è il presupposto necessario alla costituzione dell'altro. Vanno pertanto compresi allo stesso livello di astrazione. Ma la teoria androcentrica dell'economia politica, insieme alla sua critica, anche quando questa si limita alla critica del valore, nelle loro analisi non possono prendere in considerazione la «Dissociazione». Difatti, devono «espellere», come «a-logico» e «a-concettuale», tutto ciò che non è compatibile con la forma-merce. Di conseguenza, il femminile dissociato, che così diventa l'altro della forma-merce, rappresenta l'«informe», ciò che, nell'economia borghese e nella teoria critica del valore, non ha forma.

Il capitalismo patriarcale
La dissociazione del valore deve essere intesa anche come uno specifico comportamento socio-psichico. Alcune caratteristiche (sensualità, emotività, fragilità di carattere...) vengono dissociate dal soggetto maschile, e proiettate sulla donna. Per contro, l'uomo, in quanto soggetto socialmente determinante, incarna la volontà di imporsi nella concorrenza, l'intelletto come modo di pensare capitalista, la forza di carattere nell'adattarsi alle esigenze economiche... Il meccanico di precisione disciplinato della fabbrica fordista, rappresenta ancora in gran parte, e spesso inconsciamente, il prototipo di un simile soggetto. Le attribuzioni di genere - sia femminile che maschile - connotano e definiscono l'ordine simbolico del capitalismo patriarcale. Ed è a questo livello che il patriarcato capitalista appare come se fosse una totalità sociale che somma e combina aspetti culturali-simbolici e socio-psicologici.

L'evoluzione storica della dissociazione del valore
La dissociazione del valore è una relazione sociale fondamentale: non è una struttura fissata e rigida, bensì un processo. nel contesto della «dissociazione». Nel contesto della «dissociazione», è in questo modo che la «sensibilità», alla quale viene fatto riferimento, è stata storicamente costruita. Le attività femminili svolte ai fini della riproduzione (preparazione di beni di consumo, amore, cura dei malati e ai disabili, affetto, ecc.) appaiono sotto questa forma solo nel XVIII secolo, con la differenziazione tra un settore di lavoro salariato capitalista e un settore privato di riproduzione domestica. Questa relazione tra i sessi, ha raggiunto il suo pieno sviluppo nella modernità del mercato, e più particolarmente nell'epoca del fordismo trionfante. E sebbene il discorso dominante ami parlare di «uguaglianza dei sessi», è sotto gli occhi di tutti il fatto che fondamentalmente la predominanza maschile non sia  scomparsa. Nella sfera privata, le donne continuano ad assumersi mansioni domestiche ed educative, più di quanto facciano gli uomini. Nella sfera lavorativa, i loro salari sono più bassi e le loro prospettive di carriera più limitate. Per quanto riguarda la sessualità, essa rimane in gran parte condizionata dalla ricerca di soddisfare le pulsioni maschili. Ma, in epoca postmoderna, la dissociazione si trova a essere disseminata, o rovesciata, in molte pratiche o comportamenti sociali, sia nella vita dell'arrivista che in quella della casalinga, nello sport femminile e nello striptease maschile, nei matrimoni omosessuali femminili e maschili, negli spettacoli di travestiti, diventati popolari sui media...

L'emancipazione per mezzo dell'abolizione del valore
In conclusione, le valutazioni ottimistiche che, a partire dalla metà degli anni '80, ritenevano che l'emancipazione delle donne fosse stata praticamente raggiunta, e che continuano ad affermarlo, si sono rivelate alquanto irrealistiche. La critica della dissociazione del valore si oppone a questo ottimismo, sostenendo che l'emancipazione, sia delle donne che degli uomini, richiede l'abolizione del valore, della forma-merce, dell'economia di mercato, del lavoro astratto e della dissociazione. Questa prospettiva riguarda sia il livello materiale che quello ideale.

- Gilles Sarter -

fonte: Secession - le regard sociologique

mercoledì 30 marzo 2022

Voltaire indaga …

Nel «paese della tranquillità e della libertà», tra Ginevra (Les Délices) e Losanna (Montriond), Voltaire ha finalmente agio di sistemare i propri affari e di allestire la prima edizione completa delle proprie opere presso gli editori ginevrini Cramer. Sono gli anni memorabili della Pucelle d’Orléans (1755), del Poème sur le désastre de Lisbonne, dell’Essai sur les moeurs (1756), di Candide (1759), e ancora della collaborazione all’Encyclopédie di d’Alembert e Diderot, dell’articolo Genève di d’Alembert, della polemica con i pastori ginevrini e con Rousseau, delle imprese di Federico il Grande nella Guerra dei Sette Anni. All’antologia di lettere del periodo svizzero (1754-1760), curata da Carlo Caruso, che rende conto della varietà dei temi e della vivacità dello stile epistolare volteriano, si accompagna l’ampio saggio introduttivo di Franco Monteforte che ricostruisce l’intero arco storico del rapporto di Voltaire con Ginevra e la Svizzera, compresi gli anni di Ferney (1760-1777), entro cui le lettere acquistano tutta la loro importanza di brillante documento di un capitolo cruciale della civiltà europea, alla vigilia della Rivoluzione francese.

(dal risvolto di copertina di: "Voltaire. Gli anni in Svizzera", A cura di Franco Monteforte e Carlo Caruso. Armando Dadò Editore, pagg. 800, CHF 30)

La sera del 13 ottobre 1761 il primogenito del commerciante calvinista Jean Calas si suicida nella casa di famiglia a Tolosa. Il padre, anche sulla base di pettegolezzi del vicinato, viene accusato di omicidio, torturato e condannato all'altroce supplizio della ruota. Voltaire, che fiuta nel caso l'errore giudiziario e il fanatismo religioso, si occupa della vicenda con una serie di scritti e ne ottiene la riabilitazione. Questa edizione propone una nuova versione del celebre Trattato sulla tolleranza, condotta per la prima volta sul testo critico pubblicato nelle Oeuvres complètes de Voltaire della Voltaire Foundation di Oxford, e la traduzione dei più significativi scritti voltairiani che lo hanno preceduto e seguito. Sono inoltre proposti qui per la prima volta in italiano i testi attribuiti alla vedova e a due figli di Calas, ma concepiti e scritti dal patriarca dei Lumi sulla base delle informazioni giunte via via in suo possesso.

(dal risvolto di copertina di: "Voltaire. Il caso Calas", A cura di Domenico Felice. Marietti 1820, pagg. 360, € 25)

Vado in Svizzera a fare LA RIVOLUZIONE
- di Ernesto Ferrero -

Per chi non abbia una conoscenza almeno discreta della vita e delle opere di Voltaire può apparire singolare che tra il 1754 e il 1760 egli firmi molte delle 4.600 lettere che scrive “lo Svizzero Voltaire” o “il piccolo Svizzero V.” Era arrivato sul Lemano in compagnia della nipote M.me Denis, badante-amante. Aveva appena rotto con Federico II, in cui pensava di aver trovato modello di re filosofo («Un uomo raro, che è bene frequentare a distanza»). Voleva tornare a Parigi, ma si scontra con il divieto di Luigi XV, che interpreta Il secolo di Luigi XIV come una critica implicita del suo. «Se non appartengo a Parigi, apparterrò all’Europa», risponde lui sprezzante, e così farà.

Si è orientato verso Ginevra (24mila anime), che vagheggia come una saggia e tollerante «repubblica delle api» per le sue libertà repubblicane e perché vanta ottimi editori, in primis i Cramer, presso i quali avrebbe potuto stampare le sue opere complete, seguendole di persona. Accolto con deferente entusiasmo, acquista una bella villa sulle colline della città, la restaura, si diverte a dotarla di raffinati giardini e frutteti, la ribattezza “Les Délices”. L’eterno malato si dipinge come un povero vecchio alla fine dei suoi giorni, ma sprizza vitalità creativa, piacere di vivere, combattività. Noto sino ad allora principalmente come poeta e drammaturgo, intraprende un ciclo di maestose opere storiche come l’Essai sur les moeurs (1756), romanzi-apologo di immediata fortuna (Candide, 1759), intense collaborazioni all’Encyclopédie e una fitta pubblicistica d’assalto affidata a brochures spesso anonime o, se firmate, da lui attribuite maliziosamente alle iniziative piratesche di qualche editore. Non esistendo diritto d’autore, la deregulation può anche avere dei vantaggi per chi, come lui, non intende ricavare profitti dalla propria opera intellettuale ma farla arrivare ovunque, essendo già ricchissimo per conto suo come finanziere di consumata abilità: un George Soros d’antan. La sua vera ambizione sembra tuttavia un’altra: fare di Ginevra uno dei centri dell’illuminismo europeo, che abbia lui come punto di riferimento. La città non è più quella rigida e puritana di Calvino, la stessa teologia si era orientata in senso liberale, ma la struttura sociale resta chiusa in caste. Il potere reale è concentrato nelle mani di un Petit Conseil appannaggio di poche grandi famiglie dicitoyens, che tengono a freno le ambizioni dei bourgeois commercianti e banchieri, ed escludono i natifs, operai e piccoli artigiani, senza diritti politici e vessati dalla fiscalità. Cosa fa Voltaire? Prima inneggia al clima idilliaco che crede d’aver trovato: qui «le classi sono uguali, gli uomini fratelli/ Libertà, libertà, è qui il tuo trono», canta in un poemetto. Poi fa scrivere per l’Encyclopédie a d’Alembert un articolo di schietto elogio sulla città, di spropositata lunghezza, in cui i pastori sono dipinti molto più aperti e antidogmatici di quel che sono. Non solo: nel suo Essai sollecita un’esplicita condanna dello spirito «tirannico, altero e sanguinario» di Calvino, responsabile della condanna del presunto eretico spagnolo Serveto. Con l’elogio del clero ginevrino in realtà vuole polemizzare con l’intransigenza di quello cattolico a Parigi, ma il progetto non decolla. Gli stessi moderati devono prendere le distanze, e un po’ dappertutto le reazioni sono tali che d’Alembert, a disagio negli scontri politici, si dimette dalla direzione dell’Encyclopédie. Diderot si irrita con lui e con Voltaire. L’intera grande impresa, arrivata al settimo volume, deve sospendere le pubblicazioni e ripensare le sue strategie per eludere censure e sequestri.

C’è un’altra battaglia parallela che Voltaire conduce per fare di Ginevra una città modello: quella di potervi aprire un teatro, attività praticata in privato (dove lui è maestro, amando recitare personalmente le parti del vecchio), ma vietata in pubblico in quanto considerata foriera di una insanabile corruzione dei costumi e delle antiche virtù repubblicane. A sostenere questo indirizzo un po’ retrivo e bigotto compare anche Rousseau, che pure nel frattempo ha pubblicato opere “eversive” come il romanzo pedagogico l’Émile e il Contratto sociale. Voltaire non glielo perdona, volano insulti pesantissimi.
Deluso dalle posizioni troppo caute degli amici ginevrini che pure l’avevano sostenuto e protetto, nel 1760 riacquista la sua libertà di manovra trasferendosi in terra di Francia, a Ferney, a poche miglia da lì. Il sostenitore di un dispotismo illuminato finisce per aprirsi al repubblicanesimo, si fa paladino dei diritti conculcati dei natifs e ospita una comunità di bravi artigiani fuoriusciti in quello che diventa il laboratorio di un singolare esperimento riformatore. La complessa tragicommedia socio-cultural-politica che ha il suo epicentro in Ginevra e ha ripercussioni in mezza Europa, è ricostruita egregiamente nel volume pubblicato dall’editore locarnese Armando Dadò. Carlo Caruso, docente all’Università di Siena, ha selezionato e tradotto 135 lettere del periodo svizzero (tra i tanti, a d’Alembert, Diderot, Algarotti, Federico II, M.me du Deffand), in cui l’inimitabile mattatore recita con astuta, avvolgente sapienza. L’introduzione dello storico valtellinese Franco Monteforte è in realtà un volume a sé di 440 pagine che fornisce ogni possibile approfondimento e inquadramento. E può concludere che Voltaire e Rousseau tiravano dalla stessa parte: avevano attivato un laboratorio di idee libertarie che è il vero semenzaio della Rivoluzione. Al periodo svizzero appartiene un’altra opera capitale, nelle battaglie volterriane: quel Trattato sulla tolleranza (1762) che affronta il caso del commerciante Jean Calas, condannato al supplizio della ruota a Tolosa per un delitto che non ha commesso, e per il solo fatto di essere un calvinista. In tre anni, Voltaire riuscirà a farlo riabilitare, guadagnandosi una volta tanto l’ammirazione unanime dei ginevrini. Eccellente specialista di studi volterriani, Domenico Felice ce ne dà un’edizione critica con un ricco corredo di documenti inediti.

- di Ernesto Ferrero - Pubblicato su Domenica del 13/2/2022 -

martedì 29 marzo 2022

Misure aggiuntive !!

Se l'Unione Europea vuole fregare davvero la Russia, dovrebbe ridurre la settimana lavorativa
- di Jehu -

Non ho un opinione particolare riguardo la faccenda Russia-Ucraina, e non potrebbe fregarmene di meno verso dove stia andando il decennale collasso dell'Unione Sovietica, ma la cosa sta diventando un vero e proprio casino, e deve finire. Ragion per cui avrei un suggerimento: quello di accelerare il corso della disintegrazione della Russia. E questo, non perché la Russia abbia o meno torto - non esiste niente che sia più sbagliato dei fascisti, degli imperialisti e dei cripto-nazisti che oggi troviamo schierati contro la Russia in quella che è la loro santa alleanza NATO. Piuttosto, vorrei solo velocizzare la disgregazione della Russia, visto che la Russia non può vincere e più la cosa va avanti, più si incasina. Solo che preferirei che tutto ciò avvenisse senza un intervento militare degli Stati Uniti, perché... be', arrivateci da soli sul perché.
Perciò, come può accadere la cosa?

Secondo questo articolo della CNN, l'Unione Europea dipende dalla Russia per quello che è il 40% del suo fabbisogno energetico: « L'Unione europea dipende dalla Russia per circa il 40% del suo fabbisogno di gas naturale. La Russia fornisce inoltre anche circa il 27% delle sue importazioni di petrolio, e il 46% delle sue importazioni di carbone. Preso tutto insieme, per la Russia questo commercio vale decine di miliardi di dollari all'anno. Questa settimana, i leader della UE hanno chiarito il motivo per cui non possono ancora unirsi agli Stati Uniti nel blocco che vieta il petrolio russo, e questo a causa dell'impatto che ciò avrebbe su famiglie e imprese, che si trovano già alle prese con dei prezzi record. In questa stessa settimana, una gigantesca compagnia di fertilizzanti ha tagliato la produzione europea a causa dei prezzi record raggiunti dal gas naturale. Ma l'Europa è ben consapevole del fatto che deve agire in fretta per ridurre il margine che ha Mosca, di usare l'energia come arma nella guerra economica innescata dall'invasione russa dell'Ucraina. »

Ora, nel momento in cui sono state imposte le sanzioni per la sua invasione dell'Ucraina, la Russia chiede rubli, in cambio delle sue esportazioni di energia verso l'Unione Europea. Il temuto giorno, in cui  - e alcuni hanno avvertito - la Russia avrebbe usato la sua posizione nel mercato energetico dell'UE per imporre la propria volontà all'Europa sembra essere presumibilmente arrivato. A maggio, in ritardo, e sempre più lentamente, l'Unione Europea dovrebbe presentare un piano per mettere fine, entro il 2027, a quella che è a sua dipendenza dalla Russia nel soddisfare il proprio fabbisogno energetico. Inoltre, l'Unione Europea continua anche ad avere ancora bisogno di un piano credibile per poter ridurre il proprio impatto collettivo sull'ambiente, se vuole evitare l'imminente catastrofe climatica.

Esisterebbe un modo assai semplice per riuscire ad affrontare entrambi questi problemi usando un'unica misura: ridurre immediatamente a 3 giorni la settimana lavorativa in tutti i paesi dell'Unione Europea. Questa riduzione potrebbe essere realizzata immediatamente, e il reddito da lavoro potrebbe essere protetto per mezzo di una semplice misura aggiuntiva che istruisca i datori di lavoro a continuare a pagare i propri dipendenti come se lavorassero a tempo pieno.

Ho risolto il problema per voi.
Non c'è di che.

- Jehu - Pubblicato il 29/3/2022 -

Fonte: The Real Movement. Communism is free time and nothing else!

lunedì 28 marzo 2022

Chiudere il gas ?!?? Un nuovo Lockdown !!

Stop al gas russo?
- di Anselm Jappe -

Le prime analisi sulla guerra in Ucraina, proposte nell'ambito della critica del valore, collocano tale guerra in quello che è il contesto del collasso generale della società globale della merce. È evidente che abbiano ragione, ma in questo modo rischiano di rimanere troppo generiche, e soprattutto non riescono a indicare alcuna azione pratica per l'immediato futuro. Si fa riferimento alla necessità di un movimento transnazionale di emancipazione, in grado di rigettare tutti i belligeranti e le loro ideologie. È difficile non essere d'accordo su questo; ma allo stesso tempo appare assai poco probabile che un simile movimento possa emergere in tempi abbastanza rapidi da riuscire a impattare sugli avvenimenti. Da questo punto di vista, la cosa migliore sarebbe quella di aiutare (ma come?) quei russi veramente eroici, che nelle strade stanno protestando a migliaia, malgrado i rischi che corrono, arrivando persino a irrompere negli studi televisivi.
A tal proposito, non sarebbe male ricordare parole come "Machnovšcina" o "Holodomor"; parole che, dall'inizio della guerra, non abbiamo mai sentito nelle notizie mainstream, benché potrebbero aiutare a capire che non tutti gli ucraini sono necessariamente fascisti nel cuore, come sostengono alcuni filorussi, e soprattutto a spiegare perché gli ucraini siano leggermente sospettosi riguardo ai loro «cugini» russi.
In alcuni contributi alla discussione, si sente il bisogno di condannare quegli atteggiamenti pro-Putin che altri professano in nome dell'«anti-imperialismo». Il rifiuto di una simile ideologia appare così ovvia e scontata, che si può solo rimanere sorpresi da come tali deliri ideologici continuino evidentemente a esistere ancora in maniera tutt'altro che residuale.
Imporre una no-fly zone, fornire armi agli ucraini, intervenire direttamente sul campo di battaglia? Lo sentiamo sostenere spesso, e si dice solo per evitare che l'Ucraina finisca come la Cecenia o la Siria. Tuttavia, per la critica sociale, chiedere o approvare queste misure significherebbe anche ammettere che la follia di uno Stato può essere fermata solo da un altro Stato, e che è solo con la guerra che si risponde alla guerra. Questo forse può anche essere vero; dal 1938 in poi, un pacifismo incondizionato e di principio non è più sostenibile. Ma cerchiamo un "tertium datur" tra "Monaco" e i "guerrafondai". Il quale potrebbe essere trovato nel chiedere uno stop immediato, completo e definitivo dell'acquisto di gas e di petrolio russo, ma anche di qualsiasi altra risorsa, così come alla cessazione globale di qualsiasi forma di relazione commerciale (esportazione e importazione) con la Russia. Fino allo smantellamento dei gasdotti in Occidente (North Stream), per dimostrare che non si tornerà indietro. Una simile sanzione - che forse potrebbe essere l'unica che Putin non ha previsto - potrebbe davvero costringerlo a ritirarsi.
Ovviamente, ciò potrebbe costare caro alle economie occidentali, alle «Imprese», ai «Consumatori», ai «posti di lavoro», al «potere d'acquisto». Gli occidentali preferirebbero piuttosto armare la mano di altre persone per mandarle a morire - «armiamoci e partite» , si dice ironicamente in italiano, anziché stare in casa con indosso un maglione più spesso, oppure prendere il tram al posto dell'automobile.

Ma è proprio per questa ragione che le menti critiche dovrebbero incentrare le loro proposte sulla necessità di «chiudere il gas». Oltre a rappresentare forse l'unica «arma» efficace per far tacere le armi, una tale rinuncia innescherebbe anche una forte accelerazione della «decrescita» e della deindustrializzazione, così tanto necessarie. I poteri economici e politici amerebbero potersi concedere qualche decennio per poter organizzare la loro «transizione energetica», dal petrolio alle energie «rinnovabili» (compreso il nucleare!) per garantire così la continuità del capitalismo. Uno stop immediato che porrebbe fine a far ricorso al petrolio russo, anche senza che ci sia in vista un'alternativa , potrebbe piombare tutto il capitalismo industriale in una grave crisi, e spingere a dover adottare delle forme di «semplicità volontaria». Tra i prodotti russi che vengono ritenuti «indispensabili» ci sono anche i fertilizzanti chimici («Nel 2021, la Russia è stato il primo esportatore di concimi azotati e il secondo fornitore di fertilizzanti al potassio e al fosforo», «Mentre il Brasile rimane il primo importatore di fertilizzanti azotati russi», da Le Monde, del 15 marzo 2022).

Ecco come si potrebbero prendere due piccioni con una fava! Anche per l'alluminio, vale il medesimo ragionamento: la Russia fornisce alla Francia l'80% delle allumine che vengono utilizzate per produrre alluminio, ma al momento non sono previste sanzioni relative a questo settore. Tuttavia, in ogni caso, l'alluminio viene usato principalmente nell'edilizia e nell'industria automobilistica, e anche qui sarebbe facile fare il collegamento tra la necessità di smettere di dipendere dalla Russia per la fornitura di queste materie prime (a un livello più basso, le questioni sono simili con il palladio, il platino, il nichel, il minerale di ferro e acciaio), e la necessità di una politica di decrescita, per mezzo della quale si smetta di distruggere (per poi ricostruire) edifici che potrebbero essere invece rinnovati, o che si smettesse di dover cambiare l'automobile ogni cinque anni. Evidentemente, una simile scelta, per non colpire in maniera unilaterale coloro che sono già poveri, dovrebbe essere accompagnata da delle drastiche misure di redistribuzione: tasse assai pesanti sulle grandi imprese, sulle grandi fortune, sugli alti stipendi e sulle alte pensioni. Questo, tuttavia, non andrebbe ancora a costituire una via d'uscita dalla società di mercato, ma sarebbe però un grande passo avanti. È sufficiente constatare quanta rabbia susciti la proposta di uno stop al gas sia tra i politici di sinistra (Mélenchon), che di centro e di destra (Marine Le Pen che sostiene che le sanzioni non devono colpire il potere d'acquisto dei francesi! Tanto che oggi siamo al punto in cui neanche la destra  vuole più fare la guerra, se viene a costare troppo...); basta vedere che le aziende come la Total la rifiutano, come il ministro dell'economia tedesco la rifiuta, come sempre - insieme a qualsiasi limite di velocità sulle autostrade - per capire che questa strada meriterebbe di essere percorsa. E non come un «sacrificio necessario», quanto piuttosto come un'opportunità per riuscire a realizzare una trasformazione, come un'astinenza dalla «droga energetica», cui si sarebbe dovuto dare inizio molto tempo prima. Riuscirebbe a unire le lotte pacifiste, ecologiche e sociali. Non sarà per niente facile farlo passare; ma potrebbe tuttavia incontrare un certo consenso. Nel migliore dei casi, queste misure di «sobrietà energetica» metterebbero in moto, anche dopo che sarebbe finita la guerra, un circolo virtuoso verso l'uscita dal capitalismo industriale.

- Anselm Jappe, 20 marzo 2022 - Pubblicato su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

domenica 27 marzo 2022

Tra il gas e il nucleare !!

La società del lavoro e l'abisso energetico
- di Sandrine Aumercier -

Tra il gas russo demonizzato e il nucleare senza freni (le due fonti energetiche che sono state appena integrate nella tassonomia verde dalla Commissione europea), l'Europa non sa più a che santo votarsi. Ma la questione climatica è solo una copertura per l'inesorabile declino delle riserve di idrocarburi utilizzabili. È fin dal primo shock petrolifero del 1973, che si è consapevoli del fatto che un'interruzione dell'approvvigionamento energetico può causare dei gravi danni all'economia mondiale. Questo tema traumatico rimane sullo sfondo di tutte le crisi energetiche che da allora si sono succedute. L'energia non è solo il carburante di tutta l'economia, ma è anche un fattore di dipendenza globale, di strategia geopolitica e di ricatto. Ad ogni modo, è stato l'embargo e l'innalzamento del prezzo del barile, deciso dall'OPEC nel 1973, come vendetta per la guerra del Kippur, che ha avuto luogo sullo sfondo di un declino della produzione di petrolio convenzionale da parte degli Stati Uniti [*1]. In concomitanza, questo è stato anche il momento in cui alcuni economisti hanno tentato di integrare l'energia come se fosse una funzione di produzione aggregata, e analizzare a partire da questo la correlazione esistente tra il PIL e il petrolio. Così facendo, finiranno per non comprendere radicalmente il lato astratto dell'energia, riducendola a una mera risorsa fisica.
I legami tra economia, energia, ecologia e tecnologia sono assai stretti, ma di solito vengono trattati in maniera riduzionista. Si parte dal presupposto che ci sono dei «limiti planetari» - se vogliamo usare il linguaggio degli autori del Club di Roma - e che bisogna mantenersi «all'interno», adeguando a determinati limiti fisici una certa traiettoria economica. È da qui che nasce l'idea di decrescita, di a-crescita, di una società post-crescita, oppure l'idea di bioeconomia e di economia circolare: si cerca di fare entrare l'infinito nel finito. Contro il bolide della modernizzazione, viene mobilitata l'immagine della lumaca (in quegli ambiti che si ritengono radicali), o quella del circuito chiuso (negli ambienti tecnocratici).
Per cominciare, entrambe le immagini sono incompatibili con quella ragion d'essere del capitalismo che è la crescita; pertanto non sorprende affatto che siamo rimasti allo stesso punto ideologico degli anni '70; se non addirittura in condizioni materiali drammaticamente deteriorate. Ci sono innumerevoli rapporti scientifici che dimostrano come, su scala umana, il punto di non ritorno sia oramai già stato raggiunto. Tuttavia, non c'è nulla che possa fermare i livelli di produzione demenziale, così come non esiste niente in grado di porre fine alla caccia a nuove fonti di energia che si dimostrano sempre meno accessibili: asteroidi, fondali oceanici, estrattivismo sfrenato, ecc. L'unico orizzonte in grado di frenare questa corsa a capofitto, è l'esaurimento di qualsiasi risorsa («the peak everything»), ma non di certo le sciocchezze a proposito della «neutralità del carbonio» e della «transizione». Nel panico da esaurimento, è stata prevista ogni genere di sostituzione; se la Total ha potuto ribattezzarsi TotalÈnergies, ciò è avvenuto perché in un ambiente sempre più instabile va bene tutto. Ma la sostituzione energetica è sempre relativa: comincia con l'addizione e poi passa alla sostituzione solo sotto costrizione. È quindi importante identificare quella che è una tendenza fondamentale, e il suo principio di funzionamento, anziché concentrarsi sul problema quantitativo delle riserve di idrocarburi o delle emissioni di carbonio. Anche così, come ultima risorsa, per sopravvivere da solo in un ambiente sempre più ristretto, il capitale si vede costretto, controvoglia, a ricorrere a sostituzioni non redditizie E qui sorgono altri due problemi:

1/ La competizione capitalista è come una gara d'atletica: se dite ai corridori (che sono lì per vincere la gara e nient'altro) di correre come lumache, avrete una parodia grottesca della corsa di una volta. Sono sempre legati allo stesso assurdo obiettivo di raggiungere un qualche traguardo, ma quel traguardo è come bloccato. Rallentare la quantità di produzione, ridurre il numero di ore lavorate, oppure allungare la vita delle merci, non ci fa uscire dal paradigma produttivista. Moltiplicato per milioni o miliardi di esseri umani, per centinaia o migliaia di anni, una tale produzione rallentata avrebbe il medesimo esito fatale sia dal punto di vista materiale che da quello energetico. Questa sedicente riduzione della produzione, viene semplicemente valutata dai suoi difensori a partire dal livello egocentrico della vita umana; la quale non è di certo la giusta scala per poter capire quali sono i suoi effetti.
2/ Possiamo anche rappresentare la concorrenza capitalista come se fosse una linea retta che alcuni vorrebbero curvare fino a farle assumere uno scenario circolare, internalizzando il fine che si trova posto all'esterno: si tratterebbe di percorrere lo stesso giro il più a lungo possibile, risparmiando drasticamente le forze, per esempio riciclando materiali all'infinito, e migliorando costantemente le prestazioni tecniche. È così che emerge uno scenario di pianificazione cibernetica integrale, la quale, secondo alcuni, avrebbe persino il pregio di conciliare l'esperienza sovietica con il capitalismo liberale (prova che, nell'essenza, i due regimi non sono poi così diversi) [*2].

L'orizzonte finale ci viene fornito dalle «tecnologie di convergenza» che cercano di riprogrammare e migliorare la totalità della realtà materiale, senza escludere l'umano. Come dice l'ultimo rapporto del World Economic Forum sulla bio-produzione: «La biologia è stata per molto tempo una delle forze produttive più potenti del pianeta. Ogni organismo codifica istruzioni dettagliate che innescano l'auto-organizzazione di reazioni biochimiche altamente specifiche. [...]Nel corso degli ultimi decenni, abbiamo sviluppato la capacità di sintetizzare e riprogrammare da noi stessi questo linguaggio. [...] La bioproduzione designa in maniera in generale l'uso di un sistema biologico che serve a  trasformare un elemento che fa parte della catena del valore di un prodotto, o di un servizio. Questa definizione può essere applicata a molteplici aspetti della produzione: nell'allevamento del bestiame, per esempio, l'uso di una mucca per trasformare l'erba e il grano in massa muscolare utile per l'alimentazione. [...] Si stima che potrebbero derivare dalla bioproduzione fino al 60% degli investimenti fisici dell'economia globale... Nei prossimi 10-20 anni, ci saranno delle nuove applicazioni biologiche che potrebbero consentire di risolvere alcuni dei principali problemi ambientali. Si stanno sviluppando soluzioni biologiche in grado di trattare gli inquinanti nocivi nelle acque reflue (biorisanamento) e catturare pericolosi gas serra dall'atmosfera (biosequestro), creando soluzioni alle grandi crisi ambientali delle microplastiche e del cambiamento climatico» [*3].
Si tratta di ottimizzare le catene del valore, ma anche di correggere, in una spirale retroattiva, gli «effetti collaterali» dei processi industriali. Questo processo viene ideologicamente retroproiettato su tutto il mondo vivente, fino a dire che la biologia non avrebbe mai fatto altro che «bio-manifattura»: e che noi non staremmo facendo altro che appropriarcene! Gli «ecosistemi industriali» devono sostituire gli ecosistemi naturali per poi riprogrammarli in maniera più efficiente. È ovvio che una simile visione non ha altro limite che la riprogrammazione della totalità degli esseri e delle cose della terra. E tuttavia, non è una novità. Già alla fine del XIX secolo, per esempio, la fotosintesi poteva essere presentata come il prototipo della fabbrica, e si potevano prevedere fantastici miglioramenti. Allo stesso tempo, l'industrializzazione è stata perseguitata fin dall'inizio dallo spettro dell'esaurimento dei materiali e dell'energia; cosa che si riflette nella perdita di redditività degli investimenti pesanti e nel tema dell'entropia.
Tutte le proposte di razionalizzazione dovrebbero essere considerate come se facessimo dei ridicoli tentativi di rendere possibile il moto perpetuo, allo stesso tempo in cui si fa finta di essere intelligenti riguardo i processi fisici. La tecno-scienza è oggi lo strumento con cui  realizzare questa illusione. Di fronte a questa obiezione, molti tirano fuori l'argomento finale, vale a dire che l'umanità ha sempre devastato il proprio ambiente, e che la storia della tecnologia mostrerebbe una progressione ineluttabile verso l'impasse attuale. Che altro si può fare, allora, se non sistemare alla bell'e meglio la rovina del mondo e rallentare la fine, mentre allo stesso tempo si promettono delle meraviglie che vengono sempre rimandate?

Ma come mai una società che era tecnicamente più avanzata dell'Europa del Medioevo - come lo era la Cina - non ha mai dato inizio a una rivoluzione industriale? Gli storici hanno a lungo dibattuto su come spiegare questo fenomeno, ma sono assai pochi quelli che hanno fatto notare che una simile domanda etnocentrica implica che la storia europea debba diventare il metro per tutte le altre storie, le quali di conseguenza vengono allora interpretate come se fossero deficitarie [*4]. L'Europa è infatti il luogo della comparsa contingente di una forma sociale che non ha precedenti; senza che però ciò debba significare che fosse inevitabile. Essa non differisce dalle altre società per la sua moralità o immoralità (essendo la maggioranza delle altre società ugualmente dominante, sfruttatrice e diseguale), né per una sua eccezionale ingegnosità (visto che molte delle tecniche che l'Europa crede di aver inventato sono in realtà attestate altrove), ma si distingue per gli obiettivi collettivi che si è prefissata. La moltiplicazione astratta del denaro diventa il motore della vita sociale - cosa impossibile senza l'instaurazione del lavoro come mediazione universale - e lo fa aggregando quantità sempre maggiori di forze produttive, per creare valore. Questo processo si svolge in un mercato competitivo al quale nessuno può sottrarsi, una volta che il capitalismo si è sviluppato; tutti quanti si vengono allora a trovare nella posizione di quei corridori atletici presentati all'inizio: tutti sono obbligati a correre e a glorificare questa corsa, per lo più senza sapere perché.
L'epoca neoliberale vede accentuarsi l'immagine dell'ingiunzione contraddittoria a correre più velocemente mentre che allo stesso tempo si rallenta (ovvero, «a fare di più con meno»): la scarsità delle risorse, e l'aumento dei rischi sono fin troppo evidenti. Questa struttura di "double bind", che si è recentemente acuita, è tuttavia inerente al capitalismo. Tutto ciò è stato concettualizzato da ingegneri e da scienziati, sulla base della termodinamica, e ha trovato la sua spiegazione morale in ciò che Max Weber chiamava l'etica protestante del capitalismo, cioè un'etica del lavoro che sostiene la rinuncia immediata in vista di un maggior bene futuro. Si trattava della promessa fantastica della realizzazione della felicità sulla terra, associata al mito del Progresso e della Ragione, insieme all'emergere di una fisica sociale che considerava la scienza economica alla stregua di una scienza della natura.

La rivoluzione industriale vedeva l'emergere di due fenomeni concomitanti. Il primo era la generalizzazione del lavoro astratto, per il quale le masse espropriate della loro terra venivano gettate sul mercato del lavoro per guadagnare denaro; ciascuna persona non ha altra ricchezza che la sua «forza lavoro» da vendere in maniera qualitativamente indifferenziata. Costui viene così messo in concorrenza con tutti gli altri, risucchiato e respinto dal capitale secondo quelle che sono le necessità del momento. Anche il capitalista viene messo in concorrenza con tutti gli altri capitalisti, e deve rendere costantemente redditizi i propri investimenti in capitale costante e variabile, in modo da poter così continuare a esistere sul mercato. Da allora in poi, l'esistenza di tutti è subordinata al principio impersonale di un fine astratto in sé, che consiste nel creare valore gettando tutte le forze sociali nello stesso calderone. Il secondo aspetto della rivoluzione industriale, associato alla macchina a vapore, consiste in un'esplosione di scoperte volte ad aumentare la produttività con ogni mezzo. Mai prima nella storia questo obiettivo si era trovato al centro di tutte le attività. È stato nelle viscere delle officine che gli ingegneri hanno scoperto e formulato le inquietanti leggi dell'energia che poi sarebbero diventate anche la base di tutta la fisica moderna. La nozione di «lavoro» era polisemica fin dall'inizio, e doveva fondersi poi in un'astrazione sociale che sarebbe diventata il gioiello della civiltà. Il lavoro umano e il lavoro delle macchine richiedono entrambi un processo di combustione che una notevole letteratura si occupa di comprendere e razionalizzare: il taylorismo ne è un effetto.
È la teoria neoclassica a introdurre l'idea di una funzione di produzione che calcola, per un dato stato della tecnologia, la quantità massima di prodotto che può essere ottenuta da una combinazione di fattori di produzione. La «produttività marginale» è il rapporto tra un'unità supplementare di prodotto e un'unità supplementare di un fattore produttivo. I fattori di produzione sono complementari o sostituibili; essi sono oggetto di una combinazione ottimale ottenuta dal produttore razionale sotto vincoli di prezzo. La differenza tra il modello neoclassico e quello marxiano risiede nello status del lavoro. Nel modello neoclassico, la sostituzione tecnica è meccanica,  mentre è dinamica nel modello marxiano. Queste non sono solo due teorie dell'economia, ma sono soprattutto due teorie della società. Il modello neoclassico propone di risolvere tutte le distorsioni del mercato che si discostano dal modello standard, giocando con i prezzi, o attribuendo un prezzo a ciò che non è ancora stato prezzato. È una concezione estensiva del capitale: tutto è potenzialmente capitale, e quindi tutto è commerciabile. La teoria neoclassica tratta la società solo a posteriori, come un'entità oggettiva costituita dalla somma delle sue interazioni, come una fisica sociale le cui variabili possono essere regolate - e condizionate da istituzioni che le regolano o le correggono. Per Marx, al contrario, la società comincia «alla base», nella forma e nell'efficacia del rapporto di produzione in sé.
Marx evidenzia come i due fattori principali - capitale costante e capitale variabile - della composizione organica del capitale non siano intercambiabili dal punto di vista della riproduzione sociale complessiva. A livello macroeconomico, questa sostituzione porta il capitalismo verso la sua stessa asfissia. Infatti, solo il lavoro vivo produce un plusvalore relativo, la cui aggregazione sociale, secondo la concorrenza dei capitali, dà al capitalismo il motore del suo sviluppo. Man mano che il lavoro vivo produttivo diminuisce a causa della costrizione ad automatizzare (per migliorare la produttività), l'intero sistema lotta sempre più per andare in pari, e quindi per riprodursi (anche se pochi attori riescono a cavarsela creando una situazione di monopolio che può ingannare sullo stato reale del sistema complessivo).

Marx descrive il lavoro astratto come «un dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc.» [*5] e come «metabolismo dell'uomo con la natura», e questo non perché egli abbia una visione naturalizzata del lavoro (come alcuni gli hanno erroneamente attribuito), ma perché concettualizza in questo modo quella che è l'astrazione concreta del lavoro nel capitalismo. Possiamo usare qui le parole di Moishe Postone allorché egli commenta l'energetica marxiana: «La definizione fisiologica marxiana di questa categoria [lavoro] fa parte di un'analisi del capitalismo che viene svolta nei suoi stessi termini, vale a dire, un'analisi di come le forme si presentano. La critica non adotta un punto di vista esterno al suo oggetto, ma al contrario si basa sul completo dispiegamento delle categorie e delle loro contraddizioni» [*6].
Il movimento di valorizzazione si basa pertanto sul doppio riduzionismo che nel capitalismo subisce la forza-lavoro: il primo, l'uno, fisicalista, che la rende sostituibile a ogni altro dispendio di energia nel quadro della combinazione ottimale dei fattori di produzione; l'altro, «pieno di sottigliezze metafisiche» (Karl Marx), che si basa sull'equalizzazione del tempo medio di lavoro sociale. La sostituibilità dei fattori di produzione, che presuppone l'omogeneizzazione capitalista di tutte le cose, è il punto di congiunzione tra il lato fisico, concreto, e il lato sociale astratto del lavoro.
L'analisi marxiana espone perciò l'astrazione reale (Alfred Sohn-Rethel) della categoria del valore, implicando, reciprocamente, la realtà astratta dell'energia che, ricordiamo, non è un dato oggettivo, ma è piuttosto il rapporto di conservazione di una grandezza fisica. Il fisico Feynman ci ha dato questa famosa definizione: «Esiste una certa quantità, che noi chiamiamo energia, la quale non si modifica nel corso delle molteplici trasformazioni che subisce la natura. Questa è un'idea molto astratta, perché esprime un principio matematico; tale principio afferma che esiste una quantità numerica che non cambia allorché succede qualcosa. Non è la descrizione di un meccanismo, né di qualcosa di concreto; è semplicemente un fatto strano: possiamo calcolare un certo numero e, nel momento in cui abbiamo finito di guardare la natura fare i suoi trucchi, e andiamo a calcolare di nuovo quel numero, ecco che esso è sempre lo stesso. [...] Non abbiamo idea di cosa sia l'energia» [*7].

A quello che è il limite interno assoluto della valorizzazione capitalista corrisponde quindi un limite energetico esterno assoluto. Questa correlazione è specifica del movimento storico del capitale, e non può essere generalizzata: le altre società avevano finalità diverse rispetto all'accumulazione infinita, e gli esseri viventi sono liberi da qualsiasi fine. Come sostiene Robert Kurz: «Il fatto che da tempo immemorabile gli esseri umani consumino tranquillamente e continuamente energia, non costituisce un fatto "di per sé" nel contesto di alcun campo storico, tranne che nel campo capitalista; al di fuori di questo campo, una simile osservazione semplicemente perde qualsiasi senso» [*8]. Il capitalismo, ed esso solamente, postula un'astratta finalità di accumulazione che determina una spirale entropica distruttiva nella quale l'energia solare, metabolizzata e immagazzinata per milioni di anni, viene bruciata in due o trecento anni, come in un film proiettato a rovescio. La soluzione non è certo quella di offrire una maggiore razionalizzazione - ad esempio riducendo, rallentando, riciclando, pianificando, razionando, ottimizzando, ecc. – che poi è la stessa  che ci ha portato proprio al punto in cui siamo. La sua impossibilità costitutiva non verrà trascesa grazie ai mezzi che l'hanno messa in atto. Eppure è proprio questo ciò che propone l'intero spettro politico e ideologico attuale: liberali tecno-ottimisti, ecologisti socialdemocratici, o eco-socialisti neo-leninisti convertiti alle «energie rinnovabili». Anche se sono pochi a convenirne, tutti hanno già adottato, quanto meno indirettamente, il nucleo patrimoniale del transumanesimo libertario, che consiste nella riprogrammazione integrale del mondo fisico, nella speranza di poter controllare l'entropia della cosiddetta civiltà termo-industriale. Ma tuttavia, senza una «rottura ontologica» (Robert Kurz) nei confronti delle sue categorie fondamentali, le contraddizioni di questa civiltà sono .

- Sandrine Aumercier - Pubblicato il 20/3/2022 su GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme -
Questo testo è la trascrizione della presentazione, avvenuta alla libreria parigina "Publico" il 18 marzo 2022, del libro "Le mur énergétique du Capital" pubblicato da Crise et critique (2021).

NOTE:

[*1] - Si veda:  Matthieu Auzanneau, "Pétrole", Paris, Seuil/Reporterre, 2021.
[*2] - Cédric Durand, Razmig Keucheyan, « Planifier à l´âge des algorithmes », dans Actuel Marx, 2019/1, n°65.
[*3] - World Economic Forum, « Accelerating the Biomanufacturing revolution », 14 février 2022, p. 4-7, je souligne. Online: https://www.weforum.org/whitepapers/accelerating-the-biomanufacturing-revolution
[*4] - Jack Goody, Le vol de l´Histoire, Paris, Gallimard, 2010. Jack Goody tematizza questo problema, sebbene compia l'errore opposto; quello di livellare verso il basso la specificità storica del capitalismo a partire da un eccesso di relativismo decoloniale.
[*5] -  Karl Marx, Le Capital, Livre I, Paris, PUF, 1993, p. 82.
[*6] - Moishe Postone, Temps, travail et domination sociale, Mille et une nuits, Paris, 2003 1993 p. 254 .
[*7] - Richard Feynman, dans The Feynman Lectures on Physics, vol. I : Mainly Mechanics, Radiation, and Heat, New York, Basic Books, 2011 [1964], p. 33.
[*8] - Robert Kurz, La substance du capital, Paris, l´Échappée, 2019 [2004-2005], p. 244-245.

fonte: GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme

sabato 26 marzo 2022

L'amicizia? Un marchingegno !!


Una bella amicizia salva la vita, letteralmente. Dopo il fumo, la scelta delle amicizie è il fattore che più incide sulla mortalità umana e il numero di amici che abbiamo interviene non solo sulla nostra felicità ma anche sul modo in cui noi e i nostri figli ci ammaleremo e moriremo. Robin Dunbar, dopo decenni di ricerche, può dirsi un'autorità in materia d'amicizia; è suo il «numero di Dunbar», cioè una misura del «limite cognitivo del numero di individui con cui ogni persona può mantenere una relazione stabile». Con questo libro, scritto con una penna felice e non accademica, Dunbar svela i meccanismi che costituiscono quel marchingegno così essenziale e infallibile che è l'amicizia, di cui diamo per scontata l'esistenza ma che non conosciamo fino in fondo e su cui si basa la nostra vita.

(dal risvolto di copertina di: "Amici. Comprendere il potere delle nostre relazioni più importanti", di Robin Dunbar. Einaudi, pagg. 440, € 21)

L’amicizia
- Se il contatto sociale diventa una rete da remoto -
di Paolo Legrenzi

Robin Dunbar, professore a Oxford, dal 2007 dirige l’Istituto di Antropologia cognitiva ed evoluzionista. L’Istituto, costruito a sua immagine e somiglianza, mostra come siano da tempo saltate le suddivisioni classiche nello studio di animali e uomini (anch’essi animali, almeno per uno psicologo evoluzionista). Dunbar è giunto a questa nuova area di ricerca dopo un lungo percorso caratterizzato sempre dall’interesse per le relazioni sociali. Dopo essersi laureato nel 1969 a Oxford, per circa un quarto di secolo Dunbar osserva i comportamenti delle scimmie, delle antilopi africane e delle capre selvagge delle isole scozzesi. Alla luce di questi studi, negli anni Novanta, Dunbar ipotizza che 150 sia la dimensione massima di una comunità di «amici», e non solo nel caso di umani. «Amico» è termine vago. L’attore e regista inglese Stephen Fry una volta spiegò nel corso di una trasmissione della BBC che Dunbar intendeva per amico «tutte le persone a cui vi avvicinereste senza esitazione per sedere loro accanto se vi capitasse di vederle alle tre del mattino nella sala d’attesa dell’aeroporto di Hong Kong». Non possiamo avere 150 amici «veri»: troppi, almeno secondo l’uso consueto del termine. Quale è allora il confine tra amico e conoscente? Dunbar ha cercato la risposta partendo sempre dall’ipotesi che 150, la quantità divenuta nota come «numero di Dunbar», sia correlata alle dimensioni del cervello di una specie. Questa ipotesi ha fatto colpo anche al di là del mondo ristretto degli specialisti. Spiegare la quantità di amicizie soltanto con le dimensioni del cervello e non con le circostanze della vita è contro-intuitivo. L’idea può piacere nella sua semplicità, ma è vaga e controversa. Il 5 maggio 2021 sulle Lettere di Biologia della Royal Society tre ricercatori – Lindenfors, Wartel, e Lind – hanno mostrato che la correlazione delle dimensioni del cervello di una specie con le sue capacità sociali è debole e, soprattutto, varia molto a seconda dei criteri e dei metodi di misura. Peraltro è vero che le comunità umane, dai villaggi del neolitico alle bande dei cacciatori nomadi fino alle unità di base degli eserciti, non hanno mai superato le dimensioni del numero di Dunbar anche da quando la tecnologia permette non solo di parlarsi ma anche di vedersi da lontano.

Proprio con l’avvento delle reti, sempre più utilizzate durante la pandemia, Dunbar ha modificato la sua ipotesi originaria sostenendo che il limite sta nella quantità di risorse. Possiamo dedicare queste risorse per molto tempo a pochi amici oppure intrattenere rapporti meno stretti con una comunità più ampia. Dunbar si rifà allo psicologo sociale Stanley Milgram che, negli anni Sessanta, mostrò che bastavano solo sei contatti per collegare due persone scelte a caso negli Stati Uniti. Chiese a residenti nel Midwest di raggiungere una persona sconosciuta, per esempio a Boston, rivolgendosi a un conoscente che, a sua volta, avrebbe chiesto di scrivere una lettera a un altro. Se conoscete qualcuno che ha a che fare con Boston gli scrivete in modo che lui possa proseguire la catena. Si scopre così che non si è mai a più di sei anelli di distanza da chiunque altro (Sei gradi di separazione, dal nome di un film di Fred Schepisi del 1993). Dunbar ha modificato l’esperimento originale lasciando libera la prima persona di inviare il messaggio a più conoscenti scoprendo, ancora una volta, che questi non superano mai i 150. Studiando le sempre più diffuse comunicazioni da remoto, Dunbar ha messo a punto un modello basato su cerchi concentrici che vanno dalle persone a cui siamo molto legati fino ai conoscenti più lontani. Sorge così la questione di quale sia il cuore di questi cerchi concentrici. Dunbar si ispira al lavoro pionieristico di Fritz Heider (Psicologia delle relazioni interpersonali, 1958) che vede nella coppia o nella triade il cuore delle reti sociali. Unità vulnerabili perché devono mantenere equilibri talvolta difficili come nei film Jules et Jim di Truffaut (1962) o nel western Butch Cassidy (1969): il triangolo finisce perché è la donna a uscire di scena.

Il libro compendia i lavori di una vita appassionata ma mostra anche i limiti nell’uso dei dati sperimentali. Poniamo che siate interessati, come Dunbar, alle differenze tra i sessi nelle relazioni sociali. Fin che studiate grandi numeri di conoscenti potete scoprire differenze statisticamente significative nei comportamenti di femmine e maschi. Non troverete però differenze assolute, che valgono cioè in tutti casi. Immaginate variabili semplici come l’altezza o il peso:gli uomini in media sono più alti e pesanti delle donne ma questa differenza non vale per ogni donna e uomo presi a caso. Analogamente, nel caso di amicizie intime, le differenze emerse da grandi numeri possono dar luogo a spiegazioni errate di un caso specifico e, più in generale, a pregiudizi e stereotipi. Per capire veramente come funzionano, o non funzionano, le amicizie, la statistica non basta: libri e film, se buoni, mostrano più cose.

- Paolo Legrenzi - Pubblicato su La Domenica del 20/2/2022 -

venerdì 25 marzo 2022

La contraddizione in processo

Cinque tesi fondamentali sul capitalismo oggi
- di Agustín Guillamón -

1. - Il capitalismo è una RELAZIONE SOCIALE tra i capitalisti, che comprano la forza lavoro merceologica, e il proletariato, che vende la sua forza lavoro per un salario.
2. - Il capitalismo è UNA RELAZIONE STORICA tra due classi antagoniste, che costringe e obbliga la maggioranza della popolazione a vendere la propria forza lavoro al capitale in cambio di un salario (senza questo processo storico di accumulazione primitiva del capitale e di espropriazione ed espulsione dei contadini dalle comunità rurali alle fabbriche e ai grandi centri industriali, la relazione sociale del punto 1 non esisterebbe).
3.- Il capitalismo causa una CONTRADDIZIONE, o conflitto, tra lo sviluppo SOCIALE delle forze produttive e gli attuali rapporti sociali di produzione, di appropriazione privata del valore, che non corrisponde al carattere sociale di quelle forze produttive. (Questo si traduce in una distribuzione ineguale della ricchezza nel mondo: nel 2007 tre cittadini statunitensi (Bill Gates, Paul Allen e Warren Buffett) insieme  possiedono una fortuna superiore al PIL delle 42 nazioni più povere, dove vivono 600 milioni di abitanti; le 356 persone più ricche del mondo superano il reddito annuale del 40% dell'umanità; gli Stati Uniti rappresentano il 6% della popolazione mondiale, ma consumano il 48% della ricchezza totale del pianeta).
4. - Il capitalismo è diventato un sistema OBSOLETO, perché il processo di valorizzazione del capitale ostacola la crescita delle stesse forze produttive. Il capitalismo è entrato in una fase di decadenza, e la crisi attuale ha un carattere strutturale. Non si tratta di una classica crisi di sovrapproduzione. Oggi abbiamo una crisi della valorizzazione del capitale e, quindi, dei rapporti di produzione capitalistici, che non garantiscono più il processo di riproduzione della forza lavoro. A causa dell'insufficiente assorbimento della forza lavoro nel processo di produzione capitalista, sta facendo la sua comparsa un enorme esercito industriale di riserva (globale). Tutto ciò produce, o può produrre, dei nuovi fenomeni difficili da classificare:
    a. Lo smantellamento delle conquiste sociali del cosiddetto stato sociale. Il lavoratore europeo deve concorrere, e misurarsi, a livello globale, con il salario di sussistenza, da una parte, e con l'assenza di contributi sociali per la disoccupazione, la malattia o le pensioni del lavoratore asiatico, dall'altra. Le misure raccomandate dal Fondo Monetario Internazionale favoriscono il capitale finanziario, ma aggravano la crisi e la disoccupazione.
    b. L'esclusione di interi paesi e continenti dal processo di produzione capitalista; migrazioni di massa per motivi economici, bellici o catastrofici, senza che nessun paese o regione sia disposto a dare a questi migranti niente più che un'accoglienza parziale e selettiva.
    c. Vengono portati a termine i processi di accumulazione primitiva del capitale in Russia, Cina, Brasile, Sudafrica e India, con l'estensione della classe operaia salariata in questi paesi.
     d. Limiti ecologici allo sfruttamento massiccio e indiscriminato delle risorse naturali, senza misure efficaci contro l'inquinamento e il cambiamento climatico. L'emergere di pandemie causate dall'agricoltura e dall'allevamento industriale. Conversione della natura in terreno incolto. Pericolo di estinzione della specie umana, senza adeguate risposte preventive.
    e. L'emergere di molteplici sacche e settori di lavoro schiavistico (a volte anche infantile).
     f. L'emergere di un'economia virtuale - frutto di un'enorme speculazione finanziaria, incontrollata e senza regole - che crea un abisso incolmabile con l'economia reale, con il conseguente rischio di crisi finanziarie e depressione economica.
    g. Il sorgere di guerre imperialiste per il controllo del petrolio e delle limitate risorse naturali. La guerra viene considerata come la soluzione economica immediata alla crisi della domanda, vale a dire, la guerra tra potenze come unica soluzione alle crisi interne di tutti i protagonisti contrapposti.
     h. Crescita economica senza alcuna creazione di posti di lavoro.
     i. Nuove formule di organizzazione aziendale per aumentare la produttività del lavoro, rendere la forza lavoro ancora più flessibile (in termini di salario, di durata del contratto o di disponibilità territoriale), distruggere le conquiste sociali del Welfare, e impedire le associazioni sindacali che non siano aziendali o sottomesse allo Stato.
     j. Negli anni '50, in Giappone, il toyotismo è apparso per rispondere alle necessità belliche degli Stati Uniti nella guerra di Corea. I sindacati nazionali vennero distrutti manu militari, e sostituiti da docili sindacati aziendali. Le grandi aziende erano concentrate in alcune contee che venivano dominate in maniera dispotica. Vennero creati dei team di qualità, gestiti per stabilire la norma della competitività tra i lavoratori, al fine di raggiungere gli obiettivi aziendali. Fecero la loro comparsa i subappalti da un'azienda all'altra, con una scala salariale che diminuiva a ogni subappalto. Un elevato stress sul lavoro diventava comune, e provocava circa 10.000 morti di Karoshi all'anno. («Karoshi» è una parola composta, composta da «karo» e «shi», termini che significano rispettivamente superlavoro e morte, e combinati vengono a significare «morte improvvisa come risultato del superlavoro», cioè morti per stress).
    k. Esercito, polizia, amministrazione, mafie, chiese, sindacati e partiti politici sono istituzioni statali al servizio degli interessi del capitale, che le finanzia e le sostiene. Il primo passo di ogni lotta autonoma dei lavoratori è la loro distruzione.
    l. La coscienza di classe perduta può essere rapidamente recuperata e radicalizzata, per quanto all'inizio rimarrà un po' indietro rispetto all'offensiva neoliberale e alla legislazione antipopolare dei governi. Nasceranno nuove forme organizzative popolari e di classe, superando i partiti e i sindacati screditati e inutili, i quali mostreranno la loro vera natura statale, poliziesca e mafiosa.
    m. Nell'attuale fase di decadenza del capitalismo, appariranno chiaramente i suoi limiti e la barbarie che si annuncia. La propaganda del sistema diventerà sempre più sfacciata, dispotica e irrazionale, orientandosi verso soluzioni socialdemocratiche, nettamente fasciste oppure sapientemente dosate e combinate. Verranno abbandonate le formalità democratiche. Emergerà una qualche forma di militarismo radicale e ossessivo, sia contro un nemico esterno (a causa di rivalità commerciali) che contro uno interno (a causa di necessità anti-sovraniste).
     n. I governi hanno sempre governato contro il loro stesso popolo e a beneficio dell'élite finanziaria e corporativa, solo che ora questo verrà fatto senza mezzi termini, con pochi travestimenti e veli democratici, e senza la giustificazione ultima del benessere generalizzato. I governi imporranno un'economia di guerra, una gestione «efficiente» delle miserie e dei sacrifici, per i quali sarà necessario trovare qualche nemico o capro espiatorio: gli emigranti, i sovversivi dell'ordine stabilito, i pazzi anarchici, i malati i vecchi e gli improduttivi, le dittature, questo o quello Stato nemico, la Russia, la Cina, i paesi arabi o l'Islam, gli emarginati e i miserabili, i disoccupati e «altri lavativi», e così via.
    o. Il primitivismo, l'ambientalismo, l'antisviluppo e le più diverse, disperate e folli alternative post-moderniste, come il Green New Deal, delineeranno a malapena una proposta socialdemocratica per la gestione del caos, del disastro e della miseria all'interno di un capitalismo sorpassato e obsoleto, incapace di assicurare il processo di valorizzazione del capitale.
     p. La solidarietà, l'etica e la semplice sopravvivenza collettiva diventeranno formidabili armi di combattimento per l'umanità, contro un sistema economico obsoleto, corrotto e per sua natura criminale, malato, predatorio, insostenibile e apocalittico.
    q. Verrà favorita una fortissima infantilizzazione sociale, culturale e politica, a partire dal fatto che la paura e l'ignoranza sono dei fattori determinanti nella servitù volontaria allo Stato.
     r. L'alternativa tra comunismo o barbarie, tra rivoluzione o riforma, tra vita collettiva o morte... si troverà a essere posta con urgenza, dal momento che è in gioco la sopravvivenza stessa della specie umana.
     s. Per l'occasione, come salvatori del pianeta e della specie, appariranno i soliti Superman di turno, insieme al loro Super-Stato, anche se in realtà sono i suoi becchini.
    t. Non c'è altra alternativa che la rivoluzione o la barbarie.

5. - Il comunismo non è un BELL'IDEALE, bensì una NECESSITÀ MATERIALE, le cui premesse sono state poste dal capitalismo, per mezzo di una produttività che è già in grado di provvedere a una società che soddisfi tutti i bisogni materiali dell'umanità. Il proletariato deve distruggere lo Stato, perché lo Stato è l'organizzazione politica dello sfruttamento economico del lavoro salariato. La distruzione dello Stato è una conditio sine qua non dell'inizio di una società comunista. Ma lo Stato capitalista non può essere realmente distrutto se prima la classe proletaria non falci immediatamente le condizioni economiche, sociali e storiche dell'esistenza del lavoro salariato e della legge del valore su scala mondiale.

Cosa sostituisce lo Stato: l'amministrazione delle cose nel comunismo. Ma la rivoluzione proletaria non è una questione di partiti o di organizzazione. Ciò che determina la possibilità del comunismo è un'equa distribuzione delle forze produttive e l'estensione della condizione di salariato e proletario. L'esperienza storica del proletariato internazionale indica i soviet russi, i räters tedeschi e i comitati spagnoli, cioè l'organizzazione del proletariato in consigli operai come forma organizzativa rivoluzionaria della classe operaia. Non stiamo quindi parlando di questa o quella forma organizzativa di comitato o di consiglio, ma dell'organizzazione conciliare della società. I consigli non rappresentano i lavoratori, sono il proletariato organizzato. È un organo di classe e di lotta. Non è un organo politico, è l'organizzazione della società in nuovi rapporti di produzione, e quindi non è né democratico, né dittatoriale, è al di là della politica, ed evita la separazione tra pubblico e privato, caratteristica del capitalismo. Soviet, räters e comitati sono stati la risposta dei lavoratori al vuoto lasciato dalla borghesia, piuttosto che il risultato della radicalizzazione della lotta. I consiliaristi sostituiscono il concetto leninista di «partito» con quello di «consiglio». Ma entrambe le ideologie sono sterili. I consigli saranno solo ciò che il proletariato riuscirà a fare nella lotta per distruggere lo Stato e costruire il comunismo libertario. La rivoluzione sociale è già l'unica soluzione. Una rivoluzione non solo deve essere economica e politica, ma deve essere totale, cioè anti-economica e anti-politica, bloccando così ogni possibilità di restaurazione del potere del capitale. Antieconomica perché non si limita alla socializzazione, né tantomeno ricade nel produttivismo, ma abolisce il lavoro salariato e il plusvalore. Antipolitica perché si organizza in consigli operai che distruggono tutte le strutture statali e aboliscono tutte le frontiere, e quindi è necessariamente internazionale.

Agustín Guillamón - Pubblicato l'11 marzo 2022 su Ser Històrico. Portal de Historia

giovedì 24 marzo 2022

Com’è verde la teoria !!

Rovesciando provocatoriamente la famosa formula del Faust di Goethe, «Grigia è ogni teoria, ma l'albero della vita è verde», Robert Kurz si impegnava a scrivere una vasta storia critica dell'impazienza militante, del «problema della prassi» e della relazione con la teoria che hanno intrattenuto i vari pensatori e i diversi movimenti di sinistra.
È a partire dalla modalità della "tabula rasa", che l'autore riesamina completamente il problema della relazione tra prassi e teoria, scompaginando le basi classiche, ridefinendo i termini e spazzando via le false opposizioni. E per prima cosa affronta in maniera critica la falsa unità tra teoria e prassi, al fine di mettere in evidenza come l'urgenza di agire e il primato della prassi rivoluzionaria continuino a muoversi instancabilmente sempre all'interno delle categorie formali del capitalismo.
L'autore assume poi un punto di vista opposto a quello del marxismo della lotta di classe, il quale ha sempre svolto una lettura acritica dell'undicesima delle "Tesi su Feuerbach", secondo la quale «i filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, quando invece ciò che conta è trasformarlo»; mentre Marx, invece, non stava affatto considerando la «trasformazione del mondo» come se stesse parlando delle istruzioni d'uso di un manuale da applicare. Si tratta invece di affinare una teoria critica che non si riduca a essere solo un'interpretazione immanente della realtà capitalista, ma che la superi in direzione di una critica categorica, vale a dire, che ci rimandi fino alla costituzione feticista della modernità capitalista.
Basandosi su Horkheimer e Adorno, e andando oltre, l'autore propone un'ampia panoramica su tutti i dibattiti storici che hanno accompagnato la questione della prassi: l'opposizione classica tra teorie della struttura e teorie dell'azione, i marxismi del terzo mondo durante la decolonizzazione, il "marxismo occidentale" e la sua filosofia della "prassi", in Ernst Bloch, così come il marxismo strutturalista di Louis Althusser, ma anche Michel Foucault e il pensiero postmoderno, poi l'operaismo italiano e il post-operaismo, soprattutto quello di John Holloway, senza dimenticare la "Nuova Lettura di Marx" costituitasi intorno a Hans-Georg Backhaus, e il Situazionismo; tutti approcci che hanno solamente toccato quello che era il cuore del problema.

Robert Kurz ,"Gris est l’arbre de la vie, verte est la théorie. Le problème de la praxis comme éternelle critique tronquée du capitalisme et l’histoire des gauches", Crise e Critique. Collection Palim Psao / 250 pages Traduit de l’allemand par Sandrine Aumercier. Parution le 10 juin 2022.

mercoledì 23 marzo 2022

Il vaccino della rivolta

L'insurrezione kazaka
- di Anonimo -

«In presenza di lavoratori armati, gli ostacoli, le resistenze e le impossibilità spariranno.» (Blanqui)

La Teoria dello Stato, rappresenta la barriera di scogli su cui sono naufragate le rivoluzioni del nostro secolo.[*1] Nel corso delle rivoluzioni della Primavera Araba, il popolo ha causato la caduta di più di un regime, ma le istituzioni dello Stato sono rimaste intatte. Altrove le rivoluzioni si sono trascinate fino a scaricarsi in guerre civili che si sono protratte sempre più. Ovunque sembrava che il vecchio regime fosse stato abbattuto, ha finito poi per trovare nuove energie, ed è risorto. Come si può fare per rompere finalmente questo ciclo? In passato, le insurrezioni riuscivano a sconfiggere lo Stato, e non un particolare governo. L'insurrezione è qualcosa di più che un'ondata di rivolte, proteste militanti, barricate, occupazioni e così via. È l'aprirsi di una frattura, alla ricerca di quel punto dopo il quale non è più possibile tornare indietro. Se le rivoluzioni del nostro tempo non hanno sconfitto lo Stato, allora dobbiamo concluderne che è così perché non ci sono state insurrezioni: ci sono state rivolte nonviolente, sommosse, lotte armate e guerre civili, ma non ci sono state ancora insurrezioni. È possibile che nei prossimi anni vedremo esperimenti che si misureranno nell'arte dell'insurrezione, mentre allo stesso momento una nuova generazione di rivoluzionari cercherà di superare gli ostacoli e le impasse con le quali si sono dovute misurare le rivolte del 2011 e del 2019. Il Kazakistan, un paese che molti americani conoscono solo grazie alla serie di film con Borat, potrebbe permetterci un primo sguardo su questo futuro. I recenti eventi occorsi in Kazakistan, sono quelli più vicini a un'insurrezione su larga scala, allorché alla fine del 2018 ha avuto inizio un'ondata globale di lotte. Questo ci consente di immaginare come sarebbero potuti essere i movimenti recenti - come la rivolta George Floyd - se fossero andati oltre. Il corso degli eventi in Kazakistan suggerisce un possibile percorso attraverso il quale evitare le trappole che finora hanno fatto naufragare le rivoluzioni contemporanee. Fornendoci una chiara visione della forma della prossima insurrezione, la rivolta ci permette di interrogare i limiti che un processo insurrezionale oggi potrebbe dover affrontare.

Il vaccino della rivolta
Il giorno di Capodanno del 2022, il governo del Kazakistan ha messo fine al limite al prezzo del carburante, causando un raddoppio del suo costo durante la notte. Le proteste sono scoppiate il giorno dopo nel Kazakistan occidentale, la regione produttrice di carburante. Significativamente, le prime manifestazioni hanno avuto luogo a Zhanaozen, una città il cui nome è diventato sinonimo della violenta repressione di uno sciopero dei lavoratori del petrolio avvenuto nel 2011 e che ha portato a un'ondata di rivolte che si è diffusa in tutta la regione. Quest'anno, mentre la rivolta si espandeva in tutto il paese, essa ha assunto anche un carattere più generale, raccogliendo nuove rivendicazioni lungo la strada. Quando i dimostranti hanno raggiunto Almaty - l'ex capitale e la città più grande - hanno cominciato a manifestare un malcontento sociale ancora più generale, intercettando anche la frustrazione diffusa a causa della  disuguaglianza, della povertà e della corruzione. I dimostranti chiedevano ora la rimozione dell'ex presidente Nursultan Nazarbayez dalla sua posizione di capo del Consiglio di Sicurezza. Nazarbayez era stato presidente per quasi trent'anni, e si riteneva che fosse ancora lui a governare ancora il paese, dietro le quinte. Finora, questi eventi avevano seguito un modello familiare. Le rivolte che hanno scosso la Francia e il Sudan alla fine del 2018 sono iniziate ciascuna in regioni periferiche, e come proteste contro l'aumento del costo della vita [*2]. Lo stesso vale anche per la rivoluzione in Tunisia, iniziata alla fine del 2010, cha aveva dato il via alla Primavera Araba. All'inizio, le proteste francesi erano in risposta a una tassa sulla benzina. In Sudan, sono state catalizzate a partire dalla fine dei sussidi governativi ai prodotti di base, come il carburante e il grano. Simili proteste, in Sudan, erano iniziate allo stesso modo in una città industriale famosa per la sua storia di organizzazione della classe operaia e la sua repressione. In ciascun paese, le proteste avevano acquisito più richieste man mano che si diffondevano. Quando la forza del movimento cresce, anche la sua capacità di immaginazione di ciò che è possibile tende a crescere.  Ogni volta così la capitale diventava il centro di gravità del movimento, il quale ora aveva poco a che fare con la richiesta originale. Ad Almaty, le cose hanno cominciato ad accelerare rapidamente. Le proteste sono iniziate il 4 gennaio. Il 5 gennaio, sono diventate una rivolta armata, con l'obiettivo non solo di riformare la politica, ma anche di rovesciare il governo. La sede della polizia, le stazioni di polizia e le stazioni televisive sono state prese d'assalto. Il municipio e altri edifici governativi sono stati incendiati. Anche l'ex residenza presidenziale e la sede regionale del partito di governo Nur Otan sono stati dati alle fiamme. La folla ha poi preso d'assalto l'aeroporto, chiudendolo. La polizia e le forze di sicurezza si sono arrese alla folla e sono state disarmate. Le auto di pattuglia sono state date alle fiamme. Furti e saccheggi in tutta la città. Sono cominciati a circolare video di insorti che distribuivano tra la folla i fucili saccheggiati dai negozi di armi. Secondo ogni indicazione, quella notte il potere era nelle mani degli insorti.
Alcuni osservatori casuali sono rimasti sorpresi dalla rapida distruzione di Almaty. Ma, come ci ricorda Vaneigem, «la barbarie delle rivolte, degli incendi, la ferocia del popolo, tutti gli eccessi... costituiscono esattamente quello che è il vaccino della rivolta contro la gelida atrocità delle forze della legge, dell'ordine e dell'oppressione gerarchica»[*3]. All'inizio, il presidente Kassym-Jomart Tokayev ha tentato di placare i manifestanti, cedendo ad alcune delle loro richieste. I sussidi per il carburante sono stati ripristinati. Il gabinetto è stato sciolto. L'ex presidente Nazarbayev è stato rimosso dal suo posto di presidente del consiglio di sicurezza del paese. Anche altri membri della sua cerchia ristretta sono stati liquidati. Alcuni sono stati arrestati. Tokayev ha subito tentato di riproporsi come un Bernie Sanders kazako, pronunciando un discorso populista dove denunciava la disuguaglianza di reddito del paese e della sua élite dirigente. Ma era troppo tardi. Nessuna riforma che il presidente poteva offrire avrebbe fermato la marea crescente di rabbia in quel momento. Il 6 gennaio, i disordini hanno provocato un intervento militare in cui la Russia ha guidato altri sei paesi membri dell'Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), l'equivalente russo della NATO. Il giorno dopo, Tokayev ha ordinato alle forze di sicurezza di «sparare senza preavviso» mentre riprendeva Almaty.  Questa è stata la prima volta che la CSTO è stata mobilitata. Nella nostra era di rivolte, questi patti di sicurezza reciproca diventano così nient'altro che l'organismo di coordinamento della controrivoluzione armata [*4]. Il presidente Tokayev proclamava che non si trattava di dimostrazioni spontanee, ma piuttosto dell'attività di una «banda di terroristi»[*5]. Simili affermazioni trovarono eco nel New York Times, incredulo su come un movimento di protesta potesse essersi diffuso così rapidamente in un territorio così tanto vasto [*6]. Se i disordini non erano stati il risultato di un'insurrezione islamista altamente organizzata, allora doveva trattarsi semplicemente di un colpo di stato orchestrato; in altre parole, di una lotta di potere tra fazioni concorrenti dell'élite al potere. Tali prospettive tradiscono una comune incapacità di comprendere come le lotte si diffondono oggi: un processo che dipende più dalla ripetizione e dalla risonanza, che dal coordinamento esplicito [*7]. Con la maggior parte dei servizi internet e telefonici interrotti e l'aeroporto chiuso, il Kazakistan si trovava improvvisamente tagliato fuori dal resto del mondo. Divenne difficile farsi un'idea in tempo reale di ciò che stava accadendo sul campo. Ancora oggi, gli eventi di quei giorni ci rimangono abbastanza oscuri. Ma l'8 gennaio, il governo dichiarò che l'ordine era stato ristabilito nell'ex capitale, e che in tutto il paese le cose si stavano calmando. Nei disordini, secondo i rapporti ufficiali, erano stati uccisi più di 225 manifestanti e diciannove poliziotti. Quasi ottomila sono stati gli arrestati. C'è una certa ironia storica nel fatto che questi eventi abbiano avuto luogo quasi un anno dopo la rivolta del Campidoglio americano. Sembra che la formula di Hegel vada capovolta: oggi tutti i grandi eventi accadono due volte; la prima come farsa, la seconda come tragedia.

Duplice Stato e rivoluzione
Le rivolte dalla crisi finanziaria del 2008 hanno rovesciato i governi, ma non sono riuscite a scuotere le fondamenta dello Stato. Le rivoluzioni in Tunisia, Egitto, Sudan e altrove hanno ceduto ciascuna a un colpo di stato militare. Questo è stato possibile, però, perché in quelle società i militari funzionano già come una sorta di doppio Stato [*8]. D'ora in poi, il popolo vuole che la caduta del regime non significhi solo il rovesciamento di una cricca al potere, ma anche la sconfitta del doppio Stato. Questo è ciò che si intende in Sudan con lo slogan «vittoria o Egitto». Un aspetto di questa questione è tattico. Le rivolte che hanno portato alla sequenza rivoluzione politica - golpe - controrivoluzione, come quelle elencate sopra, potrebbero essere caratterizzate come insurrezioni non violente. Sebbene questo termine sia insoddisfacente, la strategia implicita dell'insurrezione nonviolenta è quella di spingere i militari a schierarsi con il popolo contro il regime. Questa situazione mette pertanto le forze armate nella posizione di mediare l'esito della rivoluzione. Questo viene meglio esemplificato dal complesso caso dell'accampamento del 2019 ,fuori dal quartier generale militare a Khartoum, la capitale del Sudan. Ma le tattiche delle rivolte nonviolente tendono a perdere la loro potenza, una volta che i militari hanno preso il potere e si sono impegnati a rimanere fermi. Il risultato è stato reso dolorosamente chiaro dalle conseguenze dei colpi di stato in Sudan e Myanmar. Costringendo la polizia e i militari a ritirarsi, confiscando le loro armi, prendendo d'assalto le stazioni di polizia e saccheggiando i depositi di armi, distribuendo armi alla folla, prendendo d'assalto l'aeroporto e dando fuoco agli edifici governativi, il Kazakistan solleva la questione dell'insurrezione armata. Storicamente ciò significa che, piuttosto che costringerlo a negoziare o a scendere a compromessi, ciò che si cerca è la sconfitta dello Stato in quanto tale. Questa via potrebbe offrire una via d'uscita dalle particolari trappole incontrate finora dalle rivoluzioni del XXI secolo? Le proteste non violente possono far cadere un regime ma non rovesciare lo Stato. L'insurrezione armata potrebbe essere in grado di far cadere lo Stato e non solo il governo. Ma questo, naturalmente, non è senza rischi propri. Non solo un'insurrezione armata che fallisce invita alle peggiori forme di repressione, ma anche quando riesce corre sempre il rischio di una guerra civile. Ci sono anche probabili ragioni storiche contingenti per cui l'insurrezione armata appaia come un'opzione preferibile in alcuni paesi, ma non in altri. Il Sudan, per esempio, è stato dilaniato dalla guerra civile per decenni. La lotta armata è quindi, comprensibilmente, vista come qualcosa da evitare. Altrove in Medio Oriente e Nord Africa, come in Siria, la svolta verso la lotta armata ha trasformato la rivoluzione in una guerra civile apocalittica. Prendere le armi lì può avere una connotazione diversa che in Kazakistan. C'è anche un precedente di manifestazioni armate nella regione circostante, come durante le proteste di Euromaidan in Ucraina. L'esperienza in Kazakistan non fornisce un modello semplice per quello che si deve fare. La rivolta è solo uno dei numerosi tentativi contemporanei di navigare oltre le impasse del nostro momento. Non è ancora chiaro come i risultati di questa esperienza si contrapporranno alle proteste nonviolente di massa sostenute in Sudan o alla svolta verso la guerriglia insurrezionale in Myanmar. Ma ogni esperimento che raggiunge una certa soglia di intensità offrirà probabilmente importanti lezioni da sintetizzare nella prossima ondata di lotta.

Ritmo e iniziativa
L'insurrezione è un'arte, proprio come la guerra. È soggetta a certe regole che, se trascurate, porteranno alla rovina della parte che le trascura. Queste regole, deduzioni logiche radicate nella natura delle parti e nelle circostanze che affrontano, sono abbastanza semplici che la breve esperienza del 2022 gennaio dovrebbe essere sufficiente per conoscerle.
     Mai giocare con l'insurrezione se non si è pienamente preparati ad affrontarne le conseguenze. Quando iniziate, rendetevi conto fermamente che dovete andare fino in fondo.
     Concentrate una grande superiorità di forze nel punto e nel momento decisivo, altrimenti il nemico, che ha il vantaggio di una migliore preparazione e organizzazione, distruggerà gli insorti.
     Una volta che l'insurrezione è iniziata, gli insorti devono agire con la massima determinazione, e con tutti i mezzi, senza fallire, prendere l'offensiva. La difesa è la morte di ogni insurrezione armata.
     Prendete il nemico di sorpresa e cogliete il momento in cui le sue forze sono disperse.
     Sforzatevi di ottenere successi quotidiani, per quanto piccoli (si potrebbe dire ogni ora, se si tratta di una sola città), e a tutti i costi mantenete un morale superiore.
Il partito dell'insurrezione deve prendere e mantenere l'iniziativa, imponendo il suo ritmo agli eventi. Nelle parole di Danton, de l'audace, de l'audace, encore de l'audace.

Una presenza armata
L'insurrezione riguarda un certo rapporto con l'uso delle armi. Non è una questione di violenza e nonviolenza, né assomiglia molto alla lotta armata. Si tratta piuttosto di mantenere una presenza armata. Il potere non viene deposto attraverso l'uso delle armi, ma avere armi può aiutare a mantenere lo spazio aperto dalla fuga di polizia e politici. Si tratta di acquisire armi e poi fare tutto il necessario per impedirne l'uso. L'esperienza di Almaty è esemplare in questo senso: le armi sono state saccheggiate e distribuite tra la folla, apparentemente con l'idea di difendere lo spazio aperto dalla rivolta popolare. Tuttavia l'uso delle armi è rimasto secondario e non ha mai dato luogo a gruppi armati specializzati e separati, la cui comparsa spesso mina il sentimento popolare e collettivo della rivolta. Una sconfitta politica della polizia e delle forze armate è possibile. In una crisi abbastanza profonda, i militari saranno sempre inviati a ristabilire l'ordine. Tuttavia, la storia dimostra che non è mai possibile sapere veramente come agiranno fino al loro arrivo. Una folla abbastanza grande e determinata può costringere l'esercito a fermarsi e rifiutarsi di sparare, o anche a disertare e unirsi agli insorti, specialmente se è possibile fraternizzare con i soldati. Questo è quello che è successo, per esempio, al quartier generale militare di Khartoum nell'aprile 2019 [*9]. Questo spiega anche l'importanza storica della barricata, che crea il tempo e lo spazio necessari per la fraternizzazione [*10]. La sconfitta politica delle forze armate può richiedere qualche scaramuccia, ma non deve diventare una lotta all'ultimo sangue. Al contrario, la sconfitta militare delle forze armate potrebbe non essere possibile. Come attestano i recenti eventi in Siria, Libia e Yemen, la militarizzazione della guerra civile la priva rapidamente di qualsiasi contenuto liberatorio.
Ad Almaty, gli insorti sono riusciti a sconfiggere e disarmare rapidamente la polizia e le altre forze di sicurezza dopo solo alcune brevi schermaglie. Ma lo stato è stato in grado di riorganizzarsi, e la situazione è cambiata rapidamente con l'arrivo di forze armate che erano disposte a sparare sulla folla. Tuttavia, chiedere un intervento straniero evidenzia l'incertezza di Tokayev sulle sue stesse forze di sicurezza. Il punto importante è che nessuno può sapere in anticipo come andrà a finire una situazione come questa, né esiste una regola fissa che stabilisca quali circostanze permetteranno la sconfitta politica di un militare straniero. L'insurrezione significa sempre fare un salto nell'ignoto.

La geografia dell'insurrezione
Il compito generale di ogni insurrezione è quello di diventare irreversibile. Ma come avviene questo? Una volta messa in moto, cosa deve realizzare un'insurrezione? Se le generazioni precedenti di rivoluzionari erano in grado di rispondere in anticipo a queste domande con un certo grado di sicurezza, è perché avevano un maggior bagaglio di esperienza cui attingere. Il bilancio del nostro secolo è insufficiente in questo senso. Tuttavia, anche se il Kazakistan non può fornirci un modello da seguire, ci offre l'occasione di verificare alcune ipotesi attualmente in circolazione.
In primo luogo, si sostiene spesso che la metropoli assumerà un ruolo meno centrale nelle rivoluzioni del XXI secolo [*11]. «Oggi è possibile conquistare Parigi, Roma o Buenos Aires senza che sia una vittoria decisiva», sostiene il Comitato Invisibile. In passato, sembrava che gli insorti avessero semplicemente bisogno di prendere Parigi, o Pietrogrado e Mosca, perché l'insurrezione avesse successo. Ma i rivoluzionari che lo facevano si trovavano poi di fronte al contrasto tra la città rivoluzionaria e la campagna controrivoluzionaria che poi, in un modo o nell'altro, li avrebbe portati alla rovina. Il rapporto tra città e campagna è stato indubbiamente ridisegnato nel secolo scorso. Tuttavia, è degno di nota che la metropoli abbia mantenuto una certa posizione privilegiata nelle lotte contemporanee. Mentre le rivolte spesso iniziano nella periferia di un paese, la più grande città o capitale tende a diventare il centro di gravità, stabilendo il tono e il ritmo per il resto del paese. Questo è spesso il luogo in cui gli esperimenti più avanzati e gli eventi con la posta in gioco più alta tendono ad accadere [*12]. Il presidente del Kazakistan lo ha riconosciuto quando ha detto: «Se avessimo perso Almaty, avremmo perso la capitale e poi l'intero paese».
In secondo luogo, nel loro bilancio sulle rivolte del 2008-2012, il Comitato Invisibile ha sostenuto che il movimento delle piazze si era lasciato incantare dalle rappresentazioni spettacolari del potere, un fatto che alla fine ha lavorato per disarmarli. Se così tante delle battaglie campali delle rivolte di quell'epoca sono state combattute nel tentativo di ottenere l'accesso a importanti edifici governativi, questo è perché «i luoghi del potere istituzionale esercitano un'attrazione magnetica sui rivoluzionari». Ma quando gli aspiranti rivoluzionari riuscivano a prendere d'assalto le sale del potere, le trovavano vuote. Se non ci sono più Palazzi d'Inverno o Bastiglie da assaltare, ha concluso il Comitato nel 2013, è perché «il potere ora risiede nelle infrastrutture di questo mondo» [*13]. Se interpretiamo gli eventi del 5 gennaio ad Almaty da questa prospettiva, diventano possibili diverse letture contrastanti. Si potrebbe sostenere, per esempio, che riunirsi spontaneamente al municipio giorno dopo giorno, tentare di prendere d'assalto le varie sale del potere e infine dargli fuoco, è semplicemente un'intensificazione dei vecchi schemi senza romperli. Ma si potrebbe anche sostenere che, semplicemente bruciando gli edifici governativi e andando avanti, gli insorti stavano dimostrando che non erano né incantati da essi né scioccati di trovarli vuoti. Erano semplicemente un altro aspetto di questo mondo che dovrà essere disfatto. Certe lezioni possono dover essere apprese di nuovo ad ogni ondata di lotta, con la differenza che questo forse avviene ogni volta un po' più rapidamente. In questo caso, potrebbe essere stato necessario per gli stessi insorti sperimentare l'assalto alle sale del potere e trovarle vuote, al fine di rivolgere il loro sguardo verso orizzonti strategici diversi. Ha senso, quindi, che la svolta verso la presa di infrastrutture critiche come l'aeroporto segua l'incendio del municipio in rapida successione.

I limiti della novità
Con l'insurrezione, come con qualsiasi arte moderna, c'è la tentazione di enfatizzare eccessivamente la novità. È facile perdere di vista ciò che rimane coerente. Dopo la rivoluzione del 1848, Georges-Eugène Haussmann fu incaricato di ridisegnare le strade di Parigi. Essendo stato testimone del loro uso durante le successive rivolte, cercò di sostituire i quartieri urbani densi e difendibili, favorevoli alle barricate e alle lotte di strada, con ampi viali aperti. Nell'opinione di Marx ed Engels, il suo lavoro ebbe un grande successo. L'era dell'insurrezione era finita - conclusero - e la politica rivoluzionaria avrebbe dovuto essere ripensata. Blanqui, la testa e il cuore del partito proletario in Francia, la pensava diversamente. Sosteneva invece che il riassetto offriva opportunità sia al partito dell'insurrezione che al partito dell'ordine. Nuove tattiche possono essere necessarie, ma non un ripensamento fondamentale. Questo dibattito è spesso trattato come risolto a favore di Marx, ma il corso effettivo della storia potrebbe aver corrisposto più da vicino alle previsioni di Blanqui. L'esperienza più ricca del secolo insurrezionale di Parigi sarebbe arrivata solo più tardi, con la Comune di Parigi, decenni dopo la Haussmannizzazione. In questa luce, un breve ritorno alle riflessioni sull'insurrezione offerte dalle tradizioni della teoria rivoluzionaria del primo Novecento può rivelarsi istruttivo. A metà degli anni '20, l'Internazionale Comunista distribuì un manuale intitolato "Insurrezione armata", che combinava accurati studi di casi di insurrezioni riuscite e fallite con istruzioni pratiche per prepararsi a quelle future. In esso si sottolinea l'importanza delle vittorie parziali. Un'insurrezione probabilmente non sarà vinta in un momento decisivo. Invece, ogni passo del cammino dovrebbe rimuovere gli ostacoli e costruire lo slancio per il partito dell'insurrezione mentre prosciuga il morale del partito dell'ordine. Questo significa che bisogna prestare attenzione all'ordine in cui le cose vengono fatte. La prima priorità di ogni insurrezione, sostengono gli autori anonimi, è di prendere e distribuire le armi, neutralizzando le forze armate. La seconda priorità è impadronirsi, e occupare o distruggere, sia gli edifici governativi che le infrastrutture tecniche. I dettagli più fini varieranno molto a seconda del luogo. Per questo motivo, gli autori sottolineano che gli insorti dovrebbero mettere cura nello sviluppo di un piano, o almeno una lista di obiettivi e la loro priorità, prima del tempo. Il peso che questi autori danno alla cattura dei luoghi del potere istituzionale può sembrare una reliquia di un'epoca passata. Anche se può sembrare controintuitivo, essi sottolineano che questi siti hanno spesso un ruolo tattico, e non solo simbolico, nello svolgimento di un'insurrezione. L'importanza dell'assalto al Palazzo d'Inverno durante la Rivoluzione Russa non era dovuta al fatto che il potere era centralizzato allora in un modo che non lo è ora. Oltre al suo significato simbolico, questo evento ha permesso al Partito di arrestare i potenziali leader della controrivoluzione, demoralizzando le poche fazioni delle forze armate ancora disposte a combattere l'insurrezione. Molto è cambiato nell'ultimo secolo. L'Internazionale Comunista dava molto peso al ruolo delle formazioni di quadri disciplinati, che (per quanto ne sappiamo) non sono emerse da nessuna parte in questa sequenza di lotte. Ma, per ora, l'affermazione che le sedi del potere istituzionale hanno meno importanza in un'insurrezione rispetto alle infrastrutture tecniche dovrebbe essere trattata come un'ipotesi da testare e perfezionare, piuttosto che una verità scontata. L'argomento opposto potrebbe anche essere fatto sulla novità dei nostri tempi. Nella nostra società dello spettacolo, i luoghi simbolici del potere possono effettivamente avere più importanza di quanta ne avessero in precedenza, il che spiega la loro attrazione magnetica. Lo spettacolo prodotto dall'assalto al Campidoglio americano, per tutta la sua inettitudine, è probabilmente più significativo che se lo stesso gruppo di persone avesse preso di mira un sito di reale importanza materiale. Allo stesso modo, l'assedio del terzo distretto di Minneapolis è stato importante tanto per le infrastrutture che ha distrutto quanto per lo spettacolo che ha creato. Nella rivoluzione sudanese, questo stesso ruolo spettacolare è stato giocato dall'incendio della sede del partito del Congresso Nazionale al potere ad Atbara, anche se quel sito aveva pochissima importanza infrastrutturale.

Rompere il pavimento di vetro
Usando un registro diverso, Theorie Communiste sostiene che l'ostacolo chiave che la nostra sequenza di lotte deve affrontare non è il salto dalla rivolta all'insurrezione [*14]. Il limite, per loro, è che le lotte non sono riuscite a penetrare il pavimento di vetro nella dimora nascosta della produzione. Le lotte tendono ad emergere nella sfera della circolazione, ma dovranno ritrovare la loro strada nel luogo di lavoro per diventare rivoluzionarie. Finora non ci sono state innovazioni serie che puntassero in questa direzione. Questo forse riflette l'attuale immaturità del nostro ciclo di lotte, la grande distanza tra il punto in cui ci troviamo e l'orizzonte rivoluzionario. Ma potrebbe anche indicare che TC semplicemente non sta ponendo le domande giuste. La teoria comunista spesso tratta la società capitalista come un problema logico al quale la rivoluzione o il comunismo emergono come la soluzione locale. Ma la storia raramente si svolge in modo così logico. Nelle settimane successive alla repressione della rivolta, il Kazakistan ha visto un'ondata di agitazioni sindacali [*15]. Come la rivolta stessa, questa è iniziata nella regione del Kazakistan occidentale, produttrice di petrolio, e poi si è diffusa altrove. All'inizio i lavoratori del petrolio hanno scioperato in solidarietà con il movimento di protesta, come hanno fatto i lavoratori del rame nel sud-est. Poi i lavoratori del petrolio hanno scioperato di nuovo chiedendo salari più alti, come hanno fatto poco dopo i lavoratori delle telecomunicazioni, gli autisti di ambulanze e i vigili del fuoco. Anche i corrieri della gig economy hanno iniziato a minacciare azioni industriali. Il pavimento di vetro sta cominciando ad incrinarsi? Al momento, è troppo presto per dire se questa manciata di manifestazioni sono l'inizio di un'ondata di scioperi nazionali o se si esauriranno semplicemente. Ma vale la pena ricordare, come sottolinea Rosa Luxemburg, che gli scioperi spontanei sono ciò che ha tenuto accesa la brace tra i picchi e le pause della rivoluzione del 1905 [*16].

L'eclissi e il riemergere della geopolitica
La teoria comunista è un tentativo di fornire un resoconto della società capitalista e del suo superamento. Al fine di descrivere come un tale superamento rivoluzionario potrebbe svolgersi, essa presta attenzione alle lotte che avvengono all'interno della società capitalista e ai limiti che esse incontrano. Questi limiti sono spesso visti come interni alle lotte stesse.Per esempio, molti partecipanti alla rivolta di George Floyd direbbero probabilmente che il movimento è stato sconfitto dallo Stato, attraverso una combinazione di repressione e cooptazione. I resoconti dei pro-rivoluzionari dell'epoca tendono a raccontare una storia diversa. Alcuni tendono a concentrarsi sulla composizione del movimento, e su come le separazioni lungo le linee di razza e di classe siano riemerse al suo interno, impedendo la sua capacità di estendersi e intensificarsi [*17]. Altri resoconti descrivono come sia emerso un apparato di movimento sociale che ha catturato il movimento reale della rivolta e ne ha reindirizzato l'energia [*18]. In entrambi i casi, piuttosto che sottolineare come sia stato sconfitto, queste analisi tendono a concentrarsi su quali ostacoli sono emersi dall'interno del movimento che non è stato in grado di superare. Una certa distanza porta a una certa oscurità. Ma c'è poco che indichi che la rivolta in Kazakistan si sia sgretolata sotto il peso dei suoi stessi limiti. Né i giornalisti né i compagni sul terreno forniscono molte prove che siano emerse separazioni all'interno della lotta o che la rivolta sia stata in qualche modo contenuta da un movimento sociale. Forse le cose si sono semplicemente mosse troppo velocemente perché i limiti interni potessero emergere chiaramente. Ma la rivolta sembra invece essere stata semplicemente sconfitta dalle forze armate dello stato, sostenute dall'intervento straniero. Può essere che il nostro desiderio di un resoconto troppo semplice e teoricamente coerente dei limiti interni della lotta ci abbia fatto mancare gli ostacoli più immediati sulla strada della rivoluzione. La teoria comunista oggi dovrà fornire un resoconto di questi ostacoli esterni, lo stato e la geopolitica, così come della loro rovina.

Una nuova internazionale
L'insurrezione ovunque è immediatamente una preoccupazione globale. Ci sono due ragioni per questo. Primo, poiché le lotte viaggiano e si diffondono per risonanza, un successo ovunque può ispirare tentativi simili ovunque. Ciò che inizia come una rivolta locale può molto rapidamente rappresentare una minaccia esistenziale per l'intero ordine globale della società capitalista. Questo spiega perché le sporadiche esplosioni di contestazione rivoluzionaria oggi sono contrastate da un'organizzazione internazionale di repressione che opera con una divisione globale dei compiti. In ultima istanza, tutto il peso del partito globale dell'ordine sarà portato contro qualsiasi insurrezione locale. In secondo luogo, in un mondo sempre più multipolare, ogni crisi offre un'occasione per rinegoziare gli equilibri di potere regionali e globali. Le insurrezioni vengono rapidamente assorbite nei conflitti tra le diverse potenze globali. Oltre a confrontarsi con la forza repressiva del partito globale dell'ordine, diventano anche un luogo in cui diverse fazioni di quel partito regolano i loro conti tra loro. Le insurrezioni sono quindi immediatamente confrontate con il problema della geopolitica. Se gli sforzi rivoluzionari di oggi sono abbandonati alla repressione, è perché non è nell'interesse di nessun potere esistente sostenerli. Finora non esiste un'organizzazione pratica dell'internazionalismo rivoluzionario che le sostenga. «I rivoluzionari sono ovunque, ma da nessuna parte c'è una vera rivoluzione», dichiarò una volta l'Internazionale Situazionista in un momento non dissimile dal nostro [*19]. Ma è attraverso questa produzione di rivoluzionari, come la chiamava Camatte, che possiamo immaginare una via d'uscita da questo inferno geopolitico [*20]. Questo ci permette di intravedere le coordinate fondamentali di una geopolitica proletaria, o di una nuova internazionale. Ogni tentativo di rivoluzione, ogni lotta di massa, lascia nella sua scia una nuova generazione di rivoluzionari. Al Cairo, a Khartoum, a Santiago e altrove, le rivolte lasciano dietro di loro persone che non possono tornare indietro da ciò che hanno vissuto. Cercano allora di ritrovarsi e di prepararsi. Questi nuovi rivoluzionari tentano di venire a patti con il significato della loro esperienza, così come con i suoi limiti e le sue lezioni.Per il momento, questa riflessione è spesso limitata a questioni puramente pratiche. Quali tattiche hanno funzionato e dovrebbero essere ripetute? Quali errori hanno portato alla sconfitta? Qua e là queste tattiche, e le riflessioni su di esse, si diffondono altrove, fornendo ad ogni ondata di lotta un certo grado informale di coordinamento. Ma col tempo, questo coordinamento potrebbe aver bisogno di diventare più intenzionale per superare i seri ostacoli posti dal partito globale dell'ordine. La nuova corrente rivoluzionaria, ovunque appaia, dovrà collegare questi diversi gruppi ed esperienze. Dovrà trovare una base coerente su cui unificare i loro progetti. Da ciò dovrà emergere una forza capace di coordinare e sostenere gli sforzi rivoluzionari ovunque essi appaiano.

Onde e vortici
Le ondate di lotta sono spesso eventi globali, ma tendono ad essere vissute come regionali. Nel 2011 o nel 2019, come nel 1968, nel 1917 e nel 1848, le rivolte sono avvenute quasi contemporaneamente in quasi tutto il mondo. Allo stesso tempo, è probabile che i loro partecipanti le abbiano vissute in termini di particolari consistenze regionali. Le rivoluzioni della primavera araba in Medio Oriente e Nord Africa tendevano a prestare la massima attenzione l'una all'altra, attingendo alle lezioni di ogni esperienza, anche se ispiravano rivolte simili in tutto il mondo. In Asia orientale o nei Balcani, una costellazione altrettanto specifica di lotte ha tratto lezioni l'una dall'altra prima di tutto. Questo è vero anche se, a volte, le tattiche che emergono da una costellazione diventano virali, fornendo ispirazione anche per lotte più lontane. Queste onde regionali potrebbero essere chiamate vortici [*21]. Il contesto più immediato per la rivolta in Kazakistan è un vortice regionale di lotte nelle ex repubbliche sovietiche dell'Asia centrale e dell'Europa orientale. Questo include le recenti rivolte in Bielorussia, Kirghizistan e Ucraina. Queste sono le esperienze di cui i partecipanti in Kazakistan sono senza dubbio più consapevoli. Questa consapevolezza ha fornito al movimento sia un repertorio tattico che un senso delle possibilità e dei limiti. Il Kirghizistan, che ha sperimentato tre rivolte negli ultimi decenni, compresa una che ha bruciato il parlamento e altri edifici governativi, sembra essere un punto di riferimento particolare. La risonanza tra le lotte in questa regione non è solo dovuta alla loro comune vicinanza. Le ex repubbliche sovietiche condividono un certo grado di integrazione economica, così come l'appartenenza a un patto di sicurezza reciproca. Questo significa che gli eventi in un paese hanno abbastanza rapidamente un impatto sugli altri. Ma soprattutto, ogni paese condivide un sistema politico ed economico modellato su quello della Russia. Il successo dell'avanzata di una lotta in qualsiasi parte della regione evidenzia quindi la vulnerabilità di tutti i governi autoritari della regione e fornisce un repertorio tattico che potrebbe essere replicato altrove. Disordini in qualsiasi parte della regione significa la possibilità di disordini ovunque, e quindi solleva la questione dell'intervento russo per ripristinare l'ordine regionale.

Guerra e insurrezione
La crisi in Ucraina può essere meglio compresa come risultato delle turbolenze suscitate da questo vortice di lotta. Durante le proteste di Euromaidan del 2014, il presidente filorusso e gran parte della sua amministrazione hanno lasciato il paese. Un nuovo governo è salito al potere, che ha iniziato a corteggiare un rapporto più stretto con l'Unione europea. Allo stesso tempo, l'esercito russo è intervenuto, annettendo la Crimea e fornendo sostegno ai movimenti separatisti in Ucraina orientale. Questo ha messo in moto la catena di eventi che ha portato all'attuale resa dei conti geopolitica al confine ucraino [*22]. Questo processo è stato probabilmente accelerato prima dalla rivolta in Bielorussia, poi da quella in Kazakistan. Nelle parole del Financial Times, «Mentre osserva ciò che sta accadendo a Nazarbayev, un uomo da cui ha tratto ispirazione, Putin potrebbe essere ancora più desideroso di un successo diplomatico o, in mancanza di questo, militare, da poter vendere al suo pubblico». O, come ha detto eloquentemente CrimethInc: « I potenti governi non staranno a guardare e a lasciare che la gente comune sviluppi il gusto di rovesciarli. Saranno spinti ad intervenire, come ha fatto la Russia in Ucraina, nella speranza che la guerra possa vincere l'insurrezione. La guerra è un modo di chiudere le possibilità - di cambiare il soggetto. È un affare rischioso, tuttavia; può aiutare i governi a consolidare il loro potere, ma la storia mostra che può anche destabilizzarli ». Per quanto questi eventi siano la logica conseguenza del ruolo che ha la Russia nel reprimere i disordini nella sua sfera d'influenza, le manovre di Putin sembrano anche intese a evitare la possibilità di disordini in casa. Con i tumulti che circondano il nucleo, la guerra offre la possibilità di spingerli nuovamente nella sfera della politica internazionale. Il confronto con la NATO mette Putin nella posizione di essere uno sfavorito che si oppone all'imperialismo occidentale, cosa che può, almeno per breve tempo, stimolare un sentimento nazionalista in casa. Questo funziona a livello di sentimento popolare, ma potrebbe anche funzionare per mantenere compatta la sua coalizione oligarchica grazie alla pressione esterna. Le sanzioni che provocano, forniscono anche una copertura per la situazione economica ritardataria della Russia.

«First We Take Moscow, Then We Take Berlin» [Leonard Cohen]
Le difficoltà che attraversiamo in questo momento, in un certo senso, riecheggiano quelle di un'epoca precedente. A questo proposito, i paralleli storici non mancano. La minaccia di un intervento straniero incombeva sulle rivoluzioni del 1848, come una spada di Damocle. La Russia, il paese più grande e conservatore d'Europa, era stato il meno colpito dall'ondata di disordini in corso quell'anno, e il più impegnato a preservare l'ordine vigente. I rivoluzionari temevano che se una rivolta fosse riuscita ad andare abbastanza lontano da sconvolgere lo stato attuale delle cose, l'impero zarista si sarebbe semplicemente limitato a invadere, per ristabilire l'ordine. Questa minaccia, alla fine si avverò in Ungheria e in Romania. La Russia, in un certo senso, funzionava come un esercito industriale di riserva della controrivoluzione. Marx avrebbe trascorso gran parte del resto della sua vita per cercare di scoprire quali fossero le condizioni di possibilità di una rivoluzione nella Russia stessa. La rivoluzione russa, pensava, avrebbe potuto essere un prerequisito necessario per il ritorno della rivoluzione nel continente europeo. Sembra che avesse ragione. Solo quando lo stesso impero russo venne dilaniato dai disordini, nel 1905 e poi nel 1917, ci fu allora un'altra ondata rivoluzionaria che avrebbe attraversato l'Europa e, ben presto, gran parte del mondo. La Russia potrebbe giocare un ruolo simile oggi? Ogni rivolta che avviene in Asia centrale o in Europa orientale, accade sotto la minaccia dell'intervento russo. In luoghi più lontani dalla sua immediata sfera di influenza, la Russia ha fornito copertura finanziaria, militare e diplomatica alle controrivoluzioni in Siria, in Sudan e altrove. Ancora una volta, la Russia appare ancora una volta come il garante ultimo del partito globale dell'ordine. « Putin non è il gendarme d'Europa », ha detto recentemente un anarchico finlandese, « ma il gendarme del mondo intero » [*23]. Nel gennaio del 2022 è stata la terza volta, nell'ultimo decennio, che le truppe russe sono intervenute in una rivolta nella regione. Ma ogni volta, per la Russia, si tratta di una vittoria di Pirro. Ogni suo intervento serve sempre a rendere le popolazioni locali ostili alla Russia, come è avvenuto nel caso dell'Ucraina. Per essere più precisi, ogni volta che uno Stato - il quale è un'immagine speculare della Russia di Putin - si dimostra talmente vulnerabile ai disordini popolari da richiedere un intervento straniero, questa sequenza fa un ulteriore passo in avanti verso la sua conclusione: una rivolta di massa nella Russia stessa. La Russia potrebbe anche non essere più l'«anello debole della catena imperialista». Ma se la Russia viene trascinata nel vortice della lotta in quella regione, potrebbe essere temporaneamente meno capace di intervenire altrove. Il fatto che la Russia debba giocare con un handicap nel gioco geopolitico non è la fine del gioco stesso. Il partito globale dell'ordine è, in ultima istanza, composto da un numero qualsiasi di potenze regionali e globali. Ma questo ci consente di iniziare a pensare a una sequenza in cui il disfacimento dell'ordine geopolitico diventa possibile, e che potrebbe essere una condizione necessaria ma non sufficiente per la rivoluzione sociale oggi. Senza la minaccia immediata di un'invasione, le prossime rivolte nella regione ex sovietica possono dare un'idea migliore di cosa significherebbe per un'insurrezione diventare irreversibile. La prossima rivoluzione in un posto come la Siria o il Sudan, potrebbe avere abbastanza respiro, a causa della mancanza di ostacoli esterni, da poter iniziare ad affrontare i propri limiti interni. Questo aumenta significativamente la possibilità di una svolta rivoluzionaria. Può perfino significare l'emergere di qualcosa come la Comune. Un'innovazione ovunque, avrà conseguenze immediate ovunque, specialmente se si verificherà nel contesto di una nuova ondata globale di lotta, proprio mentre le diverse lotte si affrettano ad adattare ciò che corrisponde meglio alla loro situazione. Ben presto, in una sequenza del genere, in questa guerra civile globale potrebbe essere raggiunto un punto nel quale non sarebbe più possibile tornare indietro.

- Anonimo - Pubblicato il 24/2/2022 - Fonte: Ill Will -

NOTE:

[*1] - Stiamo qui usando il termine "teoria" in un senso più espansivo di quanto sia spesso usato. Man mano che le lotte di massa emergono, hanno luogo dibattiti, tra i loro partecipanti e la società in generale, riguardo ciò che stanno facendo, e su ciò che questo significa. Quando queste lotte si scontrano ripetutamente con i loro limiti, tali limiti vengono formalizzati, ufficializzati. Viene dato loro un nome, e vengono assunti e posti come fossero domande a cui rispondere. Il dibattito, poi ruota intorno a come questi limiti verranno superati. "Teoria" è il termine che abbiamo usato per descrivere tutto questo processo di discorso pubblico e privato di massa. Gli scritti pubblicati nelle riviste di teoria, come questa, costituiscono un momento di questo processo in corso.

[*2] - Sui Gilets Jaunes in Francia, Paul Torino & Adrian Wohlleben, "Memes with Force", Mute, febbraio, 2019. Online qui. Sulla rivoluzione in Sudan, Anonymous, "Theses on the Sudan Commune", Ill Will, aprile 2021. Online qui.

[*3] - Raoul Vanaigem - "Trattato Di Saper Vivere Ad Uso Delle Nuove Generazioni".

[*4] - L'attuale confronto intorno all'adesione dell'Ucraina alla NATO, sembra però indicare che lo scopo geopolitico originario di questi patti non si è ancora completamente esaurito.

[*5] - Vedi The New York Times, "Revolt in Kazakistan".

[*6] - Per esempio, vedi The New York Times, "Russian-Led Alliance Begins Withdrawing Troops From Kazakhstan." Online qui.

[*7] - A causa della rapidità con cui le cose sono degenerate e poi sono state represse, è difficile parlare con sicurezza di quale sia la composizione del movimento. Le folle ad Almaty sono state descritte da un osservatore nei seguenti termini: «[i] manifestanti iniziali erano persone che tradizionalmente protestano... [ma] sono stati raggiunti dai giovani della periferia... i poveri che sono insoddisfatti dello sconcertante divario sociale che esiste in Kazakistan».  Vedi Financial Times, "Agitazioni in Kazakistan: 'banditi', 'terroristi' stranieri o disordinata lotta di potere?" Online qui.

[*8] - Vedi Financial Times, "QAnon è un gioco finito male?" Online qui.

[*9] - Vedi Anonymous, "Theses on the Sudan Commune", Ill Will, aprile 2021. Online qui.

[*10] - Vedi Eric Hazan, "History of the Barricade".

[*11] - Per esempio, vedi "L'insurrezione che viene", del Comitato Invisibile. Online qui.

[*12] -  Questo non vuol dire che non ci siano stati esperimenti significativi con dei movimenti con sede fuori dalle città, come la ZAD e i No-TAV. Questo per dire che le rivolte a livello nazionale tendono a rapprendersi nelle grandi città

[*13] - Vedi Il Comitato Invisibile, "Ai nostri amici". Online qui. Per una discussione simile vedi, CrimethInc, "Belarus: 'When We Rise.'" Online qui.

[*14] - Vedi Théo Cosme, "The Glass Floor". Online qui.

[*15] - Vedi Joanna Lillis, "Kazakhstan: After civil unrest, industrial unrest spikes". Online qui.

[*16] - Vedi Rosa Luxumburg, " the Mass Strike, the Political Party, and the Trade Unions.” Online qui.

[*17] - Per esempio, vedi New York Post-Left, "Welcome to the Party". Online qui.

[*18] - Vedi Adrian Wohlleben, "Memes without End", Ill Will, maggio 2021. Online qui.

[*19] - Vedi Internazionale Situazionista, “Address to the Revolutionaries of Algeria and of All Countries”. Online qui.

[*20] - Vedi Jacques Camatte, "On the Revolution". Online qui. Per un'ulteriore discussione sulla "produzione di rivoluzionari", vedi Endnotes, "Onward Barbarians". Online qui.

[*21] - Endnotes ne fornisce un esempio nella loro discussione della rivolta del 2014 in Bosnia: «I manifestanti in Bosnia hanno inteso sé stessi vedendosi come parte di una più ampia ondata di movimenti nella regione, usando forme e idee sviluppate per la prima volta negli stati vicini come la Serbia e la Croazia. Questi sentimenti di solidarietà vennero ricambiati: durante le proteste, ci furono dimostrazioni di solidarietà con il movimento bosniaco in quasi tutti i paesi dell'ex Jugoslavia, compresi Macedonia, Serbia, Croazia e Montenegro. Le rivolte nell'ex-Jugoslavia sembravano venissero osservate da vicino, e aver così influenzato le reciproche modalità di azione negli ultimi anni. Infatti, prima dello stesso movimento bosniaco, molti hanno osservato un'ondata di proteste nella regione, paragonandola all'ondata globale di lotte del 2011-13, e sollevando persino la prospettiva di una primavera balcanica. In Croazia, Slovenia, Bulgaria, Serbia, i commentatori hanno notato il sorgere di nuove modalità di protesta con - anche se su scala minore - aspetti simili ai recenti movimenti di piazza». Vedi "Gather Us From Among the Nations.". Online qui.

[*22] - Per una discussione più ampia su questo, vedi CrimethInc, "War and Anarchists: Prospettive anti-autoritarie in Ucraina". Online qui.

[*23] - Vedi CrimethInc, "Ukraine: Between Two Fires.". Online qui.