martedì 4 agosto 2020

L’incubo della Storia


E quando ci viene chiesto perché "Ulisse", ambientato in una data abbastanza precisa del passato, perché Ulisse, in virtù della sua distanza temporale, non debba essere considerato un romanzo storico altrettanto pienamente di quanto lo è "Guerra e pace", ecco che la risposta si basa sull'assenza di un grande evento storico che faccia da mediatore tra quelli che sono i suoi tempi storici simultanei ed il tempo storico del mondo pubblico. Ci troviamo in una città sotto occupazione coloniale  (abbiamo visto passare sotto i nostri occhi la carrozza del Governatore Generale inglese), ma l'unica cosa ad essere candidata ad evento storico pubblico (l'azione degli "Invincibili" [gruppo nazionalista irlandese]) risale a vent'anni prima, e viene mediata solo dal pettegolezzo e dalla memoria collettiva.
Il romanzo storico non deve mostrare né esistenze individuali né avvenimenti storici, bensì l'intersezione di entrambe le cose: l'evento deve trapassare e trasfigurare simultaneamente il tempo esistenziale degli individui ed i loro destini. A tal riguardo, amo citare la grande poesia di Brecht: «O vicende del tempo, per noi, speranza del popolo!» ecc. Pertanto, il romanzo storico non sarà la descrizione dei costumi e dei valori di un popolo in un determinato momento della sua storia; non sarà la rappresentazione di grandiosi eventi storici; e tantomeno sarà la storia  della vita degli individui comuni in situazioni di crisi estreme; e di sicuro non sarà la storia privata di grandi figure storiche (cosa che Tolstoj sosteneva con veemenza, e contro cui argomentava propriamente).
L'arte del romanzo storico non consiste nella rappresentazione vivida di nessuno di questi aspetti, su questo o su quel piano, ma piuttosto sull'abilità e sull'ingegnosità per mezzo delle quali si configura e viene espressa quella che è l'intersezione di tutti questi aspetti; e non si tratta di una tecnica e neppure di una forma, bensì di un'invenzione singolare, la quale in ogni caso deve essere prodotta in maniera nuova ed inaspettata, e che in ogni caso non è suscettibile di essere ripetuta.
L'archetipo di una simile intersezione è, senza dubbio, "La Certosa di Parma", dove l'ingenuo ed entusiasta Fabrizio  parte per andare ad unirsi a Napoleone ed arriva a Waterloo in tempo per assistere ad una situazione caotica allarmate ed inspiegabile, dal momento che solo più tardi riuscirà a capire di essere riuscito a vedere probabilmente il suo imperatore proprio nel momento della sua disfatta. Stendhal ebbe una congrua esperienza storica personale, dal momento che era stato presente in Russia in quelle medesime battaglie che Tolstoj avrebbe rappresentato circa 25 anni dopo. Tuttavia, tutto ciò che egli intendeva mostrare ne La Certosa non era una battaglia, ma l'impossibilità di rappresentare tale evento e perfino l'insensatezza di attribuirle un nome generico o astratto come "battaglia".

(Fredric Jameson, Il romanzo storico è ancora possibile? Conferenza presentata nel convegno "Riconsiderando il Romanzo Storico" a cura dell'Università della California, il 26 maggio 2004, interamente disponibile a questo link, in spagnolo, da cui è stato da me tradotto)

