lunedì 28 dicembre 2020

Nobel per ridere

Il 3 ottobre del 1996 l’Accademia di Svezia comunica a Wisława Szymborska che le è stato assegnato il premio Nobel. Da quel momento, lei così schiva, è costantemente sollecitata: arrivano lettere, telegrammi, manoscritti, richieste e proposte spesso del tutto incongrue. Il telefono squilla anche di notte. Si impone il supporto di un segretario. Quando Michał Rusinek, neolaureato ventiquattrenne, si presenta in casa sua, la trova sgomenta. «Allora» racconta «chiesi cortesemente un paio di forbici e tagliai il cavo. Il telefono smise di squillare. La Szymborska esclamò: “Geniale!”. E fu così che venni assunto». Le resterà accanto per più di quindici anni. In questo libro – basato su ricordi di prima mano – Rusinek getta un fascio di luce su aspetti della grande poetessa rimasti finora in ombra: le sue a volte stravaganti passioni (per i limerick e per il Kentucky Fried Chicken, per Vermeer e per gli oggetti kitsch, per Woody Allen e per Il Circolo Pickwick – e soprattutto per le sigarette); il suo bisogno di solitudine; il modo in cui nascevano le sue poesie («Sosteneva che l’utensile più importante nella casa di un poeta fosse il cestino della cartastraccia») e quello in cui creava i suoi collage; i suoi (complessi) rapporti con l’altro grande premio Nobel polacco, Czesław Miłosz; i rituali della scrittura e quelli che precedevano qualunque spostamento. Ma inanella anche decine di aneddoti esilaranti, di battute fulminanti e di osservazioni acuminate, in cui ritroviamo l’esprit settecentesco, la sottile ironia e la capacità di stupirsi di una delle poetesse più fervidamente amate dai lettori di tutto il mondo.

(dal risvolto di copertina di: Michał Rusinek, "Nulla di ordinario. Su Wisława Szymborska". Adelphi.)


Rileggendo Wisława Szymborska
- di Diego Gabutti -

Sua madre era una Rottermund, cognome dal suono spericolatamente ebraico nella Polonia nel 1939, quando gli hitleriani occuparono il paese col beneplacito dei comunisti (devoti al loro stesso Iddio cannibale: lo Stato onnipotente). Per «essere lasciata in pace» – scrisse molti anni dopo Wisława Szymborska, poetessa, Premio Nobel per la letteratura nel 2006 – «la mia povera mamma dovette presentare dei documenti che attestavano come la sua famiglia, menzionata già nel XVI secolo», fosse «autenticamente polacca». Trent’anni dopo, «nel 1968» – scrive Michal Rusinek nel suo asciutto e affettuoso memoir – «del cognome Rottermund si ricorderanno le autorità statali e poi i cosiddetti “veri polacchi” dopo il 1996. Su certi elenchi contenenti i cognomi autentici d’alcuni personaggi pubblici apparirà scritto: “Wisława Szymborska: vero cognome Rottermund”. E dopo la sua morte, quando pubblicammo il regolamento del Premio Szymborska, su un forum virtuale venne postato l’acuto commento: “Judeo-mini-Nobel”».
Non perse mai tempo a smentire queste voci, anzi «questi pettegolezzi, messi in giro dai nostri zelantissimi antisemiti» e – «detto tra parentesi», aggiunse - «a volte penso che non sarebbe stato male nascere con almeno una piccola dose del sangue di quel popolo straordinariamente ricco di talento. Forse sarei più capace, scriverei di più, meglio e con minore fatica».
Con minore fatica può darsi, ma più capace è difficile. Quanto poi alla sua vena poetica, era già abbastanza «ebraica» così, sebbene la sua «voce» – una voce inconfondibile, leggera e implacabile insieme – ne facesse più un membro della squadra dei Fratelli Marx che di quella dell’Ecclesiaste.
Wisława Szymborska esplorava il lato buffo della Creazione, vale a dire il suo vero Mistero. «Consapevolmente o meno» – scrivono Anna Bikont e Joanna Szczęsna in Cianfrusaglie del passato, Adelphi 2015, biografia per aneddoti della Szymborska – «lei non ha fatto altro che seguire le orme del padre, che è stato anche il suo primo mecenate. Quand’era piccola, le dava 20 centesimi a poesiola, a patto che fossero divertenti: niente confidenze, niente lamenti». A differenza della stragrande maggioranza dei poeti, che si mettono volentieri in piazza, ostentando sentimenti privati e propositi (e spropositi) sociali, Szymborska non aveva lezioni da dare a nessuno, e nemmeno si scrutava nell’anima, ostentando la permanenza dei dolori o sospirando per la natura effimera delle gioie. Dolenti o allegre, scherzose o commoventi, le sue poesie erano sempre piene di misura, controllate, attente a non strafare, mai pompose. Erano costruite sulle immagini, piene di fatti e di storie. Nelle sue poesie le parole non celebravano se stesse ma le cose di cui parlavano.
Erano oltretutto divertenti — «senza confidenze, senza lamenti», come le voleva suo padre «quand’era piccola» — tanto che Woody Allen una volta le mandò un video, da New York, in cui le diceva, con accenti da vero fan: «Cara signora Szymborska, io sono considerato un uomo spiritoso, ma il suo senso dell’umorismo sovrasta di gran lunga il mio».
Scriveva «limerick», sia castigati che indecenti. In Sicilia, all’inizio del millennio, dov’era andata a ritirare uno dei tanti premi che le piovvero addosso negli ultimi vent’anni di vita, ne scrisse uno che rimava così: Nella ridente città di Corleone ti prendono a mazzate sul groppone. Questa brutta abitudine chi nasce l’assimila col latte ancora in fasce, e dunque, si può dire, è un vizio d’alimentazione. Sorprendenti e lampeggianti, efficaci e stringate come storielle ben costruite e meglio ancora raccontate, le poesie di Wisława Szymborska non fanno solo ridere, naturalmente. Niente confidenze, niente lamenti, ironia e distacco finché si vuole, ma sono nondimeno poesie serie, tremendamente serie.
Ce ne sono, anzi, che non si possono leggere «senza un groppo alla gola», come per esempio Il gatto in un appartamento vuoto, scritta in memoria del suo secondo marito, il poeta Kornel Filipowicz: «Morire — questo a un gatto non si fa».
Un altro grande poeta polacco, Czesław Milosz, a sua volta Premio Nobel, disse una volta che i versi di Wisława Szymborska sono spettacoli di magia (come se ne vedono spesso, a proposito, anche nei film di Woody Allen): «In ognuna delle sue poesie a un certo momento spunta a sorpresa un coniglio dal cappello». Da giovanissima, nella Polonia scampata al giogo hitleriano e occupata dall’Armata rossa, Szymborska fu comunista, e scrisse poesie in lode del regime e contro l’imperialismo yankee poi ripudiate. «Capita spesso», avrebbe scritto più tardi, «che, tra il mondo e il progresso, si insinui una teoria, un’ideologia, che promette d’incasellare e spiegare tutto. Da noi ci sono scrittori che hanno resistito a tale tentazione e hanno preferito fidarsi del loro istinto e della loro coscienza, anziché di qualcun altro. Io purtroppo ho ceduto a quella tentazione, come testimoniano le mie prime due raccolte poetiche. Sono passati molti anni da allora, ma ricordo bene tutte le fasi di quella esperienza: dalla gioia della fede perché la dottrina mi donava uno sguardo sul mondo assai più chiaro e ampio fino alla scoperta che ciò che vedevo in modo così chiaro e ampio non era il mondo vero, ma una costruzione artificiale che gli faceva velo»

- Diego Gabutti - Pubblicato il 23/22/2019 su informazionecorretta.com -

Nessun commento: