lunedì 31 agosto 2020

Leningrado 1926

Leonid "Lenka" Panteleev, marinaio di Kronstadt nel 1917, uno di coloro che avevano sfondato col calcio del fucile le porte del Palazzo d'Inverno, ora sta per terminare la sua "carriera" a Leningrado.
La sua leggenda vola per i bassifondi. Già, perché ci sono di nuovo i bassifondi, a Leningrado! Quando ricomparve il denaro, Lenka sentì che era arrivata la fine. Lui non era un maneggiatore di idee. Era un egualitario! E così si fece bandito per svaligiare le prime gioiellerie, aperte dai primi neocapitalisti della NEP. Questa sera, gli uomini della milizia (che in cuor loro ammirano Lenka) lo hanno circondato nella sua "malina". Il suo rifugio. Naturalmente, è stato venduto da qualcuno! Ci sono donne ed alcool. Panteleev entra, si toglie la tunica di cuoio, tracanna un bicchiere di vodka, prende la sua chitarra. Che cantare? «Rotola sotto la mannaia, testa di Sten'ka Razin»
Lo abbattono mentre canta. Finita, anche quella pericolosa chitarra! Gli uomini della milizia, pagati quaranta rubli al mese, portano sul chepì la stella rossa che i Panteleev si stamparono, per primi, sulla fronte.

(già sul blog il 29/9/2006)

sabato 29 agosto 2020

Contro!

Gli operai contro il lavoro
- Intervista a Michael Seidman -

Da cosa è nata, in quel momento concreto, la motivazione che portava a voler stabilire un confronto tra la realtà lavorativa di Barcellona e quella di Parigi?

«Alla fine degli anni '70, studiavo a Parigi e mentre scrivevo la mia tesi entrai in contatto con quei giovani che definivano la rivoluzione come "non lavorare". Sono stati loro a darmi l'idea di scrivere un libro di storia comparativa su tutto quello che fecero e non fecero gli operai di Barcellona e quelli francesi, durante il governo del Fronte Popolare. Frugai negli archivi spagnoli, soprattutto a Salamanca e a Barcellona. Quando Franco vinse la guerra, tutti i documenti vennero centralizzati a Salamanca. Le fonti più interessanti, sono state i verbali dei consigli operai. Sebbene un po' disorganizzati, c'erano gli archivi delle grandi aziende di acqua, luce e gas e quelle di altre fabbriche di Barcellona, come Fabra e Coats. Nessuno li aveva studiati, poiché gli storici erano talmente concentrati sulla politica che si fermavano a quelli che erano gli opuscoli ed i periodici della loro stessa linea politica.»

La prima volta, il libro è stato pubblicato negli Stati Uniti, nel 1991, e successivamente è stato tradotto in sette lingue. A quanto pare ha avuto un grosso impatto.

«Sì, ma questo è successo solo pochi anni fa, relativamente parlando, quando l'argomento ha cominciato ad interessare il pubblico. Per esempio, è stato pubblicato in giapponese nel 1997. Anche se in francese e in turco ci sono state solo edizioni pirata. C'è stata una casa editrice tedesca che ne ha pubblicato un'ottima edizione. Inoltre, ce n'è stata anche una versione abbreviata, in greco. È stato un libro più o meno accademico che quasi nessuno aveva letto, e che ora è come se avesse fatto una sorta di ritorno. Il che mi rallegra, anche perché me ne ero quasi dimenticato di questo libro. Forse le nuove generazioni trovano interessante questa resistenza al lavoro.»

Quali sono stati le reazioni che i libro ha suscitato, fin dalla sua prima edizione?

«Quando venne pubblicato la prima volta, io stavo lavorando alla Rutgers, un'università del New Jersey, vicino a New York. Il testo suscitò un grande dibattito, ci furono molte lettere scritte da professori di storia francese, accademicamente potenti, che si lamentavano del libro. In pratica, mi licenziarono. Ma andò tutto bene, trovai un altro impiego e continui a lavorare sulla storia francese e spagnola. Ho ricevuto anche qualche buona recensione, nel contesto del mondo accademico, ma non ho suscitato molto entusiasmo. Negli ambienti anarchici e libertari, il libro è stato accolto meglio.»

Cos'era che sembrava così brutto, nell'ambito accademico?

«È difficile dirlo. Perché per me non ha senso. Forse in altri ambiti lo si potrebbe anche capire, ma in quello accademico no. Ho una mia teoria, secondo la quale quando le persone incontrano qualcosa che non riescono a capire bene, danno la colpa all'autore, e non al fatto di non essere in grado di riuscire a fare uno sforzo per capire. Tutta la storia del lavoro, che viene analizzata a partire dal 1960 si basa sulla teoria secondo cui agli operai piace lavorare. Tanto per i comunisti quanto per i socialisti, e i capitalisti... il lavoro definisce la classe operaia. E il mio punto di vista definisce la classe operaia come la classe che resiste al lavoro.»

La resistenza al lavoro, viene analizzata in quelle che sono delle società industriali (più la Francia che la Spagna), senza che però la tendenza politica influisca sul rifiuto da parte del lavoratore. Si tratta di un modo di sentire che è insito nell'essere umano?

«Quando parlo di rifiuto del lavoro, mi riferisco al lavoro salariato in fabbriche abbastanza grandi, in città industriali come Parigi o Barcellona. Non sto parlando di lavoro in tutti i periodi storici. Anche se, in un altro libro, ho trattato il tema della resistenza al lavoro, da parte dei contadini, nelle collettività agrarie; e il modo di sentire è simile.»

I lavoratori dell'epoca analizzata nel libro, non avevano alcuna reticenza o riluttanza a scioperare, o ad altri modi di resistenza al lavoro. Ora la tendenza sembra essere quella opposta, nonostante il fatto che la crisi economica ha ridotto notevolmente i diritti dei lavoratori. Cos'è che ora impedisce ai lavoratori di ribellarsi contro gli abusi?

«Credo che si continuino a prendere le stesse contromisure, ma ora sono molto più riservate, più segrete. Nessuno dirà: "Non sono venuto a lavorare, anche se avrei potuto farlo." Riguardo gli scioperi, non mi sento in grado di dare un giudizio, dal momento che non sono molto al corrente della Spagna di oggi. Però lo sciopero in sé è molto interessante, poiché esiste in tutti i paesi e riguarda tutte le classi. Il significato dello sciopero è quello di non lavorare, e si adatta assai bene alla mia definizione di una classe operaia che resiste al lavoro. Trovo molto interessante anche il fatto che la parola "sciopero" si dica in maniera diversa in ogni lingua; strike, huelga, gréve... a mio avviso, ciò indica che ogni classe operaia ha scoperto questa forma di lotta.»

A Parigi, sia il Fronte Popolare che le organizzazioni padronali e della chiesa incoraggiavano il tempo libero dei lavoratori, con propri interessi e con un obiettivo comune: lavoratori sani e felici, i quali in questo modo sarebbero stati più produttivi. In Spagna, i militanti volevano ottenere il controllo delle fabbriche, per darlo ai lavoratori che avrebbero poi lavorato per un ideale. Le persone sono quindi dei meri strumenti di produzione? Tutto, purché a contare non sia la persona, bensì il suo lavoro.

«Sì, esattamente, codesto è un buona sintesi di ciò che è il mio libro. Il Fronte Popolare aveva delle ottime intenzioni riguardo la riforme che avrebbero portato a 40 ore settimanali le 48 ore precedenti, le 2 settimane di ferie pagate... ma gli operai si sono approfittati di questa situazione per produrre meno. Alla fine, la cosa non ha funzionato. E si è potuto vedere che, ancora una volta, l'aspirazione dei lavoratori era quella di lavorare meno. In Spagna, i militanti volevano costruire una Spagna nuova, forte e libera. Spesso pensavano all'Unione Sovietica (gli anarcosindacalisti un po' meno dei comunisti, ovviamente), ma tutti credevano che la classe operaia avrebbe dovuto lavorare per la causa. Tuttavia, la stragrande maggioranza degli operai non erano militanti, cercavano solo di sopravvivere in quella che era la situazione difficile della rivoluzione, della guerra, della mancanza di cibo. Erano queste le loro priorità, e non quella di dover lavorare per un fine comune. Né, tanto meno, gli anarcosindacalisti furono in grado di creare un nuovo modello di sviluppo. Dissero agli operai: "Ora questa è la vostra fabbrica, le gestiremo democraticamente". Secondo me, ciò non è possibile. Estremizzando, sarebbe come dire ai detenuti di una prigione: "Ora la prigione è vostra, potete dirigerla". Non ha alcun senso. E tanto meno, nel periodo dell'antifascismo, si riuscì a convincere i lavoratori a lavorare di più. Né durante la rivoluzione spagnola né durante il Fronte Popolare francese.»

Se teniamo conto dell'evoluzione della nostra società verso un sistema consumistico e capitalista, si potrebbe dire che si sia riuscito a rendere il lavoro più attraente per le persone, oppure questa resistenza continua ad esserci?

«Credo di sì, c'è ancora resistenza nei confronti del lavoro salariato. Forse, con tutta la disoccupazione che c'è ora, le persone hanno una motivazione per trovare un lavoro, però quando lo trovano questa resistenza torna a riapparire. L'assenteismo, il sabotaggio, le false malattie... tutto questo continua ad esserci ancora. Non posso citare casi specifici, ma credo di sì, che sia così.»

Si arriverà mai ad un qualche sistema che riesca a far sì che i lavoratori abbiano voglia di lavorare?

« [risate] È molto teorico, e non so come si possa fare. Si possono minacciare, gli operai, per farli lavorare, ma la cosa non funzionerà».

- Intervista realizzata da Carmen López -

fonte: Comunizar

venerdì 28 agosto 2020

In terza persona!

Rileggo un passaggio del terzo volume dei diari di Piglia, "Los diarios de Emilio Renzi": si tratta di una nota del 3 novembre 1980, e parla del fatto che stava preparando delle lezioni per un gruppo di studio: un corso su Wittgenstein e la questione del linguaggio.

La propria vita, la propria esperienza, può essere narrata solamente in terza persona - scrive Renzi-Piglia, commentando Wittgenstein, riferendosi alla sua coppia  «parlare/tacere», e salvando anche Brecht (l'altra lettura che lo accompagna, come una convivenza costante nelle sue lezioni): « la lezione di Brecht  » - scrive – « è quella di vivere in terza persona.»  (Los diarios de Emilio Renzi - Un dia en la vida, Barcelona, Anagrama, 2017, p. 131).

A partire da qui, si può pensare a quello che scrive Agamben a proposito del Testimone - nel terzo volume di Homo sacer - in "Quel che resta di Auschwitz", con un percorso che parte da Benveniste (il carattere mobile delle posizioni soggettive mediate per mezzo dei pronomi) per arrivare a Fernando Pessoa e alla dinamica degli eteronimi. Così, allo stesso modo, per esempio, Fredric Jameson nel suo "Brecht e la questione del metodo" scrive che: « la rappresentazione in terza persona - la citazione di quelle che sono espressioni dei sentimenti ed emozioni di un personaggio - è il prodotto di un'assenza radicale dell'Io (sé) o, quanto meno, scendendo ad un compromesso con la comprensione di quello che noi chiamiamo "Io", è un oggetto della coscienza, e non la nostra coscienza.»

fonte: Um túnel no fim da luz

giovedì 27 agosto 2020

Il servizio di leva storico delle generazioni

«Sono bizzarri i rapporti tra le biografie delle generazioni e il corso della storia. Ogni epoca ha un suo corredo di requisizioni di patrimonio privato. [...] Varia è anche l'età di chiamata delle generazioni, e la durata del servizio di leva storico. La storia mobilita l'ardore giovanile di alcune generazioni e la tempra matura o la saggezza senile di altre. Recitata la loro parte, quelli che ieri dominavano i pensieri e i cuori lasciano il proscenio e si ritirano ai margini della storia per finire la loro vita in privato, come redditieri spirituali o vecchi d'ospizio. [...] La nostra generazione è entrata in scena straordinariamente presto [...] Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. Si è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo ad esso, in esso troppo creduto, e per noi non c'è un'attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente. Noi siamo i testimoni e i compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d'altri ancora. La vita quotidiana è rimasta indietro. Secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, "l'altra gamba corre ancora nella via accanto". Sappiamo che i più intimi pensieri dei nostri padri erano in disaccordo con la loro vita quotidiana. [...] Ma i nostri padri avevano ancora un residuo di fede nel suo carattere confortevole e universale. Ai figli è rimasto soltanto un odio nudo per il ciarpame ancora più logoro ed estraneo di quella vita. Ed ecco che "i tentativi di organizzare la vita personale assomigliano agli esperimenti per scaldare un gelato". Neppure il futuro ci appartiene. Tra qualche decennio ci affibbieranno duramente il titolo di "uomini dello scorso millennio". Avevamo soltanto canzoni affascinanti che ci parlavano del futuro, e d'un tratto queste canzoni da dinamica del presente si sono trasformate in fatto storico-letterario. Quando i cantori sono uccisi, e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione, nullatenente nel più autentico senso della parola.»

- da: Roman Jakobson, "Una generazione che ha dissipato i suoi poeti - Il problema Majakovskij" (5 giugno 1930). Einaudi, 1975 pagg. 41-42.

mercoledì 26 agosto 2020

Il soggetto è borghese!

