mercoledì 30 dicembre 2020

Banalità di Base

Parlando su un social a proposito di virus, di pandemia e di vaccini, ad un certo punto un mio amico ha detto, testualmente, rispondendo a proposito dell'influenza Spagnola del 1918/20 che, in assenza di vaccino « la spagnola se ne andò via da sola (e nessuno sa ancora perché) ». Dall'elenco che pubblico qui sotto (ripreso dal sito portoghese di Exit!, si può facilmente evincere che, in assenza di vaccino, tutte quante le "pandemie " ad un certo punto e dopo un certo lasso di tempo - anno più anno meno - se ne sono andate via tutte da sé sole (ovviamente, salvo poi ritornare, anche dopo qualche centinaio di anni). Ma, come dicevamo, tutto questo senza vaccino. Per l'appunto.

F.S.

Riassunto storico delle Pandemie
- stilato dal Gruppe Fetischkritik Karlsruhe -

Così come è stato detto - e come è ben noto - l'attuale Sars-CoV-2 - (come è stata ufficialmente chiamata), la quale da tempo è diventata una pandemia globale - non è in alcun modo la prima del suo genere e, per fortuna, non è nemmeno la più pericolosa delle minacce affrontate dall'umanità. Se passerà alla storia come l'ultima malattia infettiva pandemica, questo dipenderà in larga misura da quali saranno le future condizioni sociali.

- Peste Antonina, 165 - 180. Con ogni probabilità, un'epidemia di Vaiolo, che si diffuse in tutto l'Impero Romano; circa 5 milioni di morti.

- Peste di Giustiniano, dal 541 - ... I suoi effetti si fecero sentire fino all'VIII secolo. L'epidemia si diffuse per tutta la regione mediterranea e in tutto il mondo conosciuto dai Romani. Il numero di vittime è controverso. Probalmente l'agente fu il batterio Yersinia pestis, vale a dire, la peste.

- Peste nera, 1347 - 1352. Proveniente dall'Asia centrale, si diffuse per tutta l'Europa; si stima che siano morte circa 25 milioni di persone, vale a dire, un terzo di quella che era la popolazione europea di allora. L'agente era sempre il batterio Yersinia pestis.

- La Terza pandemia di peste, a partire dal 1896. Apparsa per la prima volta in Cina, si diffuse in tutto il mondo; circa 12 milioni di morti. Agente: ancora una volta, Yersinia pestis.

- Pandemia di Influenza (influenza russa), dal 1889 al 1895. Un milione di morti. Agente: sottotipo A/H2N2 o A/H3N8.

- Influenza Spagnola (polmonare), 1918 - 1920. Probabile punto di partenza negli Stati Uniti. Si stima che vennero infettate quasi 500 milioni di persone, di cui morirono circa 20 - 50 milioni. Agente: sottotipo A/H1N1.

- Influenza Asiatica, 1957 - 1958. Da 1 a 4 milioni di morti. Agente: sottotipo A/H2N2.

- Influenza di Hong Kong, 1968. Da 1 a 4 milioni di morti. Agente: sottotipo A/H3N2.

- Influenza Russa, 1977 - 1978. 700 mila morti. Agente: sottotipo A/H1N1. ( Il numero di casi e la sua classificazione come pandemia controversa, deriva dal fatto che ad ammalarsi erano soprattutto bambini e adolescenti ).

- Diffusione del HIV/AIDS, a partire dai primi anni '80. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per l'Aids, a partire dal 1980, ci sono state circa 75 milioni di persone infettate, e 32 milioni di morti (situazione alla fine del 2018).

- Influenza A (Peste Suina), 2009 - 2010. Dai 100 mila ai 400 mila morti. Agente: Sottotipo A/California/7/2009 (H1N1). ( Il numero di casi e la sua classificazione come pandemia controversa, è dovuto ad una patogenicità relativamente bassa ).

- Pandemia di Covid-19, dall'11 marzo 2020, l'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato Pandemia il diffondersi del virus che era cominciato a far tempo dal mese di dicembre del 2019; avendo già dichiarato una Emergenza Sanitaria Intenazionale il 30 gennaio del 2020. Secondo i dati dell'OMS, alla fine del mese di luglio del 2020 c'erano stati 17 milioni di persone infettate, e 650 mila mori in tutto il mondo.

I microrganismi della classe dei batteri e degli agenti patogeni di Yersinia pestis, così come la classe dei virus in particolare, sono quindi possibili fattori scatenanti di una pandemia.
Negli ultimi decenni, i virus dell'influenza, in particolare, sono stati la causa di grandi pandemie. Gli agenti che hanno causato queste pandemie sono stati i virus dell'influenza A.
Altri sottotipi di questi virus non sono (ancora) patogeni per l'uomo. Le combinazioni di lettere e numeri presentate nell'elenco di cui sopra si riferiscono alla classificazione dei virus A dell'influenza in base alle loro molecole antigeniche di emagglutinina (H) e neuraminidasi (N). Tali molecole, situate nell'involucro del virus, consentono sia l'identificazione del virus in laboratorio che il riconoscimento del virus da parte del sistema immunitario dell'organismo ospite.
Per quanto riguarda la loro funzione biologica, permettono al virus di attaccare e penetrare in alcune cellule ospiti.

- Gruppe Fetischkritik Karlsruhe - Testo tratto da "Il Virus. Critica della Pandemia Politica" - 11/11/2020

fonte: Exit!

martedì 29 dicembre 2020

Carlo Tresca e la Brigata Berkman, attraversano l’Atlantico diretti in Unheria

Carlo Tresca sta attraversando l'Atlantico con la Brigata Berkman
- una poesia fotografica visiva di Kenneth Rexroth -

Carlo Tresca era il redattore di un giornale italo-americano ed un organizzatore di lavoratori, volgarmente detto sindacalista, con gli Industrial Workers of the World (IWW).
Amico di Juliet Stuart Poyntz, pose in atto una campagna stampa quando venne fatta sparire dalla polizia segreta sovietica. Tresca venne assassinato nel 1943, con ogni probabilità dal crimine organizzato.
La biografia scritta da Nunzio Pernicone è un'ottima fonte di informazione sulla sua vita.
La Brigata Berkman, probabilmente vuole essere un fantasioso riferimento al Lincoln Battalion, un gruppo internazionale di volontari comunisti che hanno combattuto nella Guerra Civile Spagnola.
Alexander Berkman,  autore ed organizzatore anarchico di antica data, era morto nel giugno del 1936. Se i volontari anarchici internazionali fossero riusciti a confluire in Ungheria nel 1956 per combattere contro le forze sovietiche di occupazione. Un volo di fantasia - quanto meno, per non dire altro, se consideriamo che a quel tempo gran parte degli anarchici era già stata imprigionata o uccisa – che racconta come avrebbero potuto organizzarsi benissimo sotto una tale bandiera.

da: A Poem by Kenneth Rexroth, Painted across the Rooftops of the World. On the Occasion of His Birthday

fonte: CrimethInc.

lunedì 28 dicembre 2020

Nobel per ridere

Il 3 ottobre del 1996 l’Accademia di Svezia comunica a Wisława Szymborska che le è stato assegnato il premio Nobel. Da quel momento, lei così schiva, è costantemente sollecitata: arrivano lettere, telegrammi, manoscritti, richieste e proposte spesso del tutto incongrue. Il telefono squilla anche di notte. Si impone il supporto di un segretario. Quando Michał Rusinek, neolaureato ventiquattrenne, si presenta in casa sua, la trova sgomenta. «Allora» racconta «chiesi cortesemente un paio di forbici e tagliai il cavo. Il telefono smise di squillare. La Szymborska esclamò: “Geniale!”. E fu così che venni assunto». Le resterà accanto per più di quindici anni. In questo libro – basato su ricordi di prima mano – Rusinek getta un fascio di luce su aspetti della grande poetessa rimasti finora in ombra: le sue a volte stravaganti passioni (per i limerick e per il Kentucky Fried Chicken, per Vermeer e per gli oggetti kitsch, per Woody Allen e per Il Circolo Pickwick – e soprattutto per le sigarette); il suo bisogno di solitudine; il modo in cui nascevano le sue poesie («Sosteneva che l’utensile più importante nella casa di un poeta fosse il cestino della cartastraccia») e quello in cui creava i suoi collage; i suoi (complessi) rapporti con l’altro grande premio Nobel polacco, Czesław Miłosz; i rituali della scrittura e quelli che precedevano qualunque spostamento. Ma inanella anche decine di aneddoti esilaranti, di battute fulminanti e di osservazioni acuminate, in cui ritroviamo l’esprit settecentesco, la sottile ironia e la capacità di stupirsi di una delle poetesse più fervidamente amate dai lettori di tutto il mondo.

(dal risvolto di copertina di: Michał Rusinek, "Nulla di ordinario. Su Wisława Szymborska". Adelphi.)


Rileggendo Wisława Szymborska
- di Diego Gabutti -

Sua madre era una Rottermund, cognome dal suono spericolatamente ebraico nella Polonia nel 1939, quando gli hitleriani occuparono il paese col beneplacito dei comunisti (devoti al loro stesso Iddio cannibale: lo Stato onnipotente). Per «essere lasciata in pace» – scrisse molti anni dopo Wisława Szymborska, poetessa, Premio Nobel per la letteratura nel 2006 – «la mia povera mamma dovette presentare dei documenti che attestavano come la sua famiglia, menzionata già nel XVI secolo», fosse «autenticamente polacca». Trent’anni dopo, «nel 1968» – scrive Michal Rusinek nel suo asciutto e affettuoso memoir – «del cognome Rottermund si ricorderanno le autorità statali e poi i cosiddetti “veri polacchi” dopo il 1996. Su certi elenchi contenenti i cognomi autentici d’alcuni personaggi pubblici apparirà scritto: “Wisława Szymborska: vero cognome Rottermund”. E dopo la sua morte, quando pubblicammo il regolamento del Premio Szymborska, su un forum virtuale venne postato l’acuto commento: “Judeo-mini-Nobel”».
Non perse mai tempo a smentire queste voci, anzi «questi pettegolezzi, messi in giro dai nostri zelantissimi antisemiti» e – «detto tra parentesi», aggiunse - «a volte penso che non sarebbe stato male nascere con almeno una piccola dose del sangue di quel popolo straordinariamente ricco di talento. Forse sarei più capace, scriverei di più, meglio e con minore fatica».
Con minore fatica può darsi, ma più capace è difficile. Quanto poi alla sua vena poetica, era già abbastanza «ebraica» così, sebbene la sua «voce» – una voce inconfondibile, leggera e implacabile insieme – ne facesse più un membro della squadra dei Fratelli Marx che di quella dell’Ecclesiaste.
Wisława Szymborska esplorava il lato buffo della Creazione, vale a dire il suo vero Mistero. «Consapevolmente o meno» – scrivono Anna Bikont e Joanna Szczęsna in Cianfrusaglie del passato, Adelphi 2015, biografia per aneddoti della Szymborska – «lei non ha fatto altro che seguire le orme del padre, che è stato anche il suo primo mecenate. Quand’era piccola, le dava 20 centesimi a poesiola, a patto che fossero divertenti: niente confidenze, niente lamenti». A differenza della stragrande maggioranza dei poeti, che si mettono volentieri in piazza, ostentando sentimenti privati e propositi (e spropositi) sociali, Szymborska non aveva lezioni da dare a nessuno, e nemmeno si scrutava nell’anima, ostentando la permanenza dei dolori o sospirando per la natura effimera delle gioie. Dolenti o allegre, scherzose o commoventi, le sue poesie erano sempre piene di misura, controllate, attente a non strafare, mai pompose. Erano costruite sulle immagini, piene di fatti e di storie. Nelle sue poesie le parole non celebravano se stesse ma le cose di cui parlavano.
Erano oltretutto divertenti — «senza confidenze, senza lamenti», come le voleva suo padre «quand’era piccola» — tanto che Woody Allen una volta le mandò un video, da New York, in cui le diceva, con accenti da vero fan: «Cara signora Szymborska, io sono considerato un uomo spiritoso, ma il suo senso dell’umorismo sovrasta di gran lunga il mio».
Scriveva «limerick», sia castigati che indecenti. In Sicilia, all’inizio del millennio, dov’era andata a ritirare uno dei tanti premi che le piovvero addosso negli ultimi vent’anni di vita, ne scrisse uno che rimava così: Nella ridente città di Corleone ti prendono a mazzate sul groppone. Questa brutta abitudine chi nasce l’assimila col latte ancora in fasce, e dunque, si può dire, è un vizio d’alimentazione. Sorprendenti e lampeggianti, efficaci e stringate come storielle ben costruite e meglio ancora raccontate, le poesie di Wisława Szymborska non fanno solo ridere, naturalmente. Niente confidenze, niente lamenti, ironia e distacco finché si vuole, ma sono nondimeno poesie serie, tremendamente serie.
Ce ne sono, anzi, che non si possono leggere «senza un groppo alla gola», come per esempio Il gatto in un appartamento vuoto, scritta in memoria del suo secondo marito, il poeta Kornel Filipowicz: «Morire — questo a un gatto non si fa».
Un altro grande poeta polacco, Czesław Milosz, a sua volta Premio Nobel, disse una volta che i versi di Wisława Szymborska sono spettacoli di magia (come se ne vedono spesso, a proposito, anche nei film di Woody Allen): «In ognuna delle sue poesie a un certo momento spunta a sorpresa un coniglio dal cappello». Da giovanissima, nella Polonia scampata al giogo hitleriano e occupata dall’Armata rossa, Szymborska fu comunista, e scrisse poesie in lode del regime e contro l’imperialismo yankee poi ripudiate. «Capita spesso», avrebbe scritto più tardi, «che, tra il mondo e il progresso, si insinui una teoria, un’ideologia, che promette d’incasellare e spiegare tutto. Da noi ci sono scrittori che hanno resistito a tale tentazione e hanno preferito fidarsi del loro istinto e della loro coscienza, anziché di qualcun altro. Io purtroppo ho ceduto a quella tentazione, come testimoniano le mie prime due raccolte poetiche. Sono passati molti anni da allora, ma ricordo bene tutte le fasi di quella esperienza: dalla gioia della fede perché la dottrina mi donava uno sguardo sul mondo assai più chiaro e ampio fino alla scoperta che ciò che vedevo in modo così chiaro e ampio non era il mondo vero, ma una costruzione artificiale che gli faceva velo»

- Diego Gabutti - Pubblicato il 23/22/2019 su informazionecorretta.com -

domenica 27 dicembre 2020

l’altro mondo

Sul libro di Raúl Zibechi, “O Mundo outro em movimento”, dalla quarta di copertina
- di Gelson Alexandrino  -

L'«altro mondo in movimento», che viene analizzato in questo libro da Raúl Zibechi, è il mondo degli abissi, il mondo di tutti quelli che «stanno in basso»: popolazioni indigene, quilombola, contadini, abitanti delle baraccopoli. Le lotte di tutte queste persone non possono essere separate dai luoghi in cui essi nascono, vivono e lavorano. Lotte che sono diverse tra loro e che hanno una forza e delle forme proprie. Il Movimento delle Comunità Popolari, che esiste oramai da cinquant'anni, è uno di questi movimenti. La sua importanza risiede nella capacità che ha di radicarsi  tra i settori più poveri e sviluppare una propria economia, autogestita ed autonoma rispetto alle istituzioni statali e alle ONG. Il capitalismo, nella sua fase attuale, punta allo sterminio dei poveri, dei neri, degli indio e dei quilombola. Tutto ciò sottolinea la necessità di sviluppare la coscienza di classe di questi settori, poiché essi sono interessati a combattere il capitalismo ed a cambiare la società.

Di fronte a questo compito, diventa importante riflettere sulle ragioni a partire dalle quali i movimenti, nel loro insieme, hanno trovato delle difficoltà nella lotta contro il capitalismo. A mio avviso, uno dei problemi consiste nel fatto che molti puntano soprattutto - o solamente - sulla tattica dello scontro. Certe volte, riescono anche a raggiungere qualche risultato, ma è il capitalismo stesso a farsi carico di distruggere, o di incorporare rapidamente, tutti questi successi. Ciò finisce per causare molta sofferenza, e porta perfino alla smobilitazione. Tuttavia, la grande sfida dei movimenti, senza dimenticare la lotta e lo scontro, è quella di dare priorità all'organizzazione dal basso, allo sviluppo della coscienza di classe, dal momento che sono quelli che stanno in basso che hanno interesse a combattere il capitalismo. Senza un'organizzazione permanente ed autonoma di quelli che stanno in basso, non riusciremo ad avere successo in un simile compito. Le riflessioni di Raúl Zibechi circa gli esempi viventi di lotta che egli descrive e analizza in questo libro, sono un prezioso contributo a tale sforzo.

- Gelson Alexandrino - * Militante del Movimento delle Comunità popolari -

fonte: Blog da Consequencia

giovedì 24 dicembre 2020

Costruire Arche

Il mondo dopo la pandemia
- di Raúl Zibechi -

«Il periodo compreso tra il 1990 ed il 2025/2050, sarà probabilmente un periodo di poca pace, di poca stabilità e di poca legittimità», scriveva nel 1994 Immanuel Wallerstein [*1]. Nei periodi di turbolenza e confusione, si consiglia di consultare le bussole. E, come bussola, lui era una di quelle più straordinarie e, inoltre, era anche uno di noi. A rigore, i grandi eventi globali, come sono le guerre e le pandemie, non creano mai delle nuove tendenze, ma piuttosto approfondiscono ed accelerano quelle già esistenti. In questo momento, ci sono tre tendenze fondamentali - che con ogni probabilità sono emerse come risultato della rivoluzione del 1968 - le quali si stanno sviluppando in maniera formidabile:

- la crisi del sistema-mondo, con una conseguente transizione egemonica da Occidente ad Oriente;
- la militarizzazione delle società, a fronte dell'incapacità da parte degli Stati-nazione di integrare e controllare le classi pericolose;
- le molteplici insorgenze dal basso, e che in questo periodo sono l'aspetto centrale.

Coloro che ritengono che sia centrale il conflitto tra Stati, l'egemonia e la geopolitica, possono essere certi che la tendenza ascendente del blocco Asia-Pacifico - in particolare la Cina - e il declino degli Stati Uniti, durante la pandemia, stia accelerando. Il Pentagono e le altre agenzie, faranno di tutto perché si renda possibile il rallentamento di questo processo, dal momento che anche attraverso le misure più diverse - ivi compreso anche uno scontro nucleare non conclusivo che ritengono di poter vincere - non possono invertirlo. Neppure qualcosa di così sinistro può essere in grado di modificare le tendenze di fondo.
Quelli di noi che sono coinvolti nella lotta contro il patriarcato, il colonialismo ed il capitalismo non possono certo fare affidamento sugli Stati che stanno militarizzando rapidamente le nostre società. Ragion per cui, intendo concentrarmi su come l'attuale situazione influisca sulle persone/società in movimento.

In primo luogo, ad accelerarsi è la crisi della civiltà, la quale si sovrappone alla crisi del sistema-mondo: non ci troviamo di fronte ad una nuova ulteriore crisi, ma ci troviamo all'inizio di un lungo processo (Wallerstein) di caos sistemico, che verrà attraversato da guerre e da pandemie, e che durerà per diversi decenni, fino a quando non si stabilizzerà un nuovo ordine.

Questo periodo che - insisto - non è una congiuntura o una crisi tradizionale, bensì qualcosa di completamente differente che può essere definito come un collasso, a condizione che non lo si interpreti però come se fosse un evento isolato, ma piuttosto un periodo più o meno prolungato. Nel corso di questo collasso, o caos, si produce una forte concorrenza tra gli Stati ed i capitali: un violento conflitto tra classi e tra popolazioni di queste potenze che avviene nel bel mezzo di una crescente crisi climatica e sanitaria. Qui, per collasso intendo (secondo Ramón Fernández e Luis González) [*2] la riduzione drastica della complessità politica, economica e sociale di quella che è una struttura sociale.
Sistemi complessi che perdono la loro resilienza, nella misura in cui aumenta la loro complessità, per poter così rispondere alle crisi che si trovano a dover affrontare. «Le società basate sul dominio tendono ad aumentare la propria complessità come risposta alle sfide che vanno affrontando» (p.26, t.I).
Ad esempio: sprecano energia, diventano più gerarchiche e rigide e non possono evolvere. Concretamente, la grande città appare molto più vulnerabile di un quanto lo sia una comunità rurale. Quest'ultima è autosufficiente, usa l'energia che le è necessaria, non inquina, è meno gerarchica e, pertanto, è più efficiente. La prima non ha alcuna via d'uscita, tranne il collasso.

In secondo luogo, durante tutto questo lungo processo di collasso, che assomiglia ad un grosso masso che rotola giù per un pendio, piuttosto cha ad un sasso che precipita in un dirupo, si verificherà un'enorme distruzione materiale e, purtroppo, un’enorme perdita di vite umane e non umane. È questa la condizione per poter passare dal «complesso, grande, veloce e centralizzato, al semplice, lento, piccolo e decentralizzato» (p. 337, t. II). Ciò che ci tocca,  in quanto popolazioni e classi, è un processo di imbarbarimento che implica la cannibalizzazione delle relazioni sociali e nei confronti della natura. Sopravvivere come popolo, sarà altrettanto difficile di quanto lo per fu quelle antiche popolazioni originarie nei confronti dell'invasione coloniale spagnola. Un cataclisma che venne chiamato «pachakutik».

La terza questione, riguarda al come agire in quanto movimento anti-sistemico. La cosa fondamentale è essere consapevoli che viviamo all'interno di un campo di concentramento: un qualcosa di evidente in questi giorni di confinamento obbligatorio. Come si può resistere e trasformare il mondo da dentro un campo? Organizzarsi, è la prima cosa. Farlo con discrezione, per fare in modo che le guardie (da destra e da sinistra) non lo scoprano; poiché si tratta di una condizione di sopravvivenza. Poi, tutto quel che ne consegue: lavorare collettivamente ( Minga [in lingua quechua “azione collettiva, comunitaria”] / Tequio [Il lavoro collettivo non remunerato che ogni indigeno deve alla sua comunità] ) comunitariamente, per garantire autonomia alimentare, acqua, salute, in una parola: riproduzione della vita. Decidere collettivamente, in assemblea.

Possiamo farlo. Lo fanno quotidianamente tutti i popoli indigeni in movimento: zapatisti, mapuche, nasa/misak, tra gli altri. Così come lo fanno i compagni delle Comunità Acapantizingo di Iztapalapa (Città del Messico), nel ventre del mostro. Possiamo costruire arche. Gli esempi non mancano.

- Raúl Zibechi -  Pubblicato il 22/12/2020 su BlogDaConsequencia -
- originariamente pubblicato su  La Jornada, il 27-03-2020.

NOTE:

[*1] - “Paz, estabilidad y legitimación”, in “Capitalismo histórico y movimientos anti-sistémicos”, Akal, 2004.
[*2] - “En la espiral de la energia”, Libros en Acción/Baladre, 2014.

mercoledì 23 dicembre 2020

Modalità Crisi

La crisi del 2020 e quella del 2008 a confronto
- di Tomasz Konicz -

Nonostante l'enorme indebitamento, la crisi innescatasi a partire dalla pandemia non è stata superata in alcun modo. Gli industriali tedeschi ci dicono in coro: semplicemente, non siamo in grado di permettercelo. Stavolta la faccenda non riguarda solo le prestazioni legate alla previdenza o ad avere salari e pensioni decenti, ma ha a che fare soprattutto con un altro lockdown economico, che andrebbe attuato per poter combattere la seconda ondata della pandemia che si sta intensificando in questo momento. Il quotidiano tedesco"Bild" ha messo insieme, in un reportage, le dichiarazioni di tutta una serie di rappresentanti della Federazione delle Industrie Tedesche (BDI), dell'Associazione del Commercio con l'Estero (BGA) e dell'Associazione Commerciale Tedesca (HDE), nel quale veniamo messi in guardia circa una «sentenza di morte» per l'economia, nel caso che a fronte della rapida crescita del numero di infezioni si dovesse consentire un altro lockdown economico . Morire per evitare la «morte» dell'economia? Il concetto di un atto sacrificale al dio insaziabile del denaro, che riporta alla mente un culto assassino, e all'inizio della pandemia ha provocato la negazione, il rifiuto e la rivolta, ora è diventata la linea politica ufficiale. Anche la cancelliera Merkel ha sottolineato, all'inizio del mese di ottobre, che il lockdown avrebbe dovuto essere evitato a tutti i costi. Questa volta, tuttavia, la politica e l'economia - che condividono gli interessi del folle movimento dei negazionisti della pandemia - sembrano avere ragione. Il capitale, in quanto valore che si valorizza senza limiti, non può sopportare nessuna pausa; un secondo lockdown sarebbe economicamente devastante. L'aumento del numero di infezioni, non solo minaccia la «ripresa» che tutti si aspettano, come fa per esempio il quotidiano tedesco di economia e finanza Handelsblatt, ma potrebbe anche porre fine all'enorme spesa per mezzo della quale il sistema economico globale ha faticato ad essere stabilizzato dopo lo scoppio della pandemia. Il sistema capitalistico globale si trova ancora in «modalità crisi», e non è affatto sicuro che possa essere nuovamente stabilizzato a medio termine, nonostante i miliardi di euro e le misure di sostegno politico. Qui, ad essere decisivo sarà proprio il successivo decorso della pandemia.

Un confronto con le misure anticrisi del 2008, evidenzia come l'attuale crisi abbia raggiunto dimensioni assai maggiori di quelle che erano state le distorsioni globali che avevano colpito l'economia mondiale dopo l'esplosione delle bolle immobiliari negli Stati Uniti e nell'Unione Europea. "Spese di crisi messe a confronto", uno studio svolto dalla famigerata società di consulenza McKinsey (coinvolta, tra l'altro, nella pianificazione del sistema Hartz IV), ha quantificato la portata di tutte quante le misure di crisi che sono sono state metto in atto come risposta allo scoppiare di una crisi globale scatenata dalla pandemia. In totale, queste misure sono arrivate a toccare un volume di diecimila miliardi di dollari americani. Con una tale somma astronomica, nei primi due mesi dopo lo scoppio della pandemia e con la recessione economica, la spesa attuale ha superato di circa il 300% quella relativa alle crisi degli anni 2008 e 2009; ha concluso McKinsey. All'epoca, sono stati spesi circa tremila miliardi di dollari per combattere le conseguenze economiche dello scoppio delle bolle immobiliari; così come è avvenuto per il congelamento dei mercati finanziari mondiali dopo il fallimento di Lehman Brothers. Ma mentre nel 2008 e nel 2009, il capitalismo statale cinese ha funzionato da grande ancora di salvezza per mezzo di dispendiosi pacchetti di stimolo economico, ora le cose sono cambiate e l'attenzione è rivolta altrove. Relativamente alle prestazioni economiche (PIL), le misure di crisi che sono state adottate dalla Repubblica Federale Tedesca sono quelle più estese; esse corrispondono a circa il 33% del PIL, mentre i pacchetti di stimolo economico del 2008/2009 - quali il famigerato "Abwrackprämie" [incentivo alla rottamazione] - all'epoca ammontavano solo al 3,5% del PIL della Germania di allora. Perciò, per quel che riguarda Berlino si può di fatto parlare di un aumento pari a dieci volte rispetto a quelle che erano state le misure di crisi!

Le misure di sostegno in Giappone (il 22% del PIL, confrontato al 2% nel 2008), in Francia dieci volte rispetto al 14,6%) e nel Regno Unito (circa il 14,5%) hanno dimensioni simili. Negli Stati Uniti, le spese aggiuntive relative alla crisi, da parte di uno Stato già pesantemente indebitato, ammontano al 12,1% del PIL, contro quella che era stata la spesa nel 2008, pari al 4,9%. Del resto, in Cina - la quale ora è tornata sulla strada della crescita - i costi legati alla crisi rappresentano meno del 5% del PIL. La crisi del 2020 - cifre, dati e fatti stimati recentemente dal Fondo Monetario Internazionale - suggerisce che la pandemia, in tutto il mondo verrà a costare ai contribuenti circa 11,7 mila miliardi di dollari, escludendo quelle che saranno le conseguenze di una seconda ondata di pandemia. Una simile somma equivale a circa il 12% della PIL globale, e questo, secondo il Wall Street Journal, porterà il debito pubblico globale al livello record di un aumento corrispondente circa ad un altro 100% del PIL mondiale.

Qui, è importante ricordare che la montagna del debito globale (governo, famiglie ed economia) ha già raggiunto all'inizio dell'attuale crisi un nuovo e vertiginoso record pari al 331% del PIL globale. Nei paesi industrializzati, solamente nel primo trimestre del 2020, il peso del debito è aumentato, passando dal 380% al 392% del PIL. Alla fine del 2019, i mercati emergenti avevano un debito che equivaleva al 220% della loro produzione.; e dopo tre mesi di pandemia, la cifra era passata ad equivalere al 230%. Il debito totale della Cina, nel primo trimestre del 2020, dovrebbe aver raggiunto il 335%. Ed anche in questo caso, un confronto con il peso del debito globale del 2008 ci aiuta a comprendere il carattere sistemico della crisi capitalistica vista come un processo storico, con degli scoppi, durante i quali il capitale si scontra con le sue barriere interne ed esterne. Rispetto al 2008, la montagna di debito globale è aumentato di circa il 40%. In una relazione, il Financial Times ha calcolato quella che era la montagna globale di debito, nel marzo 2020, come una bagatella corrispondente a circa 253 mila miliardi di dollari di dollari, un record storico; e questo riferito a quando, in seguito alla crisi del debito scoppiata nel 2008, il debito del sistema capitalistico mondiale ammontava ancora a “solamente” circa 170 mila miliardi di dollari. E ciò nonostante il fatto che tutte queste onerose misure di stimolo economico sembrano avere la loro logica capitalista di crisi, dal momento che sono state progettate proprio per evitare il collasso dell'economia mondiale.

Al centro di tutti questi sforzi di stabilizzazione del sistema globale del capitalismo tardivo, che a causa della sua iper-produttività sta soffocando sotto montagne di debiti, si trova la politica monetaria estremamente espansiva delle Banche centrali, le quali acquistano obbligazioni, o più semplicemente titoli di Stato, sui mercati finanziari al fine di mantenere la liquidità. Questi programmi di acquisto, che in ultima analisi equivalgono ad un'operazione di stampare moneta in maniera mediata, si riflettono sui bilanci delle banche centrali, che in realtà stanno degenerando trasformandosi così in delle vere e proprie pericolose discariche del sistema finanziario del capitalismo tardivo; e che permettono in tal modo anche di quantificare le misure e l'intensità della crisi. Alla vigilia della crisi del 2008/09, La Federal Reserve degli Stati Uniti aveva un attivo totale inferiore a mille miliardi di dollari, che poi, in pochi mesi grazie all'acquisto diligente di cartolarizzazioni ipotecarie, è salito a più di duemila miliardi di dollari. Nel 2015, il bilancio della Fed era arrivato a quattromila miliardi di dollari. Ora, a sei mesi dallo scoppio della crisi attuale, la Federal Reserve statunitense ha accumulato "Obbligazioni" per un valore di oltre settemila miliardi di dollari. Rispetto allo stesso periodo, dopo l'inizio della crisi del 2008, durante il quale il totale del bilancio della Fed era aumento di circa mille miliardi di dollari; ora, nel 2020, questo bilancio è esploso, aumentando di circa tremila miliardi di dollari.

Nell'Unione Europea, la situazione non è certo molto migliore: il totale del bilancio della BCE è aumentato passando da circa mille miliardi di euro, all'inizio della crisi del 2008, a circa 4,5 mila miliardi di euro dopo la crisi dell'euro del 2019, per arrivare poi all'attuale livello di 6,7 mila miliardi di euro. E la tendenza continua ad essere ancora in forte aumento. È ovvio che il sistema globale del capitalismo tardivo si trova semplicemente in bancarotta, proprio a causa del suo stesso sviluppo della produttività; e può solo continuare a condure una specie di vita illusoria da zombie, grazie ad un'indebitamento permanente. Per paura di una «recessione Double-Dip», potrebbe anche essere rinnovato il calcolo secondo cui - con l'eliminazione degli sprechi del mercato finanziario, con la stampa di denaro e con le sempre rinnovate montagne di debiti, e nella continua formazione di bolle - sarebbe possibile guadagnare ancora qualche anno per il capitale in agonia. Frattanto, il FMI stima che - soprattutto a causa della ripresa economica cinese  - la recessione globale di quest'anno, corrispondente al 4,4% della produzione economica globale, sarà minore di quella che era stata inizialmente prevista (5,2%). E per il prossimo anno, il Fondo Monetario Internazionale prevede una crescita del 5,4%.

Tuttavia, anche se la seconda ondata della pandemia non dovesse portare ad un'altra recessione economica, la crisi attuale sarà una catastrofe per milioni di persone. Sempre secondo il FMI, si prevede che quest'anno tra i 100 ed i 110 milioni di persone sprofonderanno nell'«estrema povertà». Il problema sta nel fatto che una nuova recessione, il cosiddetto Double Dip, potrebbe voler dire il fallimento di questo gioco miliardario ad alto rischio che è stato messo in atto dalle élite di funzione capitalistiche, e che poi equivale ad una ripetizione della strategia del 2008. Una recessione rimetterebbe in moto delle montagne di debito, ad esempio, nel settore imprenditoriale di quelle imprese che sono state prudentemente e scrupolosamente stabilizzate attraverso la politica monetaria. Ed è in Europa, in particolare, secondo il Financial Times, che si prevede una una recessione. Dopo la caduta della produzione economica avvenuta nel secondo trimestre, corrispondente a poco meno del 12%, è previsto per il terzo trimestre un forte aumento del PIL, di quasi il 10%. Ma dopo questo - dice il Financial Times - esiste la minaccia di un'altra contrazione. Ci sono degli indicatori -  come l'indice PMI europeo - che hanno evidenziato una recessione in diversi paesi dell'euro nel quarto trimestre del 2020, nel momento in cui la lotta contro la pandemia continua a rendere difficile la crescita. Ciò significherebbe che la BCE dovrebbe abbandonare le sue speranze di riportare entro la fine del 2020 la produzione economica della zona euro al livello della crisi precedente.

Di fronte a questa economia capitalista ammalata, non sorprende che, nonostante la seconda ondata di pandemia, i leader economici e gli opinionisti tedeschi stiano chiedendo ai salariati del paese di continuare a lavorare e a fare sacrifici per il capitale; proprio come hanno fatto apertamente i senatori del Texas. È l'unica possibilità di riuscire a mantenere in piedi il business, perché per questi signori una trasformazione del sistema è del tutto fuori questione.

- Tomasz Konicz -  Pubblicato il 25/11/2020 su  blog da consequencia -

martedì 22 dicembre 2020

Tra il dire, e il realizzare …

Susan Sontag, 1964

Nel suo famoso saggio del 1964, "Contro l'interpretazione", Susan Sontag mette a confronto, in tensione tra di loro, le due possibilità dell'arte: il «Dire» e il «Realizzare», ossia, ciò che richiede una spiegazione e ciò che richiede l'esperienza, il vissuto, la fruizione. Per secoli, il vizio di «dire» - che poi è il vizio interpretativo -, sostiene la Sontag, è stato sempre privilegiato, storicamente a partire dai greci, passando per la rielaborazione dell'Antico Testamento fatta dai primi cristiani, fino ad arrivare all'articolazione tra contenuto manifesto e contenuto latente in Marx e in Freud.
L'ammirazione della Sontag per Barthes - ammirazione nutrita da sempre - non è affatto casuale: Susan Sontag percepisce in lui un'attenzione costante nei confronti dell'arte contemporanea, e vede in questo un motore critico (il rapporto di Barthes con Brecht, è il primo esempio forte di riconfigurazione della sua critica a partire dall'arte). "Contro l'interpretazione", è il primo sforzo consapevole, pubblico e consolidato che la Sontag fa per trasformare il proprio pensiero critico a partire dall'arte contemporanea: i film di Elia Kazan, Bergman e Resnais, o i romanzi di Robbe-Grillet ed il "saggio di Randal Jarrel su Walt Withman", tra gli altri. L'arte del presente non richiede affatto la cancellazione dell'interpretazione, dal momento che la Sontag sa che questo è impossibile: richiede invece una riconfigurazione ed un ampliamento delle possibilità di interpretazione, e persino una denaturalizzazione dell'imposizione dell'interpretazione.
Nella Sontag, ci sono momenti in cui il linguaggio metafisico è palese: ad esempio, quando parla della "cosa in sé", o quando parla dell'opera d'arte e del suo apparire "unitaria e pulita". Eppure, allo stesso tempo, c'è un conflitto manifesto tra i riferimenti che sceglie di elencare: mentre elogia il lavoro di Benjamin su Leskov (senza però sottolineare con esattezza cosa sia ciò che Benjamin "faccia vedere" in Leskov;  e la cosa sarebbe pertinente al fine di poter stabilire un paradigma "contro l'interpretazione"), simultaneamente elogia anche il lavoro di Erwin Panofsky, che in generale invece, per esempio Georges Didi-Huberman, nel suo saggio, critica in termini simili a quelli usati dalla Sontag : in "Davanti all'immagine" (Edizioni Mimesis) Didi-Huberman evidenzia le articolazioni "chiare, pulite e razionali" di Panofsky a fronte degli oggetti artistici, che vede "sovradeterminate" da un "neokantismo" disciplinare.

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 21 dicembre 2020

Salvarsi soccombendo

Fëdor Dostoevskij è uno dei più grandi scrittori di ogni tempo. Le sue opere sono annoverate tra i capolavori della letteratura di ogni epoca e luogo e, ancora oggi, nutrono lettori di tutto il mondo. Sono romanzi totali, monumenti letterari che contengono un sapere universale e manifestano la complessità della nostra esistenza travalicando confini e generazioni. Così le Lettere che Dostoevskij ha affidato alle mani dei suoi familiari, dei suoi amori, dei suoi sodali costituiscono, come scrive Alice Farina nell’introduzione, «il romanzo di una vita», «un’opera letteraria parallela all’opera, ma anche sorgente viva per l’opera stessa». E difatti sembrano traboccare di materiale romanzesco: l’arresto per aver frequentato un circolo di socialisti utopici, la condanna a morte, la grazia ottenuta pochi minuti prima di salire al patibolo; il confino in Siberia e la persecuzione della malattia; la continua e strenua battaglia per migliorare la propria condizione economica senza sacrificare nulla della propria arte. Ma questo materiale è qui innestato all’interno di una vita, la quale non può che diventare a sua volta sorgente creativa, in un continuo gioco di vasi comunicanti. Per buona parte inedite in Italia, queste pagine testimoniano poi gli scatti e le evoluzioni del pensiero di Dostoevskij, permettendoci di osservarne da vicino i movimenti interiori, come quando nel 1839, a soli diciotto anni, dichiara con orgoglio al fratello di voler dedicare la propria vita a svelare il mistero dell’essere umano. Le Lettere qui raccolte – ora interamente ritradotte, a comporre l’epistolario di Dostoevskij più completo mai pubblicato in Italia – raccontano questa missione; tracciano le linee di un’autobiografia intima e coinvolgente e rivelano una personalità infuocata, dedita alla letteratura fino allo stremo delle forze; offrono un nuovo sguardo sul suo percorso intellettuale e sulla genesi di opere che hanno cambiato per sempre la letteratura, sollevando interrogativi che ancora reclamano risposte. Sono la lente d’ingrandimento sulla vita di uno scrittore che ha esplorato gli abissi della condizione umana e ne è uscito più vivo che mai.

(dal risvolto di copertina di:  Fëdor Dostoevskij, Lettere a cura di: Alice Farina ISBN 9788842828495 pagine: 1376 € 75,00. Il Saggiatore)

Breve guida letteraria ai nostri demoni
- dall'Idiota ai Fratelli Karamazov, l'umanità rinchiusa in una pagina -
di Michele Mari

L'insetto più famoso della letteratura è certamente lo scarafaggio della Metamorfosi kafkiana. Non molto prima di Kafka, tuttavia, il motivo entomologico era già stato modulato quasi ossessivamente da Dostoevskskij, che proprio per questo venne e viene riconosciuto come il più russo tra gli scrittori russi. Basti per noi il nome di Tommaso Landolfi, che nella sua storica antologia di Narratori russi (1948), soffermandosi sula proverbiale «masochismo russo» e sulla pletora di «personaggi o autori vivamente e compiacentemente interessati alla propria minorazione, al proprio tormento, e che con suprema soddisfazione si definiscono da sé stessi come pidocchi», individua appunto in Dostoevskij il campione di «questa categoria così intimamente russa» a partire dai Ricordi del sottosuolo: «ero io stesso», vi leggiamo, «in conseguenza della mia sconfinata vanità, a considerarmi spessissimo con una furiosa scontentezza che arrivava fino al disgusto»; «quanto più avevo coscienza del bene [...] tanto più affondavo nel mio fango». Il sottosuolo, da questo punto di vista. è il punto d'arrivo della caduta biblica («nel suo sordido e puzzolente sottosuolo, il nostro topo, offeso, bistrattato e sbeffeggiato, si immerge in una rabbia fredda, velenosa, e soprattutto eterna»); è però anche una tara ereditaria, qualcosa cui non si può sfuggire al punto che essa ci identifica («avevo il sottosuolo nell'anima»); e, finalmente, è la Russia.
Crogiolandosi nell'abiezione con un'oltranza e un raccapriccio che fanno sembrare ingenue e candide le confessioni di un masochista programmatico come Rousseau, il narratore può riscattarsi non nel pentimento o nel martirio, ma nella voluttà, «tanto che l'angoscia stessa, alla fine, si muta in una tal quale dolcezza vergognosa e maledetta e, in conclusione, in vera e propria voluttà». Naturalmente, però, questa stessa voluttà è a sua volta generatrice di colpa, dunque di una nuova abiezione e nuovo disgusto, al punto da modificare lo statuto stesso dei Ricordi: «non è più letteratura questa, ma una pena correzionale». L'unica soluzione, allora, è disumanizzarsi compiutamente, come riuscirà a un Gregor Samsa paradossalmente felice della sua nuova condizione; purtroppo, riconosce Dostoevskij, «non sono riuscito nemmeno a diventare un insetto». I Ricordi dal sottosuolo (che fin dal titolo stabiliscono un corto-circuito con le di poco precedenti Memore da una casa di morti) anticipano di oltre quindici anni I fratelli Karamazov, dove Dmitrij, il più karamazoviano fra i suoi fratelli, il più simile al padre per lussuria e violenza, confessa ad Aliosa: «io, fratello, sono proprio uno di questi insetti, e ciò fu detto apposta per me. E noi tutti Karamazov siamo così; anche in te, che sei un angelo, vive questo insetto e suscita nel tuo sangue delle tempeste [...]. Qui le sponde si congiungono, qui tutte le contraddizioni convivono». Patire la contraddizione, non poter essere né angelo né insetto ma soltanto struggersi nello slancio da questo a quello per poi ricadere, significa lottare in continuazione con l'angelo di Giacobbe. Tutta l'opera di Dostoevskij, così, può essere letta sotto la specie lombrosiana dell'atavismo, e ancor meglio sotto la teoria freudiana dell'inconscio e del rimosso. La stessa epilessia, il «male dei santi» che afflisse Dostoevskij per buona parte della sua vita e ha il suo trionfo letterario nel personaggio di Smerdjakov, è da questo punto di vista la verità nascosta, il tabù che tanta letteratura (Stevenson in primis) stava rivelando in quello stesso torno di tempo.
Il desiderio sessuale, la malattia, l'ossessione, la vendetta, finalmente, sono già il delitto, quello di Raskolnilov e forse quello di Smerdjakov: in altre parole sono la premessa per lottare con l'angelo e salvarsi soccombendo. La fortezza-prigione di Omsk, la casa dei morti, l'inferno, possono infatti essere il cielo: è sufficiente disperare. La stessa fede, in Dostoevskij, è terroristica e morbosa: «Io sono un figlio del secolo del dubbio e della miscredenza», ebbe a dichiarare, «e so che fino nella tomba continuerò ad arrovellarmi se Dio sia. Ma se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità e che la verità non è in Cristo, ebbene io vorrei stare con Cristo piuttosto che con la verità». È lo stesso estremismo che sul piano etico e sociale fa muovere e parlare i protagonisti dei Demoni, benché ripudiati dall'autore per il loro mortale nichilismo (e, sospettiamo, per la loro carenza di eros, quello di cui i Karamazov sono fin troppo forniti). Si capisce facilmente perché uno scrittore tanto affascinato da personaggi scissi e contorti considerasse quasi impossibile costruire un romanzo attorno a un protagonista «assolutamente buono», e perché progettare L'idiota sia stata per lui la sfida più ardua. «Idiota evangelico», il principe Myskin, epilettico come Smerdjakov e come l'autore, è certamente buono, ma attraverso il personaggio di Nastas'ja Filippovna intreccia la propria vicenda e la propria anima con il suo doppio speculare, l'assassino Rogozin, tanto che alla fine il romanzo sembra illustrare l'amara sentenza che si leggerà nei Karamazov: «Ciascuno di fronte a tutti è per tutti e di tutto colpevole. E non solo a causa della colpa comune, ma ciascuno, individualmente». Come tutti i grandi scrittori, anche Dostoevskij scrive sempre lo stesso libro. Ventiquattro anni dopo Il sosia, Myskin ripete il percorso di Golijadkin, anticipando la tematizzazione della schizofrenia, dallo Studente di Praga al Gabinetto del dottor Caligari (e in lontananza il fantasma di Hoffman sorride). La stessa Chiesa è doppia e simulata: Dostoevskij ne era tanto convinto e tanto angosciato da inserire nei Karamazov il lungo racconto del Grande Inquisitore, che imprigiona e ripudia Cristo tornato fra gli uomini: «Allora senti: noi non siamo con te, ma con Lui, ecco il nostro segreto! Da un pezzo non siamo più con te, ma con Lui, ecco il nostro segreto! Da un pezzo non sono più con te ma con Lui: da ormai otto secoli». Non è l'unico momento in cui il diavolo compare nel romanzo (altre volte la sua presenza è solo sospettabile, come in tante pagine del Doktor Faustus di Thomas Mann), ma è significativo che a celebrarlo sia Ivan, lo scettico, il cinico, sì, ma pur sempre un Karamazov e dunque, per la sua quota, ulteriore proiezione dell'autore. Scrittore gigantesco, Dostoevskij  ricava da ogni sintomo un simbolo, dalla reclusione alla condanna a morte evitata per un soffio, dal sottosuolo alla malattia, e in ogni simbolo fa confliggere spettacolarmente il suo contrario («È venuto da me, Dio esiste. Ho pianto e non ricordo niente altro, Voi non potete immaginare la felicità che noi epilettici proviamo il secondo prima di avere una crisi. Non so quanto possa durare nella realtà, ma fra tutte le gioie che potrei avere nella vita non farei mai scambio con questa»). Ci resta il rimpianto del mancato seguito dei Karamazov, che Dostoevskij  era intenzionato a incentrare sul personaggio di Aljosa: lì, probabilmente, si sarebbe narrativamente inverata la massima del principe Myskin, quella per cui solo «la bellezza salverà il mondo».

- Michere Mari - Pubblicato su Robinson il 7/11/2020 -

sabato 19 dicembre 2020

Gli idioti in marcia!

Il coefficiente di stupidità della Sinistra
- La stupidità è la miglior alleata dell'opportunismo di sinistra, la crisi attuale lo dimostra ancora una volta -
di Tomasz Konicz

Capitalismo o morte? In un'intervista pubblicata nel dicembre del 2019, il famoso marxista americano David Harvey ha reso assai chiaro, con una franchezza deprimente, in che cosa possa rapidamente degenerare la teoria di Marx, quando, dopo decenni, si continua ad ignorare in maniera sovrana la crisi sistemica, e di conseguenza non si dà forma ad un adeguato concetto di crisi [*1]. Rivoluzione? Una «fantasia comunista», oramai non viviamo più nel 19° secolo. Il capitale è «too big to fail», è diventato troppo necessario, e pertanto non possiamo permetterci il suo crollo. D'altra parte, le cose devono essere «mantenute in movimento», dal momento che in caso contrario «moriremmo quasi tutti di fame». E c'è bisogno anche che investiamo il nostro tempo per «rianimarlo», questo capitale, dice Harvey.  Forse si potrebbe lavorare lentamente ad una riconfigurazione graduale del capitale, ma un «rovesciamento rivoluzionario» è qualcosa che «non può e non deve accadere»; e bisogna anche si lavori attivamente per fare in modo che non avvenga. Allo stesso tempo, alla fine il professore marxista ha osservato anche che il capitale è diventato «troppo grande, troppo mostruoso» per poter sopravvivere. Insomma, si tratterebbe di un «percorso suicida».
Ancora una volta, abbiamo di nuovo al capezzale del capitalismo suicida, il nostro famoso medico di sinistra che si sente obbligato a cercare di trovare delle spiegazioni per una crisi, senza però avere alcuna teoria della crisi che sia degna di questo nome, e che riesce perciò solo a farfugliare qualcosa a proposito di «disuguaglianza sociale», di «mutazioni climatiche», e a bofonchiare qualche parola di critica della crescita,  vedendo tutte queste cose solamente come fattori reificati della crisi, la quale sta assumendo dimensioni veramente mostruose, senza però nemmeno arrivare a sospettare le cause che risiedono nelle contraddizioni interne alla relazione di capitale, che sta sbattendo contro quelli che sono i propri limiti interni, oltre che contro i limiti esterni dello sviluppo.
Questo quadro penoso rende evidente, come si trovasse sotto una lente ustoria, quale sia la miseria teorica e pratica di una sinistra ostinata e realmente conservatrice, che non solo ignora la teoria della crisi, ma che altresì lavora diligentemente a denunciarla e ad emarginarla in quanto «ideologia del collasso». E infatti, Harvey ripropone il solito schema del percorso di una degenerazione ideologica che porta, ancora una volta, all'opportunismo ed al riformismo. L'attuale crisi economica, scatenatasi a partire dalle misura di lotta alla pandemia, sta assumendo dimensioni mai viste dopo gli anni '30. Negli Stati Uniti ci sono già milioni di persone che stanno morendo di fame, sebbene in quel paese non si sia verificata nessuna delle «rivoluzioni» temute da Harvey. La crisi climatica, come è stato chiarito quest'anno dall'ondata di caldo in Siberia, ha oltrepassato il punto di non ritorno. E tuttavia, ciò nonostante, la sinistra appare dominata da un arcaico neo-leninismo, il quale non riesce a vedere altro che interessi all'opera dappertutto, e continua incessantemente a chiedere «a chi giova?»; oppure, di conseguenza, parte da un mero pensiero redistributivo socialdemocratico, attraverso il quale si va in cerca di una «giusta» distribuzione del fardello della crisi, senza neppure considerare quali siano le cause dell'attuale catastrofe, la quale per loro deve essere solamente «amministrata» per mezzo dell'amministrazione socialdemocratica della crisi. Fino ad arrivare alle grandi chiacchiere socialdemocratiche sulla «giustizia climatica».
Sembra proprio che a sinistra la teoria della crisi sia stata particolarmente emarginata, e questo è avvenuto proprio immediatamente prima della scoppio di una crisi. In questo caso le apparenze non ingannano. La crisi sistemica non è un evento che avviene una tantum, bensì si tratta di un processo storico di quella che la crescente contraddizione interna del capitale che si sviluppa come delle esplosioni, degli scoppi di crisi; capitale che, che a causa delle razionalizzazione della sua propria sostanza, per mezzo della concorrenza, si disfa del lavoro creatore di valore, liberandosene, e lasciandosi alle spalle sia un'umanità economicamente superflua che un modo ecologicamente devastato. Gli scoppi di crisi, sempre più intensi, per mezzo dei quali si manifesta appunto la Crisi, sono quindi preceduti da una lunga fase dormiente, cin cui la crisi cova ed accumula il suo potenziale, risultante dall'autocontraddizione del capitale, principalmente sotto forma di montagne crescenti di debito, sempre più in aumento, o di  bolle del mercato finanziario, che permettono ancora al sistema una specie di illusoria vita da zombie.
Considerato superficialmente, il capitalismo, in queste ascendenti fasi latenti in cui si formano delle bolle, «continua a funzionare»; e non troviamo fenomeni di crisi manifesta finché le bolle azionarie e di debito immobiliare continuano a crescere allegramente, e si crea una domanda finanziata dal credito e finalizzata alla produzione di merci che rimane poi soffocata dalla sua stessa produttività: ecco perché per la coscienza ordinaria della sinistra tutto questo non è altro che il suo collaudato percorso capitalistico. Così possiamo tornare alla buone e vecchie eredità, e smettere così di pensarci per un po'. Soprattutto nel momento in cui intere regioni, devastate e abbandonate dal capitale durante queste esplosioni di crisi - che avvengono a partire dalla periferia e raggiungono i centri - vengono cristallizzate come se si trattasse di una «nuova normalità», e non vengono più percepite come il risultato di un processo storico di crisi. Così abbiamo ... i greci che sono poveri, gli "arabi" che vivono in degli Stati falliti, ecc.
Sulla base di tutto questo, la meschinità della sinistra, la mancanza di volontà di abbandonare quell'amato nemico che è i capitale, ora può essere riassunta per mezzo di una formula adeguata a quello che è il suo stupido oggetto, al coefficiente di stupidità della sinistra, che potrebbe funzionare anche come un segnale di allarme in grado di indicare in anticipo lo scoppio di un nuovo focolaio di crisi: il grado di emarginazione della teoria della crisi da parte della sinistra, è proporzionale al grado di sviluppo latente del prossimo scoppio della crisi che arriva. Poco prima dell'arrivo della crisi, nessuno di quelli che si trovano sulla scena vuol sentir parlare di qualsivoglia crisi. Non si tratta solo di stupidità. Non è solo la stupidità che porta a far sì che la stragrande maggioranza della sinistra si troverà ad incespicare in maniera ignorante nella prossima crisi, fino al punto che la nuova destra tedesca, con tutti i suoi piani di sovversione forzata all'interno ed all'esterno dell'apparato statale, ora possiede una «coscienza di crisi» più spiccata. Si tratta anche dei risentiti ego dei protagonisti che sono sulla scena, i quali non possono ammettere di aver continuato a dire sciocchezze per tutti questi anni, negando il carattere feticista ed irrazionale della socializzazione capitalistica, e relegando nel regno dei miti l'essenza del capitale in quanto soggetto automatico, per poter continuare così a perseguire, a mero livello di superficie, i famosi interessi, la cui gretta e miope razionalità ha senso solo all'interno del movimento feticista e irrazionale del capitale.
Il «cui prodest» leninista viene svergognato perfino dalla crisi climatica, la quale minaccia non solo la civiltà umana, ma anche le basi economiche del capitale. Sono esattamente proprio le élite funzionali del capitale che cercano di rifugiarsi letteralmente nei bunker, su isole deserte o, in prospettiva, su Marte (Elon Musk) e sulla Luna (Jeff Bezos), dal momento che loro stessi si trovano ad essere impotenti di fronte alla dinamica distruttiva del capitale, in quella che è la sua capacità globale in quanto soggetto automatico; e perché gli apparati dello Stato ormai non sono più in grado di agire come «capitalisti totali idealisti» ed assicurare così una continuità del sistema attraverso delle appropriate misure legislative, visto che, in ultima analisi, con una coerente legislazione climatica, il movimento di accumulazione collasserebbe. Finora, una significativa riduzione globale delle emissioni di CO2 è stata ottenuta solamente ora, al costo di una crisi economica globale (2009), come è emerso di recente in seguito al «Lockdown». Le recenti manifestazioni della destra contro le misure prese per la pandemia sono state, tra l'altro, una caricatura del neo-leninismo che viene portato fino alla sua logica conclusione, in cui si fa veramente disperata la ricerca di quali sono gli «interessi concreti», insieme a quali sono invece gli elementi nell'ombra, che avrebbero provocato l'attuale crisi.
L'impulso più intimo della sinistra è quello di voler ritornare alle «radici», tornare nuovamente a concentrarsi sulla lotta per la Distribuzione all'interno del capitale; cosa che alla fine costituisce una reazione alla diarrea della nuova destra. Ci si vuole opporre alle semplici menzogne  fasciste, per mezzo di altrettanto semplici verità a proposito degli onnipotenti capitalisti; e così, per esempio, si interpreta la crisi di sovraccumulazione derivante dalla crisi sistemica vedendola come se fosse una mera questione distributiva, che potrebbe essere risolta attraverso l'espropriazione (leninista) o per mezzo delle tasse (socialiste). Ma le grandi lotte di classe cui si riferiscono queste correnti, sono solo espressione delle crescenti lotte per la distribuzione, indotte dalla crisi, nel corso delle quali non emerge una nuova classe proletaria, ma viene piuttosto prodotta un'umanità economicamente superflua, la cui produzione, nella periferia del sistema globale, è ormai quasi ultimata - e che ora avviene ad alto regime anche nei centri. La crescente miseria del tardo capitalismo si limita a riflettere semplicemente le condizioni del primo capitalismo.
E tutto ciò perché questo movimento di fiducia nello Stato, in grandissima parte assurdo e anacronistico, ha avuto così tanto successo, nonostante la crisi abbia ormai raggiunto un tale grado di maturità che persino coloro che prima la negavano ormai non possono più evitare di incorporare dei frammenti di teoria della crisi nelle loro ideologia socialdemocratica o leninista, costruendo in tal modo dei veri e propri Mostri di Frankenstein.
Qui si tratta ora davvero di chiedere a chi giova. La stupidità, il narcisismo e la cecità ideologica formano un'ottima base per quello che è l'unico movimento all'interno della sinistra che ha un reale interesse ad emarginare la teoria della crisi: l'opportunismo. Quelle forze che vedono la sinistra come un biglietto d'ingresso per una carriera nella coalizione rosso-rosso-verde, e che in realtà si stanno già facendo pratica per far valere le ragioni di Stato, devono emarginare o addomesticare tutto il «discorso della crisi» che - al contrario del dibattito sulla distribuzione - semplicemente è incompatibile con il business politico, dove si pretende di fare qualsiasi cosa.
Cosa deriva conseguentemente da una teoria della crisi? Il fatto che - ai fini della sopravvivenza - il superamento del capitale, in quanto totalità autodistruttiva, è semplicemente necessario. Il soggetto automatico, come un Amok, lasciato alla propria dinamica feticista, porterà a termine la distruzione del mondo già cominciata. Questa premessa, pertanto, non è negoziabile. Rispetto al tentativo di trasformazione emancipatrice del sistema, non esiste alternativa. Ma come fare a rendere possibile la vendita di tutto questo, facendo uso dei mezzi di comunicazione sociale o politica, nelle trattative per formare una coalizione o sui talk show? Attraverso la marginalizzazione della coscienza radicale della crisi, l'opportunismo può ancora sperare di emulare il signor Harvey, facendo un tentativo in quanto medico, sul letto di morte del capitale; cosa che, alla fine, in ultima analisi, equivale a diventare soggetto dell'amministrazione di crisi che sta arrivando. Nel panico, è la logica del «si salvi chi può», la quale finisce per conferire all'opportunismo quella che è la sua particolare brutalità nell'ultima grande gara per un incarico ed una candidatura. Dal momento che i bunker e le isole private non sono disponibili, si cerca rifugio negli apparati erosi ed inselvaggiti dello Stato - la qual cosa, per alcune parti della sinistra, costituisce anche la base della crescente fiducia nello Stato -preferendo  servire nell'Apparato piuttosto che confrontarsi fuori di esso.

- Tomasz Konicz - Pubblicato su Exit il 12/12/2020  -

NOTA:

[*1] - Disponibile su http://democracyatwork.info/acc_global_unrest


fonte: Tomasz Konicz. Nachrichten und Analysen -

venerdì 18 dicembre 2020

il primo dio

Probabilmente il toro è stato il primo dio. Non l’uro che vediamo raffigurato sulle pareti delle grotte preistoriche, ma proprio il nostro toro addomesticato. Ha sempre conservato qualcosa del suo status primitivo e selvaggio e affascinato le popolazioni con la sua possanza, il suo respiro, la sua energia, la sua fecondità. Nell’antico Vicino Oriente sono state molte le divinità taurine a cui è stato dedicato un culto, e nella mitologia greca abbondano le storie che lo vedono protagonista: Zeus prende la forma di un toro per rapire Europa o unirsi a Io, Eracle doma a mani nude il grande toro di Creta, Teseo uccide il Minotauro. Il cristianesimo ha subito dichiarato guerra a questi culti, questi miti, queste leggende. Poiché la religione rivale, il culto di Mitra, accordava un grande spazio al toro, questi venne giudicato empio e a prendere il suo posto fu il bue, animale docile, paziente e lavoratore. Il toro invece rimase lungo tutto il Medioevo un animale disprezzato, quando non addirittura demonizzato. Tornò in primo piano durante il Rinascimento e la riscoperta dell’Antichità. All’inizio del XVI secolo papa Alessandro VI Borgia, il cui emblema di famiglia era un toro, fece organizzare a Roma le prime tauromachie, e circa duecentocinquant’anni dopo in Spagna vide i natali la moderna corrida, che per tanto tempo ha affascinato artisti e poeti. Michel Pastoureau ci racconta la storia del toro nella cultura europea, senza dimenticare la vacca, il bue e il vitello. Come il precedente volume di questa serie, dedicato al lupo, anche questo si avvale di una ricca iconografia, ampiamente commentata. Dalle grotte di Lascaux a Picasso, passando per la ceramica greca, il mosaico romano, la miniatura medioevale, l’incisione rinascimentale e la pittura moderna e contemporanea, il toro è sempre stato una star dell’arte europea.

(dal risvolto di copertina di: Michel Pastoureau, "Il toro. Una storia culturale". Ponte alle Grazie)


L’indomito toro che possedette Pasifae fu addomesticato e finì nel presepe
- di Giorgio Ieranò -

Quel bue che sta lì, nel presepe, accanto al Bambinello, ci interroga da sempre. Da dov’è spuntato, visto che nei Vangeli non se ne parla? Sì, è vero, c’è qualche riferimento al bue negli apocrifi del Nuovo Testamento. Ma qual è il senso vero di quella strana presenza accanto al Redentore infante? Alcune risposte ce le suggerisce Michel Pastoureau nel suo nuovo libro. Autorevole studioso del Medioevo, Pastoureau è un grande esploratore dell'immaginario. Sa tutto, in particolare, della simbologia dei colori e degli animali, temi a cui ha dedicato studi fondamentali. E ora ci consegna questo saggio che, anche se si intitola semplicemente "Il toro", è una sintetica storia culturale di tutto il mondo bovino: una storia non solo narrata ma anche illustrata con numerose immagini che spaziano dal Minotauro alle corride, dai dipinti delle grotte preistoriche di Lascaux ai disegni di Picasso, dai culti egizi all'araldica del Rinascimento.
Per arrivare al bue del presepe bisogna partire da lontano, dal Paleolitico, quando, circa 30mila anni fa, le mani di ignoti pittori dipingono sulle rocce le prime immagini di bisonti e di uri, i bovini primigeni che si sono estinti ormai da qualche secolo. Può darsi che, come sostiene Pastoureau, si debbano recuperare le vecchie ipotesi che attribuivano a questi dipinti una funzione magica. Rappresentare l'animale sarebbe stato un modo per propiziarne la cattura: disegnare l'immagine aiutava a impadronirsi del corpo. Di sicuro, nel Paleolitico, i bovini esistevano solo come bestie selvatiche: l'addomesticazione avviene molti millenni più tardi, nel Neolitico. Ma come osserva Pastoureau, al contrario di quanto è successo per i cavalli e per gli ovini, è sempre stata un'addomesticazione parziale. Per quanto si tengano i buoi chiusi nelle stalle e le mucche al pascolo, il toro continua a campeggiare come icona di una forza indomabile, come paradigma del furore selvaggio. Lo testimonia anche la mitologia greca dove prodigiose figure taurine sono legate soprattutto all'isola di Creta: Zeus si trasforma proprio in toro per possedere Europa, rendendola madre di Minosse; un altro toro prodigioso esce dal mare per unirsi a Parsifae e generare il mostruoso Minotauro; e cretese era anche il poderoso toro che solo l'eroe Eracle poté sconfiggere in una delle sue dodici fatiche. C'è forse alle spalle di questa mitologia, una venerazione del toro come animale sacro spesso legato alla dimensione della regalità. Anche in Mesopotamia, del resto, l'elmo con corna taurine era attributo delle divinità e dei sovrani. Persino l'aleph, prima lettera dell'alfabeto fenicio, altro non è se non una testa di toro rovesciata.
Immagine del divino (anche Dioniso era venerato in forma taurina), il toro è però al tempo stesso l'animale sacrificale per eccellenza. Durante l'impero romano è onnipresente l'immagine del dio persiano Mitra raffigurato nell'atto di sgozzare un toro. Non stupisce, perciò, che i cristiani demonizzino l'animale. Quelle corna che un tempo erano simbolo di regalità diventano attributo di Satana. Intanto, però, il 25 dicembre, dies natalis di Mitra, si trasforma nel Natale cristiano. E mentre il toro viene respinto tra i demoni, il mite bue fa la sua comparsa accanto a Gesù bambino.
Come ha notato Maurizio Bettini in uno splendido saggio di due anni fa (Il presepe, Einaudi), l'infanzia delle creature eccezionali, divine o regali, è spesso posta sotto la protezione di un animale: Zeus neonato viene allattato da una capra, Paride da una cerva, Romolo e Remo dalla lupa, Ciro il grande da una cagna. Ma perché proprio il bue nel presepe cristiano? È solo un modo di rappresentare visivamente il fatto che il Redentore è nato in una misera stalla? I teologi e gli eruditi cristiani, ricorda Pastoureau, hanno disputato a lungo sulla questione. Per alcuni, il bue rappresentava il popolo ebraico, aggiogato alla legge di Dio, di contro all'asino, animale ottuso e pigro, simbolo delle genti pagane e idolatre. Ma altri sostenevano il contrario: è l'asino, stupido e caparbio, a rappresentare gli ebrei, che si ostinano a negare la divinità del Cristo; il bue è invece immagine dei pagani, da sempre devoti a idoli taurini e adoratori del vitello d'oro di turno.
L'ultimo capitolo del libro è dedicato alla corrida. Un'usanza che, in Spagna, si istituzionalizza nel Settecento ma che ha origini molto remote. Risale fino alle taurocatapsie, le acrobazie sui tori effigiate nei dipinti della Creta minoica. Un'immagine di quasi quattromila anni fa, scoperta su un muro del palazzo di Cnosso, l'antica città del Labirinto e del Minotauro, mostra tre giovani che volteggiano intorno a un animale di grande stazza. Un gioco incruento, in questo caso, benché pericoloso: una sfida, ma anche un omaggio, alla potenza misteriosa e sacrale del toro.

- Giorgio Ieranò - Pubblicato su TuttoLibri del 12/12/2020 -

giovedì 17 dicembre 2020

Quelli più uguali degli altri...

Dovremmo stupirci per le violenze della polizia?
- di Anselm Jappe -

Essì, la polizia odia tutti. Ognuno ha il diritto di odiare il resto della specie umana. Ma quando li si rifornisce di armi, di complici e delle garanzie di avere un «copertura», allora lo cosa diventa un problema...
Non passa giorno che non si parli delle violenze poliziesche: si tratta di un argomento che oggi incendia le coscienze, da qualsiasi parte ci si ponga, come pochi altri. Potrei vantarmi di aver scritto nel 2009 nel mio articolo "La violenza, ma per fare che cosa?" [*1] che « la prima immagine di violenza, dal primo momento in cui si arriva alla stazione o in un aeroporto francese, è la polizia. Non ho mai visto così tanti poliziotti come in Francia, soprattutto a Parigi [...] E che poliziotti! Un'atteggiamento brutale e arrogante che non teme confronti. Nel momento in cui si fa la minima obiezione - ad esempio a fronte di un qualche controllo dei documenti o della perquisizione dei bagagli prima di salire sul treno, che uno non aveva mai visto prima - percepisci di essere sul punto di venire arrestato, bastonato e infine accusato di "resistenza alla forza pubblica" », e così poi ti scopri a tremare di indignazione quando vieni a sapere dai media dei misfatti della polizia. Se a posteriori sai che ci sono delle volte dei momenti in cui si preferisce esagerare, in questi casi non è così. [*2]
Assai spesso, «violenze della polizia» e «razzismo» sono parole che vengono pronunciate insieme. A ragione. Tanto l'esperienza quotidiana quanto le statistiche, dimostrano  che le «persone che migrano», soprattutto coloro che provengono dall'Africa, hanno tutte le ragioni per temere la polizia, anche se non hanno fatto nulla di cui si debbano «rimproverare». Nel mese di settembre del 2020, il ministro degli Interni, Castaner, che aveva ammesso a parole, annunciando delle contromisure, l'esistenza di un «problema razzista» nella polizia, qualche giorno più tardi ha dovuto dimettersi , in seguito a una protesta dei poliziotti. In quegli stessi giorni, a Parigi un'enorme manifestazione ha protestato contro le violenze razziste attribuite alle «forze dell'ordine». La questione è recentemente riemersa in seguito al «pestaggio» di Michel Zecler, nero, avvenuto nel peggior momento possibile per il governo.
Ma le violenze commesse dai poliziotti sono solo una questione di razzismo? Ho dei dubbi in proposito. Se da una parte non è vero che «tutti odiano la polizia» (in realtà, una parte della popolazione la adora la polizia, e non ne ha mai abbastanza, ed essenzialmente i programmi dei partiti di destra e di estrema destra si riducono alla promessa che lasceranno del tutto mano libera ad una polizia che verrebbe ulteriormente rafforzata), dall'altra sembra che sia una cosa sicura il fatto che «polizia odia tutti». Pertanto,  i gilet gialli  accecati dalle pallottole antisommossa durante le manifestazioni erano davvero dei francesi.
E la polizia francese è fondamentalmente razzista? Su Le Monde, un poliziotto afferma di non essere più razzista di quanto lo siano tutti gli altri ambienti professionali in cui aveva precedentemente lavorato [*3]. Questo potrebbe essere vero, Il razzismo lo si trova dovunque. Solo che normalmente un impiegato delle assicurazioni ha molte meno opportunità di un poliziotto di sfogare il suo razzismo sotto forma di violenza fisica, e deve limitarsi a fare stupide «battute».
Ci sono delle inchieste che dimostrano che gli agenti di polizia, nella maggior parte dei paesi europei, votano per i partiti di estrema destra in una proporzione assai più alta rispetto agli altri elettori. Inoltre, sappiamo anche che esistono molti legami, passati e presenti, tra gli ambiti della polizia ed i gruppi fascisti, e talvolta anche con i gruppi terroristici.
Ma se il problema della polizia fosse limitato solo a questi fatti «estremi», potrebbe essere risolto attraverso una migliore selezione ed una migliore formazione, eliminando dal corpo le «mele marce». Le anime belle potrebbero anche arrivare a credere che con un addestramento ed una formazione della polizia più lunghe, che passa da otto mesi a dodici, sarebbe tutto diverso, e sarebbe addirittura sufficiente che un formatore dicesse loro di evitare di picchiare senza ragione un nero, nelle periferie.
Anche l'aumento della «mescolanza» di neri nel corpo di polizia, viene proposto come una soluzione. Tuttavia, spesso gli agenti di polizia in Nigeria, nei confronti dei propri cittadini, sono anche meno delicati di quanto lo siano i loro colleghi francesi! E in quel caso non può certo essere una questione di razzismo...
Il problema potrebbe perciò situarsi ad un livello assai più profondo: nell'asimmetria del rapporto tra il poliziotto e il non poliziotto. La cosa è facile da spiegare: prendete chiunque, armatelo fino ai denti, mettetelo in un'istituzione dove si devono difendere sempre ed ovunque i colleghi senza discutere, al minimo problema consentitegli di poter chiedere dei rinforzi, stabilite che non obbedirgli immediatamente costituisca il reato di «resistenza alla forza pubblica» oppure «oltraggio a pubblico ufficiale», anche se si tratta semplicemente del fatto che gli si risponda con un tono diverso dal «rispettoso». Assicuratevi che, praticamente, qualsiasi trattamento inflitto al cittadino dall'agente di polizia sia coperto dai suoi colleghi, e in seguito anche dalla gerarchia, , e che le dichiarazioni verbali di compiacenza, o di vera e propria falsificazione siano all'ordine del giorno, mentre invece la vittima viene accusata e condannata, perfino contro qualsiasi evidenza. Accertatevi - nella più piccola probabilità che l'agente di polizia sia oggetto di un'inchiesta, a causa della presenza di fotografie innegabili - che egli venga prima giudicato dai suoi stessi colleghi (la «polizia della polizia») e quasi sempre assolto. Infine, anche nella minima probabilità che il suo caso arrivi in tribunale, egli verrà assolto, oppure subirà un piccola condanna con la condizionale, e verrà sempre e comunque rapidamente reintegrato in servizio. Assicuratevi inoltre che anche nell'eventualità di una condanna, anche leggera, riceva la solidarietà incondizionata dei suoi colleghi e che i sindacati di polizia - che sono davvero «in fase di radicalizzazione» - organizzino delle manifestazioni (senza alcuna preventiva autorizzazione) nelle strade, e che una parte delle forze politiche lo trasformino in un martire ed organizzi delle collette per finanziare la sua difesa; a questo punto chi può stupirsi del fatto che numerosi poliziotti non sappiano resistere alla tentazione di commettere prevaricazioni?
Le relazioni asimmetriche conducono facilmente a degli abusi, soprattutto se gli abusi non vengono sanzionati. Una simile situazione di impunità non può fare altro che risvegliare il sadismo latente, o quanto meno il desiderio di onnipotenza, che sonnecchia, più o meno fortemente, in molte persone. Si può perfino arrivare a supporre che il sadismo ed il desiderio di potere costituiscano una potente motivazione, cosciente o meno, per unirsi alle forze dell'ordine. Non tutti i poliziotti devono essere per forza dei bulli sadici: basta che ce ne sia un certo numero, e se essi agiscono impunemente, ed hanno perfino l'approvazione dei superiori, la cosa è sufficiente è per dare il tono a tutti gli altri.
Si tratta di un'asimmetria che è scritta perfino nel marmo della legge: l'aggressione nei confronti di un agente di polizia (o di alcune altre categorie di pubblici ufficiali) viene punita, secondo la legge, più severamente di quella di un «normale» essere umano. In tal modo, si ritorna alle legislazioni dell'Antichità, come il Codice di Hammurabi del 1750 a.C., il quale sanzionava in maniera assai diversa la violenza su un padrone e quella contro uno schiavo... «La legge è uguale per tutti» si trova scritto nei tribunali, ma evidentemente i poliziotti sono un po' più uguali degli altri, allo stesso modo in cui lo erano i maiali nella favola di Orwell.
Le conseguenze: un comportamento nei confronti della polizia diverso da quello servile, viene considerato come una provocazione, con delle conseguenze incalcolabili. Bisogna trattare gli agenti come se fossero degli esseri superiori. Ci sono delle persone che sono state assassinate dalla polizia, come è accaduto a Cédric Chouviat, un fattorino, in seguito ad una banale disputa verbale. Puoi dire a chiunque «Non mi rompere i coglioni, idiota»; e perfino con il tuo datore di lavoro rischi tutt'al più il licenziamento. Con la polizia, invece si può rischiare la vita (l'unica altra situazione in cui questo può avvenire, riguarda l'ambito delle gang!).  E quando ti va bene, solo le percosse e una denuncia per «oltraggio».

Tre esempi banali, senza violenza ma che chiariscono su quale terreno si sviluppa poi la violenza:

- Una giovane donna di un paese europeo arriva all'aeroporto di Parigi, città dove vive. Senza nessun motivo comprensibile, viene a lungo trattenuta e interrogata dalla polizia di frontiera. Quando può finalmente andarsene, bofonchia tra i denti: «Che schifezza!». «Cosa hai detto? Torna qui!» Ancora controlli, ancora prepotenze: punizione immediata per lesa maestà. (Testimonianza personale).

- Un poliziotto in pensione si reca alla stazione di polizia per presentare una denuncia per un qualche motivo. Viene fatto aspettare per parecchio tempo, e comincia a lamentarsi. Si alzano i toni, e i suoi ex colleghi cominciano a diventare minacciosi. Alla fine, riesce ad evitare l'arresto solo per un pelo. (Lettera ad un giornale locale).

- Nel corso di un controllo di routine, i gendarmi [N.d.T.: l'equivalente dei nostri Carabinieri] fermano una macchina. Il conducente si qualifica come poliziotto. A causa della rivalità tra i diversi corpi di polizia, i gendarmi controllano minuziosamente l'automobile fino a che non trovano il motivo per fargli una multa. Il poliziotto, esasperato, riparte facendo stridere le gomme, e viene pertanto richiamato da gendarmi che gli comminano una nuova multa per «guida pericolosa» (Testimonianza su un media online).

Essì, la polizia odia tutti (a volte perfino anche gli altri membri delle forze dell'ordine). Ognuno ha il diritto di odiare il resto della specie umana. Ma quando li si rifornisce di armi, di complici e delle garanzie di avere un «copertura», allora lo cosa diventa un problema...

In questo attuale momento, in nessun altro paese europeo il governo dà l'impressione di essere agli ordini delle proprie forze di polizia. Perché? Forse perché questo governo ritiene che se la polizia smettesse di proteggerlo, nel giro di una settimana finirebbe nel cesso...

- Anselm Jappe - Pubblicato il 17 dicembre 2020 sul blog Mediapart dell'autore -

NOTE:

[*1] - Inserito in “Crédit à mort” (Lignes, 2011).
[*2] - Mi sono chiesto anche: «Perché ci sono così poche iniziative per la difesa delle "libertà civili"? Assistiamo a grandi manifestazioni per il "potere d'acquisto" o contro la soppressione dei posti di lavoro nell'insegnamento, ma mai contro la videosorveglianza, e ancora meno contro il passaporto biometrico o contro il pass "navigo" sulla metro parigina, che permette di tracciare chiunque.» Quanto meno, in questo caso si può affermare: «Il paese si è svegliato!».
[*3] - « Paroles de policiers : ‘Les gens ne savent pas ce que c’est de se faire cracher dessus et caillasser‘ », Le Monde, 15. 12. 2020.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

mercoledì 16 dicembre 2020

La festa

14 agosto 1943

« Helli ha organizzato una festa per celebrare i 65 anni di Döblin. Heinrich Mann gli ha rivolto un bellissimo saluto, Kortner, Lorre, Granach hanno letto degli estratti dai loro libri. Blandine Ebinger ha cantato canzoni berlinesi. Steuerman ha eseguito al pianoforte un tema di Eisler, e alla fine Döblin ha tenuto un discorso contro il relativismo morale e a favore dei parametri fissi di natura religiosa e così facendo ha fatto emergere i sentimenti religiosi della maggior parte degli invitati. Una sensazione di disagio ha pervaso gli ascoltatori più razionali, un po' come l'orrore indulgente che si prova quando un compagno di prigionia soccombe alla tortura e parla.
Il fatto è che Döblin ha incassato dei colpi piuttosto duri, in Francia la perdita di due figli, un'epopea di 2.400 pagine che mai nessun editore pubblicherà, l'angina pectoris (la grande curatrice delle anime) e tutta una vita a fianco di una donna incredibilmente sciocca e volgare. Il declamatore Hardt ha commesso un lapsus rivelatore. Stava recitando la "Preghiera di Zoroastro" di Kleist e, anziché dire "che io possa avere la forza per rivelare gli errori e le stupidaggini della mia specie", nell'appello solenne ha scambiato "specie" con "sposa": Döblin e la moglie avevano passato il fine settimana a casa di Hardt.
Quando Döblin ha cominciato a dire che, come molti altri scrittori, anche lui era colpevole dell'ascesa dei nazisti ("Non disse forse il Signore, Sr. Thomas Mann, che lui è come un fratello, seppure un cattivo fratello?", chiese rivolto alla prima fila) e poi ha continuato, ostinatamente, a chiedere perché, ad un certo momento ho avuto come la convinzione infantile che avrebbe detto "perché ho coperto i crimini della classe dirigente, ho scoraggiato gli oppressi, ho ingannato gli affamati facendo uso dei Canti" ecc.; ma tutto ciò che fece fu solo annunciare con testardaggine, senza alcun pentimento o rimpianto, "perché non ho cercato Dio". »

(Bertolt Brecht, Diario di lavoro, II Volume)

martedì 15 dicembre 2020

2 piccioni con una fava

Una critica, simultaneamente, dell'anarchismo e del marxismo tradizionale. A partire dal fatto che tra coloro che fanno professione del secondo, troviamo in gran parte quegli stessi che avrebbero voluto tanto sposare il primo, ma... Ma poi, la vita, la famiglia e tutto quello che vuoi...
E così, a pensarci bene, sembra che in un modo o nell'altro entrambi gli ambiti siano diventati ... «l'ultimo rifugio della canaglia». Da qualsiasi parte ti giri, a qualsiasi sfera culturale tu ti rivolga, non puoi non accorgerti come il mondo sia pieno di inenarrabili idioti che concludono i loro discorsi del cazzo col dire ammiccando che ... sanno benissimo come tutto quello che hanno finora detto sia una stronzata, perché «nel fondo del loro cuore» Loro sarebbero ... anarchici. E così i primi finiscono per credere sul serio che la loro ricetta sia l'unica ricetta giusta. Ahhh, se solo quegli altri (i secondi, che in fondo e in cuor loro fanno parte dei primi) acconsentissero...
Secondo me, tutta 'sta storia degli anarchici e degli autoritari se la sono inventata, al bar, Marx e Bakunin una sera che erano particolarmente brilli e avevano deciso di fare uno scherzo al povero Engels, che sicuramente era un esperto militare, ma non brillava certo per il suo senso dell'umorismo. E così...

lunedì 14 dicembre 2020

I vivi e i morti

Covid-19: l'ondata invernale e il bilancio delle vittime
- di Michael Roberts -

L'ondata invernale di Covid-19 continua ad imperversare in Europa, in Nord America e persino in America Latina e in Asia. Pertanto, nel mentre che i vaccini cominciano ad essere distribuiti in tutto il mondo - con differenti gradi di rapidità e di quantità – ecco che nel frattempo ci troviamo a dover misurare i danni provocati contando i decessi a causa del Covid-19, via via che ci avviciniamo alla fine di questo 2020.
Quali sono stati i paesi colpiti più duramente? Facendo uso dei dati del Worldometer coronavirus database, nel 1° grafico ho selezionato alcuni dei principali paesi a livello globale (misurati in termini di decessi per milione di abitanti). A guidare questa triste classifica, sono i grandi paesi europei e gli Stati Uniti, seguiti da vicino dal Brasile e dal Messico, due paesi dell'America Latina che hanno fatto pochi sforzi sia per contenere la pandemia che per fornire un soldo sostegno sanitario. Diversamente, i paesi che invece lo hanno fatto, come la Germania, presentano un tasso di mortalità molto più basso. E anche quei paesi, come il Sudafrica e l'India, con una popolazione relativamente giovane, presentano un tasso di mortalità più basso.

Il secondo grafico, qui sopra, misura il tasso di mortalità dei casi (CFR), vale a dire, il numero di morti a causa del Covid-19 che vengono segnalati come tali dalle autorità (Grafico n°2). Il Messico mostra un tasso di mortalità sconvolgente che corrisponde a più dell'8%, dovuto presumibilmente alla mancanza di test e di tracciabilità, oltre che alla fragilità di quel sistema sanitario. Va notato come il CFR della Cina sia alto, ma va anche detto che tutto questo è stato registrato durante il primo mese di pandemia, a Wuhan. I principali paesi europei si trovano ben al di sopra di quel 2,2%, che dopo dieci mesi è diventata la media mondiale del CFR. Gli Stati Uniti si trovano appena sotto la media mondiale, e i paesi ben organizzati come la Germania, la Corea e la Danimarca si trovano ancora più in basso. Per quel che riguarda l'India, è la sua giovane popolazione che può spiegare il basso CFR.

Infine, c'è il tasso di mortalità a causa dell'infezione (IFR). Questo indice misura il tasso di mortalità di tutti coloro che sono rimasti infettati. L'Organizzazione Mondiale della Sanità stima che, rispetto ai casi segnalato, ci siano circa 20 volte tanto più infezioni, includendo anche tutti quelli che sono stati asintomatici. Usando questa stima, si può rilevare che a livello globale finora è rimasto infettato circa il 18%, una cifra che ci porrebbe ben al disotto del coefficiente relativo alla cosiddetta «immunità di gregge», la quale minimo dovrebbe coincidere con il 50-60%. Ragion per cui, tutti quei governi che hanno optato per una strategia di "lite-lockdown", sperando nell'immunità di gregge, come la Svezia, hanno dimostrato di essere in errore. In realtà, difatti, l'IFR della Svezia si trova ad essere piuttosto vicino a quella del severamente colpito Messico.
Nella maggior parte dei principali paesi, gli IFR corrispondono più o meno circa allo 0,4-0,6%, come previsto dai vari studi a campione. E perciò la mia stima di un 18% infettato potrebbe benissimo essere troppo alto. Se abbassiamo al 15% il tasso globale di infezione, ecco che allora l'IFR si verrebbe a trovare nell'intervallo tra lo 0,6 e lo 0,7%. Questo, rispetto a quei paesi che hanno un IFR annuale inferiore allo 0,1%. Ecco perciò che per tutti quei paesi colpiti duramente, il Covid-19 è almeno cinque volte più letale dell'influenza annuale. E, naturalmente, stiamo scoprendo solo ora che, a differenza dell'influenza, il Covid-19 causa dei danni duraturi agli organi umani. Secondo le mie stime, l'IFR mondiale corrisponde a solo lo 0,11%, ed è vicino al massimo raggiunto dall'IFR dell'influenza annuale. Ma questa media mondiale dell'IFR, viene resa sensibilmente più bassa solo grazie a quei paesi con un'ampia popolazione giovanile, come l'India, o a quelli con un'enorme popolazione come la Cina, nei quali le infezioni sono state drasticamente contenute. Nella maggior parte dei paesi, le infezioni si stanno ancora diffondendo, e ciò significa molti più decessi. Sotto con i vaccini!

- Michael Roberts - Pubblicato il 14/12/2020 su Michael Roberts blog -