giovedì 20 agosto 2020

Mondi perduti

Aram Mattioli racconta in modo vivido il lungo e violento processo di colonizzazione messo in atto dai coloni bianchi contro i nativi indiani, interpretando gli eventi globali sullo sfondo dei fenomeni centrali, dal Settecento alla prima decade del Novecento. Allo stesso tempo, prende in considerazione il punto di vista dei «vinti» su un piano di parità e mostra come i popoli indigeni reagirono in vari modi all’accaparramento delle terre. Gli indiani subirono un vero e proprio attacco etnocida, che comportò la perdita di gran parte dei territori ancestrali, delle risorse naturali, delle basi di sussistenza, e del diritto ad autodeterminarsi. Dei numerosi «primi popoli» l’autore evidenzia strutture sociali, caratteri culturali e modi di vivere. In scene ricche di pathos, Mattioli descrive le battaglie decisive e ritrae con efficacia sia le persone comuni sia gli importanti protagonisti della politica, mantenendosi sempre in perfetto equilibrio tra la comprensione empatica e la sobria analisi scientifica, decostruendo le leggende del mondo occidentale per affinare la comprensione degli eventi reali. Un libro affascinante e innovativo sulla trasformazione del mondo americano, che getta nuova luce non solo sul passato ma anche sul presente degli Stati Uniti.

dal risvolto di copertina di: Aram Mattioli, "Mondi perduti. Una storia degli indiani d'America. 1700-1910". Einaudi.)

Il colpevole oblio dei nativi americani
 - di Massimo Teodori -

Toqueville, ne La Democrazia in America, aveva già sottolineato come l'incontro e lo scontro delle tre culture etniche del nuovo continente - l'indiana, la negra e l'europea - comportarono lo sterminio della prima, la riduzione in schiavitù della seconda, mentre i vincitori europei non furono in alcun modo influenzati dai vinti. La storia degli Stati Uniti è stata scritta in massima parte dai vincitori che hanno rappresentato a loro modo le vicende sociali, economiche e umane delle culture soccombenti, in particolare quelle dei nativi indiani consegnato ad un colpevole oblio favorito dall'assenza di un'autonoma tradizione scritta. La ricerca di Aram Mattioli (Mondi perduti. Una storia degli indiani d'America. 1700-1910) si contrappone alla storiografia egemone: assume il punto di vista delle popolazioni vinte che sono state spossessate dei territori ancestrali e delle basi materiali di sussistenza, massacrate dall'uomo bianco e deprivate dell'identità culturale e del diritto all'autodeterminazione.
In una sorta di contro-storia dei «mondi perduti», Mattioli illumina con passione il drammatico itinerario percorso dai nativi americani negli ultimi secoli. Nel 1492, nel nord America vivevano dai 5 a i 10 milioni di nativi, suddivisi in una miriade di «nazioni indiane» e, tre secoli dopo, agli albori degli Stati Uniti, l'intero continente era ancora occupato da quei «primi popoli».
All'inizio del Novecento, su 75 milioni di cittadini statunitensi, sopravvivevano solo 240mila nativi indiani, sconfitti militarmente, ricacciati nelle riserve, costretti all'assimilazione forzata. La triste sorte di quelle etnie si era compiuta nel giro di un secolo, travolgendo ogni resistenza, dopo cruente battaglie. A fine Settecento, il primo presidente degli Stati Uniti, George Washington, eroe dell'indipendenza americana, aveva manifestato un senso di vergogna per gli stermini dei coloni all'Ovest; e nel 1832, il prestigioso presidente della Corte suprema, John Marshall, aveva emesso una sentenza a favore del diritto dei Cherokee ad essere considerati una distinta comunità nello Stato della Georgia. Ma quelle opinioni di uomini saggi restarono isolate, senza alcun effetto sulla «violenza civilizzatrice» che dominava lo sviluppo della nuova nazione interamente protesa ad impossessarsi delle terre considerate «libere», ed a distruggere tutto ciò che non rientrava nei propri canoni. Mattioli ritiene che questa debba essere l'autentica interpretazione del colonialismo degli Stati Uniti, che per quanto sorto in antitesi all'impero britannico, si impadronì con la forza del continente in una crociata espansionistica, le cui principali vittime furono gli indigeni. La fame di terra dei coloni, le tecnologie delle comunicazioni ferroviarie e telegrafiche, la potenza delle armi moderne, il disprezzo per le «razze inferiori» alimentarono l'industrializzazione, l'urbanizzazione e la colonizzazione dall'Atlantico al Pacifico, annientando così i nativi che da secoli vivevano lì.
Nel 1830, il presidente populista Andrew Jackson emise la «legge sulla rimozione degli indiani», che gli conferiva il potere di trasferire i nativi all'Ovest del Mississippi verso le grandi pianure dove, nella seconda metà dell'Ottocento, si compì il tentativo di etnocidio che segnò la definitiva sconfitta degli indiani: «Le decisioni di fondo su come le popolazioni indigene avrebbero dovuto vivere, non furono prese dalle popolazioni stesse, ma da un'élite egemone che proveniva da fuori e perseguiva gli interessi dell'America Bianca».
Lo storico Frederick J. Turner sostenne nel 1893 che i coloni temprati dalla frontiera verso l'Ovest erano gli autentici rappresentanti della nuova cultura americana emersa dalla lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile popolato da nativi senza volto né storia.  All'inizio del XX secolo, gli indiani residuali stanziati in Oklahoma si rivolsero al presidente per formare nelle terre loro assegnate uno Stato solo di indiani, ma il Governo federale di Washington respinse la richiesta, sicché nel 1907 fu creato il 46° Stato dell'Unione eguale agli altri, indipendentemente dalla volontà degli indiani cui erano stati destinati quei territori. Quando nel 1905, Theodore Roosevelt, figlio dell'età dell'imperialismo, inaugurò la sua presidenza, volle che al corteo inaugurale partecipassero 400 indiani preceduti da sei capi su tre cavalli bianchi e tre neri addobbati con i loro copricapi di piume, ad eccezione di Geronimo, l'ultimo capo indiano che dal 1886 languiva con la sua gente nelle prigioni federali. [*] Quei vecchi nativi sconfitti speravano che il presidente concedesse condizioni di vita più decenti a quel che restava delle nazioni indiane, ma così non fu. Almeno fino a quando un altro Roosevelt, Franklin Delano, trent'anni dopo, nel 1934, impostò con l'Indian Reorganization Act una politica di convivenza. Oggi i nativi indiani, circa due milioni, per la prima volta hanno eletto negli Stati del Kansas e del New Mexico i loro deputati al Congresso, e insediato alcuni loro rappresentanti in diverse regioni del Sud e dell'Ovest.

- Massimo Teodori - Pubblicato sul Sole del 29/9/2019 -

[*] -  " In testa procedevano sei capi su tre cavalli bianchi e tre cavalli neri. Accanto a Geronimo (apache) e Quanah Parker (comanche), che si erano opposti armi in pugno all’espansione dell’impero dei coloni, c’erano anche American Horse (sioux), Sapiah (ute), Little Plume (blackfeet) e Hollow Horn Bear (sioux). Tranne Geronimo, tutti quanti indossavano magnifici copricapi di piume e avevano il viso dipinto alla maniera tradizionale. Subito dietro di loro incedeva una banda musicale indiana che faceva strada a trecentocinquanta studenti in uniforme della Carlisle Indian Industrial School. Il mondo ormai tramontato dell’Ovest indiano era rappresentato per l’ultima volta dai vecchi capi, mentre il radioso avvenire apparteneva ai baldanzosi allievi della Carlisle: ecco cosa si dava a intendere alle masse con quell’esibizione. Senza dubbio il comitato organizzativo voleva mostrare al pubblico la nuova realtà in cui vivevano i giovani indiani d’America e i «progressi» fatti nel frattempo grazie alla rieducazione.
A un giornalista che gli chiedeva come mai avesse invitato al suo insediamento i capi indiani e il «maggior assassino» della storia americana, vale a dire Geronimo, il presidente rispose che voleva offrire alla gente un bello spettacolo e un «pittoresco tocco di colore». Gli occhi della folla non riuscivano a staccarsi dai capi indiani e dai loro cavalli mentre, fianco a fianco, percorrevano la Pennsylvania Avenue, eclissando gli allievi della scuola modello di Henry Pratt che marciavano poco dietro di loro. Solo di recente la ricerca ha risolto l’enigma del perché quei condottieri avessero accettato di rendere onore al presidente cowboy. Geronimo, Quanah Parker e gli altri non avevano partecipato all’inaugurazione né per ingenuità, né per trarne qualche tipo di vantaggio, ma piuttosto nella speranza che ciò potesse avere ripercussioni positive sui loro popoli oppressi .
" (da Aram Mattioli, "Mondi Perduti" )

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