Un'opera incomparabile nella letteratura critica
- di Anselm Jappe -

Non è certo una novità affermare che oggi stiamo vivendo in una situazione di crisi permanente, e che la crisi ecologica e quella economica - la devastazione delle basi naturali della vita e la povertà crescente nella società - convivono in quella che è un'atmosfera di catastrofe che si fa sempre più intensa. Mentre le minacce sembrano riproporsi continuamente, mettendoci davanti a dei pericoli della cui esistenza fino a poco tempo fa non eravamo nemmeno a conoscenza - come il cambiamento climatico - o che ritenevamo fossero completamente superati - come i movimenti politici di stampo fascista - allo stesso tempo, il minimo che si possa dire è che negli ultimi decenni, il pensiero che avrebbe dovuto permetterci di fronteggiare tali minacce non si è rinnovato con la stessa rapidità e con lo stesso vigore.
La maggior parte delle volte, si è cercato di comprendere delle situazioni storicamente inedite per mezzo di categorie ereditate dal marxismo tradizionale e dal liberalismo, dalla teoria dello sviluppo o da quella del sottosviluppo, dalla giustizia sociale redistributiva e dalla democrazia rappresentativa. Tra i rari tentativi di ripensare globalmente ciò che ci sta accadendo, troviamo la "Critica del Valore" , la quale consiste in una critica radicale del valore mercantile e del denaro, del lavoro e della merce, dello Stato e del feticismo della merce, tutte cose che costituiscono le categorie centrali del capitalismo fin dai suoi inizi. La critica del valore analizza anche quella che è la crisi irreversibile in cui oggi si trovano tutte queste categorie. Si tratta di un approccio che si ispira a Marx, ma che lo fa in un modo assolutamente non «ortodosso». Nata in Germania negli anni '80 (ed in modo del tutto simile, seppure indipendentemente, negli Stati Uniti, con l'opera di Moishe Postone) intorno alla rivista "Krisis", la critica del valore ha avuto una ripercussione particolarmente importante in Brasile. Negli anni '90, il suo principale autore, Robert Kurz, è sempre stato presente sui media (scritti) e nelle università brasiliane; prima che il boom degli anni di Lula creasse la sensazione che chi parlava di una crisi fondamentale e definitiva del capitalismo avesse torto. Poi, a crisi ritornata, e in Brasile in maniera ancora più forte che altrove, resta ora da vedere se si risveglierà anche il pensiero critico.
La critica del valore, che è un approccio, un metodo, un paradigma, e non una «scuola di pensiero», ha già dato numerosi frutti. Da una parte, decine di libri e centinaia di articoli scritti da Robert Kurz (morto nel 2012) e da altri autori. La maggior parte di questi testi sono stati redatti in tedesco, e a volte in francese e in inglese; ma il portoghese è - di gran lunga - la lingua in cui troviamo il maggior numero di traduzioni. Del resto, alla zona lusofônica del mondo appartiene anche la regione dove si può trovare il maggior numero di elaborazioni e continuazioni originali di questo approccio. Sono molte le riviste, le pubblicazioni, i blog, i gruppi di discussione e i corsi universitari. Non si stratta solamente di traduzioni e di divulgazioni, ma anche di nuovi studi, sia su temi relazionati specificamente al Brasile, come su altri temi. Il fatto che si possa notare una tendenza a combinare la critica del valore con altri approcci, spesso provenienti dal marxismo tradizionale, deve essere considerato come quello che è un destino comune delle teorie che vengono ampiamente diffuse.
Non si tratta solo di un aumento quantitativo delle ricerche che si basano sulla critica delle categorie apparentemente «naturali», come lo sono la merce e il valore, il denaro e soprattutto il lavoro in quella che è la sua duplice natura (astratta e concreta). L'aumento è anche qualitativo: nuove sfere della vita, quelle che di solito, per convenzione, chiamiamo «scienze umane», vengono sottoposte ad analisi che appartengono al genere della wertkritisch.
Storicamente, la critica del valore nasce a partire da una ripresa ed un rilancio della «critica dell'economia politica» di Marx: non si tratta di teoria economica, bensì di una critica del totalitarismo economico, del dominio totale dell'economia di mercato sulla vita; qualcosa che caratterizza intrinsecamente il capitalismo. Non si trattava assolutamente di limitarsi ad «analisi economiche». Ad ogni modo, e in ogni caso, la critica del valore - ed in particolare i contributi di Robert Kurz - ha privilegiato per un lungo periodo l'analisi del versante economico della crisi del capitalismo e le sue conseguenze politiche, oltre a porre in atto un confronto con l'opera di Marx e dei suoi interpreti. Aver introdotto nell'arsenale della critica, i concetti di «forma-soggetto» e «dissociazione-valore» è poi servito ad allargare gli orizzonti. Ma mancava ancora, quasi del tutto, quello che è un aspetto essenziale per una qualsiasi teoria che abbia pretese globali: la ricerca sulla letteratura, sulle arti, sulla musica; insomma, sulla cosiddetta "cultura" in senso stretto.
Un simile compito era tanto necessario quanto difficile. Difficile perché è necessario misurarne le forze con quello che su questo terreno è il peso della tradizione marxista. Marx ed Engels hanno considerato assai poco le questioni culturali, limitandosi per lo più a pochi esempi. Ma la strada era stata aperta: si trattava del materialismo storico. Le creazioni culturali, soprattutto quelle che caratterizzano realmente un'epoca, sarebbero il «riflesso» dei conflitti di classe in quella data epoca. Si tratta del ben noto schema costituito da una «base» e da una «sovrastruttura», in cui è l'«Essere» («Sein», in tedesco) a determinare la coscienza (Bewußtsein). Tuttavia, sono stati i fondatori stessi di un tale approccio ad aver indicato anche la possibilità che esistesse una relazione non così meccanica tra questi fattori, ed una «autonomia relativa» delle sovrastrutture. A partire dagli anni '20, quando le idee di Marx vennero adottate anche al di fuori del movimento operaio, e cominciarono a confrontarsi con le altre scienze umane, ci furono numerosi autori che utilizzarono, in maniera più o meno "ortodossa", i metodi di Marx ed Engels, e talvolta arrivando perfino ad utilizzare anche i loro succinti commenti riguardo alcune opere culturali, al fine di elaborare una teoria marxista della letteratura. G. Lukács e J.-P. Sartre, H. Lefebvre e Lucien Goldmann, Theodor Adorno e Walter Benjamin, E. Bloch e H. Marcuse, L. Althusser e F. Jameson sono stati tra i più noti rappresentanti di un tale dibattito (senza contare quelli che sono stati gli studi effettuati nei paesi dell'Est, che assai spesso sono le cose più interessanti fatte lì, per non parlare di M. Bakhtin e della sua Scuola). Troviamo uno di fronte all'altro, soprattutto i difensori del "realismo", come Lukàcs, e gli autori più aperti alle esperienze della letteratura moderna e sperimentale, come Adorno (che in senso stretto non definiva sé stesso come "marxista"). Il dibattito non riguardava solo l'interpretazione che doveva essere data ad opere del passato e del presente, ma piuttosto assumeva anche, principalmente tra gli "ortodossi", un forte valore normativo: si trattava di determinare in cosa avrebbe dovuto consistere una letteratura «rivoluzionaria», o «socialista»; fino ad arrivare al punto, nei paesi "comunisti", di proibire delle opere letterarie per il fatto di non essere abbastanza comuniste. La storia di questi dibattiti, che continuarono fino agli anni '70, per poi interrompersi bruscamente in seguito, è piuttosto ricca.
In Brasile, le discussioni di teoria letteraria più o meno influenzate da Marx hanno giocato un ruolo particolarmente significativo. Tuttavia, il contributo dato da Marx a questo dibattito - sia che fosse preponderante, come in Lukàcs, o fosse solamente un elemento tra gli altri, come in Adorno - è inevitabilmente consistito nel fatto di assumere che la letteratura rifletta i conflitti sociale di un'epoca, le strategie degli attori sociali, gli sforzi per emanciparsi. Per quel che riguardava tutto ciò che non rientrasse in un tale schema, i marxisti non ortodossi chiedevano aiuto ad altre scienze, come la semiotica. La critica del valore ha riletto da cima a fondo il lascito di Marx ed ha introdotto la distinzione fondamentale tra il «Marx esoterico» (il Marx teorico del feticismo della merce, che si esprime soprattutto nel primo capitolo del Capitale e le cui analisi, che arrivano a toccare il cuore della società delle merci, sono più attuali che mai) ed il «Marx essoterico», il quale ha posto al centro delle sue analisi la lotta di classe così come esisteva ai suoi tempi. Ma qual è il punto di vista che dobbiamo assumere rispetto alla sfera culturale? Per diverso tempo, la questione non ha ricevuto troppa attenzione da parte delle pubblicazioni ispirate dalla critica del valore. Sarebbe stato possibile analizzare le descrizioni letterarie che parlavano della resistenza popolare al lavoro, tema questo ignorato dal marxismo tradizionale, il quale si incentra sul ruolo positivo svolto dal lavoro. Nella letteratura brasiliana, per inciso, troviamo dei buoni esempi di questo, cui anche allude il libro di Oliveira. Ma è facile capire che una simile prospettiva raggiungerebbe solo un ambito limitato.
È proprio qui che il concetto di «forma-soggetto» mostra quella che è tutta la sua potenza euristica. A partire dall'inizio degli anni '90, la critica del valore ha progressivamente approfondito sempre più il fatto che il «soggetto» non è un dato sovra-storico che è stato poi colonizzato dal capitalismo. Il soggetto è esso stesso una forma feticistica: la forma-soggetto costituisce una «forma a priori», allo stesso modo in cui lo sono il valore, il lavoro astratto ed il denaro. Una forma storicamente determinata, ma inconsapevole e che struttura i comportamento i pensieri delle persone - dei soggetti - a loro insaputa. Il soggetto non è il polo contrapposto al dominio capitalistico, ma esso è nato e si è sviluppato insieme a tale dominio. La forma-soggetto è apparentemente astratta e vuota di contenuto, allo stesso modo in cui lo è il valore, il quale viene creato dal lato astratto del lavoro. Tale forma considera il mondo solamente guardandolo attraverso il prisma della quantificazione e dell'astrazione di ogni e qualsiasi singolo contenuto. Nel contempo, il suo carattere astratto serve ad occultare il fatto che la forma-soggetto rimane essenzialmente legata ad una precisa figura storica: l'uomo bianco, maschio e occidentale che ha conquistato il mondo e che a partire dal 15° secolo ha sottomesso la natura. Il soggetto non corrisponde, e non è identico alla «persona» o all'«individuo». Egli è l'individuo che ha indossato la forma-soggetto allo stesso modo in cui si indossa una camicia di forza, o come ci si sdraia su un letto di Procuste. Ma questo soggetto, e la sua forma, sono venuti al mondo con le loro forme già tutte definite. Avevano già una loro storia, ed è una storia che continua ancora.
È questo il grande merito del libro di Robson de Oliveira, quello di avere svolto la prima analisi dei diversi episodi della storia della letteratura mondiale mettendoli in relazione con le tappe dello sviluppo della forma-soggetto. Egli ci parla di una vera e propria «duplice accumulazione primitiva»: sia oggettiva - la subordinazione della vita sociale alla logica del capitale, che nel corso della modernità cresce in maniera incessante - che soggettiva - la sempre maggiore importanza assunta dall'astrattificazione e dall'indifferenza, dal disinteresse (l'autore prende da Georg Simmel il concetto di «blasé») nei confronti delle strutture psichiche dei portatori di questa modernità. E ciò riguarda - va sottolineato -  tutte le classi sociali, sebbene non sempre lo facciano tutte nella stessa forma: il «soggetto borghese» è una categoria assai più ampia rispetto a ciò che è solo la classe borghese. In maniera assai convincente, ci viene mostrato come la forma-soggetto, la quale non è altro che una pura astrazione, si sia costituita in  Europa alla fine del Medioevo, parallelamente all'emergere del denaro, e in stretta relazione con un modo nuovo di concepire il tempo; in un preludio di quella che sarà la sua futura astrattificazione ed accelerazione. Ma questo soggetto astratto rimane mescolato per secoli a quelle che sono le forme concrete di socializzazione, e solo gradualmente si libera dai suoi legami e dai suoi compromessi con le forme pre-borghesi e concrete (che, come sottolinea Oliveira, non è che siano necessariamente migliori).
Parlando del teatro di Molière, il libro di Oliveira ci ricorda quale fosse la contrapposizione tra la vecchia aristocrazia e la nuova borghesia, ricca di denaro ma povera di cultura e di savoir-vivre. Tale contrapposizione, analizzata mille volte in termini storici e sociologici, viene descritta da Robson de Oliveira come le due fasi di un conflitto che diventerà la base dell'evoluzione del soggetto moderno: una prima fase, che si riferisce a questo soggetto moderno in formazione (la borghesia), e l'altra fase che ci rimanda ad una mentalità ancora strutturata a partire dalle forme pre-moderne di socializzazione. Quasi tre secoli dopo, per Robson de Oliveira, L'Uomo senza qualità (1930-1942) di Robert Musil rappresenta una fase storica nella quale il soggetto astratto, il soggetto della merce e del denaro, finalizzato alla pura quantificazione, ottiene una vittoria quasi completa e non deve fronteggiare nient'altro che quelli che sono gli ultimi residui di una mentalità pre-capitalista. Come caratteristiche fondamentali, troviamo l'assenza di senso del limite, la scomparsa della dimensione simbolica nei gesti quotidiani e negli scambi, dove il denaro prende il posto che aveva il dono (nel senso di Marcel Mauss), e la sparizione di quella che era un'esperienza trasmissibile, cosa che così tanto preoccupava Walter Benjamin. Evidentemente - in questi come negli altri casi citati - ciò che conta non sono le intenzioni esplicite degli autori, ma tutto quello che può essere dedotto dalle loro opere in quanto testimonianze o sintomi.
Il libro di Oliveira è prezioso anche perché mostra come il quadro di riferimento di questa analisi può dare risultati importanti anche riguardo a quanto riesce a dire sul Brasile e su alcuni suoi aspetti particolari. Constata, come hanno fatto altri prima di lui, l'assenza di una classe borghese e della sua soggettività. Ma anziché lamentarsi e sperare in una «modernizzazione» delle coscienze, vista come presupposto necessario del «progresso sociale», de Oliveira ci ricorda - citando anche quella che è stata la sua esperienza personale nel Sertão - le devastazioni prodotte da questa modernizzazione - senza tuttavia idealizzare, né in questo caso né in altri punti del suo libro, le forme sociali pre-capitalistiche. In questo contesto, mostra anche quale sia stata l'importanza della cooptazione, da parte del capitalismo, di forme che erano inizialmente di contestazione, proprio al fine del rinnovamento di quel capitalismo. Criticando Antônio Cândido, sottolinea quali sono le ambiguità del «superamento» della soggettività borghese: alla fine, la furbizia e la malandrineria appaiono solo per quello che sono, vale a dire, come un'altra strada che porta alla società competitiva. Una strada meno "efficiente" all'epoca del «primo spirito de capitalismo», weberiano, puritano e nordico, ma che ora vive la sua rivincita in quanto «terzo spirito» (Luc Boltansky), postmoderno, narcisistico e globalizzato. Questa escursione nella specificità della forma-soggetto brasiliana in relazione con le forme europee, può anche spiegare - c'è bisogno di ricordarlo? - molti avvenimenti della storia recente del paese. E sarà interessante - sebbene non piacevole . vedere quale sarà l'importanza della componente liberale postmoderna, e quale quella della componente autoritaria e conservatrice nelle nuove forme di dominio sociale che si stanno configurando sia in Brasile che altrove.
È importante sottolineare il fatto che queste interpretazioni sono molto originali; nella letteratura critica, è difficile riuscire a trovare qualcosa di paragonabile a questo. E inoltre, l'utilità che hanno queste analisi è duplice: il concetto di forma-valore ci permette di gettare una nuova luce sulla storia della letteratura, e delle forme di coscienza in generale. Nel contempo, i fenomeni culturali costituiscono un ottimo prisma che ci permette di distinguere meglio, e comprendere, le diverse fasi dell'evoluzione della forma-soggetto. Ed è altrettanto degno di nota, il fatto che tali analisi possono contribuire ad andare al di là dell'opposizione - tanto vecchia quanto inutile - tra «materialismo» e «idealismo», tra «essere» e «rappresentazioni». Infatti, il concetto di feticismo si situa al di là di una tale dicotomia, della quale il marxismo tradizionale ha fatto uno dei suoi cavalli di battaglia.
L'ultimo autore di cui tratta questo libro è Samuel Beckett, con "Aspettando Godot" (1952), "Finale di Partita" (1957) e "Giorni Felici" (1961). Per quanto Godot sia più vicino, nel tempo, all'opera di Musil, piuttosto che alla nostra epoca, si ha l'impressione che Musil descriva un mondo che è finito, mentre il mondo di Beckett appare essere di una sconcertante attualità. Qui, il soggetto vuoto e senza contenuto ha trionfato su tutto ciò che appartiene al mondo concreto, e regna ormai sovrano. Vi si potrebbe vedere quasi una realizzazione integrale della forma, una realizzazione definitiva del soggetto moderno: ma come dimostra assai bene l'opera di Beckett, il trionfo del soggetto mercantile coincide con il suo tracollo. Gli uomini mutilati di Beckett non costituiscono la negazione del soggetto borghese, bensì la sua realizzazione. Esattamente come, nella vita economica e sociale, la vittoria della forma-valore coincide con la sua rovina. Difatti, l'astrazione può vivere facendolo solo a spese di ciò che è concreto; e nel momento in cui riesce a divorarlo completamente, ecco che allora perde quella che è la sua stessa base. Il soggetto che ha realizzato sé stesso si autodistrugge, allo stesso modo in cui il capitalismo che ha abolito quasi tutte le forme di vita pre-capitalistiche provoca la sua stessa crisi: il valore è cieco ad ogni e a qualsiasi contenuto, e non può fare altro che devastare il mondo sociale e naturale. Beckett dipinge un quadro spietato della «waste land» del capitalismo. Come sottolinea Oliveira, Beckett non evoca in alcun modo un'«assurda» situazione esistenziale  che caratterizzerebbe l'essere umano in quanto tale, né, al contrario, egli descrive solo la situazione del dopoguerra in Europa, ma denuncia con precisione solo quello che è lo stadio finale del soggetto borghese; che si è trasformato nella forma-soggetto di tutti quanti i membri delle società moderna, senza che vi siano più grandi differenze tra i diversi gruppi sociali.
Qui, il cerchio si chiude. La critica del valore, dopo l'analisi letteraria, torna all'analisi del mondo contemporaneo che era il suo punto di partenza, e che non costituisce in alcun modo una considerazione fuori luogo, bensì un grido di allarme. La crisi, il declino e l'autodissoluzione del soggetto non fanno sicuramente parte di un processo pacifico che darà automaticamente luogo a delle forme migliore; così come, allo stesso modo, il graduale crollo del capitalismo non implica necessariamente il passaggio ad una società emancipata. Apre solo la strada alla possibilità che ciò avvenga. Comprendere l'evoluzione storica della forma-soggetto, e la catastrofe finale a cui esso conduce non serve solo a capire la letteratura, ma serve anche ad affrontare le sfide che ci attendono.
Che si tratti dell'incapacità generale di reagire alla catastrofe climatica - un'incapacità, questa, che assume oggi dimensioni suicide - o dell'aumento di quei crimini assolutamente irrazionali, come i massacri nelle scuole o in altri luoghi pubblici («school shooting», «amok»), o che si tratti del continuo aumento del narcisismo e degli altri disturbi psichici, o di propagazione dell'odio sotto la forma del razzismo e del femminicidio, oppure della guerra contro i poveri e della nostalgia per la tortura e per la pena di morte: ciò con cui abbiamo a che fare, sono dei fenomeni quotidiani che non possono essere spiegati solo per mezzo di ragioni «materialistiche», richiamandoci agli «interessi di classe» o a delle strategie messe in atto dai dominanti. Da decenni, il capitalismo è entrato in una fase di autodistruzione. In forma embrionale, in germe, nella sua propria essenza questa autodistruzione è sempre esistita: la trasformazione - vuota di senso - del lavoro in denaro, senza relazione alcuna con quello che è il suo contenuto. I soggetti sono in gran parte (sebbene non completamente) condizionati da questa logica autodistruttiva. Le popolazioni votano spontaneamente per quel genere di oppressore che, fino ad alcuni decenni fa, avrebbe potuto prendere il potere solo con la forza. La forma-valore e la forma-soggetto - le due facce della medesima forma di base - rimandano l'una all'altra, essendo ciascuna tanto il presupposto quanto la conseguenza dell'altra.
Tuttavia, non tutto è perduto. Non ci troviamo di fronte a quella che è una condizione immutabile e irreversibile dell'essere umano, ma siamo davanti ad una forma storica. E queste forme, così come sono venute al mondo, possono anche scomparire. Comprenderle, è il primo passo per potersi liberare un giorno di esse. Questo libro costituisce un importante contributo ad una tale comprensione. L'erudizione di cui dà prova, non è un fine in sé, ma viene messa al servizio della comprensione di quella che è la più palpitante attualità; soprattutto relativamente alle particolarità della forma-soggetto in Brasile. Come sostiene l'autore, ancora non siamo uomini del tutto privi di qualità, non siamo ancora il vuoto puro; ed è ancora possibile evitare che lo diventiamo.

- Anselm Jappe -

fonte: Critica Radical

La grande questione posta da questo libro, consiste nel voler sapere in quale momento, e attraverso quali meccanismi sociali ed economici, arriviamo ad esaltare la merce in quella che è la nostra logica della vita. Diventare merce nel mondo, equivale a svuotarsi della propria soggettività, in un luogo dove dominano i nostri atti più banali. In maniera audace e creativa, "L'uomo senza qualità in attesa di Godot" va alla ricerca di un'interdisciplinarietà tra quelli che sono le conoscenze che riguardano l'essere umano. Molière, Musil, Beckett, Caio Prado, Adorno, Marcuse e Robert Kurz, tra gli altri, vengono presentati come se fossero dei "buoni vicini" per condurre questa riflessione.

(dal risvolto di copertina di: "O homem sem qualidades à espera de Godot" por Robson de Oliveira. Editora Hedra; Edição: 6 de agosto de 2020.)

martedì 25 agosto 2020

Prima!

« Prima che arrivassero i nostri fratelli bianchi per fare di noi degli uomini civilizzati, non avevamo alcun tipo di prigione. Per questo motivo non avevamo nemmeno un delinquente. Senza una prigione non può esservi alcun delinquente. Non avevamo né serrature, né chiavi e perciò, presso di noi non c'erano ladri. Quando qualcuno era cosi povero, da non possedere cavallo, tenda o coperta, allora egli riceveva tutto questo in dono. Noi eravamo troppo incivili, per dare grande valore alla proprietà privata. Noi aspiravamo alla proprietà, solo per poterla dare agli altri. Noi non conoscevamo alcun tipo di denaro e di conseguenza il valore di un essere umano non veniva misurato secondo la sua ricchezza. Noi non avevamo delle leggi scritte depositate, nessun avvocato e nessun politico, perciò non potevamo imbrogliarci l'uno con l'altro. Eravamo messi veramente male, prima che arrivassero i bianchi, ed io non mi so spiegare come potevamo cavarcela senza quelle cose fondamentali che - come ci viene detto - sono cosi necessarie per una società civilizzata. »

Tahca Ushte – John Fire Lame Deer [Cervo Zoppo]

già pubblicato sul blog, il 6/9/2006

lunedì 24 agosto 2020

Forse oggi viene…

L'essenza della questione
- di Marildo Menegat -

Può sembrare strano parlare di uomini senza qualità. Anche perché, per quanto gravi siano, i loro difetti potrebbero essere proprio quello che ci vuole, quello che manca. Ma non è così. Si tratta di quella forma neutra che, come risultato di un insieme assurdo, finisce spesso per conferire delle qualità negative che non appartengono loro, e che sono piuttosto dei semplici prestiti provenienti da una struttura impersonale di dominio che rende gli uomini e le donne uno strumento ed un sostegno di tale struttura; anche loro, assai spesso assurdi.  Questo presupposto di Robson de Oliveira è privo di qualsiasi antropologia che si basi su una visione essenzialista, secondo cui la storia e l'essere umano dovrebbero possedere un qualche senso trascendentale. Ciò lo rende un interessante esempio di critica sociale della letteratura, che non ha altre pretese se non quella di mostrarci, evidenziandola, quella che è un'immagine scomoda dello spirito rimasto intrappolato in un groviglio di fili, come una marionetta volontaria. Esporre la costituzione del soggetto borghese in questo modo, si differenzia rispetto alle altre chiavi concettuali su questo tema;chiavi che si basano principalmente sullo studio della formazione ideologica, laddove invece Robson ha come riferimento implicito lo studio delle maschere di carattere che gli uomini indossano sotto il capitalismo. Il borghese - così compreso - conduce un'esistenza irrequieta e intrigata che può essere spiegata solo a partire dalla sua interiorità in perenne conflitto con le trasformazioni della struttura sociale, dal momento che ne è egli stesso un congruo risultato. La relazione esistente tra le determinazioni di quella che è la forma sociale e l'adattarsi delle idee a questi stessi imperativi, si configurano nella prospettiva della lettura di un oggetto cui, alla fine, non viene accordata alcuna simpatia. In quanto si tratta del disvelamento di una doppia maschera: quella di carattere del capitale in un determinato tempo della sua storia, e quella del personaggio letterario, che ha il problema di vivere la sua esistenza in tale tempo. Di solito, il risultato è assai spesso risibile (o ridicolo!), anche quando il dramma appare peso.
La serie di autori mobilitata a tal fine, non è casuale. Tutti e quattro (Molière, Musil, Mário de Andrade e Beckett) hanno scritto nei momenti decisivi dello sviluppo di questa folle sceneggiata che è la storia della modernità. Si tratta di testi che sono stati scritti in epoca di transizione sociale. Per quanto riguarda alcuni di questi testi , la transizione si è combinata con delle tremende crisi del capitale. Tuttavia, in tutti questi cambiamenti, nel corso di queste mutazioni, nel contenuto, ha sempre continuato ad esistere qualcosa di «sostanziale». Il presupposto di tale concezione, risiede nel modo in cui la società si struttura. In "Storia e coscienza di classe", Lukàcs afferma che « la conoscenza della società come realtà diventa possibile solo sul terreno del capitalismo, della società borghese. » Ed è approfondendo tale affermazione che Jameson arriva a concludere che « quando passiamo da un tale contesto [quello di una società preindustriale] a quello di una letteratura dell'era industriale, tutto muta e si trasforma. I personaggi dell'opera cominciano ad abbandonare il loro nucleo umano: si manifesta quella che è una specie di dissoluzione dell'essere umano, una sorta di dispersione centrifuga nella quale, in ogni loro punto, i percorsi conducono verso il contingente, alla materia, al dato grezzo, al non umano ». Pertanto, nel capitalismo, il dato sostanziale, la sostanza della realtà non è l'essere umano, e le metamorfosi del soggetto borghese sono, innanzitutto, metamorfosi delle forme fondamentali delle cose che governano gli uomini. Senza il fatto di essere un prodotto del lavoro, la merce non esiste. In quanto risultato di questa attività umana astratta, essa è uno spreco di energia che si svolge in un tempo che si oggettivizza nel valore di scambio, il quale può continuare ad esistere solo nel momento in cui si trasforma in denaro per il suo proprietario. Ma il denaro - l'essenza di tutto questo processo - deve realizzarsi sotto forma di capitale, tornando così a quello che era l'inizio preesistente alla metamorfosi, quando si trasforma di nuovo in produzione di merci, e così via di seguito. Sarebbe questa la materia che costituisce sostanzialmente la realtà. E avviene che essa, in quanto elemento dinamico di una società sistemica, si modifica, muta. In quella che è la sua incessante ricerca dell'ampliamento quantitativo della ricchezza, il capitale ha bisogno di continuare ad apportare dei cambiamenti qualitativi nella produzione di valore. Riesce a raggiungere in parte tale obiettivo, attraverso il rinnovamento tecnologico, eliminando così dal processo di produzione quantità sempre più crescenti di lavoro. Ed ora, è proprio questo - il cui tempo fornisce la misura astratta della sostanza - a perpetuare un simile « divenire tautologico della modernità ». Così facendo, quanto più il capitalismo si sviluppa, tanto più si fa rarefatta la vita vissuta in un tale contesto. Non tanto perché in passato la vita fosse stata autentica, quanto piuttosto perché in passato essa recava in sé una promessa di verità che la motivava, mentre oggi quello che percepiamo è solo il suo della sua falsità.
Spiegare questo divenire tautologico, facendolo a partire da un'analisi di opere - ed autori - in cui le relazioni umane sono arrivate ad appoggiarsi sempre più alla mediazione monetaria, è molto originale. Si tratta di un tema essenziale per poter comprendere le forme narrative della modernità. In queste forme arriva ad essere presente, come espressione artistica, quel processo storico nel quale gli uomini e le donne, nelle loro relazioni sociali, hanno cominciato a trascurare ed accantonare le loro qualità di esseri umani che sviluppano le proprie potenzialità, per trasformarsi e assumere le qualità trasmesse e veicolate dal denaro. In Moliére, ad esempio, questo è il tema intorno al quale si articolano i conflitti che segnano il passaggio dalle relazioni obbligatorie basate sull'onore, alle relazioni obbligatorie mediate dal « vile metallo ». Il fatto che avvenga in questo contesto, la prima volta in cui si menzionano gli uomini senza qualità, nelle sembianze di accaparratori che vanno in cerca di legittimità sociale attraverso matrimoni di interesse e relazioni con un'aristocrazia economicamente rovinata, non è un mero caso. Allo stesso tempo, questa menzione esprime, da una parte, il risentimento di questi aristocratici per la perdita del privilegio del riconoscimento sociale, che era monopolio della loro condizione di uomini superiori ed irraggiungibili, e, dall'altra parte, l'annuncio di un livellamento dovuto ad un'ammirazione sociale incentrata sulle qualità delle nuove forme di ricchezza. Da allora, tale problema, intrinseco all'ascesa del capitalismo, a partire dal quale i conflitti personali avevano dovuto cedere il passo ad una sorta di telos tautologico, continua ad essere ancora in atto. Le relazioni monetarie cominciarono a funzionare come una vera e propria tabula rasa della distribuzione dello status quo. Pensato dal punto di vista di un narratore onnisciente, tutto apparirebbe ridicolo, se non fosse per la dolorosa esperienza in atto che umilia anche chi possiede il denaro, dal momento che quest'ultimo è per natura indipendente ed infedele nei confronti delle mani che lo detengono. In questo contesto costitutivo della cosiddetta cultura borghese, è avvenuta l'elaborazione e l'interiorizzazione di norme comuni, nelle quali, secondo Roswitha Scholz, si sono consolidate le forme dominanti del moderno patriarcato produttore di merci. La letteratura è stata uno spazio in cui il conflitto con tutto quello che deve essere dissociato dalle forme fondamentali di dominio si manifesta come una dolora mutilazione di quei poteri, soprattutto quelli delle donne, che vengono svalorizzati a priori a causa delle qualità sociali delle loro attività. Dal momento che il capitalismo è un modo di vita che ha avuto origine in Europa - fondato sul potere che viene esercitato da uomini bianchi in quello che è lo spazio esterno rispetto all'intimità della casa - ed esso include l'autonomia della sfera economica ed il suo dominio su tutte le altre sfere della vita sociale; da questo potere rimangono dissociati anche tutti i gruppi etnici diversi da quelli coinvolti nella sua origine.
Il libro di Musil è sbalorditivo proprio per queste tensioni, che lo sovraccaricano e traboccano di tutto ciò che nel suo tempo sarebbe ancora dovuto accadere. A cominciare da un'Europa dell'inizio del 20° secolo - che era ancora un po' orgogliosa di essere stata la culla della civiltà ed il suo punto più alto, ma che, ciò nonostante, stava camminando a grandi passi verso l'annichilimento -, le donne, in questa condizione storica, o venivano sterminate, come nel crudele assassinio di una prostituta da parte di Moosbrugger, oppure diventavano parte di un gioco seduttivo e conflittuale di potenze mobilitate al fine di celebrare il vecchio patriarca, in cui l'ultimo respiro dell'aristocrazia si congiungeva con quello che era il necessario adeguamento agli schemi più attualizzati del patriarcato, ora allineato esclusivamente con il potere del denaro. L'uomo senza qualità dell'epoca di Molière è, in questo romanzo, l'affermazione positivizzata del declino del soggetto borghese; e non più la forma ambigua e conflittuale dell'annuncio di una promessa di felicità. Il quadro di una guerra totale (1914-18), che veniva preparata per poter realizzare lo spirito di questo mondo in cui la crisi di sovraccumulazione del capitale si coniugava violentemente con elementi di « persistenza della tradizione » del vecchio regime, trovando le qualità necessarie alla continuità del divenire tautologico, proprio in questa assenza di qualità. La società della dissociazione-valore, per rimanere nei termini di Roswitha Scholz, nel suo perseguire in maniera inconscia il fine in sé della valorizzazione del valore, ha bisogno di portare le masse umane ad assumere dei modelli passivi e svalorizzati di esistenza per poi, in seguito, avviarli all'auto-sterminio. A questo punto, il romanzo moderno ha abbandonato la sua origine di epopea della vita borghese. Il sarcasmo di Musil rende questo genere assolutamente inadatto a placare i sentimenti per mezzo dei conflitti sociali che si producono in questa nuova costellazione. Il distanziamento giornalistico per mezzo del quale Musil descrive l'omicidio compiuto da Moosbrugger, in un certo qual modo, anticipa il senso e la freddezza con cui l'Europa si preparava al perpetuarsi dell'era degli assassinii di massa (1939-45).
Le trasformazioni avvenute nel contesto dell'era industriale, a partire dalla metà del 19° secolo, ma soprattutto nell'ultimo quarto di quel secolo e all'inizio del 20°, avevano sconvolto la vita sociale a tal punto che le patologie collettive erano diventate frequentissime. Hanna Arendt ha constatato come l'emergere della « marmaglia » - in quanto fenomeno nuovo della cultura europea - sia avvenuto in quest'epoca. Una delle sue cause sarebbe stata il passaggio in atto, con una forza fino a quel momento poco visibile, alle forme fittizie del capitale. Questa modalità di un'«accumulazione in eccesso», che cerca disperatamente di mantenere attivo il suo legame con la valorizzazione, in un mercato di possibilità di investimento sempre più ristretto, si deve al fatto che in questo momento la «sostanza del valore» è diventata sempre più difficile da produrre e, in tal modo, ha reso superflua la funzione svolta dalla forma di esistenza di milioni di esseri umani. La «marmaglia» si forma quando la disperazione di queste masse viene ad essere organizzata politicamente da una direzione che vuole distruggere tutto quello che può spingere alla riflessione, che potrebbe impedire la continuità di questa vita di marionette volontarie. In questo momento storico, l'uomo senza qualità costituisce e rappresenta una trasmutazione esplosiva di questa degenerazione del soggetto borghese, tormentato da un incurabile nichilismo passivo, che è stato prodotto dalla tabula rasa delle precedenti relazioni di obbligo sociale operata dal denaro, unitamente alla nuova esperienza allargata di ciò che Lukàcs ha definito reificazione. Non si sono posti dove poter scappare. La distruzione della guerra totale diventa un maldestro desiderio di morte, come di fronte a un simile bivio, scrive Freud nel suo "Perché la guerra?". Né, in letteratura, sono mancate altre imbarazzanti elaborazioni di una simile situazione. In Russia, ad esempio, il dibattito sul vero significato storico del nichilismo e dei suoi «Demoni», nella versione di Dostoevskij, arrivò a profetizzare alcune delle conseguenze che potrebbero essere prodotte dall'assenza di qualità dell'uomo moderno. Quando, più tardi, lo stalinismo riuscì a trasformare un pittoresco avvenimento provinciale in una realtà nazionale, si poté ottenere una comprensione più ampia di ciò che Lukàcs aveva voluto dire con « solo nel capitalismo è possibile riconoscere,nella società, la realtà ». Il lettore non deve dimenticare che, ad Est, la Rivoluzione del 1917 è stata la soluzione a questa situazione storica. La sua novità era nata già invecchiata, come alla fine lo si è potuto vedere nel 1991. Ma non è stata una soluzione assai diversa da ciò che avvenne in Occidente e che ha finito per portare il capitalismo in un buco nero della storia.
Ciò che questi autori studiati da Robson de Oliveira non smettono di ricordarci, è che il divenire tautologico è un processo continuo e graduale che si traduce in un sempre più crescente ampliamento di questa situazione esplosiva. Per un lettore di Adorno, non è certo un caso che uno studio di questo genere termini con Beckett. Dal momento che è possibile riuscire a trovare nei suoi testi una sorta di messaggio in bottiglia che è stato affidato al mare, il quale custodisce e racchiude in sé la notizia del futuro prossimo-passato della morte della terra. In un simile scenario, i suoi personaggi perduti sono riusciti a sfuggire, non si sa come, all'ecatombe finale, ma non hanno potuto lasciare nessun suggerimento, se non le loro impressioni su questa fine, della quale, tra l'altro, ignorano le cause e ignorano persino il fatto che si tratti di una fine, seppure abbiano il sospetto che non si debba aspettare niente che non sia altro che un infinito prolungamento del vuoto. Svetlana Aleksievic, nel suo "Preghiera per Cernobyl'. Cronaca del futuro" racconta, insieme ad altre testimonianze, la storia di una comunità di quattro persone che si era formata nella regione contaminata dalla radioattività, situata all'interno del deserto della zona di esclusione dall'incidente nucleare. Non è un romanzo. Queste persone vivono senza nutrire molte più paure di quante ne abbiano gli esseri umani, come la paura della morte e quella legata alla fragilità della vecchiaia. Le porte delle loro case possono rimanere aperte, e loro stessi descrivono la propria esistenza come un « vero e proprio comunismo ». Visti sotto diversi aspetti - fondamentali per poter analizzare la vita moderna - sono sorprendentemente liberi: nessuno Stato o mercato li infastidisce o li obbliga. Ma tuttavia questa comunità non sopravvivrà e non sarà in grado di trasmettere al futuro il patrimonio delle miserie che sono la causa del suo felice presente. Esiste in loro ancora una qualche consapevolezza del mondo, ma è innocua, non può essere lasciata in eredità, e anche se lo fosse, con la sua "buona novella" non possiamo farci nulla , dal momento che dipenderebbe da un periodo di tempo che dovrebbe essere vissuto come la morte della Terra. Questa realtà è un Inter-mondo che si è formato all'interno del divenire tautologico della modernità. In esso c'è vita, sebbene sia consapevole del fatto che si tratti di un sussurro che si commiata dicendo addio. Da questo lato del telone, la cecità del soggetto borghese nei confronti di questo stato delle cose non cerca nemmeno una cura. Ha rinunciato a tutte le promesse del passato ed ora cerca di portare a termine il lavoro incominciato. A partire dagli anni '80, il capitalismo sostiene la sua dinamica di riproduzione solo attraverso dei mezzi speculativi. Ora, le forme fittizie del capitale non sono più un'occasionale apparizione, bensì la struttura stessa ed il motore che spinge avanti la società. L'accumulazione permanente, può essere simulata unicamente in queste condizioni e, anche così, continua ad esigere un incommensurabile grado di distruzione della natura e dei legami sociali. In tali condizioni, non è stato possibile delimitare il perimetro del reale che in questa modalità di funzionamento del fine dell'accumulazione, rimanesse insuperabile. Potrebbe sembrare strano parlare di un'irrealtà del reale. E per quanto strano possa sembrare, al limite, questo irreale potrebbe anche essere una forma di reale. Ma non è così. Tutto questo è il risultato di un'assurdità basata sulla complicità di uomini e donne senza qualità. La sostanza che strutturava tale realtà si è fatta evanescente, dal momento che - come conseguenza del suo successo - la sua produzione, all'attuale livello di sviluppo tecnologico, è diventata impossibile.
Chissà se oggi Godot verrà...

- Marildo Menegat – luglio 2020 -


La grande questione posta da questo libro, consiste nel voler sapere in quale momento, e attraverso quali meccanismi sociali ed economici, arriviamo ad esaltare la merce in quella che è la nostra logica della vita. Diventare merce nel mondo, equivale a svuotarsi della propria soggettività, in un luogo dove dominano i nostri atti più banali. In maniera audace e creativa, "L'uomo senza qualità in attesa di Godot" va alla ricerca di un'interdisciplinarietà tra quelli che sono le conoscenze che riguardano l'essere umano. Molière, Musil, Beckett, Caio Prado, Adorno, Marcuse e Robert Kurz, tra gli altri, vengono presentati come se fossero dei "buoni vicini" per condurre questa riflessione.

(dal risvolto di copertina di: "O homem sem qualidades à espera de Godot" por Robson de Oliveira. Editora Hedra; Edição: 6 de agosto de 2020.)

fonte: Critica Radical

domenica 23 agosto 2020

Le storie


« In fondo è proprio il mondo - tutto questo mondo che a prima vista potrebbe sembrare solo una cosa fatta di pietra e piante - ad essere semplicemente  una storia.
Il mondo contiene in sé una storia e questa storia è la somma di tutte le storie minori; e tuttavia tutte queste storie minori sono sempre la stessa medesima storia e contengono tutto.
Cosicché tutto è necessario: ogni minimo particolare.
E' questa in fondo la lezione: non si può fare a meno di nulla. Niente deve essere disprezzato.
Non sappiamo dove stanno i fili. E non abbiamo modo di sapere quali sono le cose di cui si può fare a meno. E tutti questi fili che non conosciamo, che non vediamo, fanno parte anche essi della storia. E la storia può esistere solo nel racconto.
E quindi non si può finire mai di raccontare. Non può esserci fine al raccontare.
»

- Cormac McCarthy -

(già pubblicato sul blog il 28/8/2006)

sabato 22 agosto 2020

Il valore della punteggiatura

La rivoluzione del 1905, in Russia, è cominciata con lo sciopero di una tipografia moscovita, i cui operai chiedevano che i punti e le virgole venissero calcolati come caratteri nel conteggio del cottimo.

(già pubblicato sul blog, il 4/8/2006)

venerdì 21 agosto 2020

Il verde e il grigio

Il gioco della critica consiste nel giustapporre dei pezzi, ipotizzando qua e là dei possibili contatti - sempre arbitrari - nella speranza che possa apparire un qualche disegno (coerente, incoerente, figurativo o cubista), una mappa che possa rendere facile (o difficoltoso) l'accesso ad un testo già noto. Nel caso di Joyce, per esempio dell'Ulisse di Joyce, i riferimenti accessibili vanno a formare un percorso quasi automatico: Omero, Vico, Flaubert (e Beckett, in quanto continuatore). Cosa succede, per esempio, nel passare da Balzac a Joyce? Si tratta di progetti analoghi, in quello che è il loro desiderio di totalità ed esaurienza: ma quello che  Balzac fa in 91 libri (finiti; ce ne saranno altri 46 che rimangono incompleti, alcuni solo nella fase del titolo), Joyce lo condensa in un solo libro (o due, se consideriamo anche Finnegans Wake). Ulisse racconta tante storie, ed ha altrettanta ambizione di immergersi nei suoi personaggi quanto ne ha la Commedia umana di Balzac, ma il procedimento con cui lo attua è radicalmente diverso: è assai più una enigmatica condensazione che una estensività pedagogica. Di fronte alla Commedia umana e all'Ulisse, il lettore viene ugualmente invitato a spendere un'enorme quantità del suo tempo alla decifrazione. Nel caso di Balzac, si tratta di un tempo che all'inizio appare lineare, estensivo, prolungato, cronologico, che viene percepito a partire dal succedersi delle opere, dei libri: si immaginino 91 libri in una libreria dedicata esclusivamente a Balzac); mentre nel caso di Joyce si tratta di un tempo informe ed irregolare, una lettura che invoglia e sollecita alla decifrazione parola per parola, frase per frase. Nel primo, l'energia è diffusa; nel secondo, concentrata.

Nel libro "James Joyce A to Z: The Essential Reference to the Life and Work" gli autori, A. Nicholas Fargnoli e Michael Patrick Gillespie riservano un lemma a Balzac. Lo fanno citando un saggio scritto nel 1903 da Joyce su Ibsen (un saggio sul dramma "Catilina", scritto tra i 1848 ed il 1849 e che viene rappresentato per la prima volta nel 1881) nel quale egli critica Balzac per la sua «mancanza di precisione». Tuttavia, ad essere interessante è il fatto che il rimando che gli autori fanno usando un riferimento a Balzac che è presente in Finnegans Wake: più precisamente, un riferimento a Balzac che Joyce mescola con un riferimento ad Oscar Wilde: « the squidself which he had squirtscreened from the crystalline world waned chagreenold and doriangrayer in its dudhud » (186.6-8).
Il riferimento di Joyce a Balzac, è qui a "La pelle di zigrino" [«chagreenold»], romanzo di Balzac pubblicato nel 1831, in cui si racconta la storia di un giovane che entra in possesso di un magico pezzo di pelle (o di cuoio) che esaudisce i suoi desideri (solo che ad ogni desiderio soddisfattogli, la pelle diminuisce di dimensione e assorbe parte dell'energia vitale del giovane). Joyce prende lo «chagrin» dell'originale francese ("La peau de chagrin") e lo prolunga mediante l'aggiunta della parola «green» e della parola «old», preparando in questo modo il terreno per il successivo riferimento, quello ad Oscar Wilde: « chagreenold and doriangrayer ». Così il verde dello chagrin viene declinato insieme al grigio di doriangrayer, vale a dire di Dorian Gray (il romanzo ed il personaggio di Oscar Wilde), anch'egli coinvolto in un sistema magico di retribuzione e castigo (come avviene con la pelle in Balzac, anche il quadro in Wilde riceve la pena dell'invecchiamento, che tuttavia non viene condivisa dal protagonista).

fonte: Um túnel no fim da luz

giovedì 20 agosto 2020

Mondi perduti

Aram Mattioli racconta in modo vivido il lungo e violento processo di colonizzazione messo in atto dai coloni bianchi contro i nativi indiani, interpretando gli eventi globali sullo sfondo dei fenomeni centrali, dal Settecento alla prima decade del Novecento. Allo stesso tempo, prende in considerazione il punto di vista dei «vinti» su un piano di parità e mostra come i popoli indigeni reagirono in vari modi all’accaparramento delle terre. Gli indiani subirono un vero e proprio attacco etnocida, che comportò la perdita di gran parte dei territori ancestrali, delle risorse naturali, delle basi di sussistenza, e del diritto ad autodeterminarsi. Dei numerosi «primi popoli» l’autore evidenzia strutture sociali, caratteri culturali e modi di vivere. In scene ricche di pathos, Mattioli descrive le battaglie decisive e ritrae con efficacia sia le persone comuni sia gli importanti protagonisti della politica, mantenendosi sempre in perfetto equilibrio tra la comprensione empatica e la sobria analisi scientifica, decostruendo le leggende del mondo occidentale per affinare la comprensione degli eventi reali. Un libro affascinante e innovativo sulla trasformazione del mondo americano, che getta nuova luce non solo sul passato ma anche sul presente degli Stati Uniti.

dal risvolto di copertina di: Aram Mattioli, "Mondi perduti. Una storia degli indiani d'America. 1700-1910". Einaudi.)

Il colpevole oblio dei nativi americani
 - di Massimo Teodori -

Toqueville, ne La Democrazia in America, aveva già sottolineato come l'incontro e lo scontro delle tre culture etniche del nuovo continente - l'indiana, la negra e l'europea - comportarono lo sterminio della prima, la riduzione in schiavitù della seconda, mentre i vincitori europei non furono in alcun modo influenzati dai vinti. La storia degli Stati Uniti è stata scritta in massima parte dai vincitori che hanno rappresentato a loro modo le vicende sociali, economiche e umane delle culture soccombenti, in particolare quelle dei nativi indiani consegnato ad un colpevole oblio favorito dall'assenza di un'autonoma tradizione scritta. La ricerca di Aram Mattioli (Mondi perduti. Una storia degli indiani d'America. 1700-1910) si contrappone alla storiografia egemone: assume il punto di vista delle popolazioni vinte che sono state spossessate dei territori ancestrali e delle basi materiali di sussistenza, massacrate dall'uomo bianco e deprivate dell'identità culturale e del diritto all'autodeterminazione.
In una sorta di contro-storia dei «mondi perduti», Mattioli illumina con passione il drammatico itinerario percorso dai nativi americani negli ultimi secoli. Nel 1492, nel nord America vivevano dai 5 a i 10 milioni di nativi, suddivisi in una miriade di «nazioni indiane» e, tre secoli dopo, agli albori degli Stati Uniti, l'intero continente era ancora occupato da quei «primi popoli».
All'inizio del Novecento, su 75 milioni di cittadini statunitensi, sopravvivevano solo 240mila nativi indiani, sconfitti militarmente, ricacciati nelle riserve, costretti all'assimilazione forzata. La triste sorte di quelle etnie si era compiuta nel giro di un secolo, travolgendo ogni resistenza, dopo cruente battaglie. A fine Settecento, il primo presidente degli Stati Uniti, George Washington, eroe dell'indipendenza americana, aveva manifestato un senso di vergogna per gli stermini dei coloni all'Ovest; e nel 1832, il prestigioso presidente della Corte suprema, John Marshall, aveva emesso una sentenza a favore del diritto dei Cherokee ad essere considerati una distinta comunità nello Stato della Georgia. Ma quelle opinioni di uomini saggi restarono isolate, senza alcun effetto sulla «violenza civilizzatrice» che dominava lo sviluppo della nuova nazione interamente protesa ad impossessarsi delle terre considerate «libere», ed a distruggere tutto ciò che non rientrava nei propri canoni. Mattioli ritiene che questa debba essere l'autentica interpretazione del colonialismo degli Stati Uniti, che per quanto sorto in antitesi all'impero britannico, si impadronì con la forza del continente in una crociata espansionistica, le cui principali vittime furono gli indigeni. La fame di terra dei coloni, le tecnologie delle comunicazioni ferroviarie e telegrafiche, la potenza delle armi moderne, il disprezzo per le «razze inferiori» alimentarono l'industrializzazione, l'urbanizzazione e la colonizzazione dall'Atlantico al Pacifico, annientando così i nativi che da secoli vivevano lì.
Nel 1830, il presidente populista Andrew Jackson emise la «legge sulla rimozione degli indiani», che gli conferiva il potere di trasferire i nativi all'Ovest del Mississippi verso le grandi pianure dove, nella seconda metà dell'Ottocento, si compì il tentativo di etnocidio che segnò la definitiva sconfitta degli indiani: «Le decisioni di fondo su come le popolazioni indigene avrebbero dovuto vivere, non furono prese dalle popolazioni stesse, ma da un'élite egemone che proveniva da fuori e perseguiva gli interessi dell'America Bianca».
Lo storico Frederick J. Turner sostenne nel 1893 che i coloni temprati dalla frontiera verso l'Ovest erano gli autentici rappresentanti della nuova cultura americana emersa dalla lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile popolato da nativi senza volto né storia.  All'inizio del XX secolo, gli indiani residuali stanziati in Oklahoma si rivolsero al presidente per formare nelle terre loro assegnate uno Stato solo di indiani, ma il Governo federale di Washington respinse la richiesta, sicché nel 1907 fu creato il 46° Stato dell'Unione eguale agli altri, indipendentemente dalla volontà degli indiani cui erano stati destinati quei territori. Quando nel 1905, Theodore Roosevelt, figlio dell'età dell'imperialismo, inaugurò la sua presidenza, volle che al corteo inaugurale partecipassero 400 indiani preceduti da sei capi su tre cavalli bianchi e tre neri addobbati con i loro copricapi di piume, ad eccezione di Geronimo, l'ultimo capo indiano che dal 1886 languiva con la sua gente nelle prigioni federali. [*] Quei vecchi nativi sconfitti speravano che il presidente concedesse condizioni di vita più decenti a quel che restava delle nazioni indiane, ma così non fu. Almeno fino a quando un altro Roosevelt, Franklin Delano, trent'anni dopo, nel 1934, impostò con l'Indian Reorganization Act una politica di convivenza. Oggi i nativi indiani, circa due milioni, per la prima volta hanno eletto negli Stati del Kansas e del New Mexico i loro deputati al Congresso, e insediato alcuni loro rappresentanti in diverse regioni del Sud e dell'Ovest.

- Massimo Teodori - Pubblicato sul Sole del 29/9/2019 -

[*] -  " In testa procedevano sei capi su tre cavalli bianchi e tre cavalli neri. Accanto a Geronimo (apache) e Quanah Parker (comanche), che si erano opposti armi in pugno all’espansione dell’impero dei coloni, c’erano anche American Horse (sioux), Sapiah (ute), Little Plume (blackfeet) e Hollow Horn Bear (sioux). Tranne Geronimo, tutti quanti indossavano magnifici copricapi di piume e avevano il viso dipinto alla maniera tradizionale. Subito dietro di loro incedeva una banda musicale indiana che faceva strada a trecentocinquanta studenti in uniforme della Carlisle Indian Industrial School. Il mondo ormai tramontato dell’Ovest indiano era rappresentato per l’ultima volta dai vecchi capi, mentre il radioso avvenire apparteneva ai baldanzosi allievi della Carlisle: ecco cosa si dava a intendere alle masse con quell’esibizione. Senza dubbio il comitato organizzativo voleva mostrare al pubblico la nuova realtà in cui vivevano i giovani indiani d’America e i «progressi» fatti nel frattempo grazie alla rieducazione.
A un giornalista che gli chiedeva come mai avesse invitato al suo insediamento i capi indiani e il «maggior assassino» della storia americana, vale a dire Geronimo, il presidente rispose che voleva offrire alla gente un bello spettacolo e un «pittoresco tocco di colore». Gli occhi della folla non riuscivano a staccarsi dai capi indiani e dai loro cavalli mentre, fianco a fianco, percorrevano la Pennsylvania Avenue, eclissando gli allievi della scuola modello di Henry Pratt che marciavano poco dietro di loro. Solo di recente la ricerca ha risolto l’enigma del perché quei condottieri avessero accettato di rendere onore al presidente cowboy. Geronimo, Quanah Parker e gli altri non avevano partecipato all’inaugurazione né per ingenuità, né per trarne qualche tipo di vantaggio, ma piuttosto nella speranza che ciò potesse avere ripercussioni positive sui loro popoli oppressi .
" (da Aram Mattioli, "Mondi Perduti" )

mercoledì 19 agosto 2020

Libri da tradurre e non tradotti

Nel mese di agosto del 1765, la East India Company sconfisse il giovane imperatore Mughal e, al suo posto, installò un governo gestito da dei commercianti inglesi che riscuotevano le tasse facendo uso di un esercito privato. La creazione di questo nuovo governo, segnò il momento in cui la Compagnia delle Indie Orientali cessò di essere un'impresa convenzionale e divenne qualcosa di molto più insolito: una corporazione internazionale trasformatasi in un'aggressiva potenza coloniale. Nel corso dei successivi 47 anni, la compagnia si ingrandì e crebbe fino al punto che quasi tutta l'India che si trovava a sud di Delhi si trovò ad essere effettivamente governata da una sala riunioni che si trovava nella City di Londra.
Il libro "The Anarchy. The East India Company, Corporate Violence and the Pillage of an Empire" ci racconta una delle storie più straordinarie della Storia: quella di come avvenne che l'Impero Mughal - che dominava il commercio e la produzione mondiale, e che possedeva risorse quasi illimitate - cadde in pezzi e venne sostituito da una Multinazionale che aveva la sua sede lontana migliaia di miglia oltremare, all'estero, che rispondeva di quello che faceva solamente ai suoi azionisti, la maggior parte dei quali non aveva mai visto l'India e non aveva alcuna idea del paese la cui ricchezza garantiva i loro dividendi. Facendo uso di fonti mai utilizzate in precedenza, William Dalrymple ci racconta la storia della Compagnia delle Indie Orientali come non è mai stata raccontata prima, e ci fornisce così una descrizione di quali sono i devastanti risultati dell'abuso del potere aziendale.

( dal risvolto di copertina di: William Dalrymple: The Anarchy. The East India Company, Corporate Violence and the Pillage of an Empire, Bloomsbury, London, pagg. 544, € 33)

Compagnia delle Indie, tra fatti e misfatti
- di Ugo Tramballi -

Nel 1614 la potenza di Jahangir rivaleggiava con i Ming cinesi, quando alla sua corte si presentò Sir Thomas Roe, in nome di un’impresa fondata quindici anni prima a Londra mentre William Shakespeare scriveva l’Amleto. Dall’Afghanistan all’attuale Bangladesh, l’imperatore Mogul governava su 100 milioni di sudditi e produceva un quarto della manifattura mondiale. La popolazione inglese era il 5% della sua.
L’azienda di Sir Roe, chiamata Compagnia delle Indie Orientali, possedeva un ufficio con cinque finestre nel centro di Londra e i suoi 218 soci faticavano ad armare una nave che tornasse dall’Asia con «fine cotone, indaco e chintz». Pochi anni dopo la Compagnia avrebbe garantito dividendi del 3.600 per cento; un secolo dopo avrebbe preso l’intero subcontinente indiano con un esercito di 200mila uomini in gran parte sepoy, mercenari locali. Nel 1786 il filosofo e statista Edmund Burke avrebbe definito la Compagnia «uno stato a guisa di mercante». Fu il suo tè esportato dal Bengala e buttato dai ribelli nelle acque del porto di Boston, a innescare la Rivoluzione americana. Come scrisse John Dickinson, uno dei fondatori degli Stati Uniti, la Compagnia «voleva mettere gli occhi sull’America come nuovo teatro, dove esercitare il suo talento per il saccheggio, l’oppressione e la brutalità». Prima di diventare duca di Wellington e battere Napoleone a Waterloo nel 1815, il giovane Arthur Wellesley aveva guidato l’esercito della Compagnia e conquistato «più territori in India, e più rapidamente, di quanto Napoleone stesse facendo in Europa».
«Il loro business assomiglia più a una rapina che a un commercio»; hanno «assassinato, deposto, saccheggiato, usurpato», secondo Horace Walpole, contemporaneo di Burke. Ma la Compagnia fu il motore dell’imperialismo britannico. «Isolati dai vicini campi di battaglia» dell’Europa cattolica, «gli inglesi furono costretti a setacciare il globo per trovare opportunità commerciali. Lo fecero con entusiasmo piratesco», scrive William Dalrymple in The Anarchy. La sua storia della East India Company non è solo il racconto di una vicenda drammatica e ripugnante. È anche un grande affresco della potenza britannica spinta dalla sua avidità e parzialmente redenta dalla sua democrazia; della lenta caduta della magnificenza Mogul; della coraggiosa resistenza del raja di Mysore a Sud e della confederazione Maratha a Ovest; di un saccheggio senza limiti. Robert Clive, diventato “Clive of India”, fu il primo governatore a conquistare territori, uccidendone i nawab, i ricchi governanti. «Dobbiamo essere noi stessi nawab, nei fatti se non nel nome: arretrare è ormai impossibile», decise in un incontrollabile delirio di onnipotenza.
Una quarantina d’anni più tardi, quando anche il resto dell’India finì sotto il controllo rapace della Compagnia, Thomas Munro, un altro governatore, annunciò che «ora siamo i pieni padroni dell’India e niente può scuotere il nostro potere». La Compagnia sopravvisse ai suoi debiti, immensi quanto i guadagni, a scandali e processi, alle interrogazioni parlamentari. Ma la Storia non conosce misure adeguate che la congelino per troppo tempo. Il 10 maggio 1857 l’esercito privato di sepoy che aveva combattuto per trasformare la Compagnia in impero, «si ribellò contro il suo datore di lavoro». Per gli inglesi fu l’«Indian Mutiny», per gli indiani la Prima Guerra d’Indipendenza. La Compagnia passò sotto il controllo della regina Vittoria nel 1859. Sopravvisse per altri quindici anni. Chiuse per sempre nel 1874 «con meno fanfara della bancarotta di una ferrovia regionale».

- Ugo Tramballi - Pubblicato sul Sole del 15/3/2020 -

martedì 18 agosto 2020

La città e il tempo

Quando Freud scrive sul romanzo del 1903 di Wilhelm Jensen, "Gradiva, una fantasia pompeiana" (una novella su un archeologo che rimane affascinato da un bassorilievo che ha visto in un museo e che, basandosi su questo fascino, produce un enigmatico sogno nel quale viene trasportato a Pompei, poco prima della distruzione causata dal Vesuvio), egli sottolinea quale sia la distanza temporale che separa il sogno dalla città, vale a dire, che separa l'uomo che sogna, alla fine del 19° secolo, dalla città finita sepolta nel 79 d.C.

1) - Possiamo percepire in Freud un certa ambivalenza nei confronti della città contemporanea, così ricca di messaggi e di stimoli tecnici. È il 22 settembre del 1907 quando Freud scrive, da Roma, una lettera alla sua famiglia dove egli si descrive come se fosse una sorte di «flâneur» nella capitale italiana, mescolando i dati in cui parla dell'architettura tradizionale (Piazza Colonna) con quelli relativi ai nuovi artifici di intrattenimento per le masse (pubblicità, il tram elettrico, le edicole che vendono giornali, il cinematografo).

2) - «Una delle più notevoli caratteristiche di questa lettera», scrive Jonathan Crary (nel suo libro "Suspensions of Perception Attention, Spectacle and Modern Culture"), « è il modo in cui essa riveli la trasformazione dello status dell'osservatore, sebbene trasmetta una sensazione di modernizzazione parziale ed eternamente incompleta dell'esperienza»; Freud «ci rappresenta uno scenario urbano nel quale, una soggettività individuale insieme ad una collettiva prendono forma attraverso molteplici immagini, suoni, moltitudini, vettori, percorsi ed informazioni, e la sua lettera registra quello che è un particolare tentativo di gestire ed organizzare in maniera cognitiva tale campo sovraccaricato » (p.358).

3) - Parte di quella che è la narrativa del 20° secolo, ruota intorno a questa ambivalenza di fronte ai molteplici messaggi provenienti dalla città: un'eterogeneità di registri che non è più solamente verticale e materiale (la metafora archeologica degli strati sotterranei di Freud), ma è anche diffusa e fantasmatica. È in questo stesso modo che emerge la Londra di Sebald, in "Austerlitz" (la passeggiata del narratore e del protagonista attraverso la città è un viaggio, una deriva che avviene anche nel tempo; un po' allo stesso modo in cui avviene in "Glossa" (La Nuova Frontiera, 2018), di Juan José Saer, che racconta una camminata che dura per 21 isolati di Santa Fe); la Parigi di Vila-Matas, nel "Dottor Pasavento" (che per farlo usa in maniera metaforica la Rue Vaneau parigina); oppure il concetto di località condivisa nel tempo e nello spazio come avviene nella serie "O Bairro" di Gonçalo Tavares.

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 17 agosto 2020

con parole tue …


Quello che segue, e che qui riporto per intero, prendendolo da una vecchia rivista ormai defunta da lustri, è un breve racconto, di Robert Sheckley (scrittore di fantascienza, e defunto pure lui!). Il titolo: “Il linguaggio dell'amore”. La fantascienza - come al solito - è solo un grande pretesto. Parla di un uomo perdutamente innamorato di una donna. L'unico scopo nella vita di quest'uomo è di poter riuscire a dire, con parole perfette, quale sia la reale portata del proprio amore nei confronti della donna. In un bar, mentre beve per riuscire ad estrarre da sé, grazie all'alcool, le parole giuste, viene a sapere che su un pianeta lontanissimo, oltre i bordi della galassia conosciuta, esiste una razza aliena che ha creato un linguaggio in grado di poter esprimere ogni reale sfumatura dei sentimenti, umani o simil-umani. E' la loro unica creazione, la loro unica arte. Ed è perfetta. L'uomo si mette in viaggio, e dopo innumerevoli peripezie, riesce a raggiungere lo sperduto pianeta, dove rimane per mesi e mesi a studiare il linguaggio dell'amore, di modo che poi possa riuscire a renderlo con pari intensità anche nella propria lingua. Ora sa. Ora conosce le parole perfette per poter esprimere, senza tema di fraintendimenti, quello che prova nel profondo del proprio cuore. Con un po' meno peripezie, ripercorre la distanza che lo separa dal coronamento del proprio sogno, e quando si trova al cospetto della donna amata, alla fine, pronuncia le parole: «Mia cara, ti sono piuttosto affezionato». Per meglio sapere tutto quanto, compresi gli sviluppi, leggetevela questa storia. Ne vale la pena!
Ma poi, cosa vorrà dire una storia del genere? Me lo sono sempre chiesto, e quando ho cominciato a farlo non erano neanche adolescente, e continuo tuttora a chiedermelo.
Vuole essere una banalizzazione del “grande amore”, negandone l'esistenza?
Oppure vuole solo essere una condanna di quel gran coglione del protagonista, che invece di viverselo, l'amore, decide di piantarlo in asso per andare per inseguire il proprio egoismo e la propria vanità?
Sarei portato a propendere per la seconda ipotesi!
Ah, come al solito, chissà poi perché, la donna non c’è mai in questo genere di storie! Vabbè....

(già pubblicato sul blog - senza racconto però - l'11 luglio 2006)

IL LINGUAGGIO DELL’AMORE
di ROBERT SHECKLEY
(Titolo originale: The Language of Love) - 1957 -
Traduzione di ROBERTA RAMBELLI

JEFFERSON Toms entrò in un bar, un pomeriggio, al termine delle lezioni, per bere un caffè e per studiare un po’. Si sedette, deponendo in bell’ordine i testi di filosofia davanti a sé, e vide una ragazza che dirigeva il servizio degli automi-camerieri. Aveva gli occhi grigio-fumo e capelli del colore del fuoco dei razzi. Aveva una figuretta sottile ma non priva di dolci curve e, guardandola, Toms provò un nodo alla gola e un’improvvisa reminiscenza di autunno, sera, pioggia e lume di candela.
Fu così che Jefferson Toms si innamorò. Sebbene di solito fosse un giovanotto piuttosto riservato, avanzò un reclamo contro gli automi camerieri per avere il pretesto di parlare alla ragazza. Quando le fu davanti non riuscì ad articolare parola, soverchiato dai suoi stessi sentimenti. Tuttavia finì per chiederle un appuntamento.
La ragazza, che si chiamava Doris, era rimasta stranamente impressionata da quello studente bruno e robusto; accettò l’appuntamento e questo segnò l’inizio dei guai di Jefferson Toms.
Egli scoprì che l’amore era una cosa deliziosa, ma era anche un potente elemento di turbamento, nonostante i suoi studi di filosofia. Ma l’amore era una cosa che confondeva le idee perfino all’epoca di Toms, in cui normali linee spaziali collegavano fra loro i mondi lontani, le malattie erano state debellate per sempre, la guerra era qualcosa di inconcepibile, e tutti i problemi di una certa gravità erano stati risolti in modo esemplare.
La vecchia Terra non aveva mai goduto di una simile forma. Le città splendevano di plastica e di acciaio inossidabile. Le ultime foreste erano oasi di verde, perfettamente tenute, in cui si poteva fare un picnic in perfetta sicurezza, poiché tutte le belve e gli insetti erano stati trasferiti in appositi zoo che riproducevano alla perfezione il loro habitat naturale.
Perfino il clima della Terra era stato regolarizzato. Gli agricoltori ricevevano la loro razione di pioggia tra le tre e le tre e mezzo del mattino, la gente accorreva negli stadi per ammirare un programma di tramonti, ed una volta all’anno, in una speciale arena, veniva prodotto un tornado, in occasione dei festeggiamenti del Giorno della Pace Mondiale.
Ma l’amore era una cosa che continuava a confondere le idee e questo, per Toms, era proprio avvilente.

ECCO, non riusciva a tradurre in parole i suoi sentimenti. Espressioni come “ti amo”, “ti adoro”, “sono pazzo di te” erano consunte ed inadeguate. Non esprimevano affatto la profondità ed il fervore delle sue emozioni. Venivano sfruttate troppo frequentemente; perfino ogni trasmissione stereo ed ogni commedia di second’ordine erano piene di parole simili. La gente le usava nella normale conversazione e dichiarava di amare le polpette di maiale, di adorare i tramonti, di essere pazza del tennis.
Toms si sentiva rivoltare in ogni sua fibra, dinanzi a tale situazione. Mai, giurava, avrebbe parlato del suo amore in termini che venivano adoperati per le polpette di maiale. Ma scoprì, con grande delusione, di non aver niente di meglio da dire.
Confidò il suo problema al professore di filosofia.
«Signor Toms», disse il professore, agitando gli occhiali con un gesto vago, «ah… l’amore, come viene comunemente definito, non è un argomento che noi abbiamo ancora sviscerato a fondo. Non è ancora stata pronunciata una parola definitiva sull’argomento, ad eccezione del cosiddetto Linguaggio dell’Amore della razza tyaniana».
Questo non fu di grande aiuto per Toms. Continuò a riflettere sull’amore ed a pensare a Doris. Nelle lunghe serate trascorse insieme a lei sulla veranda, mentre l’ombra del pergolato cadeva sul suo volto, nascondendolo e rivelandolo insieme, Toms si struggeva dal desiderio di esprimere ciò che provava. Ma, dal momento che non poteva sopportare di servirsi dei consunti luoghi comuni dell’amore, tentava di esprimersi attraverso frasi stravaganti.

«Io provo per te», diceva, «ciò che una stella prova per il suo pianeta».
«Oh, è immenso!» rispondeva lei, immensamente lusingata di essere paragonata a qualcosa di cosmico.
«Non è questo che intendevo», correggeva Toms. «Il sentimento che stavo tentando di esprimere era più… bene, per esempio, quando tu cammini, mi ricordi…».
«Che cosa?».
«Una cerbiatta che avanza nella foresta», diceva Toms, accigliandosi.
«Oh è affascinante».
«Non l’ho detto perché fosse affascinante. Stavo tentando di esprimere la goffaggine proprio della gioventù e allora…».
«Ma, tesoro», diceva lei. «Io non sono goffa. Il mio insegnante di ballo…».
«Non volevo dire goffa. Ma l’essenza della goffaggine è… è…».
«Ho capito», diceva lei.
Ma Toms sapeva che non aveva capito affatto.

COSÌ, era costretto a smetterla con le stravaganze. Ben presto si accorse di non essere capace di dire a Doris qualcosa di importante, perché non era quello che intendeva.
La ragazza era turbata da quei lunghi silenzi che cadevano fra loro.
«Jeff», insisteva. «Potresti almeno dire qualcosa».
Toms scrollava le spalle.
«Anche se non è affatto quello che tu intendi».
Toms sospirava.
«Per favore!» gridava lei. «Dimmi qualcosa! Non riesco più a sopportare tutto questo!».
«Oh, diavolo…».
«Sì?» alitava lei, con il volto trasfigurato.
«Non è questo che intendevo», diceva Toms, ricadendo nel suo cupo silenzio.
Finalmente si decise a chiederle di sposarlo. Avrebbe voluto ammettere di amarla… ma rifiutava di diffondersi su questo punto. Le spiegò che il matrimonio deve essere fondato sulla verità, altrimenti è condannato fin dall’inizio. Se avesse svalutato e falsificato le proprie emozioni fin dal principio, che cosa avrebbe riservato loro il futuro?
Doris trovò ammirevoli quei sentimenti, ma rifiutò di sposarlo.
«Tu devi dire ad una ragazza che la ami», dichiarò. «Devi ripeterglielo cento volte al giorno, Jefferson, e non sarà ancora abbastanza».
«Ma io ti amo davvero!» protestò Toms. «Voglio dire che io provo un’emozione corrispondente a…».
«Oh, smettila!».
In questi frangenti, Toms pensò al Linguaggio dell’Amore e andò dal professore per informarsi meglio in proposito.
«Mi hanno detto», spiegò il professore, «che la razza indigena di Tyana II aveva uno specifico ed eccezionale linguaggio per esprimere le sensazioni amorose. Dire “ti amo” era impensabile per i tyaniani. Essi avrebbero invece usato una frase che denotasse l’esatta specie di amore provato in quel particolare momento e che non potesse essere usata in nessun’altra occasione».

TOMS annuì.
«Naturalmente», continuò il professore, «insieme a questo linguaggio si sviluppò, parallelamente, una tecnica amatoria quasi incredibile nella sua perfezione. Mi hanno detto che tutte le altri tecniche normalmente in uso sembrano, al confronto, il goffo comportamento di un orso in amore».
«È precisamente quello che mi occorre!» esclamò Toms.
«Ridicolo», disse il professore. «La tecnica può essere interessante, ma senza dubbio quella di cui dispone lei stesso attualmente è sufficiente. E il Linguaggio, per sua natura, può essere usato con una sola persona. Impararlo mi pare un inutile spreco di fatica».
«Faticare per amore», disse Toms, «è l’azione più degna ed ammirevole del mondo, poiché produce una ricca messe di sentimenti».
«Mi rifiuto di rimanere ad ascoltare simili pessimi epigrammi. Signor Toms, perché si scalda tanto per l’amore?».
«Perché è la sola cosa perfetta che esista al mondo», rispose Toms con fervore. «Se uno deve imparare uno speciale linguaggio per apprezzarlo, non può farne a meno. Mi dica, è molto lontano Tyana II?».
«Una distanza considerevole», disse il professore, con un lieve sorriso. «E un viaggio inutile, dal momento che la razza si è estinta».
«Estinta! Ma perché? Una epidemia improvvisa? Una invasione?».
«È uno dei misteri della Galassia», disse vagamente il professore.
«Allora il Linguaggio è andato perduto!».
«No. Vent’anni fa, un terrestre, di nome George Varris, si è recato su Tyana II ed ha imparato il Linguaggio dell’Amore dall’ultimo superstite della razza». Il professore scrollò le spalle. «Non ho mai considerato questo fatto abbastanza importante da indurmi a leggere le sue carte».
Toms cercò Varris sul Chi è degli Esploratori Spaziali e apprese che aveva scoperto Tyana, poi aveva esplorato alcuni pianeti di frontiera, per poi tornare a stabilirsi sul mondo deserto di Tyana, dedicando la sua vita a studiarne la cultura nei vari aspetti.

DOPO aver appreso tutto ciò, Toms rifletté a lungo, profondamente. Il viaggio a Tyana era difficile, lungo e costoso. Forse Varris poteva morire prima del suo arrivo, oppure poteva anche rifiutarsi di insegnargli il Linguaggio. Il gioco valeva la candela?
«L’amore merita questo?» si chiese Toms, ma conosceva già la risposta.
Così vendette il suo ultra-fedeltà, il suo registratore-memoria, i testi di filosofia, parecchie azioni ereditate dal nonno, e fissò un posto su un’astronave che faceva rotta per Cranthis IV, il pianeta più vicino a Tyana che avesse potuto scoprire sulle carte delle compagnie di navigazione spaziale. Dopo aver ultimato i preparativi, andò da Doris.
«Quando ritornerò», disse, «potrò dirti esattamente quanto… intendo la particolare classe e qualità di… voglio dire, Doris, che quando mi sarò impadronito della Tecnica Tyaniana, tu sarai amata come nessuna donna lo è stata mai!».
«Cosa vuoi dire?» chiese lei, con gli occhi che le brillavano.
«Bene», disse Toms, «il termine “amata” non esprime pienamente ciò che intendo. Ma intendevo proprio qualcosa di molto simile».
«Ti aspetterò, Jeff», disse lei. «Ma… ti prego, non tardare troppo».
Jefferson Toms annuì, ricacciò indietro le lacrime, abbracciò Doris senza spiccicar parola, e si precipitò allo spazioporto.
Un’ora dopo era già in viaggio.

QUATTRO mesi dopo, superate parecchie difficoltà, Toms era su Tyana, alla periferia della capitale. S’incamminò lentamente per la strada principale, larga e deserta. Ai lati, alcuni edifici imponenti si elevavano ad altezze vertiginose. Sbirciando nell’interno d’uno di essi, Toms vide alcuni macchinari molto complessi e lucenti pannelli di controllo. Servendosi del suo vocabolario tascabile inglese-tyaniano, riuscì a tradurre l’insegna su uno dei palazzi.
C’era scritto: Consulenza per i problemi del quarto stadio dell’amore.
Gli altri palazzi erano abbastanza simili; erano pieni di macchine calcolatrici, pannelli di controllo e cose del genere. Passò oltre all’Istituto di ricerche sul ritardato sviluppo affettivo, guardò abbagliato un palazzo di duecento piani che era la Casa per i ritardati emozionali, e ne adocchiò parecchi altri, egualmente interessanti. Lentamente, la vertiginosa verità si fece strada in lui.
Quella città era stata interamente dedicata alle ricerche ed agli studi sull’amore.
Non aveva tempo per riflettervi oltre. Di fronte a lui sorgeva il gigantesco edificio degli Affari generali dell’amore. Un vecchio stava uscendo dall’atrio marmoreo.
«Chi diavolo è lei?» chiese il vecchio.
«Io sono Jefferson Toms, della Terra. Sono venuto qui per imparare il Linguaggio dell’Amore, signor Varris».
Varris sollevò le sopracciglia candide. Era un vecchietto grinzoso, dalle spalle curve e dalle ginocchia tremanti. Ma i suoi occhi erano attenti e colmi d’un freddo sospetto.
«Forse lei pensa che il Linguaggio la renderà più affascinante agli occhi delle donne?» disse Varris. «Non ci pensi nemmeno, giovanotto. La conoscenza presenta i suoi vantaggi, naturalmente. Ma vi sono anche parecchi svantaggi, come poi dovettero scoprire i tyaniani».
«Quali svantaggi?» chiese Toms.
Varris sogghignò, mostrando un unico dente ingiallito.
«Lei non capirebbe, a meno che non sapesse già tutto. Occorre la conoscenza per comprendere i limiti della conoscenza».
«Ciononostante», disse Toms, «io voglio imparare il Linguaggio».
Varris lo fissò, pensieroso.
«Non è una cosa semplice, Toms. Il Linguaggio dell’Amore, e la tecnica che ne deriva, sono molto più complessi della chirurgia endocranica o della pratica delle leggi corporative. Occorre applicazione, molta applicazione, ed una vocazione fortissima».
«Mi applicherò. E sono certo di avere la vocazione».
«Molti credono di averla e non l’hanno affatto», disse Varris. «Ma non importa, non importa. È da molto tempo, ormai, che non ho più compagnia. Vedremo di fare qualcosa, Toms».
Entrarono insieme nel Palazzo degli Affari Generali, che Varris chiamava casa sua. Raggiunsero la Sala Principale di Controllo, dove il vecchio aveva sistemato una branda ed un fornello da campo. E lì, all’ombra dei giganteschi calcolatori, ebbe inizio l’istruzione di Toms.

Varris era un insegnante perfetto. All’inizio, con l’aiuto di un Differenziatore Semantico Portatile, insegnò a Toms come isolare la delicata apprensione che un uomo prova alla presenza della persona che finirà per amare, ad identificare la sottile tensione che si pone in essere non appena la potenzialità dell’amore si va concretando.
Queste sensazioni, imparò Toms, non dovevano essere espresse direttamente, poiché l’eccessiva franchezza spaventa l’amore. Debbono essere invece espresse attraverso similitudini, metafore, iperboli, mezze verità e bugie innocue. In questo modo si crea l’atmosfera adatta e si pongono le basi per l’amore. E la mente, ingannata dalle sue stesse predisposizioni, pensa alla marea crescente, al mare in tempesta, alle rocce nere ed ai campi di grano in erba.
«Bellissime immagini!» disse Toms, in tono di ammirazione.
«Sono soltanto pochi esempi», gli disse Varris. «Ora dovrà impararli tutti a memoria».
E Toms imparò a memoria una lunga lista di meraviglie della natura, imparò a quali sensazioni dovevano essere paragonate ed a quale stadio pre-amoroso esse si riferivano. Il Linguaggio era perfetto, a questo proposito. Ogni aspetto, ogni oggetto della natura corrispondente ad una fase dello stato pre-amoroso era stato catalogato, classificato ed elencato, insieme agli aggettivi qualificativi più confacenti.
Quando Toms ebbe imparato a memoria l’elenco, Varris lo erudì sulla percezione dell’amore. Toms imparò le piccole strane cose che determinavano uno stato amoroso. Alcune erano così ridicole che facevano ridere.
Il vecchio lo ammonì severamente.
«L’amore è una cosa seria, Toms. Mi pare che lei trovi spiritoso il fatto che l’amore è frequentemente condizionato dalla velocità e dalla direzione del vento».
«Mi sembra tanto sciocco!» ammise Toms.
«Vi sono cose anche più strane», disse Varris, e nominò un altro fattore determinante.
Toms rabbrividì.
«Non posso crederlo. È assurdo. Tutti sanno…».
«Se tutti sanno come agisce l’amore, perché nessuno è riuscito a ridurlo ad una formula? Quest’è un modo di pensare molto tenebroso, Toms; è cattiva volontà nell’accettare i dati di fatto. Se non è in grado di affrontare…».
«Posso affrontare qualsiasi cosa», disse Toms, «se è necessario. Continuiamo».

CON il passare delle settimane, Toms imparò le parole che esprimono il primo lampo di interesse, sfumatura per sfumatura, fino a che si arriva all’attaccamento vero e proprio. Imparò cosa fosse in realtà quell’attaccamento e quali fossero le tre parole che lo esprimevano. Questo lo introdusse alla retorica delle sensazioni, in cui il corpo ha una parte predominante.
A questo punto il Linguaggio diventava specifico anziché allusivo, e trattava delle sensazioni prodotte da certe parole e, soprattutto, da certi gesti.
Una macchinetta nera insegnò a Toms le trentotto sensazioni, diverse e separate, che potevano essere generate dal tocco di una mano, ed imparò a localizzare quell’area sensitiva, non più grande d’una monetina, che esiste proprio sotto la scapola destra.
Imparò un sistema di accarezzare completamente nuovo, che spingeva determinati impulsi ad esplodere — e perfino ad implodere — nel sistema nervoso ed a far piovere scintille colorate davanti agli occhi.
Imparò anche i vantaggi sociali d’una cospicua desensibilizzazione.
Imparò molte cose, a proposito dell’amore fisico, che aveva solo vagamente immaginato, e molte altre cose che nessuno aveva mai immaginato.
Era una conoscenza tale da intimidire. Toms si era sempre immaginato come un amatore per lo meno all’altezza della situazione. Adesso scopriva di non essere niente, ma proprio niente del tutto; e tutti i suoi tentativi meglio riusciti erano paragonabili alle effusioni di un ippopotamo innamorato.
«Che altro poteva aspettarsi?» chiese Varris. «Una buona arte amatoria, Toms, richiede molto studio, una costante applicazione, quanto qualsiasi altra abilità acquisita. Vuole andare avanti?».
«Fino in fondo!» disse Toms. «Perché, quando sarò esperto in quest’arte, io… io potrò…».
«Questo non mi riguarda», sentenziò il vecchio. «Torniamo alla nostra lezione».
Successivamente, Toms imparò i Cicli dell’Amore. L’amore, scoprì, è una forza dinamica che sorge e decade continuamente, secondo schemi ben definiti. C’erano cinquantadue schemi maggiori, e trecentosei schemi minori, quattro eccezioni generali e nove eccezioni specifiche.
Toms le imparò meglio del proprio nome.
Poi affrontò gli usi del Tocco Terziario. E non dimenticò mai il giorno in cui gli fu insegnato a che cosa assomigliava veramente un seno.
«Ma non potrò mai dire una cosa simile!» obiettò, inorridito.
«Ma è vero, no?» insisté Varris.
«No! Voglio dire… sì, credo di sì. Ma non è lusinghiero!».
Toms rifletté e scoprì che sotto l’espressione insultante si nascondeva un complimento, e in questo modo imparò un nuovo aspetto del Linguaggio dell’Amore.
Ben presto fu in grado di affrontare lo studio delle Negazioni Apparenti. Scoprì che per ogni gradazione d’amore esisteva una corrispondente gradazione di odio. Giunse a capire come bisogna considerare l’odio, come esso dia sostanza e corpo all’amore, e perfino quanta parte avessero l’indifferenza e la repulsione nella natura dell’amore.

VARRIS gli tenne un esame scritto che durò dieci ore e che Toms superò con voti altissimi. Era impaziente di finire, ma Varris si accorse che nell’occhio sinistro del suo allievo si era sviluppato un leggero tic nervoso, e che le sue mani tremavano leggermente.
«Lei ha bisogno d’una vacanza», disse il vecchio.
Toms pensava la stessa cosa.
«Credo che lei abbia ragione», disse, con impazienza male dissimulata. «Andrò a Cythera V per qualche settimana».
Varris, che conosceva di quale fama godesse Cythera V, sorrise cinicamente.
«È impaziente di mettere alla prova tutto quello che ha imparato, eh?».
«Bene, perché no? La conoscenza esiste per essere adoperata».
«Non prima però che chi la possiede ne sia veramente padrone».
«Ma io ne sono padrone! Non potremmo definire questa esperienza come una forma di studio? Come una tesi, ad esempio?».
«Non occorre nessuna tesi», disse Varris.
«Ma, dannazione!» esplose Toms. «Dovrò pure fare qualche esperimento. Dovrò pure provare in fase pratica tutto ciò che ho imparato! Specialmente l’Approccio 33-CV. In teoria suona molto bene, ma mi domando se funzioni egualmente bene in pratica. Non c’è niente di meglio che l’esperienza diretta, lei lo sa, per rafforzare…».
«E lei è venuto fin qui per diventare un super-seduttore?» chiese Varris, con evidente disgusto.
«Naturalmente no», disse Toms. «Ma un piccolo esperimento non…».
«La sua conoscenza della meccanica delle sensazioni sarebbe infruttuosa, a meno che lei non comprenda perfettamente l’amore. Ormai lei è troppo progredito per accontentarsi di un semplice brivido».
Toms rifletté e si accorse che Varris aveva ragione. Ma sporse avanti la mascella, con fare ostinato.
«Mi piacerebbe scoprirlo da solo».
«Allora può andare», disse Varris. «Ma non torni indietro. Nessuno dovrà accusarmi di aver sguinzagliato un insensibile seduttore scientifico nella Galassia».
«Oh, sta bene. Al diavolo tutto. Torniamo al lavoro».
«No. Se insiste ancora nello studio senza essersi concesso una vacanza, giovanotto, lei perderà la capacità di tradurre in pratica ciò che ha imparato. E non le sembra che sarebbe una faccenda spiacevole?».
Toms convenne che sarebbe stata veramente spiacevole.

«Io conosco il posto ideale», gli disse Varris. «Non c’è un luogo migliore per riposarsi dallo studio dell’amore».
Salirono sull’astronave del vecchio e viaggiarono per cinque giorni fino ad un piccolo asteroide senza nome. Quando atterrarono, il vecchio condusse Toms sulle sponde di un fiume vorticoso di acqua rossa, chiazzata da schiuma che pareva fatta di diamanti verdi. Gli alberi che crescevano sulla riva erano strani e striminziti, di un colore vermiglio acceso. Perfino l’erba non sembrava erba, dal momento che era azzurra ed arancione.
«Che strano!» boccheggiò Toms.
«È il luogo meno umano che io abbia mai visto in questo angolo della Galassia», spiegò Varris. «E, mi crede? ne avevo proprio bisogno».
Toms lo fissò, chiedendosi se il vecchio fosse impazzito; ma ben presto capì che cosa intendeva dire.
Per mesi interi aveva studiato le reazioni umane ed i sentimenti umani, e le soffocanti sensazioni della carne umana. Si era immerso nell’umanità, l’aveva studiata, vi si era bagnato, l’aveva mangiata e bevuta e sognata. Era un sollievo trovarsi qui, dove l’acqua era rossa e gli alberi erano striminziti e strani e vermigli, e l’erba era azzurra ed arancione, e non c’era proprio nulla che gli ricordasse la Terra.
Toms e Varris si separarono, poiché l’umanità dell’uno infastidiva l’altro. Toms trascorse giornate intere a passeggiare sulla riva del fiume, meravigliandosi di udire i fiori che gemevano quando lui si avvicinava. La notte, tre lune rugose si ripetevano un ritornello, ed il sole, al mattino, era diverso dal giallo sole della Terra.
Dopo una settimana, rinfrescati e rimessi a nuovo, Toms e Varris ritornarono a G’cel, la città tyaniana dedicata allo studio dell’amore.
Toms apprese le cinquecentosei sfumature del Vero Amore, dalla prima debole possibilità fino al sentimento supremo, tanto potente che soltanto cinque uomini ed una donna l’avevano provato, ed il più forte di loro era riuscito a sopravvivere per meno di un’ora.
Sotto la sorveglianza di una fila di piccoli calcolatori interdipendenti, studiò l’intensificazione dell’amore.
Imparò tutto sulle mille differenti sensazioni di cui è capace un corpo umano, e sui sistemi adatti per aumentarle, per intensificarle fino a renderle insopportabili, e per rendere l’insopportabile sopportabile e poi piacevole, fino al punto che l’organismo veniva a trovarsi prossimo alla morte.
Dopodiché, gli vennero insegnate alcune cose che non erano mai state tradotte in parole e che, per fortuna, non lo sarebbero state mai.
«E questo», disse Varris un bel giorno, «questo è tutto».
«Tutto?».
«Sì, Toms. Il cuore non ha più segreti per lei; non ne hanno, riguardo all’amore, né la mente né le viscere. Lei si è impadronito del Linguaggio dell’Amore. E adesso ritorni pure alla sua dama».
«Subito!» gridò Toms. «Finalmente lei saprà!».
«Mi mandi una cartolina», disse Varris. «Mi faccia sapere come è andata».
«Senz’altro», promise Toms. Strinse fervidamente la mano al suo maestro e partì per la Terra.

AL TERMINE del suo lungo viaggio, Jefferson Toms si precipitò a casa di Doris. Il sudore gli inumidiva la fronte e le mani gli tremavano. Ora poteva classificare questa sensazione come il Tremore Anticipatorio di Seconda Classe, con qualche vago sovratono masochistico. Ma questo non gli fu di grande aiuto… quello era il suo primo esperimento pratico e lui era, di conseguenza, molto nervoso. Aveva proprio imparato bene tutto?
Suonò il campanello.
Lei aprì la porta e Toms vide che era ancora più bella di quel che ricordava; gli occhi grigio-fumo erano appannati dalle lacrime, i capelli avevano il colore del fuoco d’un razzo, la sua figuretta snella aveva curve deliziose. Sentì di nuovo il nodo alla gola ed un improvviso ricordo di autunno, sera, pioggia e lume di candela.
«Sono tornato», gracidò.
«Oh, Jeff», disse lei, sottovoce. «Oh, Jeff».
Toms la fissava in silenzio, incapace di dire una parola.
«È passato tanto tempo, Jeff, e cominciavo a chiedermi se ne valeva davvero la pena. Adesso lo so».
«Lo… sai?».
«Sì, tesoro! Ti ho aspettato. Ti avrei aspettato per cent’anni, o per mille! Io ti amo, Jeff!».
E gli si gettò fra le braccia.
«Dimmelo, Jeff», mormorò. «Dimmelo!».

TOMS la guardò, indagò le proprie sensazioni ed i propri sentimenti, controllò le classificazioni relative, scelse gli elementi modificatori, verificò e tornò a verificare. E dopo le ricerche e le selezioni, e il raggiungimento dell’assoluta certezza, tenendo presente le proprie attuali condizioni mentali, senza trascurare di tener conto delle condizioni climatiche, delle fasi della luna, della velocità e della direzione del vento, delle macchie solari e di altri fenomeni che esercitavano un certo influsso sull’amore, disse:
«Mia cara, ti sono piuttosto affezionato».
«Jeff! Certo sarai capace di dire qualcosa di più! Il Linguaggio dell’Amore…».
«Il Linguaggio è maledettamente preciso», disse stupidamente Toms. «Mi dispiace, ma la frase “ti sono piuttosto affezionato” esprime esattamente quello che provo per te».
«Oh, Jeff!».
«Sì», mormorò lui.
«Oh, vai al diavolo, Jeff!».
Vi fu, naturalmente, una scenata penosa ed una separazione ancora più dolorosa. Toms si diede ai viaggi.
Lavorò un po’ di qua e un po’ di là; fece il ribaditore di chiodi presso la Saturno Casseforti, l’uomo di fatica a bordo del mercantile Helg-Vinosce, il bracciante in un kibbutz di Israel IV. Vagabondò per diversi anni nel Sistema Dalmiano Interno, vivendo soprattutto di elemosine. Poi, a Novilocessile, incontrò una simpatica ragazza bruna, le fece la corte e finì per sposarla e mettere su casa.
Gli amici sostengono che i Toms sono passabilmente felici, sebbene la loro casa sembri scomoda a parecchia gente. È un posto abbastanza simpatico, ma quel fiume rosso che rumoreggia nelle vicinanze è irritante. E chi può abituarsi agli alberi vermigli, all’erba azzurra e arancione, ai fiori che gemono, ed a tre lune grinzose che cantano un ritornello in un cielo estraneo?
A Toms tutto questo piace, e la signora Toms, se non altro, è una donna molto docile.
Toms scrisse una lettera al suo professore di filosofia sulla Terra, spiegando di aver risolto il problema del crollo della razza tyaniana. Il guaio della ricerca scolastica, scrisse, era il suo effetto inibitorio sulla capacità di agire. I tyaniani, ne era convinto, a furia di occuparsi tanto della scienza dell’amore, avevano finito per non essere più capaci di tradurlo in pratica.
Mandò anche una cartolina a George Varris, per dirgli semplicemente che si era sposato ed aveva avuto la fortuna di trovare una ragazza che gli sembrava “proprio sostanzialmente piacente”.
«Che fortuna sfacciata!» grugnì Varris, dopo aver letto la cartolina. «“Vagamente gradevole” è stato il meglio che io ho potuto incontrare!».

 - ROBERT SHECKLEY - Pubblicato nel mese di agosto 1963 su Galaxy anno VI  - n° 8 -