La società del lavoro e l'abisso energetico
- di Sandrine Aumercier -
Tra il gas russo demonizzato e il nucleare senza freni (le due fonti energetiche che sono state appena integrate nella tassonomia verde dalla Commissione europea), l'Europa non sa più a che santo votarsi. Ma la questione climatica è solo una copertura per l'inesorabile declino delle riserve di idrocarburi utilizzabili. È fin dal primo shock petrolifero del 1973, che si è consapevoli del fatto che un'interruzione dell'approvvigionamento energetico può causare dei gravi danni all'economia mondiale. Questo tema traumatico rimane sullo sfondo di tutte le crisi energetiche che da allora si sono succedute. L'energia non è solo il carburante di tutta l'economia, ma è anche un fattore di dipendenza globale, di strategia geopolitica e di ricatto. Ad ogni modo, è stato l'embargo e l'innalzamento del prezzo del barile, deciso dall'OPEC nel 1973, come vendetta per la guerra del Kippur, che ha avuto luogo sullo sfondo di un declino della produzione di petrolio convenzionale da parte degli Stati Uniti [*1]. In concomitanza, questo è stato anche il momento in cui alcuni economisti hanno tentato di integrare l'energia come se fosse una funzione di produzione aggregata, e analizzare a partire da questo la correlazione esistente tra il PIL e il petrolio. Così facendo, finiranno per non comprendere radicalmente il lato astratto dell'energia, riducendola a una mera risorsa fisica.
I legami tra economia, energia, ecologia e tecnologia sono assai stretti, ma di solito vengono trattati in maniera riduzionista. Si parte dal presupposto che ci sono dei «limiti planetari» - se vogliamo usare il linguaggio degli autori del Club di Roma - e che bisogna mantenersi «all'interno», adeguando a determinati limiti fisici una certa traiettoria economica. È da qui che nasce l'idea di decrescita, di a-crescita, di una società post-crescita, oppure l'idea di bioeconomia e di economia circolare: si cerca di fare entrare l'infinito nel finito. Contro il bolide della modernizzazione, viene mobilitata l'immagine della lumaca (in quegli ambiti che si ritengono radicali), o quella del circuito chiuso (negli ambienti tecnocratici).
Per cominciare, entrambe le immagini sono incompatibili con quella ragion d'essere del capitalismo che è la crescita; pertanto non sorprende affatto che siamo rimasti allo stesso punto ideologico degli anni '70; se non addirittura in condizioni materiali drammaticamente deteriorate. Ci sono innumerevoli rapporti scientifici che dimostrano come, su scala umana, il punto di non ritorno sia oramai già stato raggiunto. Tuttavia, non c'è nulla che possa fermare i livelli di produzione demenziale, così come non esiste niente in grado di porre fine alla caccia a nuove fonti di energia che si dimostrano sempre meno accessibili: asteroidi, fondali oceanici, estrattivismo sfrenato, ecc. L'unico orizzonte in grado di frenare questa corsa a capofitto, è l'esaurimento di qualsiasi risorsa («the peak everything»), ma non di certo le sciocchezze a proposito della «neutralità del carbonio» e della «transizione». Nel panico da esaurimento, è stata prevista ogni genere di sostituzione; se la Total ha potuto ribattezzarsi TotalÈnergies, ciò è avvenuto perché in un ambiente sempre più instabile va bene tutto. Ma la sostituzione energetica è sempre relativa: comincia con l'addizione e poi passa alla sostituzione solo sotto costrizione. È quindi importante identificare quella che è una tendenza fondamentale, e il suo principio di funzionamento, anziché concentrarsi sul problema quantitativo delle riserve di idrocarburi o delle emissioni di carbonio. Anche così, come ultima risorsa, per sopravvivere da solo in un ambiente sempre più ristretto, il capitale si vede costretto, controvoglia, a ricorrere a sostituzioni non redditizie E qui sorgono altri due problemi:
1/ La competizione capitalista è come una gara d'atletica: se dite ai corridori (che sono lì per vincere la gara e nient'altro) di correre come lumache, avrete una parodia grottesca della corsa di una volta. Sono sempre legati allo stesso assurdo obiettivo di raggiungere un qualche traguardo, ma quel traguardo è come bloccato. Rallentare la quantità di produzione, ridurre il numero di ore lavorate, oppure allungare la vita delle merci, non ci fa uscire dal paradigma produttivista. Moltiplicato per milioni o miliardi di esseri umani, per centinaia o migliaia di anni, una tale produzione rallentata avrebbe il medesimo esito fatale sia dal punto di vista materiale che da quello energetico. Questa sedicente riduzione della produzione, viene semplicemente valutata dai suoi difensori a partire dal livello egocentrico della vita umana; la quale non è di certo la giusta scala per poter capire quali sono i suoi effetti.
2/ Possiamo anche rappresentare la concorrenza capitalista come se fosse una linea retta che alcuni vorrebbero curvare fino a farle assumere uno scenario circolare, internalizzando il fine che si trova posto all'esterno: si tratterebbe di percorrere lo stesso giro il più a lungo possibile, risparmiando drasticamente le forze, per esempio riciclando materiali all'infinito, e migliorando costantemente le prestazioni tecniche. È così che emerge uno scenario di pianificazione cibernetica integrale, la quale, secondo alcuni, avrebbe persino il pregio di conciliare l'esperienza sovietica con il capitalismo liberale (prova che, nell'essenza, i due regimi non sono poi così diversi) [*2].
L'orizzonte finale ci viene fornito dalle «tecnologie di convergenza» che cercano di riprogrammare e migliorare la totalità della realtà materiale, senza escludere l'umano. Come dice l'ultimo rapporto del World Economic Forum sulla bio-produzione: «La biologia è stata per molto tempo una delle forze produttive più potenti del pianeta. Ogni organismo codifica istruzioni dettagliate che innescano l'auto-organizzazione di reazioni biochimiche altamente specifiche. [...]Nel corso degli ultimi decenni, abbiamo sviluppato la capacità di sintetizzare e riprogrammare da noi stessi questo linguaggio. [...] La bioproduzione designa in maniera in generale l'uso di un sistema biologico che serve a trasformare un elemento che fa parte della catena del valore di un prodotto, o di un servizio. Questa definizione può essere applicata a molteplici aspetti della produzione: nell'allevamento del bestiame, per esempio, l'uso di una mucca per trasformare l'erba e il grano in massa muscolare utile per l'alimentazione. [...] Si stima che potrebbero derivare dalla bioproduzione fino al 60% degli investimenti fisici dell'economia globale... Nei prossimi 10-20 anni, ci saranno delle nuove applicazioni biologiche che potrebbero consentire di risolvere alcuni dei principali problemi ambientali. Si stanno sviluppando soluzioni biologiche in grado di trattare gli inquinanti nocivi nelle acque reflue (biorisanamento) e catturare pericolosi gas serra dall'atmosfera (biosequestro), creando soluzioni alle grandi crisi ambientali delle microplastiche e del cambiamento climatico» [*3].
Si tratta di ottimizzare le catene del valore, ma anche di correggere, in una spirale retroattiva, gli «effetti collaterali» dei processi industriali. Questo processo viene ideologicamente retroproiettato su tutto il mondo vivente, fino a dire che la biologia non avrebbe mai fatto altro che «bio-manifattura»: e che noi non staremmo facendo altro che appropriarcene! Gli «ecosistemi industriali» devono sostituire gli ecosistemi naturali per poi riprogrammarli in maniera più efficiente. È ovvio che una simile visione non ha altro limite che la riprogrammazione della totalità degli esseri e delle cose della terra. E tuttavia, non è una novità. Già alla fine del XIX secolo, per esempio, la fotosintesi poteva essere presentata come il prototipo della fabbrica, e si potevano prevedere fantastici miglioramenti. Allo stesso tempo, l'industrializzazione è stata perseguitata fin dall'inizio dallo spettro dell'esaurimento dei materiali e dell'energia; cosa che si riflette nella perdita di redditività degli investimenti pesanti e nel tema dell'entropia.
Tutte le proposte di razionalizzazione dovrebbero essere considerate come se facessimo dei ridicoli tentativi di rendere possibile il moto perpetuo, allo stesso tempo in cui si fa finta di essere intelligenti riguardo i processi fisici. La tecno-scienza è oggi lo strumento con cui realizzare questa illusione. Di fronte a questa obiezione, molti tirano fuori l'argomento finale, vale a dire che l'umanità ha sempre devastato il proprio ambiente, e che la storia della tecnologia mostrerebbe una progressione ineluttabile verso l'impasse attuale. Che altro si può fare, allora, se non sistemare alla bell'e meglio la rovina del mondo e rallentare la fine, mentre allo stesso tempo si promettono delle meraviglie che vengono sempre rimandate?
Ma come mai una società che era tecnicamente più avanzata dell'Europa del Medioevo - come lo era la Cina - non ha mai dato inizio a una rivoluzione industriale? Gli storici hanno a lungo dibattuto su come spiegare questo fenomeno, ma sono assai pochi quelli che hanno fatto notare che una simile domanda etnocentrica implica che la storia europea debba diventare il metro per tutte le altre storie, le quali di conseguenza vengono allora interpretate come se fossero deficitarie [*4]. L'Europa è infatti il luogo della comparsa contingente di una forma sociale che non ha precedenti; senza che però ciò debba significare che fosse inevitabile. Essa non differisce dalle altre società per la sua moralità o immoralità (essendo la maggioranza delle altre società ugualmente dominante, sfruttatrice e diseguale), né per una sua eccezionale ingegnosità (visto che molte delle tecniche che l'Europa crede di aver inventato sono in realtà attestate altrove), ma si distingue per gli obiettivi collettivi che si è prefissata. La moltiplicazione astratta del denaro diventa il motore della vita sociale - cosa impossibile senza l'instaurazione del lavoro come mediazione universale - e lo fa aggregando quantità sempre maggiori di forze produttive, per creare valore. Questo processo si svolge in un mercato competitivo al quale nessuno può sottrarsi, una volta che il capitalismo si è sviluppato; tutti quanti si vengono allora a trovare nella posizione di quei corridori atletici presentati all'inizio: tutti sono obbligati a correre e a glorificare questa corsa, per lo più senza sapere perché.
L'epoca neoliberale vede accentuarsi l'immagine dell'ingiunzione contraddittoria a correre più velocemente mentre che allo stesso tempo si rallenta (ovvero, «a fare di più con meno»): la scarsità delle risorse, e l'aumento dei rischi sono fin troppo evidenti. Questa struttura di "double bind", che si è recentemente acuita, è tuttavia inerente al capitalismo. Tutto ciò è stato concettualizzato da ingegneri e da scienziati, sulla base della termodinamica, e ha trovato la sua spiegazione morale in ciò che Max Weber chiamava l'etica protestante del capitalismo, cioè un'etica del lavoro che sostiene la rinuncia immediata in vista di un maggior bene futuro. Si trattava della promessa fantastica della realizzazione della felicità sulla terra, associata al mito del Progresso e della Ragione, insieme all'emergere di una fisica sociale che considerava la scienza economica alla stregua di una scienza della natura.
La rivoluzione industriale vedeva l'emergere di due fenomeni concomitanti. Il primo era la generalizzazione del lavoro astratto, per il quale le masse espropriate della loro terra venivano gettate sul mercato del lavoro per guadagnare denaro; ciascuna persona non ha altra ricchezza che la sua «forza lavoro» da vendere in maniera qualitativamente indifferenziata. Costui viene così messo in concorrenza con tutti gli altri, risucchiato e respinto dal capitale secondo quelle che sono le necessità del momento. Anche il capitalista viene messo in concorrenza con tutti gli altri capitalisti, e deve rendere costantemente redditizi i propri investimenti in capitale costante e variabile, in modo da poter così continuare a esistere sul mercato. Da allora in poi, l'esistenza di tutti è subordinata al principio impersonale di un fine astratto in sé, che consiste nel creare valore gettando tutte le forze sociali nello stesso calderone. Il secondo aspetto della rivoluzione industriale, associato alla macchina a vapore, consiste in un'esplosione di scoperte volte ad aumentare la produttività con ogni mezzo. Mai prima nella storia questo obiettivo si era trovato al centro di tutte le attività. È stato nelle viscere delle officine che gli ingegneri hanno scoperto e formulato le inquietanti leggi dell'energia che poi sarebbero diventate anche la base di tutta la fisica moderna. La nozione di «lavoro» era polisemica fin dall'inizio, e doveva fondersi poi in un'astrazione sociale che sarebbe diventata il gioiello della civiltà. Il lavoro umano e il lavoro delle macchine richiedono entrambi un processo di combustione che una notevole letteratura si occupa di comprendere e razionalizzare: il taylorismo ne è un effetto.
È la teoria neoclassica a introdurre l'idea di una funzione di produzione che calcola, per un dato stato della tecnologia, la quantità massima di prodotto che può essere ottenuta da una combinazione di fattori di produzione. La «produttività marginale» è il rapporto tra un'unità supplementare di prodotto e un'unità supplementare di un fattore produttivo. I fattori di produzione sono complementari o sostituibili; essi sono oggetto di una combinazione ottimale ottenuta dal produttore razionale sotto vincoli di prezzo. La differenza tra il modello neoclassico e quello marxiano risiede nello status del lavoro. Nel modello neoclassico, la sostituzione tecnica è meccanica, mentre è dinamica nel modello marxiano. Queste non sono solo due teorie dell'economia, ma sono soprattutto due teorie della società. Il modello neoclassico propone di risolvere tutte le distorsioni del mercato che si discostano dal modello standard, giocando con i prezzi, o attribuendo un prezzo a ciò che non è ancora stato prezzato. È una concezione estensiva del capitale: tutto è potenzialmente capitale, e quindi tutto è commerciabile. La teoria neoclassica tratta la società solo a posteriori, come un'entità oggettiva costituita dalla somma delle sue interazioni, come una fisica sociale le cui variabili possono essere regolate - e condizionate da istituzioni che le regolano o le correggono. Per Marx, al contrario, la società comincia «alla base», nella forma e nell'efficacia del rapporto di produzione in sé.
Marx evidenzia come i due fattori principali - capitale costante e capitale variabile - della composizione organica del capitale non siano intercambiabili dal punto di vista della riproduzione sociale complessiva. A livello macroeconomico, questa sostituzione porta il capitalismo verso la sua stessa asfissia. Infatti, solo il lavoro vivo produce un plusvalore relativo, la cui aggregazione sociale, secondo la concorrenza dei capitali, dà al capitalismo il motore del suo sviluppo. Man mano che il lavoro vivo produttivo diminuisce a causa della costrizione ad automatizzare (per migliorare la produttività), l'intero sistema lotta sempre più per andare in pari, e quindi per riprodursi (anche se pochi attori riescono a cavarsela creando una situazione di monopolio che può ingannare sullo stato reale del sistema complessivo).
Marx descrive il lavoro astratto come «un dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi sensoriali, ecc.» [*5] e come «metabolismo dell'uomo con la natura», e questo non perché egli abbia una visione naturalizzata del lavoro (come alcuni gli hanno erroneamente attribuito), ma perché concettualizza in questo modo quella che è l'astrazione concreta del lavoro nel capitalismo. Possiamo usare qui le parole di Moishe Postone allorché egli commenta l'energetica marxiana: «La definizione fisiologica marxiana di questa categoria [lavoro] fa parte di un'analisi del capitalismo che viene svolta nei suoi stessi termini, vale a dire, un'analisi di come le forme si presentano. La critica non adotta un punto di vista esterno al suo oggetto, ma al contrario si basa sul completo dispiegamento delle categorie e delle loro contraddizioni» [*6].
Il movimento di valorizzazione si basa pertanto sul doppio riduzionismo che nel capitalismo subisce la forza-lavoro: il primo, l'uno, fisicalista, che la rende sostituibile a ogni altro dispendio di energia nel quadro della combinazione ottimale dei fattori di produzione; l'altro, «pieno di sottigliezze metafisiche» (Karl Marx), che si basa sull'equalizzazione del tempo medio di lavoro sociale. La sostituibilità dei fattori di produzione, che presuppone l'omogeneizzazione capitalista di tutte le cose, è il punto di congiunzione tra il lato fisico, concreto, e il lato sociale astratto del lavoro.
L'analisi marxiana espone perciò l'astrazione reale (Alfred Sohn-Rethel) della categoria del valore, implicando, reciprocamente, la realtà astratta dell'energia che, ricordiamo, non è un dato oggettivo, ma è piuttosto il rapporto di conservazione di una grandezza fisica. Il fisico Feynman ci ha dato questa famosa definizione: «Esiste una certa quantità, che noi chiamiamo energia, la quale non si modifica nel corso delle molteplici trasformazioni che subisce la natura. Questa è un'idea molto astratta, perché esprime un principio matematico; tale principio afferma che esiste una quantità numerica che non cambia allorché succede qualcosa. Non è la descrizione di un meccanismo, né di qualcosa di concreto; è semplicemente un fatto strano: possiamo calcolare un certo numero e, nel momento in cui abbiamo finito di guardare la natura fare i suoi trucchi, e andiamo a calcolare di nuovo quel numero, ecco che esso è sempre lo stesso. [...] Non abbiamo idea di cosa sia l'energia» [*7].
A quello che è il limite interno assoluto della valorizzazione capitalista corrisponde quindi un limite energetico esterno assoluto. Questa correlazione è specifica del movimento storico del capitale, e non può essere generalizzata: le altre società avevano finalità diverse rispetto all'accumulazione infinita, e gli esseri viventi sono liberi da qualsiasi fine. Come sostiene Robert Kurz: «Il fatto che da tempo immemorabile gli esseri umani consumino tranquillamente e continuamente energia, non costituisce un fatto "di per sé" nel contesto di alcun campo storico, tranne che nel campo capitalista; al di fuori di questo campo, una simile osservazione semplicemente perde qualsiasi senso» [*8]. Il capitalismo, ed esso solamente, postula un'astratta finalità di accumulazione che determina una spirale entropica distruttiva nella quale l'energia solare, metabolizzata e immagazzinata per milioni di anni, viene bruciata in due o trecento anni, come in un film proiettato a rovescio. La soluzione non è certo quella di offrire una maggiore razionalizzazione - ad esempio riducendo, rallentando, riciclando, pianificando, razionando, ottimizzando, ecc. – che poi è la stessa che ci ha portato proprio al punto in cui siamo. La sua impossibilità costitutiva non verrà trascesa grazie ai mezzi che l'hanno messa in atto. Eppure è proprio questo ciò che propone l'intero spettro politico e ideologico attuale: liberali tecno-ottimisti, ecologisti socialdemocratici, o eco-socialisti neo-leninisti convertiti alle «energie rinnovabili». Anche se sono pochi a convenirne, tutti hanno già adottato, quanto meno indirettamente, il nucleo patrimoniale del transumanesimo libertario, che consiste nella riprogrammazione integrale del mondo fisico, nella speranza di poter controllare l'entropia della cosiddetta civiltà termo-industriale. Ma tuttavia, senza una «rottura ontologica» (Robert Kurz) nei confronti delle sue categorie fondamentali, le contraddizioni di questa civiltà sono .
- Sandrine Aumercier - Pubblicato il 20/3/2022 su GRUNDRISSE. Psychanalyse et capitalisme -
Questo testo è la trascrizione della presentazione, avvenuta alla libreria parigina "Publico" il 18 marzo 2022, del libro "Le mur énergétique du Capital" pubblicato da Crise et critique (2021).
NOTE:
[*1] - Si veda: Matthieu Auzanneau, "Pétrole", Paris, Seuil/Reporterre, 2021.
[*2] - Cédric Durand, Razmig Keucheyan, « Planifier à l´âge des algorithmes », dans Actuel Marx, 2019/1, n°65.
[*3] - World Economic Forum, « Accelerating the Biomanufacturing revolution », 14 février 2022, p. 4-7, je souligne. Online: https://www.weforum.org/whitepapers/accelerating-the-biomanufacturing-revolution
[*4] - Jack Goody, Le vol de l´Histoire, Paris, Gallimard, 2010. Jack Goody tematizza questo problema, sebbene compia l'errore opposto; quello di livellare verso il basso la specificità storica del capitalismo a partire da un eccesso di relativismo decoloniale.
[*5] - Karl Marx, Le Capital, Livre I, Paris, PUF, 1993, p. 82.
[*6] - Moishe Postone, Temps, travail et domination sociale, Mille et une nuits, Paris, 2003 1993 p. 254 .
[*7] - Richard Feynman, dans The Feynman Lectures on Physics, vol. I : Mainly Mechanics, Radiation, and Heat, New York, Basic Books, 2011 [1964], p. 33.
[*8] - Robert Kurz, La substance du capital, Paris, l´Échappée, 2019 [2004-2005], p. 244-245.
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