L’Incubo della Storia

Le osservazioni svolte da Jameson - che articolano Tolstoj, Stendhal e Joyce intorno alla questione del romanzo storico (e di come il rifiuto della «ragione storica» e delle sue lezioni siano il primo passo in direzione di una definizione dell'impossibilità del romanzo storico nel periodo del modernismo all'inizio del XX secolo) - passano attraverso le sue considerazioni a proposito di Ulisse senza che, tuttavia, egli faccia riferimento alla famosa frase di Stephen Dedalus: la Storia - aveva detto Stephen - è un incubo dal quale sto cercando di svegliarmi. Una frase, questa, che si trova all'inizio del romanzo, nel secondo capitolo (per quello che è lo schema degli episodi, il secondo capitolo è dedicato al Nestore di Omero, in cui Telemaco cerca di conoscerlo più di quanto lo conosca suo padre); la scena si svolge nella Scuola, il colore è il Marrone, il simbolo è il Cavallo, la tecnica è quella del Catechismo e l'arte è per l'appunto la Storia. Dedalus è un professore, e la prima metà del capitolo si svolge nell'aula davanti agli allievi (la seconda metà, nell'Ufficio del Supervisore, davanti al quale Dedalus pronuncia la famosa frase).
Nel secondo capitolo del romanzo di Joyce, la Storia come Incubo può assumere, quanto meno, due forme specifiche e circoscritte - anziché diventare un'affermazione più ampia di ciò che è, per esempio, il rapporto tra il modernismo e la storiografia. In primo luogo, questa forma potrebbe essere la quotidianità dell'aula che vede Dedalus confrontarsi con degli allievi cattivi e disinteressati: un «incubo» che allontana sempre più l'insegnante da quella vita cui tiene davvero, la quale si trova ... per l’appunto, al di là. In secondo luogo, questa forma potrebbe essere il concetto che della storia ha il Supervisore Garrett Deasy, e che Dedalus è costretto ad ascoltare, dal momento che è lui quello che lo paga (qualcosa che in quel capitolo di fatto avviene, e che spiega il rapporto tra i due personaggi). L'«incubo» potrebbe anche essere una visione ristretta e limitata della Storia, dimostrata dal Supervisore, il quale ostenta in maniera eloquente il proprio antisemitismo e la sua mentalità pro-imperialista (pro-Inghilterra).
La relazione tra Joyce e la Storia, o tra Dedalus e la Storia in quanto Incubo (un'idea che viene presentata nel capitolo dedicato alla Storia nell'Ulisse e che si svolge in un'aula della scuola), deve tener conto della connessione tra Joyce e Vico. Una relazione che si basa sul desiderio di pensare quelle che sono le continuità che si trovano sotto tensione nel contesto storico, e non una sorta di teologia forzosa,  le quali organizzano il divenire storico secondo una forma naturalizzata. La narrazione di Joyce - confusa, caotica, intrigante - cerca di tener conto dell'irrazionalità che continua a riverberare in tutto ciò che è razionalità: i residui del passato ancora vivi ed operanti nel presente non devono essere eliminati, come vorrebbe il positivismo (o la storia dei vincitori, così come ad esempio viene definita da Walter Benjamin), ma vanno rappresentati in tutta la loro potenza ed impurità (Omero a Dublino, 1904). Secondo quella che è la terminologia di Foucault, usata ne L'Ordine del Discorso (1970-71), possiamo dire che Vico, nel suo contesto immediato, non era nel vero; la sua opera non faceva parte da ciò che era la verità stabilita dall'Illuminismo, poiché Vico predicava una continuità, una sorta di isomorfismo tra irrazionale e razionale, fra passato e presente (un po' come farà Lévi-Strauss, ne Il Pensiero selvaggio, del 1962, con la coppia «selvaggio» e «civilizzato»), mentre invece i Lumi cercavano la rottura, la scissione, la novità radicale.
Ancora la celebre frase di Stephen Dedalus: «History is a nightmare from which I am trying to awake». Quell'incubo è condiviso da un altro giovane impegnato nell'insegnamento della storia: il Michel di André Gide, protagonista de "L'immoralista", pubblicato nel 1902, due anni prima dell'anno in cui si svolge Ulisse. Michel vuole essere per Gide un ritratto del processo del ... disincanto: la sua tubercolosi è una sorta di manifestazione esterna di qualcosa di profondamente radicato - la sua malsana fissazione per tutto ciò che è antico, passato, morto, ed in tal senso è una specie di applicazione nella fiction di quello che Nietzsche critica nella sua Seconda considerazione inattuale. Nel momento in cui Michel comincia a curare la sua tubercolosi, egli comincia a perdere il suo ossessivo interesse per il passato e per le sue forme morte. A vent'anni, Michel parla già correttamente in greco, latino, arabo, persiano, ebraico e, cosa fondamentale, francese - la Lingua dell'Impero Immateriale, così come assai spesso Michel la descrive nel corso dei suoi viaggi verso l’«Oriente» e l'«Africa», e in quella che è la sua relazione con gli «arabi». Facendo riferimento in maniera un po' selvaggia al commento fatto da Edward Said al libro di Gide, nel suo "Cultura e Imperialismo", si può anche dire che, ne L'immoralista, di codesta storia-incubo da cui ci si vuole svegliare, fa senz'altro parte il colonialismo, i suoi tic, i suoi gesti e i suoi punti ciechi.

fonte:Um túnel no fim da luz

Nessun commento: