lunedì 31 marzo 2014

Lampi di futuro

claustrofobia

Se ci basiamo sui presupposti che Marx utilizza nel terzo volume del Capitale, il tempo di lavoro superfluo non dovrebbe esistere sotto il capitalismo. Allo stesso tempo, il modo di produzione del capitalismo, è quello di produzione di plusvalore, cioè tempo di lavoro che è superfluo per la società. Ciò significa che quando ci troviamo di fronte al lavoro superfluo, nella giornata di lavoro sociale, dovrebbe scoppiare una crisi ed il tempo di lavoro superfluo si dovrebbe svalutare.
Per quasi settant'anni, il capitalismo ha continuato ad andare senza eliminare il tempo di lavoro superfluo. Praticamente, tutta l'accumulazione, a partire dalla seconda guerra mondiale, ha assunto la forma di capitale superfluo, e quando questa massa di capitale superfluo si dovesse svalutare, sprofonderà con sé l'intero modo di produzione. Il capitalismo, come modo di produzione, nei fatti, è già morto; quello che vediamo in vita è solo la forma di accumulazione di capitale superfluo. Tutti gli sforzi da parte dello Stato (fascista) sono volti, nel presente, a cercare di impedire la svalutazione del capitale in eccesso. Alla fine, lo sforzo fallirà e la svalutazione che è stata procrastinata per settant'anni esploderà in un pugno di giorni, o di settimane, al più. Abbiamo già assistito ad un evento del genere, con il crollo dell'Unione Sovietica; e se un capitale pianificato a livello centrale può implodere in poche settimane ...
Quasi tutti i marxisti sostengono che la fine del capitalismo non coincide con il comunismo. Il capitalismo - afferma Postone - non può semplicemente crollare, senza che questo non apra la strada ad una sorta di barbarie. Robert Kurz argomenta, in risposta, che laddove il capitalismo crolli senza una rivoluzione, avrà corso quello che Postone definisce barbarie; o che a mio avviso si potrebbe anche definire "fascismo". La descrizione della barbarie, così come viene fatta sia da Postone che da Kurz, assomiglia sorprendentemente al nostro presente e vede un paesaggio di megalopoli occupate da una popolazione proletaria superflua, controllata "poliziescamente" dallo Stato. Sull'economia politica della barbarie, non abbiamo alcuna letteratura, ragion per cui non sappiamo bene con che cosa stiamo avendo a che fare. Così, non sappiamo qual è la differenza tra la barbarie ed il socialismo: entrambi sembrano condividere l'implicazione che il capitalismo è crollato, ma il socialismo assume che la classe operaia abbia preso il potere. Ragion per cui, va assunto, quanto meno, che nella barbarie la classe operaia non è andata al potere. Quindi, il capitalismo non c'è più, e il proletariato non sta governando. Allora, a questo punto chi sta esercitando il potere?

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Nella sua critica al Programma di Gotha, Marx parla di un periodo di trasformazione rivoluzionaria in cui si passa dal capitalismo al comunismo. Sappiamo che il socialismo coincide a quel periodo di trasformazione, quando la trasformazione avviene sotto il governo del proletariato. Potrebbe benissimo essere che la barbarie coincida con la trasformazione sotto il governo del capitale! Un periodo di transizione, durante il quale il proletariato non è in grado di assumere il potere, ma il capitalista non è più in grado di continuare a detenerlo. Un genere di formulazione che appare negli scritti di Lenin, quando si riferisce al "dualismo di poteri". Del resto, anche il socialismo si è rivelato barbarie in un sistema in cui il capitalismo era crollato ma il proletariato non esercitava alcun ruolo, arrivando a porre così la questione se ci sia davvero o no, il comunismo, alla fine del cammino, o se sia la barbarie, lo stato permanente dell'umanità; o se la barbarie, come tutti gli altri modelli, abbia una sua traiettoria.
La traiettoria del socialismo comincia con l'abolizione del lavoro salariato e con lo stabilire il principio secondo cui "chi non lavora, non mangia!" Viene abolito il lavoro salariato, ma il livello di sviluppo delle forze produttive non consente che sia il lavoro stesso, ad essere abolito. Viene istituita una forma di Stato in cui l'accesso alle forme di consumo viene fatta dipendere dal contributo in lavoro. Questa è la traiettoria del socialismo, alla fine il bisogno e la richiesta di lavoro dovrebbe sparire, e la società passerebbe al regno di "ciascuno secondo i suoi bisogni".
E la barbarie? Il fatto che il lavoro salariato non viene abolito ne farebbe conseguire che non ci può essere alcuna transizione verso il comunismo e che siamo impigliati per sempre in un inferno di schiavitù salariale che non produce più valore. Sarebbe uno stato permanente, la fine della storia ...
Ma anche la barbarie, come il capitalismo, dovrebbe poter essere sottoponibile ad un'analisi critica. Il lavoro perde progressivamente ogni sostanza, cioè la sua capacita di produrre valore. Il denaro si svaluta sempre più fino ad arrivare a zero. Lo Stato è costretto ad assumere il controllo di sempre più attività economica e l'occupazione ristagna sempre di più. Potrebbe assomigliare ad una traiettoria, tutto questo.

domenica 30 marzo 2014

Alchimisti

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Neal Stephenson, alchimista di fine millennio
di Domenico Gallo

Nel giugno del 1954, il matematico inglese Alan Turing decise di togliersi la vita avvelenandosi, forse morsicando volontariamente una mela intinta nel cianuro, trovata a fianco al suo cadavere. Alcuni storici, tra cui Andrew Hodges, autore di Storia di un enigma. Vita di Alan Turing, sospettano che possa essere stato ucciso dai Servizi Segreti di Sua Maestà, proprio come Lady D. Indubbiamente la gratitudine non è una qualità diffusa tra i regnanti, visto che, anche se Turing non venne assassinato, certo fu costretto al suicidio dalla bestiale legislazione inglese che condannava l’omosessualità come un crimine. Così morì Turing, insieme a Wittgenstein il più grande matematico del Novecento, anch’egli additato quale omosessuale.
La vita scientifica dei primi cinquant’anni del secolo è tuttora poco considerata dagli intellettuali, poco inclini per indole alla profondità del pensiero, e sarebbe destinata a essere dimenticata se quei cialtroni del cyberpunk non avessero resuscitato Einstein, Heisenberg, Kantor, Turing, Hilbert e Gödel, nel tentativo di sondare le premesse culturali dei fenomeni di fine millennio. La letteratura cyberpunk è stata l’unica espressione artistica in grado di porsi davanti ai fenomeni di globalizzazione e di diffusione dell’information technology senza pregiudizi, e per questo ha avuto in mano alcune delle chiavi necessarie per decifrare l’enigma del presente. Soprattutto la perdita d’importanza politica e sociale di alcuni settori produttivi, quali le aristocrazie operaie statunitensi, ha portato milioni di garantiti a osservare inermi l’incedere del proprio declino.
Il declino dell’occidente, che vede negli USA il luogo di storica anticipazione, è lo strato su cui si poggiano le opere di Neal Stephenson, sia i romanzi di science fiction come Snow Crash e The Diamond Age, che i political thriller firmati con lo pseudonimo di Stephen Bury, Inteface e Cobweb. I risultati sono diseguali, spesso ambigui, tanto che le opere a firma di Bury, di cui Stephenson divide le responsabilità con tal Frederick George, sono apertamente reazionarie e orientate alla nostalgia di una civiltà statunitense legata alla terra e alle tradizioni. Si tratta di tradizioni quasi costituzionali, antirazziste, dalle quale emerge uno spirito cooperativo e solidale di stampo contadino, una discendenza intellettuale delle lotte sociali tra agricoltori e allevatori. Questo spirito americano latente in alcune persone, indipendentemente dalla loro collocazione politica - tanto è vero che i “buoni” aderiscono al Partito Repubblicano- conduce a unioni sovversive per sventare un gigantesco e diabolico complotto. In Cobweb, romanzo scorrevole tanto da meritare l’affronto di essere considerato come un mancato bestseller, viene affrontata la minaccia batteriologica di Saddam Hussein, ma in Interface il complotto è più saggiamente multinazionale, portato avanti da imponderabili gruppi di pressione economica, da holding fantasma, da strutture deviate dello Stato. Gli Stati Uniti protagonisti di Interface ricalcano la descrizione di Jeremy Brecher. I paesi del Terzo Mondo, attraverso legislazioni compiacenti, offrono il loro territorio a sperimentazioni tecnologiche e produzioni impossibili negli Stati Uniti e in Europa, persone colte vengono espulse dal mondo del lavoro in seguito ai processi di downsizing  aziendali e ridotte in stato di povertà, i salariati convivono con debiti strutturali da cui non riescono a liberarsi, intere comunità, a bordo di pickup, si spostano in cerca di lavoro e si accampano nei pressi delle aziende per il tempo dell’impiego. A causa di questa corsa verso il basso aumenta l’odio razziale tra i bianchi che vedono aumentare la concorrenza degli emigrati, che si accontentano di salari più bassi, di orari irregolari, di condizioni di lavoro meno sicure. In questi Stati Uniti post reaganiani descritti molto realisticamente, lo stesso presidente, grazie a un chip impiantato nel cervello che lo interfaccia agevolmente con un software in grado di determinarne le azioni, è in mano ai media, e con lui l’intera nazione. Se il presidente è un oggetto dei media, come la first lady Nicole de I simulacri di Philip Dick, allora tutti gli USA altro non sono un grande talk show.

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L’esaurimento del paradigma modernista e l’avvento di una nuova era, forse una New Age propriamente detta, come suggerisce Mark Dery in Escape Velocity, assumono ben altra tensione in Snow Crash e in The Diamond Age. Intanto la narrazione perde il contesto socio-culturale del presente, consentendo a Stephenson impareggiabili descrizioni di società future che spingono al massimo l’accelerazione dei segni di mutazione. Se per recapitare una pizza, come accade in Snow Crash, si attraversano normalmente stati grandi come un rione ed enclavi esclusive dai confini resi impenetrabili da tecnologie militari letali, nuove forme di stato prendono il sopravvento. Si tratta di non-lieux, i non luoghi introdotti da Marc Augé, geografie nemiche della residenza, come il raft, quasi uno sciame di imbarcazioni che solo da lontano assume un’unità, dei confini, ma, avvicinandosi, si mostra come un brulicare di enti autonomi, diversi tra loro, ma orientati a un unico fine: la sopravvivenza biologica. Sono le conseguenze dirette dell’information technology, della dislocazione dei processi produttivi, dell’espandersi dell’unica vera merce: l’informazione. Se la geografia è l’attributo più appariscente e immediato delle radicali modificazioni che si coagulano in una nuova era, è la tecnologia a indurre le modificazioni stesse. Come scrive Kevin Kelly, il futuro delle macchine è la biologia, ed è forse per questo che le descrizioni delle nanotecnologie che troviamo in Diamond Age le rendono costantemente associabili agli insetti. In questo contesto diventa sempre più difficile distinguere tra ciò che è natura, quasi dato a priori rispetto all’avvento dell’uomo, e ciò che è fatto dall’uomo, artefact. Come verifica la piccola Nell di The Diamond Age, le macchine possono costruire altre macchine, anche attraverso le strutture ricorsive tanto care a Turing, e, in particolare, macchine diverse da se stesse, comprimendo in un’unica generazione gli effetti della selezione naturale. In questo senso si appresta una nuova era della natura, in cui la tecnica si è evoluta fino a ricongiungersi con la natura stessa. Ma la natura di Stephenson è Natura, in quanto dotata di attributi primordiali, violenti, sessuali. Come scopre il protagonista di Snow Crash, la nascita dell’informatica risale almeno ai Sumeri, e le conoscenze dell’uomo, in modo particolare quelle più avanzate, tendono a mescolarsi con saperi dimenticati. Il grande segreto di The Diamond Age, il “seme”, riconduce direttamente alla trilogia de Gli Illuminati di Robert Shea e Robert Anton Wilson, a una cultura underground con i suoi atteggiamenti alternativi puntati sul futuro e sul passato non ufficiale, in contrasto con il migliore dei presenti possibili progettato da Richard Nixon.
The Diamond Age presenta molteplici aspetti che richiamano Zardoz, il discusso film di John Boorman del 1973. Il complotto planetario che consente la creazione del “seme” attraverso l’utilizzo strumentale dell’esistenza delle persone e la predeterminazione delle esperienze, come nel caso della protagonista Nell e dell’ingegnere nanotecnologico Hackworth, è del tutto simile alla strategia di distruzione del Vortex, la comune agricola high tech i cui membri hanno raggiunto l’immortalità. Anche in quel caso la natura era capace di insorge con violenza per ricondurre a un percorso insondabile, ma nel caso di Stephenson la tecnologia non ha allontanato l’uomo dalla natura, semmai è stata in grado di ricondurlo proprio attraverso l’information technology.
Viene dunque rivisitato il dilemma di Turing su cosa sia macchina e su cosa sia umano, e secondo Stephenson non c’è più alcuna differenza. Congegni nanotecnologici annidati nel sangue umano passano da una persona all’altra attraverso i rapporti sessuali, si fondono per costituire una nuova macchina più complessa, come pacchetti TCP/IP dispersi per internet in attesa di essere letti e assemblati, e formano un nuovo sistema di comunicazione in cui le persone stesse sono i server e router. “Come la Rete Asciutta (fatta di cavi a fibra ottica e rame) questa Rete Umida poteva essere usata per compiere calcolo, per fare girare programmi”. Umida perché immersa nel sangue, nello sperma, nella saliva, nei sieri fisiologici, parente lontana dell’AIDS ma fornita di ben altre informazioni.
The Diamond Age, come ogni storia esoterica e di complotto che si rispetti, ruota attorno alla ricerca di un personaggio misterioso, l’Alchimista, che altro non è che la persona stessa che lo cerca, l’inconsapevole ingegner Hackworth. Caso vuole che “l’alchimista” sia stato anche il soprannome di Alan Turing, almeno così lo chiamava amichevolmente la scrittrice Lyn Newman...

- Domenico Gallo - da "Pulp Libri" -

sabato 29 marzo 2014

Vittorie

Fortini Elio_Vittorini

Ma esisteva Vittorini ?
di Franco Fortini

“Uno degli anni in cui noi uomini d’oggi si era ragazzi o bambini…”. Con questo “c’era una volta” comincia l’ultima opera, postuma, di Vittorini Le città del mondo. E vuol dire nell’infanzia del mondo e in quella nostra. È un universo adamitico, Sicilia che un Icaro sorvola, veduta celestiale dal “Balcone delle Madonie”. Sono proprio queste o altre simili pagine di Vittorini, lucidi idillii piscatorii o favole silvestri, a farci intendere quale spietata metamorfosi il secolo abbia apparecchiata a tutti noi, non solo a quel poeta bucolico.
Negli anni Venti e Trenta, più vicino agli ermetici, Bilenchi cercava un suo nudo disegno attonito. Vittorini, come certamente Montale, dai divieti del Ventennio trovava fomento ad un uso dei simboli, delle mitologie delle origini e dei poteri tellúrici o magici, quali aveva letti in Lawrence e in tanti altri inglesi, anche più che negli americani, che tutti sempre rammentano. Di quelle contaminazioni culturali, avventurose e spesso rovinose per gli autodidatti, elaborò il suo miele. Ma, per riuscirvi, ebbe bisogno di strafare; tanto col faticoso sistema di iterazioni ed ecolalie che fu la più riconoscibile delle sue sigle, quanto col manierismo sottilissimo del suo maggiore esito; che, poco ascoltata, Maria Corti aveva fin dal 1974 indicato proprio in Le città del mondo.
Come i suoi amati arabi o l’Ariosto o gli spagnoli d’oro o il Marino, sbagliando, errando, riesce fino a verdi radure luminosissime dove si ode il canto delle fenìci. Mentre sono piuttosto le figure e le situazioni da Garofanoa Sempione a Erica a Le donne di Messina e La Garibaldina, a parere oggi più remote di quanto non sarebbero ad una lettura meno prevenuta. Fa eccezione il nero meteorite psichico di Conversazione proprio pochi giorni or sono ripubblicata da Rizzoli con disegni di Guttuso, e al centro di un convegno che si svolge a Viareggio l’1 e il 2 febbraio.
Per parte mia credo che la sua opera abbia raggiunto vittoria solo in due momenti, opposti fra loro. Il primo è quello lirico, che si suddivide a sua volta in due parti, tenebrosa la prima (discesa alle Madri, di Conversazione), lucente la seconda (e rapita di stupefazione onirica, in Le città), l’altro è un libro a torto ritenuto macchinazione propagandistica, errore e fallimento: Uomini e no. Intendo, nella sua prima versione, 1945. Unico fra i lettori e i critici italiani, Noventa vide fin da allora che Vittorini si sporgeva in quel libro al di là di sé medesimo, in una situazione “russa”, dove l’episodio resistenziale e terroristico è, a un tempo, tutto convenzionale ma anche tutto – oggi lo sappiamo bene – profetico. Berta è il solo personaggio vittoriniano che (in termini non ignoti a un Cernicevskij) contesti radicalmente, con pochissimi gesti e parole, l’eroicismo letterario dell’autore. Pragmatismo e comportamentismo che per poco più di un decennio egli aveva potuto credere marxistico avevano reso Vittorini (e il suo sosia) diffidente di ogni comunicazione soprattutto verbale. Ed è invece a parole che Berta vuole chiarire la sua situazione di donna di due uomini; dove la parola non è in funzione di letteratura o di melodia ma di scelte etiche. Enne Due, posto di fronte a una donna che è anche linguaggio comunicativo, fugge allora verso l’infanzia, manca il rapporto erotico; e la sua volontà di purezza e tensione, verginale e asessuata, si rovescia in virilismo e durezza.

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Lo straordinario esito del libro, nel suo apparente scacco romanzesco, è di darci uno dei più inattesi e profondi autoritratti dell’autore (e di molti, di allora e di oggi), del suo arcangelismo, segnato da una crepa o ferita occulta che gli amici avvertirono sotto l’apparenza integra di Elio. Tanto che Vittorini è tornato ad apparire loro in sogno o visione e sempre come figura di profilo o di fuga; a segno da farli dubitare avesse mai avuta realtà.
Ci siamo urtati, spesso e a lungo, caratteri irreconciliabili. Lui “contatto passionale con le cose”, come scrisse, e col particolare e il concreto, io, con l’astratto, il negativo, e l’invisibile. Non mancò chi speculasse su quei contrasti, attizzandoli. Distanti, ne abbiamo sofferto. Ma Elio non aveva dimenticato, né io, il primo quinquennio del dopoguerra. Dopo di allora gli ho sentito pronunciare parole cattive (anche contro di me); meschine mai. Sfavillava d’ira contro i pedanti, i professori, gli esangui. Odiava tenebre e pietà... Una volta, ammalato, in casa sua (penombra, un letto basso) disse, con quel suo affetto irato: “In punto di morte vorrei ancora guardare laggiù, dalla finestra” – e verso le persiane voltava di scatto la mascella e la gran bocca saracena, immobili le spalle e le mani piantate sul lenzuolo.
Nome e opera di Vittorini dimorano oggi nella medesima luce d’eclisse che già aveva avvilito Pavese. E, credo, per le medesime ragioni; pessime ma irresistibili. Che il suo nome non torni mai se non per ironia sulle pagine dei nostri attuali maestri del non–pensiero non dovrebbe però troppo deporre a suo favore: quel che è mutato è proprio quel che egli perseguì con maggiore coerenza e cioè l’idea di una letteratura vivente che avesse il compito di evitare l’invecchiamento del mondo. Si è adempiuto uno dei voti di Asor Rosa: che la letteratura smettesse di pretendere di essere tutto, augurandosi proprio per questo di poter essere qualcosa. E lo è, infatti, quanto basta perché si sorrida come di ingenui ragazzi di coloro che ancora venti o trenta anni fa, pensavano di poter dire, nella tradizione romantica rianimata dalle avanguardie, qualcosa sulle “verità ultime” nelle forme della lingua nazionale
Certo, se torno a leggere i tormentosi appunti che una pietà forse ingiusta di studiosi e di amici volle pubblicare poco più di venti mesi dopo la morte di Vittorini, col titolo di Le due tensioni, ritrovo lo scoramento che me ne venne allora, di fronte a quell’ininterrotto accumulo di affermazioni esasperate e di razionalizzazioni incalzanti, dove si leggeva il meglio e il peggio della sua intelligenza. Il peggio, che era presunzione di onnipotenza intellettuale; il meglio, che era fede in valori verificabili potenzialmente da tutti. Da quel peggio gli era sempre venuta la scarsissima attenzione a idee che, contraddicendolo, richiedessero alla sua mente la pazienza, virtù a lui sempre nemica, e quindi la orgogliosa disperazione del rovello autocritico, fatta di rovesciamenti radicali e perciò infruttuosi.
Da quel meglio traeva invece una sovrabbondante passione per i moti innovatori degli individui e della storia che, nella oratoria della sua prosa saggistica, non si dispiegava soltanto ma coraggiosamente proponeva a modello di un possibile altro; e comune linguaggio della comunicazione, di un “volgare” di genti liberate. Diario in pubblico, titolo perfetto, fu l’ultimo gesto di scrittura italiana rivolto in quella direzione, dove si cercasse ancora equilibrio fra il narcisismo della letteratura che parla di se stesso e l’altruismo di un linguaggio che si vuole di relazione. L’ultimo; perché se Vittorini aveva saputo superare e conservare l’estetismo della sua educazione nell’ampiezza di una letteratura internazionale di grandi miti e di catastrofi atroci e generose, non aveva retto ai trionfi del nuovo Capitale, nella cui “scienza” aveva pur continuato a credere fino alla fine.
Era infatti un “progressista”; e le contraddizioni del progresso lo ammutolirono. Lavorava ancora al progetto d’una rivista internazionale quando s’accorse che l’età dei viaggi, ossia del suo più amato mito e simbolo, era finita. Volse in odio l’amore per la propria giovinezza. Delirò di industria come luogo della ricerca innovatrice e rivoluzionaria. Eppure nel suo ospedale, poco prima della morte, lette le accuse di populismo rivolte alla sua opera passata, lo sentii rivendicare, da amico quale era, le radici della propria e mia natura e difenderle da quelle che vedeva come imminenti esaltazioni tecnocratiche.
Chissà che anno era. Forse la prima manifestazione di studenti attaccata dalla polizia. Contro la Spagna di Franco. Una carica, alcuni arresti. Con altri vidi Vittorini venire avanti; sceso dalla sua casa di via Gorizia. Non gli andai incontro, anzi mi allontanai. Due carabinieri mi fermano e fra di loro, come Pinocchio, mi avvio al cellulare. La strada sgombra sotto le lampade; la folla, in un silenzio improvviso, premuta sui marciapiedi. Alta, gridando, la voce di Elio: “Arrestate anche me, sono uno degli organizzatori!”. Detto fatto. Agguantano anche lui ed eccoci fra i giovani arrestati. Il giorno dopo lasciai alla portineria di Elio un esemplare della prima edizione italiana dei Miserabili, con un biglietto, per farlo ridere, alla pagina celebre “Ci sono anch’io”, quando la guardia nazionale fucila gli insorti.
Siamo stati insieme, in questo senso, molto a lungo, fino al comune modo di vivere il XX Congresso sovietico e l’Ungheria del 1956, fino alle comuni amicizie francesi negli anni d’Algeria, 1958-1960, e fino a quella mattina dell’ottobre del ’62, crisi di Cuba, quando ognuno con i propri fiori in braccio, ci si incontrò nel punto dove la sera prima una camionetta della Celere aveva ammazzato il suo primo studente, Ardizzone. Bisogna rileggere le prose non narrative di Vittorini per capire che cos’è, quando c’è, il coraggio mentale. E dovessi rispondere a un giovane “Leggi Diario in pubblico”, direi, “tutto”.

- Franco Fortini - da "L’Espresso”, 2 febbraio 1986 -

fonte: L'Ospite Ingrato

venerdì 28 marzo 2014

Pensare la catastrofe

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Domanda: Ci sono due momenti, di quello che racconti della tua vita, che non mi sono chiari. Il primo riguarda l'esperienza storica del 1914, quando il nazionalismo prevale sulla coscienza di classe. Il secondo, è quando affermi in maniera sbrigativa che gli operai in America sono solo degli stronzi!
Mattick: Sì, è vero, sono dei bastardi, e non ci possiamo fare niente. Vivere in una società dove esistono gli antagonismi di classe, e dove gli operai sono sfruttati, non cambia affatto che la popolazione operaia giudichi una tale situazione come la migliore per loro. Questo è il caso degli operai americani, per esempio, ma è vero anche in Germania e altrove. Dal momento che non ricevono cazzotti in bocca da un certo tempo, dal momento che non fanno esperienze spiacevoli o insopportabili, si rassegnano, per lo più, ad essere sfruttati e finiscono per venire a patti con la loro situazione. Ogni essere umano sa bene di avere un tempo di vita limitato. Quando non riesce più ad immaginare di poter cambiare la società, cerca di vivere il meglio possibile nel suo ambito sociale. E' questo il fondamento del riformismo. Ed è l'attitudine generale della classe operaia in un paese che, come l'America, ha conosciuto delle crisi sempre seguite da un nuovo periodo d'espansione. La coscienza di classe, che emerge ad ogni crisi e che s'incarna in un grande movimento contro il capitalismo, sparisce nuovamente. La classe operaia si viene a trovare allora in una situazione in cui l'inversione dell'ordine delle cose gli sembra inimmaginabile.
Domanda: La teoria marxista è una critica dell'economia politica, e dunque implicitamente una critica della società capitalista. Non sotto forma di una descrizione concreta e positiva, ma in quanto negazione che contiene in sé la concezione di una società emancipata. In quanto teoria, essa presuppone altresì l'attività cosciente della classe contro la società esistente, in modo tale che attraverso questa attività venga alla luce quello che altrimenti sarebbe rimasto nascosto.
Mattick: Se bastasse rivelare ciò che è nascosto, non ci sarebbe alcun bisogno di agire in modo rivoluzionario, o agire, semplicemente. Si può identificare perfettamente il modo di funzionamento della società capitalista e ancora pervernire alla conclusione - solo perché essa funziona - che è meglio accomodarvisi. Si sente spesso dire che è inutile andare a sbattere la testa contro i muri e che non si può rovesciare questo sistema perché esso è troppo forte. Marx diceva che le abitudini di vita diventano una seconda natura per gli esseri umani. Prendiamo il caso dell'operaio che vive nelle sue cattive condizioni ma che ha la possibilità di migliorare; egli accetterà la sua esistenza, la rivendicherà perfino come piacevole. I proletari non vogliono assolutamente diventare dei borghesi, perché sanno che non possono diventarlo. Ed è per questa stessa ragione che nel loro seno si sviluppa l'idea per cui il loro modo di vivere è quello buono e che vale veramente la pena di essere vissuto. Gli operai non sono assolutamente invidiosi dei ricchi, la cui vita è per loro un'astrazione. Essi vivono nel loro mondo e l'accettano in quanto tale, come il mondo che a loro piace. Sono soddisfatti della loro situazione, anche se sono sfruttati, fin tanto che possono migliorare le loro condizioni di esistenza.
Domanda: Allora ciò significa che la conoscenza da sola non è sufficiente perché si affermi l'attività di classe, ma che devono essere presenti anche altri elementi?
Mattick: Sì, ma c'è bisogno che gli operai escano dal loro stato di sottomissione [...] L'operaio, il cui padre ed il cui nonno sono stati anche loro operai, non intende avere un altro destino. Non aspira a nient'altro, vuole vivere così. Se queste condizioni di esistenza si deteriorano, allora reagisce. Fino a quando la borghesia non si trova obbligata a ridurre il suo livello di vita, non si muove.
In fabbrica, per esempio, gli operai non hanno affatto la sensazione di essere sfruttati. E' un errore pensare che siano depressi. Scherzano, ridono, raccontano ogni sorta di storie, lavorano, litigano. Solo chi non ha mai lavorato in una fabbrica può credere che essi vivano la loro condizione come un calvario. Al contrario, gli operai pensano: "Se solamente si potessero fare anche gli straordinari", per essere in grado di poter consumare un po' di più. Supporre che gli operai si sentano oppressi o maltrattati in fabbrica è veramente una cazzata, frutto dell'immaginazione dei giornalisti.
Un operaio è assolutamente felice quando, per esempio, ottiene un posto di lavoro da Henry Ford. Tutti vogliono lavorare lì. Anche se il lavoro è faticoso, quando torna a casa, l'operaio è pieno di illusioni. Immaginarsi che l'operaio, dal momento che lavora lì, sia cosciente della sua situazione di classe, è un errore. Egli non si sente maltrattato. Individualmente, si sente soddisfatto e non si ritiene per niente alienato. Accetta la sua esistenza come la sola possibile, perché deve lavorare. E: "Se non lavoro, lo farà un altro al mio posto. Tutti gli esseri umani devono lavorare. Senza gli operai non si costruirebbe niente" [...] Si sentono a proprio agio in questa vita nella quale si identificano completamente. Ed essa non ha niente a che fare con quel "uomo ad una dimensione" che sarebbe sorto improvvisamente. Questa identificazione degli operai con la loro propria esistenza esiste da molto tempo. Se il capitalismo si eternelizzasse nella sua forma attuale, non scadrebbe niente [...] Quando ci si concentra sulla storia e si constata che siamo passati di sconfitta in sconfitta, bisogna porsi legittimamente la domanda: il socialismo è solo una fesseria e noi abbiamo perso il nostro tempo ad occuparci di un'utopia? Quando si constata, però, che la dinamica del capitalismo con le sue crisi interne è oramai qualcosa che non si può più padroneggiare, quale che sia la sua forma, allora, innanzi tutto, bisogna che ci interessiamo a coloro che sviluppano una critica dell'economia politica. Penso alle teorie keynesiane, per esempio a quelle di Gillman, che sono interpretazioni politiche del pensiero economico di Keynes. A me importa provare che questo sistema andrà a sparire un giorno, esattamente come è stato il caso di tutte le società di classe del passato. Mi sembra sia importante anche provare che si può cercare di trasformarlo, in un modo o nell'altro, ma qualunque cosa facciamo esso porta in sé i germi della sua propria decomposizione. La contraddizione formulata da Marx, utilizzando il concetto di forza produttiva ed il concetto di rapporto di produzione, ci porta all'idea della fine del capitalismo. Mi interesso all'economia politica perché cerco di sapere in quale misura l'accumulazione e gli interventi del capitale possono veramente superare questa contraddizione interna.
Se avessi constatato che la società capitalista poteva perpetuarsi indefinitivamente, allora mi sarei fermato lì. Fino ad ora, ho osservato che le teorie che considerano il capitalismo come imperituro assumono forme moraliste e puramente politiche, oppure vogliono solo trasformarlo in capitalismo di Stato. Tutte queste teorie sono infondate e sfiorano solamente i veri problemi reali della società capitalista. Per questo, sono convinto che tutto crollerà un giorno.
Quello di cui sono sicuro oggi, è che il processo può richiedere molto più tempo di quanto avevano previsto Korsch e Marx. Se potesse durare 100 anni, vorrebbe dire che si potrebbe, manipolandolo, farlo durare per 500 anni. Chissà? Sono convinto altresì che non si possa eludere, per la natura stessa del sistema, la questione della trasformazione del capitalismo in socialismo. A maggior ragione oggi, che si sa che il sistema rischia di distruggere il pianeta.
Quindi, per me, il problema fondamentale non è tanto la tendenza del capitalismo a fare fallimento, quanto questa possibile distruzione. Si pone un problema politico ben più globale. Tanto che il socialismo diviene solo una possibilità fra le altre, e non è perciò inevitabile. Evidentemente, se si considera che la distruzione atomica è ineluttabile, allora, non abbiamo nemmeno più bisogno di occuparci di qualsiasi cosa, ma semplicemente di goderci gli ultimi giorni della vita sulla Terra. Tuttavia, dal momento che è possibile che non scoppi la guerra nucleare, sono assolutamente certo che il capitalismo si estinguerà. Ma sarà un processo assai più lungo di quello che abbiamo potuto immaginare.
[...] Sono convinto che senza crisi, non si dà rivoluzione. E' una vecchia convinzione che proviene da Rosa Luxemburg, definita la "teorica della catastrofe". Anch'io sono un pensatore della catastrofe. Non concepisco che la classe operaia possa affrontare il capitalismo se la società non conosce una crisi profonda e ad uno stato di decadenza permanente. Se non è così, la classe operaia si integra al sistema capitalista. Senza catastrofe, non c'è socialismo possibile. Così è avvenuta la nascita dello stesso capitalismo. La classe dominante può controllare coscientemente la politica, ma non l'economia. E la crisi arriverà dall'economia.
- dal libro di Paul Mattick, "La Révolution fut une belle aventure. Des rues de Berlin aux mouvements radicaux américains (1918-1934)" -

giovedì 27 marzo 2014

L’ultimo incontro

marai
"Un giorno ti svegli e ti stropicci gli occhi, e non sai perché ti sei svegliato. Quel che ti porterà il nuovo giorno, lo sai già in anticipo: la primavera, l’inverno, il paesaggio, il clima, l’ordine della vita. Non ti può capitare niente di inaspettato: non ti sorprende né l'inatteso, né l'insolito, e neppure l'orribile, perché già conosci tutte le possibilità, hai già previsto e calcolato tutto, e non ti aspetti più nulla, né di bene né di male… e questa è proprio la vecchiaia. Eppure c'è  ancora qualcosa di vivo nel tuo cuore, un ricordo, un qualche obiettivo poco definito, ti piacerebbe poter rivedere un qualcuno, ti piacerebbe dire qualcosa, interessarti di qualcosa, e sai che arriverà il giorno in cui non avrà più tanta importanza, per te, sapere la verità, o rispondere alla verità, come avevi creduto per anni ed anni di attesa. Si accetta il mondo, poco a poco, e si muore."
- Sándor Márai - (da "Le braci") -

mercoledì 26 marzo 2014

L’ironia della storia

zasulic

«Tutto ciò che io so sulla situazione in Russia [...] mi incita a pensare che questo paese si avvicina al suo 1789. [...] Il paese somiglia ad una mina carica che basta far esplodere. [...] E’ questo uno dei casi eccezionali in cui un pugno di uomini può riuscire a fare una rivoluzione, cioè a provocare con un piccolo urto il crollo di tutto un sistema. [...] Così che, se mai il blanquismo - l’idea chimerica di sconvolgere tutta la società con l’azione di una piccola cospirazione - ha qualche motivo di essere, é certamente a Pietrogrado. Una volta messo il fuoco alle polveri, una volta liberate le forze, [...] gli uomini che avranno fatto saltare la mina saranno trascinati dall’esplosione che sarà mille volte più forte di loro e che cercherà come potrà un qualche esito, sotto la pressione delle forze e degli ostacoli economici [...] Gli uomini che si sono vantati di aver fatto una rivoluzione hanno sempre capito l’indomani, ché non sapevano quello che facevano, che la rivoluzione compiuta non assomigliava in nulla a quella che volevano fare. E’ ciò che Hegel chiama l’ironia della storia»

(da: Friedrich Engels - Lettera a Vera Zasulic’ del 23/4/1885 - )

martedì 25 marzo 2014

Ritorno a Yalta

yalta

Si ritiene che sia stato George Orwell, ad aver coniato il termine "guerra fredda". Era il 19 ottobre del 1945, e mentre molti intellettuali occidentali brindavano insieme all'alleato sovietico che aveva contribuito a sconfiggere il nazismo, Orwell, in un saggio intitolato "Noi e la bomba atomica", cercava di richiamare l'attenzione sui pericoli che derivavano dall'energia nucleare che ora poteva essere controllata da un'elite politica per beneficiare di uno status quo che gli sarebbe derivato dal timore della distruzione totale: "E' possibile che non stiamo andando verso una spartizione generale, ma verso un'epoca terribile come quella degli imperi schiavisti dell'antichità" - metteva in guardia Orwell - "Eppure poche persone hanno considerato le implicazioni ideologiche, ovvero il tipo di visione del mondo, il il tipo di credenze e la struttura sociale che prevarrebbero in uno Stato che fosse non-conquistabile e che si trovasse in uno stato permanente di 'guerra fredda' con i suoi vicini."
Un mese prima, era il mese di febbraio del 1945, a Yalta (curiosamente, nella penisola di Crimea), Stalin, Roosevelt e Churchill avevano definito quale sarebbe stato il destino del mondo dopo la seconda guerra mondiale. L'americano credeva che si potesse confinare il russo, salvo il fatto che l'occupazione sovietica dell'Europa dell'Est mandò in frantumi quell'illusione. La seconda riunione dei "tre grandi" ebbe luogo nel mese di agosto del 1945, a Postdam, nella Germania occupata. Ora c'era Truman, al posto di Roosevelt, e fu in un antico palazzo prussiano che prese la decisione di sganciare la bomba nucleare su Hiroshima e Nagasaki, per dare il colpo di grazia al Giappone e, contemporaneamente, cercare di spaventare la Russia.
In mezzo a queste due riunioni, quella della cortina di ferro di Yalta e quella dell'era atomica di Postdam, si consolidano i tre fattori principali della guerra fredda: 1) tensione permanente fra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, ma senza combattimento diretto; 2) zone di influenza ben definite sotto l'egemonia totale di Washington e di Mosca; 3) paura di un'ecatombe mondiale basata su un fordimabile arsenale nucleare.
I realisti - curvi ad analizzare la politica internazionale contando i soldati - si eccitano, oggi, a considerare il ritorno della guerra fredda, e su una cosa hanno senz'altro ragione: solo la Russia può annettersi di fatto un territorio di ventisettemila chilometri quadrati senza che niente cambi e senza che succeda niente! Putin, l'ultimo capo del KGB sovietico, sta seguendo i passi di Stalin, per recuperare l'eredità  sovietica ed il glorioso passato associato allo status di superpotenza, ricreando così le condizioni cui si riferiva Orwell.

lunedì 24 marzo 2014

Domande

rethel

A proposito del libro di Alfred Sohn-Rethel, "La pensée-marchandise"
di Palim Psao

«Non è solo il contenuto, ma sono le forme stesse del pensiero, a trarre origine dall'organizzazione sociale della produzione materiale. Gli inizi della logica, nel mondo dell'antica Grecia, sono legati alla comparsa delle prime monete. L'apriori di cui parlava Kant era la forma-merce. Sono queste le teorie innovative che Sohn-Rethel propone negli anni 1930, in controcorrente non solo a tutta la tradizione filosofica, ma anche al marxismo tradizionale. Queste teorie hanno influenzato profondamente gli inizi della Scuola di Francoforte, al prezzo però di un'emarginazione dell'autore, durata per molto tempo. Questa prima traduzione francese di tre dei suoi saggi, non solo riempie una grave lacuna nella conoscenza d el pensiero critico tedesco nella sua età d'oro, ma offre anche gli strumenti per elaborare al giorno d'oggi un'epistemologia fondata sulla teoria di Marx, vista nel quadro di una critica radicale dell'astrazione sociale, del mercato e della merce, che ci governano.»
Così, la quarta di copertina del libro di Alfred Sohn-Rethel, "La pensée-marchandise", il quale comprende tre saggi scritti negli anni 1930 dal filosofo della Scuola di Francoforte ("Forme marchandise et forme de pensée ? Essai sur l'origine sociale de l'entendement pur"; "Eléments d'une théorie historico-matérialiste de la connaissance"; "Travail intellectuel et travail manuel. Essai d'une théorie matérialiste"), preceduti da una prefazione scritta da Anselm Jappe che lega il dibattito, che ebbe corso nell'ambito della nuova sinistra tedesca degli anni 1970, intorno all'opera di Sohn-Rethel, al dibattito attuale in seno al movimento della Wertkritik (critica del valore).
Nonostante la "tripla infedeltà" nei confronti dell'analisi marxiana della forma-valore - come evidenzia Anselm Jappe - l'opera di Sohn-Rethel finisce per essere più interessante per le domande fondamentali che tratteggia, piuttosto che per le risposte che si dà. Sta in questo, l'interesse reale che possiamo nutrire per la lettura di Sohn-Rethel, quello di una promessa a partire dalla quale sia possibile ricostruire un'epistemologia, e che fa di lui "uno dei rari marxisti che abbia ancora qualcosa da dirci, al fine di comprendere il XXI secolo". E possiamo sottolineare come possa essere accostato alla lettura, o rilettura, della "Teoria generale del Diritto" del teorico russo Pasukanis, come aveva già osservato Jean-Marie Vincent.
La questione posta da Sohn-Rethel non è solo quella di liberare una spiegazione dei contenuti della coscienza ( come ha fatto il materialismo storico con il suo schema struttura-sovrastruttura e con la teoria del riflesso oggettivo della realtà per quel che riguarda la conoscenza scientifica ), ma di riflettere su un piano più profondo, interrogarsi sulle forme stesse (le categorie) che strutturano la coscienza, l'intelletto, la capacità di comprensione che riceve le molteplici impressioni sensoriali: "Qual è l'origine delle forme di coscienza, di quelle griglie che permetto a ciascun individuo di organizzare i dati molteplici che gli vengono forniti dalla percezione sensibile"? Queste forme ("stampi") del pensiero che sono il tempo, lo spazio, la causalità, la sostanza, l'infinito, il numero, la quantità, l'identità, la totalità, la contraddizione, ecc., queste forme stesse che strutturano la coscienza, la capacità di comprensione. Queste forme della coscienza devono essere considerate come dati universali, eterni e trans-storici? Quando si considerano le due soluzioni tradizionali, proposte dalla filosofia a tali questioni (è l'empirismo dell'esperienza che fonda le categorie, o preesiste una struttura ontologica nell'uomo?), Sohm-Rethel rifiuta quello che entrambe hanno in comune: il loro dualismo ontologico fra soggetto ed oggetto. QUesto dualismo non è affatto ontologico per Sohn-Rethel, ma è storico-sociale, ed è proprio a partire da questa intuizione che sviluppa il suo pensiero per poi proporre una terza soluzione: né empirismo né ontologismo, ma storicità della forme della comprensione. Storicità che non è altro che l'azione concreta degli uomini nelle loro condizioni specifiche. Non è la coscienza a determinare l'essere, è l'essere sociale, la vita concreta in società a partire dall'agire, che determina la coscienza. Senza però - e questa è la grande differenza con le teorie post-moderne e decostruttiviste - cadere in una teoria relativistica della conoscenza.

rethel MARX-LÁZARO-SAAVEDRA

Se l'intuizione è buona - per cui "l'astrazione, benché essa non esista altro che nel pensiero, non nasce a partire dall'azione, ma a partire dall'agire"(Jappe) - è l'agire preso in esame che pone qualche interrogativo. Per Sohn-Rethel, l'agire umano, che è la fonte dell'astrazione, si situa dentro la circolazione delle merci, dentro lo scambio, cioè a dire dentro le azioni di acquisto e di vendita. E l'astrazione consiste in quest'azione di scambio, nella separazione temporale fra l'azioe d'uso e l'azione di scambio. L'agire sociale, l'essere sociale, la storicità, per Sohn-Rethel, avviene dopo la produzione, nella circolazione; mentre ciò che accade prima, la produzione delle merci, il lavoro, è ante-sociale, è dell'ordine della metabolizzazione della natura, dell'eterno, dell'ovvio, del trans-storico, dell'ontologico, che non può essere messo in discussione. Rifiutandosi di risalire fino al lavoro, Sohn-Rethel  trascura il concetto centrale di "lavoro astratto" che è il fondamento essenziale della socializzazione capitalista (vedi Moishe Postone). Jappe afferma che Sohn-Rethel, in ultima analisi, rimane dentro il rapporto feticistico che lega il consumatore ai suoi prodotti. L'errore rinvia quindi alla domanda circa dove si trovi la fonte dell'astrazione sociale: nel lavoro o nello scambio? Anche il lavoro è storico-sociale (posizione della WertKritik), oppure è solo la circolazione dei prodotti oggettivamente supposti "naturali" ad essere storico-sociale? Sohn-Rethel rimanda tutto all'astrazione-scambio. E se parla di lavoro umano astratto, sembra farlo totalmente derivare dall'astrazione-scambio, come effetto dello scambio sul lavoro. La produzione è perciò naturale  e trans-storica per Sohn-Rethel, è la socializzazione (la "connessione sociale", come la chiama) post-produzione ad essere fonte dell'astrazione sociale del valore che mette tra parentesi il valore d'uso, facendone astrazione dentro la merce. In questo, evidentemente, Sohn-Rethel resta completamente dentro l'ontologia marxista del lavoro, la quale ha corrisposto all'apologetica del lavoro da parte del movimento operaio, sia anarchico che marxista che socialdemocratico. Una critica tronca del capitalismo che è sempre consistita in un dibattito sull'ampiezza del salasso, da stabilire sulla valorizzazione capitalista, al fine di creare in seno alla società feticista dei diritti sociali, uno Stato-Provvidenza, un diritto al lavoro, una sicurezza sociale, pensioni, aumenti salariali, eliminazione della classe mercantile che organizza la circolazione (perché la produzione è naturale, è la circolazione ad essere sociale), lasciando del tutto intatta la logica folle della valorizzazione, del valore che si valorizza consumando in maniera bulimica il lavoro astratto. Una critica, perciò, "dal punto di vista del lavoro" (Postone), che è immanente alla logica stessa della valorizzazione. Non è per niente che si è è visto, negli ultimi 30 anni, la crisi del capitalismo che crolla,nella sua fuga neoliberista, insieme alla crisi di quello che è stato presentato nel XX secolo come la grande critica del capitalismo, il marxismo. Dappertutto, il movimento operaio ha alzato bandiera bianca, e non fa altro che cercare di trarre profitto dal ruolo centrale che il lavoro, in quanto specificità capitalista ( e solo capitalista, in quanto non esiste nelle altre società pre-capitaliste), gioca dentro il movimento automatico della valorizzazione.

rethel socrate

La tesi di Sohn-Rethel è quella di considerare, non solo la comparsa sincrona della moneta e della filosofia, o della matematica (il pensiero concettuale), in Grecia, durante il "miracolo greco" a partire dal V secolo aC nella Ionia (Sohn-Rethel fa riferimento allo storico inglese George Thomson di cui fu amico e continuatore), ma, ancor più, si stupisce a proposito della somiglianza che esiste fra le proprietà dell'astrazione-scambio (che rifiuta di riferire totalmente al lavoro astratto - Jappe ricorda i commenti che fece Robert Kurz circa questi limiti assai importanti degli sviluppi di Sohn-Rethel) e le categorie pure della comprensione proposte dalla filosofia. L'astrazione dell'atto dello scambio (che comprende perciò assai male) sarebbe all'origine, a partire da esso, della nascita dell'astrazione nel pensiero, la cui radice si ritrova nello scambio di merci. Il "miracolo greco" viene così messo in relazione con la comparsa della moneta, cosa che permette ai filosofi di passare da un pensiero antropomorfico ad un pensiero concettuale, proprio grazie alla comparsa e all'utilizzo quotidiano della moneta nella Ionia, in quanto l'esperienza dell'astrazione della moneta non è stata (per loro) un'operazione mentale, bensì un'evidenza tangibile. Il mito del sapere, visto come conoscenza progressiva ed accumulativa dello spirito, è un'illusione. E Sohn-Rethel cerca di dimostrarlo attraverso la scolastica medievale o la rivoluzione scientifica galileiana. Per fare un solo esempio nell'antichità: "l'uno per Parmenide, come diceva George Thomson, come nozione ulteriore di 'sostanza', può perciò essere definito come il riflesso o come la proiezione della sostanza del valore di scambio". Si possono ritrovare oggi molti altri esempi in un continuatore delle tesi di Sohn-Rethel, nel libro del filosofo tedesco Eske Bockelmann, "La mesure de l'argent. Sur la genèse de la pensée moderne".
Per Sohn-Rethel, il fatto essenziale all'epoca, è la comparsa della separazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale (fatto attraverso l'espropriazione dei saperi propri del lavoro manuale, a vantaggio del lavoro intellettuale), è allora che "il lavoro manuale, privato della sua potenza mentale, non può più effettuare la coesione fra i differenti lavori e la società in generale, e bisogna garantire il legame sociale a posteriori attraverso lo scambio e l'attività intellettuale - dunque per astrazione". E' il lavoro intellettuale, perciò, che sembra operare la connessione sociale, al posto di una produzione immediatamente sociale come, per Sohn-Rethel, avviene nel comunismo primitivo(?) o nel comunismo moderno ... Qui si può porre la questione delle contraddizioni in seno all'opera di Sohn-Rethel, la contraddizione fra il suo interesse per la teoria soggettiva del valore (come nel "marginalismo") e l'analisi marxiana.
Se, sotto molti aspetti Sohn-Rethel rimane attaccato al marxismo tradizionale, aveva ben capito - in un'epoca in cui ausi nessuno ci era arrivato - che secondo Marx la caratteristica più esenziale del capitalismo è l'astrazione che fa subire alla vita sociale. Con il termine "astrazione reale", Sohn-Rethel ha dato un contributo molto importante all'elaborazione della critica del feticismo delle merci, anche se - come si può vedere - il suo rifiuto di ricondurre lo "scambio astratto" al "valore astratto" - come fa lo stesso Marx - ha limitato grandemente la portata delle sue intuizioni. Tuttavia, il vero obiettivo di Sohn-Rethel era tutt'altro: quello di dare una spiegazione storica e materialista delle forme stesse della conoscenza, analizzando soprattutto la prima apparizione del pensiero filosofico in Grecia, la nascita della scienza moderna con Galileo, e le forme a priori di Kant.

- P.P. -

fonte: Critique radicale de la valeur

domenica 23 marzo 2014

Logica dell’Impero

kurtz

A partire da Joseph Conrad, Edward Said osserva come, col passare del tempo, ci sia un aspetto che si fa sempre più pronunciato: se, in un primo momento, in Conrad, il viaggio è ancora necessario per poter riuscire ad incontrare l'Altro e la perversione dell'Altro (il Congo di ‘Cuore di Tenebra’, o l'America Latina di ‘Nostromo’), questo genere di necessità va a poco a poco diluendosi in una sorta di attenzione riflessiva, autoimmune verso la perversione dell'Altro che si trasforma in perversione dello Stesso. In ‘Cuore di Tenebra’, nonostante che Kurtz si trovi dall'altra parte del mondo, distante dal cuore dell'Impero, i suoi "eccessi" sono in tutto e per tutto inerenti alla logica dell'Impero. Il vero shock, così, è lo shock interno alla propria civiltà, laddove la ricerca della perversione dell'Altro diventa un'investigazione fatta davanti allo specchio, in un esercizio di sovrapposizione, dove le due parti non sono realmente opposte, ma appartengono alla stesso campo. Al di là del Kurtz di Conrad, in tal senso, ritroviamo la riflessione di Dostoevskij a proposito del "terrorismo interno" dei Demoni, che poi diventa certamente, e non per caso, il contesto riscattato da Coetzee ne "Il Maestro di Pietroburgo".

sabato 22 marzo 2014

Curare la morte

Sciascia

"Negli anni della mia infanzia, nel paese di contadini e zolfatari in cui vivevo, il «chiamare il medico» era in corrispondenza col «chiamare il prete». Il prete si chiamava per far si che il morituro si mettesse in regola con l'aldilà; il medico perché i familiari restassero in regola coi conoscenti, coi vicini; insomma, con la società. Che non si dicesse, imputando la famiglia di disaffezione e insieme di tirchieria: «non gli hanno nemmeno chiamato il medico». Pertanto, mentre il chiamare il prete era un fatto di sostanziale importanza, perché tra il chiamarlo e il non chiamarlo correva per il morituro la differenza tra un temporaneo soggiorno in purgatorio (di pochissimi ricordo di aver sentito dire che erano aspettati in paradiso) e l'eterno arrostirsi nell'inferno, il chiamare il medico era un atto puramente formale, di convenienza sociale. S'apparteneva, pirandellianamente, alle regole dell'apparire.
Coloro che lo chiamavano (sempre troppo tardi) a visitare un ammalato, non credevano che davvero il medico potesse guarirlo (e infatti, a quel punto, non lo guariva): sicché quando il medico, a sua volta per stare alla regola, scriveva una ricetta, l'andare ad acquistare i medicinali era un estremo sacrificare alle apparenze: e se ne aveva sentimento, risentimento, come di capriccio e sopruso da parte del medico (da ciò la valutazione di buono, di bravo, al medico che si limitava a raccomandare cautela di coltri, lavaggi esterni e intestinali, diete; e la fama di asino appiccicata a quello che prescriveva medicine). In molti casi, consumato il sacrificio dell'acquisto, le medicine non venivano somministrate: a timore «spresciassero » (affrettassero) la fine o che comunque servissero soltanto a disgustare col sapore e ad agitare di paura (paura di ogni medicinale che non fosse l'olio di ricino o il chinino) l'ammalato: e inutilmente. Medici e medicine facevano insomma parte di quel decoro cui una famiglia si teneva obbligata a dar prova nella morte di una persona cara; erano elementi di un cerimoniale che preludeva a quello funerario. Di conoscere la diagnosi, nessuno si preoccupava: e peraltro quel che diceva il medico non era più chiaro del latino del prete. E alle cure nessuno credeva. La morte era «muerte y solo muerte», che s'annunciasse da lontano o improvvisamente prendesse.
Quando s'annunciava, quando si sentiva, quando non arrivava « subitanea», e cioè inaspettata, improvvisa, (l'augurare «morte subitanea» era massima espressione di odio), la morte non veniva nascosta a chi ne sarebbe stato preda. L'ammalato veniva informato del suo stato: affinché si preparasse. Quando poi, dal respiro che si faceva rantolo, si avvertiva che stava cominciando l'agonia, c'erano gli estremi saluti e le estreme raccomandazioni tra i familiari e il morente. E le raccomandazioni non andavano soltanto dal morente ai familiari, ma anche dai familiari al morente. Gli raccomandavano di cercar d'incontrare, tra le anime sante del purgatorio, quel tale parente da poco o da tanto morto: e a volte di dargli anche notizie di avvenimenti familiari e messaggi di questo tipo: che continuavano a fargli dire messe; che intercedesse, a conto di quando sarebbero morti, per la salvezza della loro anima...
Di ciò io mi ricordo vagamente, come di una usanza in via di sparizione che i miei dicevano sciocca e crudele: poiché già cominciava ad agire l'interdizione, dentro quelle categorie sociali che con invidia e diffidenza i contadini dicevano «alletterate», e cioè letterate: il che si riduceva a volte al saper leggere il giornale o a scrivere una lettera. Ma un mio amico, di un paese vicino al mio (Delia, in provincia di Caltanissetta), di tale usanza ha viva (e ora terribile) memoria; e ricorda anche, non come aneddoto sentito raccontare ma come precisa cronaca, che sul punto di spirare, ai familiari e ai vicini che lo incaricavano di portare notizie e messaggi ai parenti morti, un vecchio trovò fiato e spirito per dire: « scrivetemeli su dei biglietti, che se no me scordo». E anche questo aneddoto può servire a segnare il tramonto dell'usanza, se attendibilmente lo si può collocare alla fine degli anni venti (1928-29). La reazione «spiritosa» - o che cosi fu intesa - del morente, dimostra che quella idea della morte cominciava a diventare insopportabile."

- Leonardo Sciascia - da "Cruciverba", Einaudi, 1983 -

venerdì 21 marzo 2014

memoria

scavareacqua

Scavare e ricordare
di Walter Benjamin

Il linguaggio ci ha fatto capire, senza possibilità di equivoci, che la memoria non è uno strumento, bensì il medium stesso, per la ricognizione del passato.
È il medium di ciò che si è esperito, allo stesso modo in cui la terra è il medium in cui sono sepolte le città antiche. Chi cerca di accostarsi al proprio passato sepolto deve comportarsi come un individuo che scava. Soprattutto non deve temere di tornare continuamente a uno stesso identico stato di cose - di disperderlo come si disperde la terra, di rivoltarlo come si rivolta la terra stessa. Giacché gli «strati di cose» non sono altro che strati che consegnano, solo dopo la ricognizione più accurata, ciò che giustifica tale scavo. Ossia le immagini, che, strappate a tutti i precedenti contesti, per il nostro sguardo ulteriore sono dei gioielli in abiti sobri: come i torsi nella galleria del collezionista. Ed è sicuramente utile, nello scavare, procedere secondo un progetto. È comunque altrettanto indispensabile il colpo di vanga che procede con prudenza e a tentoni nell’oscuro regno della terra. E s’inganna su ciò che è più importante chi fa solo l’inventario degli oggetti ritrovati e non sa indicare nel terreno odierno esattamente il luogo in cui era conservato l’antico. Così i ricordi veri devono non tanto procedere riferendo, quanto piuttosto designare esattamente il luogo nel quale colui che ricerca si è impadronito di loro. In maniera epica e rapsodica nel senso più stretto del termine, il ricordo reale deve dunque offrire anche un’immagine di colui che si sovviene, allo stesso modo in cui un buon resoconto archeologico non deve limitarsi a indicare gli strati da cui provengono i propri reperti, ma anche e soprattutto quelli che è stato necessario attraversare in precedenza.

- Walter Benjamin -

giovedì 20 marzo 2014

Notturno

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Che cosa significa scrivere una storia della notte? "Evening's Empire" di Craig Koslofsky ce lo spiega, tracciando un'affascinante studio a partire dalla miriade di modi in cui i primi uomini moderni hanno compreso, sperimentato e trasformato il territorio della notte. Per farlo, vengono messi in gioco diari, lettere e documenti legali dell'epoca, insieme a quelle che sono state le rappresentazioni della notte nel primo approccio moderno da parte della religione, della letteratura, dell'arte. Ci viene, in tal modo, aperta una prospettiva completamente nuova sulla prima moderna Europa, che ci mostra come principi, cortigiani, borghesi e persone comuni hanno cominciato a "notturnalizzare" l'espressione politica insieme alla sfera pubblica e all'utilizzo del tempo quotidiano, dove "la paura della notte" si mescolava alle nuove opportunità che si offrivano al lavoro ed al tempo libero, mentre la notte moderna cominciava ad assumere la sua caratteristica forma. La notte, come spazio sociale, come spettacolo, come incontro, come ore strappate al sonno, come notturnalizzazione, ovvero una continua espansione del suo uso sociale e simbolico. La notte viene espropriata ai ladri e agli assassini, alle puttane di strada e alla goliardia, per mezzo dell'illuminazione delle strade dopo il tramonto; mascherate e fuochi d'artificio, la notte diventa il tempo della politica, della congiura e del divertimento. Si afferma una nuova volontà di distribuire e modificare il buio e la notte e, di conseguenza, il sonno, il cui tradizionale modello "bifasico", che prevedeva due blocchi di sonno, comincia ad essere abbandonato e a cedere il passo ad un unico periodo compresso. Finisce un'epoca in cui era la chiesa, l'autorità religiosa, a dettare i tempi della vita sociale, e la notte comincia a non essere più vista come diabolica, come pericolo. Ma ovviamente, la storia della notte è anche la storia della resistenza caparbia - che si avvera nella pratica onnipresente di spaccare i lampioni - a questa modernizzazione, sostenuta soprattutto dai suoi abitanti tradizionali: i padroni delle case pubbliche, i servi, gli studenti, le prostitute, i criminali, tutti schierati a cercare di marcare la linea di confine fra rispettabile e proibito.
Insomma, la storia della colonizzazione della notte e del sonno, cominciata in Europa nel secoli XVII e XVIII e portata a termine dalla rivoluzione industriale.
Un libro prezioso che andrebbe tradotto ...

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mercoledì 19 marzo 2014

Il tempo dell’ozio

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L'espropriazione del tempo di Robert Kurz
Dopo la rovina dell'utopia del lavoro, anche l'utopia del tempo libero ha fatto fallimento, in questa società che ha trasformato l'ozio in consumo accelerato delle merci.
Nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita orribile di una letteratura sulla categoria del tempo. Programmi radio e piéces teatrali, seminari accademici e perfino talk-show si sono serviti di tale soggetto che è diventato in qualche modo una vedette dei media. Non è solo la teoria scientifica di uno Stephen Hawking, fisico "pop-star", che ne rivela l'interesse, ma soprattutto la componente culturale e sociale del concetto di tempo, la cui dinamica rende esplicito un profondo malessere della moderna legato alle nozioni temporali. Questo problema, che non è affatto nuovo, ha raggiunto alla fine del XX secolo una nuova dimensione. Come si sa, il tempo è denaro, ed è perciò che il tempo ha sempre giocato un ruolo decisivo nel capitalismo. Ma oggigiorno lo sfruttamento delle risorse temporanee sembra essere arrivato a suoi limiti storici, ed è impossibile evitare che il problema del tempo, sempre più pressantemente, si insinui nella coscienza sociale. La riflessione filosofica decisiva a proposito del concetto moderno di tempo, valida fino a tutt'oggi, la si ritrova in Emmanuel Kant (1724-1804). Kant scopre che lo spazio ed il tempo non sono concetti che si riferiscono al contenuto del pensiero umano, ma costituiscono la forma apriori della nostra capacità di percepire e di pensare. Possiamo conoscere il mondo solo attraverso la forma del tempo e dello spazio che sono iscritti nella nostra ragione, precedentemente ad ogni conoscenza. Ma Kant definisce tali forme di tempo e di spazio in modo assolutamente astratto ed astorico, che vale allo stesso modo per tutte le epoche, per tutte le culture e per tutte le forme sociali. Il tempo, per lui, è "la temporalità pura e semplice", senza alcuna dimensione specifica, dal momento che lo spazio ed il tempo sono delle "forme pure di intuizione". Nella visione kantiana, di conseguenza, il tempo è un flusso temporale astratto, senza contenuto e sempre uniforme, le cui unità sono tutte identiche: "Tempi differenti sono solo parti dello stesso tempo".
La ricerca storica e culturale ha scoperto da molto tempo che questa definizione dell'esperienza e della percezione del tempo non è più sostenibile. Innanzitutto, è stato riconosciuto che le culture agrarie pre-moderne non pensavano un tempo lineare uniforme, ma un tempo ciclico fatto di ritmi temporali in costante ripetizione, regolati secondo i cicli cosmici e le stagioni. Se è vero che il tempo è una forma iscritta a priori nella capacità cognitiva umana, è anche vero che in questa forma si dà un cambiamento storico e culturale. Le più recenti ricerche sulle diverse culture del tempo hanno confermato una tale scoperta. In tutte queste culture, non affette dalla modernità capitalista, il tempo non solo "scorre" in maniera differente, ma esistono anche delle forme completamente differenti di tempo che scorrono parallelamente e che si applicano diversamente a seconda dell'oggetto, o della sfera della vita, cui si riferisce la percezione temporale: "Ogni cosa a suo tempo".
La rivoluzione capitalista è consistita essenzialmente nello slegare la cosiddetta economia da ogni contesto culturale, da ogni bisogno umano. Trasformando l'astrazione sociale del denaro - che prima era un mezzo marginale - in un fine in sé di carattere tautologico, l'economia resa autonoma ha anche invertito il rapporto tra astratto e concreto: l'astrazione non è più l'espressione di un mondo concreto e sensibile, e tutti i rapporti concreti,  e tutti i gli oggetti sensibili, contano solo come espressione di un'astrazione sociale, la quale domina la società sotto forma della figura reificata del denaro. Legare le attività culturali, fino a quel momento concrete, all'astrazione del denaro è stato quello che ha reso possibile convertire la produzione in "lavoro" generale astratto, la cui misura è il tempo. Nondimeno questo tempo non è più il tempo concreto, qualitativamente diverso secondo le sue relazioni, ma il flusso temporale astratto dell'accumulazione capitalista, quale Kant ha ciecamente presupposto. Questa dittatura del tempo astratto, guidato dal meccanismo della competenza anonima, ha creato per sé un corrispondente spazio astratto, lo spazio funzionale del capitale, separato dal resto della vita. In tal modo è sorto uno spazio-tempo capitalista, senza anima e senza volto culturale, che ha cominciato a rosicchiare il corpo della società.
Il "lavoro" , forma di attività astratta e confinata in quello spazio-tempo specifico, ha dovuto essere depurato di tutti gli elementi disfunzionali della vita, al fine di non perturbare il flusso temporale lineare: lavoro e casa, lavoro e cultura, ecc. si sono sistematicamente dissociati. La separazione moderna fra orario di lavoro e tempo libero è stata possibile solo in questo modo.
Anche se non se ne è consapevoli, quello che viene detto implicitamente è che il tempo di lavoro è un tempo senza libertà, un tempo imposto all'individuo (nel corso della sua origine, anche con la violenza) a vantaggio di un fine tautologico che gli è estraneo, determinato dalla dittatura delle unità di tempo astratte e rese uniformi dalla produzione capitalista.
tempo orokiev
Malgrado consumi la più parte del tempo quotidiano, la stragrande maggioranza di coloro che lavora non sente il tempo di lavoro come un proprio tempo di vita, ma come un tempo morto e vuoto, strappato via alla vita come se fosse un incubo. Dal punto di vista dello spazio e del tempo capitalista, al contrario, il tempo libero dei lavoratori è un tempo vuoto e privo di qualsiasi utilità. Dal momento che questo fine tautologico, che sfugge ad ogni controllo, possiede come principio quello di eliminare qualsiasi limite che lo possa contenere, nel capitalismo esiste una forte tendenza oggettiva a minimizzare il tempo libero, o quantomeno a razionalizzarlo severamente. Di qui il paradosso per cui le persone, nel mondo moderno, devono sacrificare alla produzione molto più tempo libero rispetto alle società agrarie pre-moderne, nonostante il gigantesco sviluppo delle forze produttive. Questa assurdità si manifesta sia sotto l'aspetto quantitativo che sotto l'aspetto qualitativo. Nell'antichità e nel Medio Evo, malgrado un inferiore livello tecnico, il tempo di produzione quotidiana, settimanale o annuo, era inferiore a quello del capitalismo. Dal momento che la religione primeggiava sull'economia, il tempo delle feste e dei riti religiosi era più importante del tempo di produzione; c'erano molti giorni festivi, i quali vennero aboliti in gran parte nel corso del cammino verso la modernizzazione. Inoltre, le società agrarie della vecchia Europa si caratterizzavano per loro enormi disparità stagionali, nel volume di attività. I periodi più caldi dell'anno assorbivano la maggior parte dei compiti, lasciando alla popolazione contadina un inverno relativamente tranquillo, spesso usato per celebrare festività private, di cui siamo a conoscenza grazie alle canzoni popolari. La popolazione artigiana delle città era meno strutturata secondo le diversità stagionali, ma in cambio i suoi giorni lavorativi nei laboratori erano ridotti. Alcuni documenti britannici del XVII secolo ci fanno sapere che gli artigiani liberi lavoravano tre o quattro giorni la settimana, secondo la volontà ed i bisogni. Era costume estendere il fine-settimana fino al lunedì. La storia della disciplina capitalista è anche la storia della lotta disperata contro il "lunedì libero", che vene eliminato solo poco a poco per mezzo di pene draconiane e che  può essere ritrovato, in qualche regione, in pieno XX secolo (ci sono barbieri e parrucchieri - e calzolai * nota del traduttore * - che continuano a mantenerlo ancora oggi).
La differenza qualitativa, fra produzione capitalista e produzione premoderna, è ancora più evidente. Il livello poco elevato delle forze produttive del settore agricolo portò a molte coercizioni e alcune volte perfino a problemi di approvvigionamento (per esempio, raccolti rovinati). Ma l'obiettivo della produzione, pur con mezzi modesti, non era un fine tautologico astratto come lo è oggi, bensì perseguivo lo scopo del piacere e del tempo libero. Questo concetto antico e medievale dell'ozio, non deve essere confuso col concetto moderno di tempo libero, e questo perché l'ozio non era una parte della vita separata dal processo di attività remunerata, ma era presente, per così dire, nei pori e negli interstizi dell'attività produttiva stessa. Se pensiamo che l'astrazione dello spazio-tempo capitalista non aveva ancora scisso il tempo della vita umana, il ritmo di sforzo e riposo, allora possiamo sapere che produzione ed ozio scorrevano dentro un largo processo vitale. In un sistema di identità fra produzione, vita personale e cultura, quello che a noi oggi può sembrare formalmente una giornata lavorativa di 12 ore, non significava affatto 12 ore di attività sotto il controllo di un potere economico oggettivo. Questo tempo di produzione, era attraversato da momenti di ozio; c'erano, per esempio, delle lunghe pause, soprattutto per pranzare, che  si estendevano anche ai pasti comunitari, un'abitudine che si è preservata per più tempo nei paesi mediterranei, rispetto al nord, fino a quando non si è stati obbligati a cedere tale spazio al ritmo del lavoro. L'attività produttiva pre-capitalista, oltre ad essere impregnata di ozio, si caratterizzava anche per essere meno concentrata, cioè a dire che era più lenta e meno intensiva di quanto lo sia oggi. In un'attività autodeterminata, senza la pressione della concorrenza, un ritmo moderato dell'attività produttiva rivela chiaramente il modo "naturale" della condotta umana. Oggi non conosciamo più questo modo di agire; sotto l'imposizione silenziosa della concorrenza del mercato anonimo, la giornata lavorativa moderna, funzionalmente degradata, è diventata sempre più condensata; prima per la cadenza meccanica e, dopo, per il modo perfezionato di consumare l'energia vitale, facendo ricorso alla cosiddetta razionalizzazione. Dopo che l'ingegnere americano Frederick Taylor (1856-1915) sviluppò all'inizio del XX secolo la "scienza del lavoro", impiegando per la prima volta sulla grande scala delle fabbriche di automobili di Henry Ford (1863-1947), i metodi della cosiddetta "razionalizzazione del tempo" si sono sempre più raffinati e sono stati profondamente inculcati nel corpo sociale.
tempo Ford
Del carattere assurdo di questa concentrazione mostruosa di spazio-tempo capitalista, non siamo più coscienti. Taylor era un nevrotico che, quand'era giovane, contava compulsivamente il numero dei suoi passi. In Germania, la concentrazione dei tempi di lavoro venne legittimata da un'unione scientifica, denominata "energetica", il cui leader, Wilhelm Ostwald (1853-1932), aveva fondato filosoficamente in una certa maniera la prassi di Taylor e di Ford secondo un "imperativo energetico", la cui massima recitava, senza mezzi termini: "Non sprecate l'energia, utilizzatela!", secondo una totale astrazione ed indipendenza dai bisogni concreti. Visto che forse l'universo soccomberà, in dieci milioni di anni, alla completa entropia per mancanza di "energia libera", propriamente parlando, sarebbe uno spreco gironzolare "senza meta" o attardarsi in bagno oltre il tempo necessario! Il carattere nevrotico di questo pensiero, il quale rappresenta la nevrosi oggettiva della razionalità padronale, e la sua logica di "economizzare il tempo", sembra che sia arrivato al limite della paranoia verso la fine del XX secolo. In nome della tautologia capitalista, questa logica insensata ha per risultato quello di "condensare" sempre più spazio nelle identiche unità di flusso temporale astratto. SI tratta, di conseguenza, di un sistema di accelerazione permanente e senza alcun senso. Il refrain universale sul "nostro mondo in rapida trasformazione" ha come base una paranoia universale oggettivata, che il filosofo Paul Virilio ha definito, con pertinenza, come "inerzia a tutta velocità" ed ha descritto in tutti i suoi paradossi: "Ghermiti dalla forza mostruosa della velocità, non andiamo da nessuna parte, dobbiamo solo contentarci di vivere a beneficio del vuoto della velocità". Ma Virilio commette lo stesso errore che commettono gli altri teorici dell'assurda accelerazione dall'inizio dell'industrializzazione: in un immediatismo erroneo, legano la concentrazione del tempo alla tecnologia, senza tenere conto della forma storica dello spazio-tempo capitalista. Tuttavia, non è la tecnologia in sé che detta la necessità di un'accelerazione vuota; si potrebbero benissimo disattivare le macchine, o farle funzionare più lentamente. In realtà, è il vuoto dello spazio-tempo capitalista, separato dalla vita e senza legami culturali, che impone alla tecnologia una struttura data, e la trasforma in meccanismo autonomo dalla società, impossibili da disattivare. La sproporzione grottesca fra un aumento permanente delle forze produttive ed un aumento, ugualmente costante, della mancanza di tempo, produce anche negli spiriti acritici un certo malessere. Ma così come la forma del tempo capitalista sembra intoccabile nello spazio funzionale del lavoro astratto, anche la speranza delle persone nel XX secolo si è concentrata ogni volta più sul tempo libero che, a detta di teorici come Jean Fourastié o Daniel Bell, avrebbe un'espansione continua. Tale speranza, tuttavia, è stata doppiamente frustrata. Con la trasformazione del tempo libero in consumo di merci in crescita costante, il vuoto dell'accelerazione è stato capace di prendere possesso di quel che ancora restava della vita; le forme rachitiche di riposo sono state rimpiazzate dall'edonismo furioso degli idioti del consumo, un edonismo che comprime il tempo libero nello stesso modo che prima faceva con l'orario di lavoro. D'altra parte, questa stessa logica paranoica della "economia (padronale) del tempo" trasforma il guadagno di produttività della terza rivoluzione industriale in un nuovo rapporto sproporzionato. Il risultato non è quello che ci si aspettava, più tempo libero per tutti, ma una accelerazione ancora più grande nello spazio-tempo capitalista, per gli uni, e una disoccupazione strutturale e di massa, per gli altri. Però, la disoccupazione nel capitalismo non è tempo libero, ma tempo di penuria. Gli esclusi dell'accelerazione vuota non guadagnano in ozio, ma piuttosto vengono definiti come non-umani in potenza. Così, dopo l'utopia del lavoro, anche l'utopia del tempo libero ha fatto fallimento. Non è attraverso la scorciatoia di un'espansione del tempo libero orientato al consumo di merci che può essere contenuto il terrore dell'economia senza freni, ma solo grazie all'assorbimento del lavoro e del tempo libero scissi, in una cultura che li abbracci entrambi, senza la ferocia della concorrenza. La strada verso l'ozio passa attraverso la liberazione dalla forma temporale capitalista.
- Robert Kurz - Articolo pubblicato nel 1999 sul giornale brasiliano "Folha de São Paulo" -
fonte: EXIT! CRISE E CRÍTICA DA SOCIEDADE DAS MERCADORIAS

martedì 18 marzo 2014

Smobilitate, scioperati!!!

smobilita
Tesi n°1: Lo sciopero è smobilitazione.
Il capitalismo è una mobilitazione infinita. Lo sciopero, interrompendo la produzione, il consumo delle materie prime e il lavoro degli uomini, pone - localmente, se è locale - un termine alla mobilitazione. (...) Lo sciopero, concepito (per esempio, dai sindacati) come "mobilitazione" è perciò un controsenso. I sindacati chiamano alla mobilitazione dei salariati. Ma gli scioperanti "mobilitati" contro la legge X, "mobilitati" per gli aumenti salariali Y, non fanno altro che aggiungere alla mobilitazione infinita la loro propria mobilitazione ; e quella, infinita, divora questa, e se ne nutre. Al contrario, il vero senso mitico dello sciopero è quello di realizzare la smobilitazione. Semplicemente: lo sciopero comincia con l'arresto delle macchine e con l'arresto del lavoro. La sospensione del lavoro non è un mezzo, che si impone dall'esterno, per permettere successivamente la "mobilitazione" dei lavoratori, il vero fine; la sospensione del lavoro non è un mezzo per dare tempo alla mobilitazione, per fare l'Assemblea Generale, il volantinaggio, la manifestazione successiva. La sospensione del lavoro ha il suo fine in sé stesso: la smobilitazione.
L'arresto del lavoro (smobilitazione) non è al servizio della manifestazione (mobilitazione).
Lo sciopero mitico, in quanto smobilitazione infinita, è la contestazione della mobilitazione infinita.
Corollario alla Tesi n°1: Lo sciopero è una crisi del funzionalismo. « Quello che viene designato come "gli avvenimenti del Maggio" fu innanzitutto una crisi del funzionalismo: gli studenti smisero di funzionare in quanto studenti, i lavoratori in quanto lavoratori, e i contadini in quanto contadini » (Kristin Ross). Gli scioperanti, nella vera smobilitazione, non funzionano più come scioperanti. Non hanno perciò da "mobilitarsi".

lunedì 17 marzo 2014

la rottura della filosofia

 

sohn rethel

Alfred Sohn-Rethel (filosofo e sociologo marxista vicino alla Scuola di Francoforte, autore di importanti contributi teorici sul concetto di astrazione reale e sul rapporto tra lavoro manuale e lavoro intellettuale) soggiornò a Napoli dal 1925 al 1927 e ivi, ispirato dal singolare approccio dei napoletani ai congegni della tecnica moderna, scrisse nel 1926 una breve nota sulla “filosofia del rotto” – una riflessione sulla cosiddetta “arte di arrangiarsi” –  ricca di ironia e di segreta ammirazione per lo stile di vita partenopeo.

I napoletani e la tecnica
di Alfred Sohn-Rethel

I dispositivi tecnici a Napoli sono essenzialmente rotti: solo eccezionalmente e in virtù di un caso straordinario ce ne sono anche di funzionanti. Col tempo si ha l’impressione che tutto viene prodotto già rotto in anticipo. Qui non  parliamo dei battenti delle porte, che a Napoli sono annoverati tra gli esseri mitologici e vengono applicati alle porte solo come effigi simboliche [ciò è connesso col fatto che  lì in genere le porte ci sono unicamente per restare aperte e se talvolta una corrente d’aria le fa sbattere, con terribili stridori e con il tremito di tutto il corpo,  vengono subito riaperte: Napoli a porte chiuse sarebbe come Berlino senza tetti sulle case] ma dei veri e propri macchinari e apparati tecnologici. E non tanto del fatto che essi, in quanto si rompono, talvolta non funzionano, ma per il napoletano il funzionamento comincia proprio e soltanto quando qualcosa si rompe. 
Il napoletano va per mare con un motoscafo sul quale a mala pena oseremmo metter piede, anche con un vento impetuoso. Il motoscafo non va mai come dovrebbe andare, ma procede alla meno peggio. Con imperturbabile consapevolezza, egli  lo porta a tre metri dagli scogli, verso i quali una turbolenta risacca minaccia di schiantarlo, pronto, ad esempio a scaricare il serbatoio di benzina danneggiato, nel quale è penetrata l’acqua, e a riempirlo di nuovo senza mai spegnere il motore. Se necessario, prepara contemporaneamente  la macchinetta del caffè per i suoi ospiti di bordo. Oppure gli riesce persino, con insuperabile maestria, di rimettere in funzione la sua auto difettosa con l’originale applicazione di un pezzetto di legno trovato casualmente per strada; e tuttavia solo fino a quando – sicuramente molto presto – si romperà di nuovo. Le riparazioni definitive sono per lui un misfatto; in quel caso, volentieri rinuncerebbe  del tutto all’automobile. In proposito non bada a nient’altro. Guarderebbe stupefatto qualcuno che volesse dirgli che questo non è il modo di adoperare un motore o in generale uno strumentario tecnico. Lo contraddirebbe energicamente: per lui l’essenza della tecnica sta nella messa in funzione del rotto. Nel trattamento dei macchinari difettosi è assolutamente sovrano e va ben al di là di ogni tecnica. Per la sua abilità di bricolage  e per la  prontezza di spirito con la quale egli spesso dinanzi a un pericolo riesce, con irrisoria semplicità, a ricavare da un difetto un salvifico vantaggio, egli ha più di qualche tratto in comune con l’americano. Ma in lui c’è la suprema ricchezza inventiva del bambino e tutto gli riesce, come al bambino. Come ai bambini, la ruota della fortuna gira volentieri a suo favore.
Ciò che invece è intatto, ciò che, per così dire, va da sé, è per lui inquietante e sospetto, proprio perché, in quanto va da sé, non si può davvero  mai sapere come e dove andrà. Infatti, se la cosa, sia pure approssimativamente, dà prova di funzionare come si pensava, egli cade in un’estasi per lo più accordata in chiave patriottica – “Evviva l’Italia!!” – ed è facilmente disposto a vedere se stesso e il suo Paese già al vertice della civilizzazione dei popoli. Ma di certo non è mai tanto in confusione come quando, anche per il treno da Castellammare a Napoli, che nel corso del suo mezzo secolo è  diventato sempre più logoro,  fino all’ultimo minuto non si riesce a sapere dove arriverà. 
Questa almeno è la filosofia del capostazione, che mi fu enunciata in risposta a una mia richiesta. Non si può far nulla, dal momento che ciò che è intatto funziona da sé, senza un particolare intervento, force majeure, e le vie del Signore sono imperscrutabili. All’incantesimo  si oppone come rimedio il fatto che la cosa, in ogni caso, si rompe. Dove la si può ancora riparare, lo si fa prontamente e persino più frequentemente di quanto un uomo prudente crederebbe necessario.  Certo, questo può dipendere dal clima, comunque non fa alcun danno, poiché infatti si deve solo pensare a rimettere in funzione la cosa. 
Pericolosi potrebbero diventare invece gli elementi che, come l’elettricità, non possono propriamente rompersi, e per i quali non si può accertare senza riserve se essi appartengano realmente a questo mondo. Per questo, tuttavia, Napoli ha approntato il suo luogo. Questi misteriosi, spirituali elementi scorrono senza impedimenti insieme alla gloria delle potenze religiose, e l’illuminazione festiva nell’immagine sacra dei napoletani  è gemellata con la corona radiosa della Madonna che affascina le anime devote. Al contrario, non c’è niente di più gravemente censurabile dell’illuminazione profana, intesa come utilizzazione pratica dell’elettricità a Napoli.
Un compianto assolutamente cosmico stringe il cuore al cospetto delle miserevoli  lampadine che con mortale afflizione ciondolano malinconicamente agli angoli delle strade, con disperata perseveranza,  schernite e disprezzate da tutti. E resta poi da chiarire l’inesorabile legge in forza della quale ogni due giorni nei tram va via la corrente; “la corrente non c’è” – ecco la semplice formula per questa congiuntura celeste. E’ possibile che forse il telefono sia effettivamente funzionante, se soltanto i numeri andassero per le proprie vie e il pubblico registro o gli uffici informazioni non fossero partecipi del mistero di questi numeri. Eppure, comunque vadano le cose nel dettaglio, tutto a Napoli non appartiene più all’ambito della mera tecnica. 
La tecnica comincia piuttosto soltanto dove l’uomo oppone il suo veto contro il chiuso ed ostile automatismo dei macchinari e lo fa rimbalzare nel suo mondo. In questo egli si dimostra veramente di gran lunga superiore alla legge della tecnica. Infatti si appropria della conduzione delle macchine non tanto perché ne apprende il dispositivo di manovra, quanto perché scopre in esso il suo proprio corpo. Dapprima distrugge la magia, ostile all’umano, dell’intatto funzionamento meccanico, e solo così si installa poi, una volta smascheratane la mostruosità, nella sua anima semplice,  e gode per averne effettivamente incorporato il possesso nell’illimitato dominio di un’esistenza utopicamente onnipotente.
Poiché non si affida più  all’arroganza tecnica del suo servile strumento, penetra con sguardo incorruttibile nell’ingannevole parvenza  del suo puro fenomeno; un pezzetto di legno o uno straccio funziona altrettanto bene.  Certamente però deve conservare ad ogni momento la potenza di ciò che ha vittoriosamente incorporato. Con angosciante verve va a caccia d’avventura,  infischiandosene di tutto, ed anzi se qualcosa non va in rovina, i muri lungo la strada o i carretti di asino o la propria macchina, tutta la scarrozzata in auto non ha avuto alcun senso. Un’autentica proprietà deve pur essere sfruttata fino in fondo, altrimenti non se ne ricava niente; deve essere usata e assaporata fino all’ultima briciola, fin quasi a distruggerla e divorarla. Eppure, nel complesso, il rapporto del napoletano con la sua macchina è bonario, solo un po’ brutale; esattamente come col suo asino.
Ancora connessa a pochi dei suoi usi canonici, la tecnica conosce qui delle straordinarie diversificazioni ed entra, con effetti tanto sorprendenti quanto convincenti,  in una forma di vita ad essa completamente estranea. Della radiosa lampada che innalza la gloria della madonna, abbiamo già detto. Come ulteriore esempio,  si può citare un motore a ruota che, estratto dalla carcassa di una sgangherata motocicletta, con le sue vorticose rotazioni intorno ad un asse leggermente eccentrico, serve a montare la panna in una latteria. In tali impensate maniere, la tecnica moderna procura per gli usi  pratici di questo XVII secolo, bizzarramente sopravvissuto a se stesso con tram elettrici e telefoni, la più squisita assistenza e si pone così al servizio della libertà di questa vita, sullo sfondo della massima involontarietà. I congegni meccanici non possono costituire qui quel continuo progresso civile al quale sarebbero destinati: Napoli gli gira le spalle. La tecnica moderna procede qui nel complesso come  quelle sperdute rotaie, che a Monte Santo corrono sotto le strade, desolate e arrugginite. La parola d’ordine che da qualche parte si era levata, non si sa quando, per audaci progetti è da tempo spenta e dimenticata.
Con la forza di una messa opera senza precedenti, sgorga per gli esultanti bambini del vicolo l’acqua che,  colando da qualche  conduttura danneggiata, scorre fin sulla bocca per il loro beato divertimento, e l’intero vicinato si rallegra per questa graditissima sorgente. In questa città i più complicati strumenti della tecnica si alleano per compiere le faccende più semplici, in un modo che nessuno ha mai immaginato. Per l’involontaria istituzione di tale utilizzo essi vengono completamente rimodellati e, conseguentemente, rinnegano i loro scopi più propri.

- Alfred Sohn-Rethel - (Traduzione di Fausto Pellecchia)

fonte: Uncommon