L’imperatore, confinato a Sant’Elena, fiaccato nel corpo e nell’anima, ma ancora straordinariamente lucido, detta al fedele Marchand il suo testamento politico, ricostruendo l’intera vicenda umana di Giulio Cesare: dalla guerra gallica al confronto finale con i suoi assassini. L’Empereur riflette sull’Imperator vittima di una congiura; entrambi hanno raggiunto l’apice del potere per poi essere sconfitti dalla storia, ma con la differenza – segnalata da Luciano Canfora nella sua Introduzione – che l’uno proveniva dal cuore dell’aristocrazia romana e l’altro era stato spinto in alto dalla Rivoluzione. La campagna di Gallia rappresenta il primo momento di identificazione di Napoleone con Giulio Cesare: è l’episodio che prepara la strada alla conquista del successo e Bonaparte lo associa alla sua campagna in Italia. Così nella “dittatura democratica” di Cesare, Napoleone ravvisa l’antecedente del tipo di potere da lui instaurato e che da lui prenderà nome: bonapartismo. Pubblicato a Parigi nel 1836, questo documento raccoglie le « ultime parole dell’Imperatore ». Ne ripercorre la fortuna il nuovo saggio di Canfora Cesare per comunisti e fascisti che correda questa terza edizione.
(dal risvolto di copertina di: "Napoleone. Le guerre di Cesare". A cura di Annalisa Paradiso. Introduzione e Postfazione di Luciano Canfora. Salerno Editore)
Cesare in rosso e in nero
-Il condottiero romano e Napoleone(ritenuto suo erede), visti da comunisti e fascisti -
di Luciano Canfora
Riflettendo in carcere sulla sconfitta subita dalla «rivoluzione» in Italia e, in modo quasi trasparente, sulle forme dittatoriali che il potere bolscevico aveva assunto in Urss, Antonio Gramsci approdava alla distinzione tra cesarismo progressivo (Cesare e Napoleone I) e cesarismo regressivo (Napoleone III e Bismarck). Distinzione quanto si voglia discutibile, a proposito della quale non va però mai perso di vista che la premessa, immediatamente precedente tale distinzione e comune a entrambi, è che, secondo la felice definizione di Gramsci, «il cesarismo esprime sempre la soluzione arbitrale, affidata a una grande personalità, di una situazione caratterizzata da un equilibrio di forze a prospettiva catastrofica»; e subito prima: «Il cesarismo esprime una situazione in cui le forze in lotta si equilibrano in modo catastrofico, cioè in modo che la continuazione della lotta non può concludersi che con la distruzione reciproca». «Si tratta di vedere — prosegue Gramsci — se nella dialettica rivoluzione/restaurazione è l'elemento rivoluzione o quello restaurazione che prevale, poiché è certo che nel movimento storico non si torna mai indietro e non esistono restaurazioni in toto».
Il richiamo a Cesare ricorre in scritti di esponenti del comunismo italiano (Gramsci,Togliatti), non francese o russo. Analogamente Cesare è ben presente, con alti e bassi, nell'ideologia e nel linguaggio del fascismo italiano, non però di quello tedesco, e nemmeno di quello spagnolo (che semmai celebra, con qualche ritardo, e solo per compiacere Mussolini, il bimillenario augusteo). Un esempio interessante è costituito dalla totale assenza del nome di Cesare nei sei ricchissimi volumi delle Opere scelte (ampia selezione) di Lenin stampati a Mosca in tutte le principali lingue del mondo. La ragione di questa assenza è chiara: per gli uomini del XX secolo il cesarismo ha ormai un altro nome, quello di « bonapartismo » (nelle sue due facce del I e del III Napoleone). E infatti quando il movimento comunista si spacca con il drammatico « scisma » di Trotsky, quest'ultimo accuserà Stalin di aspirazioni bonapartiste, non di « cesarismo ».
Invece, nella realtà politica e culturale italiana di epoca fascista, c'è un rilancio di Cesare. Succede infatti che, presentandosi come una rivoluzione incentrata però sulla figura dominante di un capo, il fascismo trovi utile, soprattutto al suo avvio, ricorrere al modello rappresentato da Cesare. Cesare è visto come colui che al meglio coniuga in sé e nella sua azione i due elementi: la rivoluzione contro il vecchio ordine e il potere personale illimitato. Nei celebri Colloqui con Emil Ludwig, finiti di stampare presso Mondadori il 23 giugno 1932, Mussolini esprime, « con tono cupo e interiormente eccitato » a quanto riferisce il suo intervistatore, un giudizio ultramommseniano su Cesare: «Cesare, il più grande dopo Cristo fra quanti siano mai vissuti» (variante marginale: «il più grande uomo, dopo Cristo, etc.» a significare l'anticristianesimo che di tanto in tanto Mussolini lasciava trapelare). E ancora nel capitolo Agire e pensare (pagina 190), a Mussolini che definisce il Cesare di Shakespeare «una grande scuola per i governanti», Ludwig chiede «sente questo romano come un modello?». Mussolini riflette e se la cava così: «Non precisamente, ma tutta la pratica delle virtù latine mi sta dinanzi(...). Il materiale è lo stesso. E là, fuori, è sempre ancora Roma». Queste parole di Mussolini, dette all'incirca nel decennale della «marcia su Roma», stridono rispetto alla voce «Cesare» dell'Enciclopedia italiana (vol IX, 1931, la voce è di Mario Attilio Levi, ebreo fascista), che culmina - pur nell'ammirazione - nella tesi che Cesare, sognando una monarchia di tipo ellenistico, si era messo «contro la tradizione e contro la Storia»(p.872). La voce scritta da Levi irritò molto Mussolini.(...)
Con la fondazione dell'«impero» (maggio 1936) e il bimillenario augusteo (1937), il fascismo spostò nettamente la sua opzione simbolica sulla figura di Augusto, il grande stabilizzatore e vindice dell'Italia contro l'Oriente. Cesare passò più nello sfondo. Ma tornò di moda - in quanto conquistatore della Gallia nel momento del crescente contenzioso con la Francia. A guerra appena iniziata, un intellettuale di punta del fascismo, poi fucilato a Dongo insieme con Mussolini, Goffredo Coppola, scrive per la Utet (Torino) una impegnativa ma non felice biografia di Cesare nella collana «I grandi italiani» diretta dal presidente del Senato, Luigi Federzoni. Ma di lì a non molto la musica cambierà del tutto, e col settembre 1943 il fascismo si riscoprirà repubblicano, e le icone di Cesare e di Augusto cederanno il posto a quella di Mazzini.
Mentre «bonapartismo» è parola sgradita nel lessico comunista già solo per la costante avversione espressa a suo tempo da Karl Marx per tale genere di «comando», Cesare, molto più lontano nel tempo e capoparte egli stesso a lungo della fazione popularis, diventava un modello più utile. In un appunto risalente al dicembre 1942, ma edito postumamente solo nell'agosto 1965, Palmiro Togliatti scrive: «L'uomo più grande della storia di Roma, che fu Cesare». Ma il giudizio non era una mera esplosione di entusiasmo.Togliatti approda a quel giudizio nell'ambito di uno schema di lezione di storia destinato a militanti italiani e spagnoli esuli a Mosca, intitolato "Principali falsificazioni nell'insegnamento della storia di Roma nelle scuole fasciste". In quel contesto, il ragionamento che Togliatti svolge ha valore limitativo. La creazione - osserva Togliatti - di un impero con pretesa universalistica, quale quello alla cui nascita Cesare diede un grande contributo seppellendo la vecchia repubblica oligarchica, ebbe però effetti negativi favorendo il «cosmopolitismo» delle classi intellettuali italiane. A quel punto, osserva Togliatti, «si potrebbe dire che l'uomo più grande della storia di Roma, che fu Cesare, fu quello che arrecò maggiori danni agli italiani come nazione».
- Luciano Canfora - Dalla postfazione al Libro - Pubblicato sul Corriere del 27/11/2020 -
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