Da sempre, chi detiene il potere politico cerca di controllare il tempo: c’è stato chi lo ha fatto modificando il calendario, chi utilizzando gli orologi per controllare la vita dei propri sudditi, chi cambiando il fuso orario al proprio paese. Ma, soprattutto, proponendo una propria interpretazione del tempo storico. Quale che sia la forma del potere, infatti, una cultura o un regime adottano una concezione del tempo caratterizzata da «specifiche interpretazioni di ciò che è temporalmente rilevante». Ci saranno così alcuni segmenti del passato che vengono sentiti come vicini e intimamente connessi al presente e altri invece come estranei e remoti. Concretamente Christopher Clark, un gigante della storiografia contemporanea, ci mostra come, rispettivamente, la Prussia di Federico Guglielmo e quella di Federico II, la Germania di Bismarck e quella del Terzo Reich optarono ciascuna per diverse concezioni del tempo e della storia con enormi conseguenze politiche e culturali. Questi casi specifici ci aiutano a comprendere come il tempo non costituisce una sostanza neutra o universale nel cui vuoto si svolge qualcosa chiamato ‘storia’, bensì una costruzione contingente che ha avuto forme, strutture e trame diverse. Un libro che testimonia una vera e propria ‘svolta temporale’ negli studi storici, un mutamento di sensibilità paragonabile a quello delle svolte linguistiche e culturali degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Una lettura obbligatoria per tutti coloro che vogliano conoscere e approfondire una di quelle rimodulazioni dell’attenzione mediante cui la disciplina storica periodicamente si rinnova.
(dal risvolto di copertina di "I tempi del potere. Concezioni della storia dalla Guerra del Trent'anni al TerzoReich", di Christopher Clark. Laterza, 304pp., 28euro)
Il tempo è sovrano
- di Massimilano Panarari -
Tempus fugit, si sa. Un'ulteriore ragione per cercare di dominarlo se si sta nella stanza dei bottoni. La «variabile tempo» ha identificato uno degli elementi strutturali della modernità sotto la forma della freccia lineare del progresso.Ha impresso un'accelerazione esponenziale - sebbene, in questo caso, decisamente non lineare - alle nostre esistenze immerse nella condizione postmoderna. E costituisce una componente fondamentale della finanza, una delle potenze che orientano maggiormente il Villaggio globale contemporaneo. E, dunque, il potere ha molto a che fare anche con il controllo del tempo e con quello che lo storico dell'antichità François Hartog ha definito il «regime di storicità», ovvero la modalità con cui una società si riferisce al proprio passato e ne discute. Ne I tempi del potere (trad. di David Scaffei; Laterza), un grande della storiografia, Christopher Clark (Regius Professor di Storia all'Università di Cambridge), prende le mosse proprio da questa categoria per mettere in comparazione alcune letture del tempo storico calate dal potere di turno sulla società. Con la finalità di evidenziare, una volta di più, come il tempo non coincida con una sostanza neutrale e universale, riconosciuta in maniera equivalente da tutti i consessi sociali, ma corrisponda all'esito di una costruzione (naturalmente contingente). Di qui, la percezione di taluni «segmenti del passato» come più vicini al presente rispetto ad altri avvertiti, invece, come più distanti e remoti. Come ricorda Clark, nel corso dell'ultimo ventennio si è prodotta una «svolta temporale» nell'ambito degli studi storici e delle scienze umane riconducibile soprattutto al lascito della scuola delle Annales che,a sua volta, risultava debitrice sotto questo profilo di una serie di riflessioni intorno al tempo di Durkheim, di Halbwachs (l'autore, nel 1925, de I quadri sociali della memoria), di Bergson e di Heidegger.
Mentre lo storico tedesco Reinhart Koselleck, con la sua «semantica dei tempi storici», compì l'operazione di «storicizzare la temporalità», indicando una «epoca crinale» (grosso modo il secolo compreso tra il 1750 e il 1850). Un periodo durante il quale la coscienza storica degli europei visse un mutamento profondo con la progressiva scomparsa dell'autorità della tradizione e il definirsi di un'idea di storia quale successione di eventi di trasformazione irreversibili, sotto l'impulso dei processi orientati da nuove categorie (progresso, rivoluzione, classe e Stato). Clark sottolinea come storicità e temporalità non siano concetti coincidenti, per quanto strettamente imparentati, e impiega così il secondo nell'accezione del «senso intuitivo che un attore politico ha della composizione strutturale del tempo di cui si fa esperienza». Con le relative domande che lo storico deve farsi sulla visione del tempo come flusso di «momenti» nei quali inserire l'azione (e l'agenda) politica, l'approccio rispetto all'eredità del passato, l'idea del presente in termini di mutamento o staticità. In questo libro (magistrale), lo studioso mette tali interrogativi alla prova di quattro concezioni della storia espresse dalla politica dell'Europa di lingua tedesca nel corso degli ultimi quattro secoli. Un'area geografica e culturale particolarmente interessante da analizzare poiché si tratta di quella che, dalla metà del XVII secolo in avanti, visse le fratture politiche più numerose e radicali.
Quattro scenari e teatri in cui il potere si mise, quindi, a codificare le coordinate della temporalità. Il primo è quello,al termine della Guerra dei trent'anni (1618-1648), della lotta tra il Grande elettore Federico Guglielmo di Brandeburgo-Prussia e i suoi stati provinciali. Di fronte alle richieste di finanziamenti e reclutamento di soldati fatta dal sovrano nel 1657, in occasione della Guerra del Nord, le élite locali risposero di sentirsi estranee a una campagna bellica che non le riguardava (come se il Grande elettore rimanesse per loro sostanzialmente uno straniero). E ribadirono i loro privilegi ereditari, invocando a tutela delle proprie prerogative la continuità col passato. Un conflitto nel quale vennero messe in campo e si scontrarono, pertanto, forme di temporalità assai diverse, destinate a esercitare un influsso significativo anche sulla nascente storiografia prussiana. Il presente dello «spirito dei tempi» del regno di Federico Guglielmo si presentò come il confine, labile, tra un passate un futuro non dato per acquisito, per la cui conquista il principe voleva appunto emancipare lo Stato dai lacci e lacciuoli della tradizione. Il secondo teatro del tempo analizzato da Clark è quello settecentesco del bisnipote di quel Grande elettore: Federico II, il solo re prussiano che si sia dedicato in prima persona a studi storici, il quale scelse deliberatamente di abbandonare il modello temporale conflittuale dell'antenato. Optando per una formula di stasi post-vestfaliana, un paradigma di temporalità neoclassica, perenne e inalterabile, fondato su un'idea di ricorrenza ciclica, e dove lo Stato non rappresentava più il motore del cambiamento storico. Al centro del terzo quadro scandagliato da Clark c'è la concezione della temporalità dell'architetto dell'Impero tedesco, il cancelliere di ferro Otto von Bismarck, che viveva la scissione fra l'idea della perennità dello Stato (senza il quale nella storia avrebbero prevalso il caos e l'anarchia, come nel caso dello spettro delle rivoluzioni del 1848) e l'inevitabile mutamento della vita pubblica a cui la politica doveva comunque corrispondere. Nella visione dello statista prussiano la storia costituisce una sequenza complessa di avvenimenti sempre proiettata in avanti, che crolla insieme allo Stato imperiale dopo la catastrofe della Prima guerra mondiale. Spianando la strada al terribile [quarto] esperimento della «storicità di regime» del Terzo Reich, fondata su un'artefatta e indissolubile identità di presente, passato remoto e ipotetico futuro inarrestabile. E decifrare le visioni di temporalità dei poteri del passato può essere un viatico per comprendere anche le manipolazioni politiche di oggi.
- Massimiliano Panarari - Pubblicato su La Stampa del 16/2/2022 -
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