lunedì 21 ottobre 2024

Uno strano stenografo!!

Oltre che il titolo di una sua celebre opera teatrale, True West è la storia del lungo e accidentato viaggio di Sam Shepard da una piccola città della California fino a diventare un drammaturgo e una star del cinema di fama internazionale. Figlio unico di un padre alcolizzato con cui non è mai riuscito a relazionarsi, Shepard si è creato un personaggio pubblico come un autentico archetipo americano: il solitario, il cowboy, il vagabondo, lo straniero in terra straniera. In questa biografia “definitiva”, Robert Greenfield accompagna il lettore sui palchi di quartiere a Lower Manhattan negli anni Sessanta, nella scena jazz del Village Gate di New York, nel teatro off di Londra negli anni Settanta, nel leggendario tour Rolling Thunder di Bob Dylan e nella realizzazione delle sue opere maggiori, tra cui Buried Child (Il bambino sepolto), per cui ha ricevuto il premio Pulitzer nel 1979. Esplorando i rapporti del drammaturgo con Patti Smith, Bob Dylan, Joni Mitchell e Jessica Lange attraverso il lungo arco della sua brillante carriera, Greenfield descrive chi era veramente Sam Shepard, compiendo il ritratto di una personalità complessa e difficile da gestire. Ne emerge non solo un grande autore americano, ma anche un personaggio unico e ricco di sfaccettature che è stato in grado di trasformare il dolore delle sue esperienze di vita in opere geniali e per nulla canoniche, la cui accettazione ha sempre rappresentato un problema per pubblico e critica. Ribelle, visionario, talentuoso e mai scontato, Sam Shepard ha sempre reagito alle critiche nel miglior modo possibile: continuando a fare le cose a modo suo.

(dal risvolto di copertina di: Robert Greenfield, "True West. La vita il lavoro e i tempi di Sam Shepard", pagg.460, €24)

Sam Shepard bello e impossibile
- di Alberto Anile -

La prima cosa che s’impara leggendo True West di Robert Greenfield (appena tradotto ed edito da Jimenez) è che Sam Shepard era un formidabile contapalle. Mentiva alle sue donne, perché ne frequentava più di una per volta; mentiva ai giornalisti, per far più belle le sue risposte; usò le sovvenzioni destinate agli scrittori per comprarsi una Dodge Charger e una chitarra Stratocaster; quando lo chiamarono alla leva per il Vietnam si finse schizofrenico (anni dopo raccontò a un giornalista di essere stato riformato per due vertebre rotte cadendo da cavallo). La seconda cosa che s’impara è che Sam Shepard ha avuto una vita pazzesca, più avventurosa e affascinante dei protagonisti dei suoi drammi e dei personaggi interpretati al cinema. Era bello in modo spudorato, una specie di incrocio fra James Dean, Gary Cooper e l’uomo di Marlboro Country. È stato punk prima del punk, suonando la batteria con gli Holy Modal Rounders. Ha vinto il Pulitzer. Ha lavorato per un’agenzia investigativa e come inserviente in un locale musicale. Ha fatto abbondante uso di LSD e soprattutto metanfetamina («quando camminavi per strada era come avere le scintille sotto i piedi»). Joyce, la sua prima donna, lo abbandonò perché si rese conto d’essersi messa con un drogato, donnaiolo e figlio di un alcolizzato. Con Patti Smith, che per lui lasciò Robert Mapplethorpe, compose in due serate una nuova pièce. Joni Mitchell, un’altra delle sue amanti, scrisse per lui Coyote (album Hejira). Lasciò definitivamente la moglie, pluricornificata, per Jessica Lange: le chiese di sposarlo, rimanendo poi insieme trent’anni senza anello al dito.
Ha scritto un film per i Rolling Stones, Maxagasm, che non è stato mai girato. Ha cominciato a scrivere un film per Bob Dylan che poi, col titolo Renaldo e Clara, è diventato tutt’altra cosa. Ha cominciato a scrivere Zabriskie Point per Michelangelo Antonioni senza seguirlo fino alla fine. Ha scritto per Wim Wenders Paris, Texas, seguendolo fino alla fine ma rifiutando di interpretarlo. Accettò di interpretare Settembre di Woody Allen ma poi il regista buttò via l’intero film e lo rigirò con un altro cast. Figlio di un aviatore, non sopportava di andare in aereo. La sera del debutto di una delle sue piéce, subì un tentativo di rapimento (un pittore mezzo matto ce l'aveva con lui perché a suo parere si stava troppo commercializzando), e quella stessa notte il locale in cui si festeggiò la "prima", chiuso miracolosamente anzitempo, venne raso al suolo da una carica esplosiva piazzata dalle Pantere Nere. La lettura di queste oltre 400 pagine andrebbe fatta con un computer davanti, cercando le foto descritte lungo gli snodi fondamentali della biografia: Shepard e Patti Smith sul balcone del Chelsea Hotel, Shepard e il padre alcolizzato l’ultima volta che s’incontrarono, Shepard e Lange beccati dal paparazzo Ron Galella, la foto segnaletica di Shepard 72enne, arrestato per quella che sembrava ubriachezza (ed erano invece i primi sintomi della sla). Greenfield racconta la grande facilità con cui Shepard scriveva. «Per me, quello non era un problema», sosteneva il drammaturgo. «C’erano così tante voci che non sapevo da dove cominciare. Era splendido, davvero. Mi sentivo come una specie di strano stenografo. Non intendo farla passare per un’allucinazione, ma di sicuro c’erano delle cose là fuori e io mi  imitavo a metterle per iscritto».
Si parla tanto di capolavori come Curse of the Starving Class, Il bambino sepolto, True West e Pazzo d’amore ma a Greenfield interessa più l’uomo dell’autore, più i fatti che l’analisi delle opere. D’altra parte la stragrande maggioranza di ciò che Shepard ha scritto è una versione rimaneggiata di una vita rock ’ n’ roll. Si potrebbe realizzare un’opera teatrale o un film su di lui utilizzando esclusivamente brani dai suoi testi. Allora, domanda: scriveva perché la vita folle che ha vissuto reclamava di essere messa su carta o ha vissuto al massimo perché sapeva che questo poteva nutrire i suoi scritti? Alla fine del libro il mistero di Sam Shepard rimane intatto, ma lo ami di più. Qualche difetto però il volume ce l'ha. Anche di traduzione: le macchine da presa del cinema non sono «telecamere» ma «cineprese», e i testi per il teatro si chiamano «copioni» non «sceneggiature». Greenfield elargisce a volte dettagli inutili (a cosa ci serve sapere che nel '59 «il milkshake Silver Goblet, disponibile solo al cioccolato, alla vaniglia e alla fragola, veniva trenta centesimi»?. Poi, come capita spesso ai saggisti americani, topp quando parla di italiani: secondo lui, «Zabriskie Point è stato il più grande fallimento critico e commerciale della carriera di Michelangelo Antonioni» - ma ti pare?

- Alberto Anile, pubblicato su Robinson del 14/1/2024 -

domenica 20 ottobre 2024

Le Trasformazioni del Capitalismo Contemporaneo !!

Il libro che avrei voluto fare
di @Marcos Barreira

Spesso, Moishe Postone è tato criticato a causa della natura astratta del suo approccio teorico. Tale immagine, è dovuta soprattutto al suo libro “Tempo, lavoro e dominio sociale”, nel quale egli propone una reinterpretazione della critica di Marx al capitalismo che si concentra sulle categorie fondamentali del capitalismo. Questo approccio tuttavia non esclude la “politica”, lo Stato o le categorie della circolazione del mercato, ma esclude però una lettura del capitalismo che possa derivare immediatamente da tali categorie. Quindi, Postone propone piuttosto un'immersione nei rapporti di produzione in senso stretto, ivi compresi i concetti di valore, plusvalore e accumulazione, evidenziando il modo in cui - e quanto - le teorie marxiste tradizionali si siano allontanate da questo piano più astratto e più fondamentale, per andare invece direttamente al cosiddetto “concreto”. Il risultato di quella che ha finito per diventare un’eliminazione sistematica delle diverse mediazioni teoriche, si è risolto nell’avere così involontariamente ridotto le categorie della produzione al piano della distribuzione/circolazione. Postone aveva inoltre sviluppato anche un insieme non sistematico di analisi sulle diverse trasformazioni fondamentali del capitalismo che c'erano state nel corso del XX secolo. Esse riguardavano in particolare la formazione di un ordine sociale post-liberale centrato sullo Stato, e la progressiva crisi di tale sintesi “statale” e “fordista”, avvenuta a partire dagli anni Settanta. Sulla base di questo quadro, Postone suggeriva pertanto che il socialismo sovietico non era stato affatto una formazione sociale che aveva superato il capitalismo, ma si era trattato piuttosto di una variante “fallita” del regime di accumulazione capitalista, entrata in crisi proprio a partire dal fallimento della sintesi statale più generale. In diversi testi, Postone ha affrontato le principali e diverse teorie del capitalismo contemporaneo - da Daniel Bell ed Ernest Mandel ai post-strutturalisti, ad Habermas e fino alle attuali letture della globalizzazione, come quelle fatte da Harvey e Arrighi. Così, insieme alle sue originali analisi dell'antisemitismo moderno, che avevo riunito nel volume “Antisemitismo e nazionalsocialismo” (Consequencia, 2020), i saggi di Postone sulle trasformazioni del capitalismo nel XX secolo rappresentano pertanto il necessario complemento alla sua iniziale reinterpretazione a livello categoriale della critica di Marx. In “Tempo, lavoro e dominio sociale”, Postone aveva annunciato un suo lavoro, che sarebbe stato sistematicamente incentrato sulle forme concrete del capitalismo nel XX secolo. Successivamente, ha poi abbandonato il progetto del libro, ma tuttavia ci ha lasciato quanto meno tutta una serie ragionevole di analisi frammentarie. A partire da questo, il mio progetto di pubblicare gli scritti di Postone presso "Consequencia Editora" prevedeva tre volumi: 1) l'antisemitismo e il nazionalsocialismo; 2) la reinterpretazione della critica di Marx al capitalismo; 3) le trasformazioni del capitalismo contemporaneo. In questo modo avremmo potuto avere una panoramica completa di tutta la sua opera.  Purtroppo il progetto si è fermato al primo volume, che ora viene pubblicato, in francese.

@Marcos Barreira

Moishe PostoneLa Société comme moulin de discipline. Les pensées critiques à l’épreuve des transformations historiques du capitalisme. Éditions Crise & Critique

Questi ultimi decenni sono stati segnati da impressionanti sconvolgimenti: il crollo dell' Unione Sovietica, l' affermazione del neoliberismo, la crisi globale e il tracollo ecologico. Tutti questi eventi hanno scardinato l'illusione della “Fine della Storia” e hanno evidenziato un'urgente bisogno di comprendere le dinamiche della modernità e delle sue trasformazioni. Moishe Postone, noto per la sua reinterpretazione di Marx, propone in questo libro un'analisi di questi mutamenti ed esplora le varie fasi del capitalismo dal XIX al XXI secolo. Egli mostra il modo in cui il capitalismo e la sua spinta compulsiva alla produttività siano stati al centro di tutte queste trasformazioni. Questa pulsione vorace, sempre avida di espansione e di profitto, consuma ogni e qualsiasi sforzo bruciandolo sull'altare della insaziabile necessità di produrre e consumare sempre di più, e sempre più velocemente. Tale dinamica è paragonabile ai mulini disciplinari delle prigioni vittoriane, dove i prigionieri azionavano manualmente le ruote dei mulini. Essa costituiva una nuova società disciplinare, nella quale le strutture dell'azione non sono meramente esterne, ma erano interiorizzate dagli individui stessi, costretti a conformarsi alle norme e agli imperativi di quella società.  Attraverso un'illuminante analisi - condotta sugli autori della Scuola di Francoforte e su eminenti figure del marxismo e della filosofia, come Jürgen Habermas, Jacques Derrida, Nancy Fraser, Giovanni Arrighi, Robert Brenner e David Harvey - Postone esplora il modo in cui il campo intellettuale ha colto tali trasformazioni, e lo fa ponendo questi autori di fronte ai loro limiti e alle loro incongruenze.  Una lettura essenziale ai fini della comprensione del complesso funzionamento del capitalismo e per cogliere la storia del pensiero critico che lo ha studiato.

Table des matières:
Première partie : L’Ecole de Francfort face au tournant du capitalisme postlibéral au XXe siècle
    La Théorie critique et le XXe siècle
    La Théorie critique et les transformations historiques de la modernité capitaliste
Deuxième partie : Le tournant du capitalisme néolibéral à partir des années 1970 et les théories post-industrielles
    Histoire et théorie critique sociale : Une recension critique de la Théorie de l’agir communicationnel de Jürgen Habermas
    Théorie politique, dynamique du capitalisme et analyse historique : À propos de Jürgen Habermas, Michael Schudson et Nancy Fraser
    La déconstruction comme critique sociale : ce que Jacques Derrida pense de Marx et du nouvel ordre mondial
    Théoriser le monde contemporain : une lecture critique de Robert Brenner, Giovanni Arrighi et David Harvey
Troisième partie : La crise mondiale de 2008 et l’anachronisme de la valeur
    La crise en cours et l’anachronisme de la valeur. Une lecture marxienne
    Que le capital ait des limites ne signifie pas qu’il va s’effondrer – entretien avec Agon Hamza et Frank Ruda
    Penser la crise planétaire : un tour d’horizon de quelques analyses de la crise contemporaine

sabato 19 ottobre 2024

Un “neo-antimperialismo”, che è ancora più triste di quello vecchio…

Fantasmi antimperialisti
- di Felyx Feyerabend & Kris Teva -

A tutt'oggi, la visione del mondo dell'antimperialismo - dottrina di Stato degli Stati sovietici e punto di orientamento della Nuova Sinistra - determina i modelli interpretativi dei gruppi e dei movimenti di sinistra. Ciò è stato recentemente dimostrato dalle reazioni al 7 ottobre. Gruppi come “Studis gegen rechte Hetze” coniugano l'antimperialismo classico a modelli di argomentazione postmoderni, cosa che li rende particolarmente popolari nelle università: «In breve, dovevamo rompere con tutte le sfaccettature della concezione leninista-stalinista della liberazione nazionale, che aveva determinato la politica del Comintern fin da subito e che avevamo acquisito nel corso della ricezione del marxismo-leninismo all'inizio degli anni Settanta (...) Era in gioco l'eredità che si è impressa nelle nostre menti e che determina il nostro pensiero politico molto più di quanto spesso ci rendiamo conto. Il ricorso alla storia non può risolvere le difficoltà che abbiamo di fronte più di quanto non lo faccia un riferimento enfatico alle lotte globali» (RZ, 1991). Nel 1991, le Cellule Rivoluzionarie (RZ) pubblicarono un testo dal titolo “Gerd Albartus è morto”. Albartus, un ex membro del gruppo, si era unito a una cellula terroristica palestinese ed era stato assassinato da questa cellula per motivi sconosciuti. Il testo non rappresenta solo il necrologio di un ex compagno, ma è anche l' amaro elogio di un dato di fatto che fino a quel momento la sinistra aveva ritenuto indiscutibile: l'antimperialismo. Il sostegno incondizionato ai movimenti di liberazione nazionale, finalizzato a contrastare l'egemonia geopolitica dell'Occidente, aveva oscurato la visione critica nei confronti del retroterra reazionario delle lotte antimperialiste. In linea con le dottrine di partito degli Stati membri del blocco, l'antisemitismo veniva romanzato come una necessaria lotta contro il “sionismo imperialista”. Il fatto che durante il dirottamento di Entebbe i viaggiatori ebrei siano stati separati dal resto dei passeggeri è stata solo la peggiore delle tante manifestazioni del loro Antisemitismo. [*1] L' autocritica della RZ, a cui, nonostante alcuni errori analitici, va riconosciuta la spietatezza nei confronti della propria storia, sembra oggi cadere nel vuoto. Nella sinistra radicale non si è ancora affermata la consapevolezza che i popoli oppressi possano diventare popoli in senso negativo. Ciò è stato chiaramente dimostrato dalle reazioni che alcuni gruppi di sinistra hanno avuto nei confronti del massacro di Hamas del 7 ottobre 2023. Se si volesse tentare di fare un resoconto completo delle varie posizioni e dichiarazioni emerse negli ultimi cinque mesi, probabilmente esso sarebbe destinato a fallire; tante sono state le dichiarazioni rilasciate da allora in poi. Mentre alcuni hanno sfruttato il più grande pogrom contro gli ebrei dai tempi della Shoah come un'opportunità per intensificare l'attenzione sull'antisemitismo (anche all'interno dei propri ranghi) [*2], altri, dopo settimane di silenzio, si sono esercitati in astratti appelli alla pace.[*3] Molto più gravi - per quanto non sorprendenti - sono state le posizioni assunte da alcuni importanti gruppi antimperialisti. La loro visione reazionaria del mondo è emersa come raramente era accaduto in precedenza. Nel contesto universitario di Francoforte, il gruppo “Studis gegen Rechte Hetze” (Studenti contro l' attività di destra) ha suscitato particolare attenzione relativizzando il pogrom, o addirittura accogliendolo come un'azione di resistenza anticoloniale. È vero che gruppi come questo non hanno mai avuto un ruolo di primo piano in quello che resta oggi della sinistra radicale. Tuttavia, gli schemi interpretativi dell'antimperialismo classico stanno riguadagnando complessivamente importanza.[*4] L'attuale attrattiva esercitata da una visione antimperialista del mondo, da un lato, può essere attribuita al disorientamento della sinistra radicale, nei confronti della quale offre ricette semplici. Dall'altro lato, la sua fusione con i temi dell'antirazzismo postmoderno consente una capacità di connessione che va al di là dei confini della nostra scena. La politica degli “studenti contro le agitazioni di destra” è esemplare di questo tipo di rinnovato antimperialismo identitario, che mentre può riferirsi alle certezze postcoloniali diffuse nelle università, allo stesso tempo si basa sulla ben nota visione del mondo legata a un antimperialismo manicheo.In questo contesto, il termine antimperialismo non si riferisce ai reali movimenti storici di emancipazione contro l'imperialismo e il colonialismo, ma a una specifica interpretazione marxista-leninista di tali lotte. Questa interpretazione, come movimento, in Germania ha vissuto il suo ultimo grande periodo di splendore con la svolta dogmatica di ciò che restava del '68. Pertanto, l'antimperialismo ha caratterizzato anche il fallimento della sinistra antiautoritaria, che va capito se si vuole comprendere il successo del nuovo antimperialismo.

Dal cosmopolitismo all'antimperialismo
«L'incubo, la realtà ci ha disturbato. La guerra di giugno non rientrava nella nostra visione del mondo. Nella “Interpretazione dei sogni”, Freud critica così la morale: “In ogni caso, è sempre istruttivo conoscere questo terreno molto battuto su cui si innalzano con orgoglio le nostre virtù (...)”. In Germania, il terreno così tanto battuto doveva essere stabilito attraverso semplici soluzioni alternative. I figli della sinistra morale volevano separarsi dalle colpe dei padri di destra. A partire dal 1967, abbiamo seguito la dialettica della moralità astratta. Logicamente, ciò si è concluso con una solidarietà acritica nei confronti dei palestinesi». (Detlev Claussen, 1983)In questo suo testo autocritico, “Nella casa del boia”, Detlev Claussen riflette sul riorientamento della Nuova Sinistra, che ebbe inizio nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni. Durante il suo periodo di formazione nella Germania occidentale del dopoguerra, la Nuova Sinistra aveva accostato l'imperativo “Mai più Auschwitz” al vecchio slogan di sinistra “Mai più guerra”, per sottolineare un'insufficiente comprensione del significato della Shoah. La realtà della Shoah, avendo dimostrato in modo terribile che poteva esistere qualcosa di peggiore della guerra (qualcosa di peggiore che, in ultima analisi, avrebbe potuto essere concluso solo con la guerra stessa), aveva fondamentalmente messo in discussione la visione politica della sinistra. Il progetto politico della sinistra antiautoritaria, per quanto frammentario e di breve durata, costituiva un tentativo di trovare delle risposte a questo interrogativo. Di conseguenza, la linea politica delle organizzazioni di sinistra del dopoguerra tedesco rimase la solidarietà trasversale con Israele. La solidarietà con lo “Stato dei sopravvissuti” faceva parte, almeno all'apparenza, dell'immagine che la sinistra aveva di sé.Nella misura in cui l'esame critico della generazione degli artefici del nazionalsocialismo e dell'antisemitismo non fosse già una falsa proiezione nell'eredità politica della Nuova Sinistra, al più tardi a partire dal 1967 prevalse un atteggiamento completamente diverso.[*5] Dopo la Guerra dei Sei Giorni tra Israele e i Paesi confinanti, Egitto, Giordania e Siria, l'antimperialismo e con esso l'antisionismo si spostarono al centro del sistema di coordinate della sinistra. Mentre in precedenza la Nuova Sinistra era impegnata nell'internazionalismo in “un senso fortemente ebraico e cosmopolita” (Dan Diner), ora l'antimperialismo si esprimeva attraverso una crescente glorificazione dell'etnicità e della indigeneità. Invece di opporsi all'imperialismo, in senso marxiano, nel quadro di un imperativo di liberazione universalistico per liberare i popoli dalla loro condizione di schiavitù, l'autodeterminazione nazionale e culturale veniva elevata a fine in sé. A ciò si associava un rifiuto della teoria critica e una ri-tradizionalizzazione dei contenuti: anziché riflettere sull'esperienza storica dell'integrazione del proletariato tedesco nella comunità nazionale, e sulla rottura della civiltà avvenuta ad Auschwitz, si faceva riferimento a un marxismo tradizionale ormai superato, o ai suoi modelli. Ciò ebbe gravi conseguenze teoriche: Il nazionalsocialismo venne sussunto sotto un concetto marxista-leninista di fascismo, il quale relativizzava il significato dell'antisemitismo e la natura senza precedenti della Shoah. Fedele alla tesi di Dimitroff,[*6] il fascismo venne rappresentato come una “dittatura terroristica degli elementi più reazionari, sciovinisti e imperialisti del capitale finanziario”, mentre l'antisemitismo come ideologia venne inteso tutt'al più come uno strumento per dividere la classe operaia. Questo regresso teorico fece perdere di vista la consapevolezza che l'antisemitismo non è solo un mero strumento della classe dominante, ma è il risultato della modernità capitalistica stessa. Questo slittamento preparò il terreno per una riabilitazione della nazione, che veniva proposta come punto di riferimento positivo contro il “capitale monopolistico imperialista”, rispetto all'internazionalismo, che era stato invece degradato ad antimperialismo.Il declino della sinistra antiautoritaria iniziò con la fase di fondazione dei K-Gruppen, nei quali si cercò di costruire un partito proletario di massa. Dato che il proletariato tedesco non mostrava particolare interesse per questo progetto, ci si rivolse sempre più ai movimenti di liberazione nazionale del Sud globale. Malgrado gli innumerevoli punti di contrasto, la maggioranza dei gruppi K concordava sul fatto che il fulcro della liberazione nazionale contro l'Occidente imperiale avrebbe dovuto essere la Palestina [*7]. Dal momento che consideravano i sionisti come i “nazisti dei nostri giorni” (KPD/AO), e le ex vittime come i nuovi carnefici, ora non avrebbero più dovuto preoccuparsi della colpevolezza della nazione tedesca, e avrebbero potuto dare libero sfogo al loro antisemitismo secondario [*8]. Nel 1974, meno di 30 anni dopo la fine del nazionalsocialismo, il KPD/ML propugnava: “La Germania al popolo tedesco”, chiedendo il ritiro degli Alleati e il rifiuto della tesi della colpa collettiva.[*9] Per quanto la cosiddetta tesi della colpa collettiva non sia mai stata così egemonica, come i suoi critici nazionalisti l'hanno fatta passare, la sua difesa a oltranza era perfettamente adatta per negare la responsabilità dei tedeschi. Ironia della sorte, oggi questo schema interpretativo si ripete sotto auspici apparentemente antitedeschi, con lo slogan “Liberare la Palestina dalla colpa tedesca”. La richiesta implicita, allora come oggi, è che il significato e la valenza di Auschwitz scompaia dalle menti e dalle analisi politiche della gente [*10].La valorizzazione dell'indigeneità e del particolarismo culturale, che prevaleva nella politica dei gruppi K, può essere ritrovata oggi, in una nuova veste, anche tra i gruppi antimperialisti. Nel 2020, ad esempio, il gruppo “Free Palestine FFM” ha usato una manifestazione contro le condizioni nel campo profughi di Moria come occasione per affermare che la fondazione dello Stato di Israele è avvenuta contestualmente all'espulsione del “popolo indigeno, i palestinesi”. La richiesta connessa a questa rivendicazione era chiara: “Uniamo le nostre lotte antimperialiste!” e una parte dei partecipanti alla manifestazione ha intonato “Yallah Yallah Intifada" [*11] e “Dal fiume al mare…" [*12]. Nel momento in cui “Migrantifa Hessen” (uno dei gruppi antirazzisti coinvolti) ha preso le distanze dalla manifestazione, ecco che lo “Studis gegen Rechte Hetze” ha immediatamente preso atto che il gruppo si era trasformato in un “gruppo anti-tedesco razzista locale”.La crescente paranoia riguardo a una presunta “ trasformazione antitedesca” dei gruppi e delle alleanze di sinistra costituisce un altro esempio della natura irrazionale delle proiezioni antimperialiste. La sinistra antitedesca, oggi marginale e insignificante come probabilmente non lo è mai stata dalla sua comparsa negli anni '90, viene sospettata di trovarsi dietro ogni opposizione interna alla sinistra rispetto alle sue stesse posizioni. La “critica” a Israele, secondo la quale lo Stato ebraico sarebbe dietro ogni ingiustizia nel mondo, è altrettanto delirante. Nel febbraio di quest'anno, ad esempio, è stato strumentalizzato l'anniversario dell'attacco razzista di Hanau ed è stata indetta una manifestazione con lo slogan “Da Hanau a Gaza”. Nel farlo, sono stati invocati presunti parallelismi con la “politica coloniale israeliana”. Naturalmente, non sono stati menzionati i paralleli tra la visione del mondo antisemita dell'aggressore di Hanau e quella di Hamas, contro cui lo Stato israeliano svolge una funzione protettiva.

Spettri con lenzuoli nuovi
Dalla sua fondazione avvenuta nel 2019, la pratica politica degli “Studenti contro l'agitazione di destra” è principalmente consistita nella demonizzazione di Israele. È apparso subito chiaro che non erano interessati a criticare le attività di destra all'interno dell'università. A metà del 2020, il gruppo ha sostenuto un appello degli antisemiti di “Free Palestine FFM” per la “commemorazione della Nakba”, nella quale si inveiva contro il “colonialismo dei coloni” e l'“apartheid” di Israele. Da allora, il gruppo ha promosso sempre più il suo profilo antimperialista. Non esitano a disturbare gli eventi che trattano il tema dell'antisemitismo, né a diffamare pubblicamente i compagni che criticano l'antisemitismo definendoli razzisti, né a collaborare con organizzazioni come Samidoun [*13]. Alcuni membri del gruppo hanno persino partecipato alla “Giornata di Al-Quds”,  quest'anno a Francoforte. Questa giornata internazionale di mobilitazione è stata voluta da Ruhollah Khomeini, il leader religioso della “rivoluzione islamica” iraniana, e propugna apertamente la distruzione di Israele. Nel gennaio di quest'anno, il gruppo ha interrotto una lettura organizzata da diskus e AStA sul libro “Judenhass Underground”, che trattava dell'antisemitismo nelle sottoculture. Questo ha mostrato le caratteristiche del loro attivismo politico: invece di discutere il contenuto, hanno provocato un'espulsione per poi definirla “a sfondo razziale”. Questa politica simbolica non riguarda il dibattito politico, ma la mera rappresentazione di sé. Ciò che è nuovo in gruppi come quello degli “Studis” non è tanto l'antimperialismo, che ha dominato fin dai gruppi K, ma piuttosto la sua combinazione con dei modelli postmoderni di argomentazione. Dal punto di vista retorico, essi utilizzano regolarmente il repertorio della teoria del discorso e quella del punto di vista. Ad esempio, quando le opinioni dissenzienti di altri gruppi politici (antirazzisti) vengono delegittimate, sostenendo che essi “non parlano a nome di tutte le persone di origine migrante in Assia; e [non] potrebbero mai farlo, anche se fingono di farlo esteriormente”. Anziché sostenere discussioni sostanziali, ci si limita a squalificare il punto di vista dell'altro: è la “strategia discorsiva” della sinistra postmoderna. Questo antirazzismo rimodellato in chiave identitaria, condivide con l'antimperialismo degli anni Settanta e Ottanta una visione manichea del mondo. Il primo utilizza principalmente dei pezzi teorici della teoria postcoloniale. In origine, sosteneva l'esatto contrario rispetto alle sue manifestazioni attuali: sebbene le grandi narrazioni coloniali dovessero essere criticate, ciò doveva essere fatto senza sostenere la dicotomia semplicistica tra colonizzato e colonizzatore (come lo si trova nelle teorie imperialiste dell'antimperialismo). Piuttosto, vengono enfatizzate le “posizioni ibride del soggetto” al fine di evitare una modalità di argomentazione essenzialista, o nazionalista. Poiché il post-colonialismo, in quanto prodotto del post-strutturalismo francese, poteva cogliere il contesto di dominio dello sviluppo capitalistico globale solo su un piano discorsivo-teorico fatto di narrazioni e contro-narrazioni, era pertanto ovvio, per interpretare i meccanismi economici di sfruttamento tra Nord e Sud, ricadere in degli schemi argomentativi antimperialisti semplificati. Per molti autori della teoria postcoloniale, tutto ciò si traduce in una contraddittoria confusione di forme argomentative anti-essenzialiste e decostruttiviste, con la contemporanea identificazione acritica con le “identità subalterne” del Sud globale.Uno sguardo più attento rivela che questa contraddizione è insita nella teoria. Poiché le teorie post-coloniali rifiutano qualsiasi nozione di totalità capitalistica, in quanto discorso eurocentrico, possono identificare un punto di riferimento non capitalista nel Sud del mondo. Non è quindi per caso che teorici post-strutturalisti o postcoloniali come Judith Butler, Edward Said o Gayatri Chakravorty Spivak abbiano dei problemi a criticare i movimenti reazionari nel Sud del mondo. Dopo tutto, dal loro punto di vista, una tale critica corrisponderebbe già a una "visione coloniale dell'altro".[*14] Di conseguenza, non solo si evitano le critiche, ma si glorificano i movimenti islamisti o pan-arabi (nazionali) vedendoli come resistenza anticoloniale.[*15] Sullo sfondo di tali teorie, una visione realistica del conflitto in Medio Oriente sembra essere estremamente difficile, se non impossibile. La vaghezza concettuale e la natura contraddittoria della teoria post-coloniale favoriscono una visione politica del mondo dove la dominazione sociale può essere proiettata unilateralmente nel soggetto collettivo del cosiddetto "Occidente". Il modo in cui questo costituisca il legame con l'antimperialismo classico, potrebbe essere osservato nel corso del posizionamento sulla guerra di aggressione della Russia contro l'Ucraina. Anziché accusare il partito della guerra più forte per il violento conflitto scatenato dall'imperialismo – come spesso si fa altrove – la guerra è stata considerata dagli "Studis" - o dal gruppo universitario di sinistra SDS - come se fosse un'opportunità per rendere edotti a proposito delle strutture fasciste in Ucraina. [*16] D'altra parte, non è stata detta una sola parola sull'influenza del pensiero neofascista di Alexander Dugin per quanto riguarda il dominio sempre più totalitario da parte dello Stato russo, o sulle atrocità e i crimini di guerra commessi dal suo esercito e dai suoi racket. Lo schema che viene seguito: il presunto antifascismo viene giustificato solo finché esso è diretto contro "l'Occidente collettivo" (Putin). Di conseguenza, le persone di sinistra, che semplicemente non vogliono adottare la narrativa propagandistica della Russia sulla denazificazione dell'Ucraina, vengono spesso insultate come "persone di sinistra della NATO". 

Capitale concreto, liberazione astratta 
Perché dei gruppi autoproclamatisi di sinistra difendono implicitamente o esplicitamente una grande potenza autoritaria (statale) capitalista? Sono stati gli stessi "studenti" che hanno fornito una risposta nel corso di una conferenza sul clima, l'anno scorso. Alla conferenza, hanno fatto saltare un dibattito in cui si criticava l'oppressione delle minoranze etniche e si chiedeva la decolonizzazione della Russia. Due sono state le posizioni opposte della critica post-coloniale: da un lato, la versione altrettanto reazionaria, ma comunque coerente, di un relativismo culturale che chiedeva il ritorno a un ordine etnico-culturale di piccoli Stati in Russia, e, dall'altro, una versione sostenuta dal quadro di riferimento marxista-leninista della Guerra Fredda, che invoca la decolonizzazione solo quando si tratta di nazioni occidentali. Il fatto che le due parti siano più vicine l'una all'altra in termini di contenuto, rispetto alla rumorosa battaglia suggerita in quel momento, è stato dimostrato dall'incapacità di alcuni partecipanti a decidere su quale parte dei fronti, che si urlano contro l'un l'altro, dovesse essere schierata. Prima di passare a insultarsi l'uno con l'altro, gli "studenti" hanno giustificato ancora una volta il proprio risentimento: la teoria dell'imperialismo di Lenin mostra che il pericolo viene principalmente dagli Stati dominati dal monopolio del capitale finanziario. Qualsiasi critica alle attività dello Stato russo e dei suoi alleati, serve quindi solo a legittimare "l'imperialismo della NATO". Nelle dichiarazioni pubbliche, hanno ulteriormente elaborato la loro argomentazione: la guerra, che continua ancora oggi, è una strategia di "banche occidentali e di hedge fund" che si stanno preparando "alla privatizzazione e alla svendita delle società e delle infrastrutture ucraine". [*17] In questa argomentazione, non solo vengono adottati i presupposti errati della teoria dell'imperialismo di Lenin, ma anche la sua critica abbreviata del lavoro e del capitale. Il governo viene inteso semplicemente come un blocco di potere monolitico di Stato e Capitale, l'ideologia viene vista semplicemente come la sua narrazione di menzogne. Così, vengono criticate solo le manifestazioni esteriori della società capitalistica, del mercato finanziario o dei rapporti di proprietà, senza tener conto del valore e del lavoro su cui si basa, in quanto forme storicamente specifiche di mediazione della società capitalista. Moishe Postone ha descritto il ritorno di questo falso anticapitalismo sotto forma di critica dell'imperialismo, vedendolo come "neo-anti-imperialismo". Le componenti di questa visione del mondo sono la "concretizzazione dell'astratto, una feticizzazione del capitale globale nella forma degli Stati Uniti, o, in alcune varianti, degli Stati Uniti e di Israele". Postone ha osservato questa tendenza sullo sfondo della guerra in Iraq. La sua analisi rimane attuale. Oggi è la Russia post-sovietica, che sta emergendo come se fosse la presunta antitesi del capitalismo dei mercati finanziari dell'Occidente. Pertanto, per il neo-anti-imperialismo, la Russia - che è caratterizzata da una politica industriale controllata dallo Stato, dall'estrazione delle risorse e dalla sua trasformazione industriale - rappresenta l'amministratore del "buon" lavoro industriale, che deve essere difeso contro il capitale finanziario concretizzato in Occidente.[*18] 

Reazione eterna
Sullo sfondo di una simile analisi capovolta, ogni e qualsiasi azione di attori subalterni – in cui la Russia viene impropriamente inclusa – appare al neo-antimperialismo come se si trattasse di una mera reazione all'azione reale dell'Occidente. Di conseguenza, tutti questi gruppi a volte adottano alla lettera quelle che sono delle ovvie narrazioni propagandistiche: la favola di Putin di una guerra antifascista contro l'Ucraina, o la reinterpretazione di un pogrom che viene visto come la fuga da una "prigione a cielo aperto". [*19] Riducendola a mera reattività, la violenza degli attori "subalterni" viene ripetutamente relativizzata implicitamente o esplicitamente. Inoltre, il problema dell'ideologia scompare dalle analisi. Se si dovessero spiegare le azioni di Hamas come attive, si dovrebbe, per esempio, fare i conti con l'ideologia che sta dietro la violenza. Il fatto che questo non venga fatto, da parte di molti gruppi più "moderati" della sinistra radicale, testimonia quanto la visione manichea del mondo dell'anti-imperialismo faccia ancora parte del "senso comune" della sinistra. Un esempio di ciò, è una dichiarazione della Sinistra Interventista di Francoforte a proposito della "Situazione in Israele/Palestina": sebbene il massacro antisemita del 7 ottobre sia stato chiaramente definito e condannato come tale, si evita di usare qualsiasi spiegazione per l'antisemitismo. Così, mentre una critica all'islamismo, che è costitutivo dell'antisemitismo di Hamas, rimane completamente nascosta, la causa della "escalation" viene attribuita a un indefinito stato d'animo di guerra e di militarizzazione.[*20] Invece di affrontare in maniera materialista le condizioni sociali dell'ideologia antisemita, vale a dire, ideologicamente critica, essi argomentano astrattamente contro una "logica di guerra", in modo da poter così mantenere una presunta equidistanza neutrale tra entrambe le parti. Tuttavia, è diventato subito chiaro che questo falso equilibrio non viene preso davvero sul serio: in un appello a manifestare [*21], a cui hanno partecipato, si parla di un "genocidio" e di una "ondata di annientamento" contro i Palästinenserinnen. In definitiva, la differenza tra la guerra israeliana e le sue crudeli conseguenze, per la popolazione civile di Gaza da un lato, e la campagna antisemita di annientamento di Hamas dall'altro, non solo è sfumata al punto da essere irriconoscibile, ma viene addirittura invertita. Tutti questi esempi testimoniano, in varia misura, l'efficacia duratura di una "ideologia anticapitalista feticizzata", così come si esprime (nel vecchio e nel nuovo) l'anti-imperialismo fino ad oggi. «Questa visione manichea del mondo, insieme all'assoluta semplificazione e glorificazione del Terzo Mondo, era già un errore alla fine degli anni '60, oggi è solo triste», scriveva Postone nel 1977. La permanenza dell'antimperialismo, mezzo secolo dopo è ancora più triste. 

- Felyx Feyerabend & Kris Teva - 20.05.2024 / Hochschule - Pubblicto du diskus -


NOTE:

1 -  "Gerd Albertus è morto": http://www.freilassung.de/div/texte/rz/zorn/Zorn04.htm

2 - Ne è un esempio, la dichiarazione "Nessuna solidarietà con l'antisemitismo, la misoginia e l'islamismo", a cui purtroppo finora ha aderito solo una frazione della sinistra radicale di Francoforte (compreso il gruppo di base antifascista, Ffem, Ökolinx e altri):https://antifa-basisgruppe.org/kein-schulterschluss-mit-antisemitismus-misogynie-und-islamismus/&nbsp

3 - Gli appelli astratti alla pace sollevano lo stesso problema del pacifismo in generale: l'analisi delle condizioni storiche di un conflitto, e quindi della sua possibile fine non confluisce nel posizionamento politico.

4 - Ciò è evidenziato anche dal boom di gruppi rossi come "Aurora Räteaufbau", "Rotes Mainz" o "Zora" (per citare solo alcuni esempi a Francoforte e dintorni), che adottano in gran parte narrazioni dell'anti-imperialismo classico. Emanuel Kapfinger descrive questo fenomeno, osservabile da diversi anni, come "neo-leninismo", nel quale si cerca di trovare risposte alle vere debolezze della sinistra radicale. Vedi: https://www.akweb.de/ausgaben/684/neuer-leninismus-proletarische-wende-hans-juergen-krahl/

5 - Mentre nel 1964, quando il governo della Germania Ovest inviò circa 500 tecnici missilistici in Egitto per aiutare a sviluppare armi da lancio, c'erano ancora critiche nel discus che "gli stessi tedeschi che ieri costruivano inceneritori stanno oggi costruendo razzi per i loro 'amici' con i quali i sopravvissuti degli inceneritori devono essere distrutti", è stato proclamato nel 1972 che "la pace di Israele [è] la pseudo-pace di una testa di ponte dell'imperialismo, che si vede sempre più accerchiato dalla lotta antimperialista dei popoli oppressi dell'Arabia che prendono le armi". Il fatto che l'analisi della stessa rivista sia stata completamente ribaltata nel giro di otto anni esemplifica la trasformazione della Nuova Sinistra. Prima citazione: Bert Welz (1964): "Doppia immoralità". In: Discus (n. 8, dicembre, p.1.) Seconda citazione: Erwin Erpel (1972): Zionismus. Cinismo. In: Discus (n. 5, novembre, p. 23).

6 - La tesi di Dimitrov, ripresa dal marxismo-leninismo, fu formulata da Georgi Dimitrov e divenne l'ideologia ufficiale dell'Internazionale Comunista negli anni '30.

7 - Sulla storia e le differenze dei gruppi K, vedi: Jens Benicke (2010) Da Adorno a Mao. Sulla brutta cancellazione del movimento antiautoritario. Friburgo: Ca-ira.

8 - L'antisemitismo secondario descrive la forma di antisemitismo che è diretta contro gli ebrei non nonostante, ma a causa della Shoah. Ad esempio, si è sostenuto che la memoria dell'Olocausto è stata utilizzata solo per legittimare la presunta oppressione del popolo tedesco. Modelli di argomentazione simili si possono trovare oggi, ad esempio quando si afferma che la memoria dell'Olocausto distrae dai crimini di Israele contro la Palästinenser_innen.

9 - Cfr.: Comitato Centrale del KPD/ML: La Germania al popolo tedesco. Dichiarazione sulla questione nazionale, in: Der Weg der Partei 1/1974.

10 - Anche negli attuali dibattiti "scientifici" si mette sempre più in discussione la natura inedita della Shoah. La cosiddetta "Historikerstreit 2.0" affronta la questione della misura in cui la Shoah può essere classificata nella storia del genocidio del colonialismo. In questo processo, le teorie postcoloniali non riescono a riconoscere le specificità dei crimini nazisti.

11 - Questo slogan è usato, intenzionalmente o meno, per sostenere gli attacchi terroristici contro Zivilist_innen in Israele durante la prima e la seconda intifada.

12 - Lo slogan "Dal fiume al mare" invoca una Palestina dal fiume Giordano al Mar Mediterraneo e quindi la fine dello Stato ebraico di Israele. Non si dice cosa accadrà agli oltre nove milioni di israeliani.

13 - Samidoun è stata fondata nel 2012 da membri del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) e sostiene pubblicamente gli attacchi terroristici contro Zivilist_innen, tra cui il 7 ottobre.

14 - Il concetto di totalità si riferisce qui a una forma universale di società che assume diverse manifestazioni, ma si afferma al di là dei confini culturali.

15 - Spivak, ad esempio, ha banalizzato gli attacchi suicidi islamisti negli Stati Uniti o in Israele come "esecuzione e lutto allo stesso tempo, sia per se stessi che per gli altri", o come un "fallimento dell'ospitalità". Butler ha ripetutamente sottolineato (anche dopo il 7 ottobre) che il terrore di gruppi islamisti come Hamas era una "forma di resistenza" che poteva essere attribuita alla "sinistra globale". E Said ha descritto l'Intifada come una "contro-articolazione incoraggiante" di un movimento "internazionalista". Con il riferimento positivo alla violenza "anticoloniale", i Theoretiker_innen postcoloniali producono una certa autocontraddizione, che essi stessi costruiscono in questo momento l'"altro" dell'Occidente, cioè fanno esattamente ciò che è proibito sullo sfondo delle loro teorie. Citato da Udo Wolter (2004): "Sulla critica dell'anti-imperialismo postcoloniale" (pp. 6, 10). Cfr.: poko_rru2016.pdf (rote-ruhr-uni.com) 

16 - Cfr.: https://www.instagram.com/p/CrN8OlEMUtp/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA%3D%3D

17 - Così hanno scritto gli studenti in un post su Instagram del 16.03.2023 intitolato "Non c'è posto per i guerrafondai nella nostra università!"

18 - Cfr.: Moishe Postone: "Storia e impotenza. Mobilitazioni di massa e forme attuali di anticapitalismo". In: Moishe Postone (2005) La Germania, la sinistra e l'Olocausto. Interventi politici. Friburgo: Ca ira Verlag.

19 - Poco dopo il 7 ottobre, la Palestina ha celebrato di aver "fatto saltare in aria la sua prigione" e ha convocato una manifestazione contro il "regime coloniale sionista". Cf: post su Instagram del 9 ottobre 2023: https://www.instagram.com/p/CyLwVAGMxy9/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=MzRlODBiNWFlZA . In una conferenza stampa del 13 ottobre, questo è stato ripetuto: l'attacco di Hamas non è stato terrorismo, ma legittima resistenza.

20 - Per la fine della violenza. | [iL*]-Francoforte sul Meno (interventionistische-linke.org)

21 - Appello per una manifestazione dell'"Alleanza di Francoforte per una Pace Giusta": Alleanza di Francoforte per una Pace Giusta (@ffm_gerechterfrieden) • Foto e video su Instagram

venerdì 18 ottobre 2024

Guerra & Denaro: la disperazione del Capitale per la sua perdita di Valore !!

Il tremore e il cataclisma della seconda natura: la guerra come modello della dissociazione catastrofica del capitalismo
- di Marildo Menegat-

In questo saggio l'autore si propone di esaminare il posto e la funzione della guerra come forza distruttiva nella società capitalista. Partendo da una tesi già delineata da Robert Kurz, viene esaminata la relazione esistente tra guerra, denaro e sacrificio vista come contesto concreto per l'origine dell'economia in quanto forma di dominio feticizzato. A seguire, si analizza il cambiamento di posto, giocato dalla guerra, nel momento in cui il Capitale comincia a camminare sulle proprie gambe. Da forma imposta dall'esterno, la guerra si trasforma in uno strumento di crescita e modernizzazione immanente del capitalismo. Così, nella fase matura del capitalismo, la guerra diventa parte dei meccanismi di finanziarizzazione dell'economia. Emerge chiaramente che la guerra rappresenta un modello distruttivo, il quale accompagna la costituzione e lo sviluppo delle categorie fondamentali del sistema, ed è per questo che deve essere intesa anche come il modello del futuro, vale a dire, della de-socializzazione catastrofica nel secondo collasso del sistema attualmente in corso.

1. Introduzione - Che posto ha la guerra nella società moderna?
La guerra viene spesso usata, sia come metafora che come tentativo di rappresentare gli innumerevoli fenomeni sociali che sono attualmente in corso nel mondo. L'immaginario spazia dallo sforzo di dare materialità a una scena di distruzione urbana prodotta da grandi tempeste nell'era del riscaldamento globale, alla comprensione del significato di un raid della polizia in una baraccopoli. Il ricorso all'imago della guerra, non è né gratuito né arbitrario; in essa si cela una forma astratta originaria, un a priori di questa società. Scoprire il materiale storico inconscio fornito dal lampo dell'immagine, fornisce, senza che l'individuo (e la società) che lo usa se ne renda conto, una sfida che la Critica della Dissociazione del Valore non ha ancora esplorato. Il tema, consentirebbe una lettura critica tanto della forma sociale, quanto del suo immanente carattere distruttivo, che le categorie che ne sono alla base nascondono. La tesi di Kurz circa la rivoluzione militare del XIV-XV secolo, vista come origine del processo concreto di costituzione del capitale (Kurz; 1997: 239-245; e 2014: 101 e ss.), costituisce una delle tante originalità del suo contributo alla Critica del Valore. Tale tesi si basa sulle formulazioni sulla rivoluzione militare, proveniente da autori come Geoffrey Parker (1984). Secondo questi autori, l'introduzione delle armi da fuoco fu un fenomeno di vasta portata, il quale alterò completamente le forme della società medievale, portandola al collasso. A differenza di questi autori, tuttavia, Kurz concepisce una relazione tra la guerra con le armi da fuoco e il processo di costituzione dell'economia imprenditoriale moderna - in quanto sfera separata dalla vita sociale - che la colloca in un'altra dimensione: quella di non essere soltanto un fenomeno sociale isolato che poi si sviluppa all'interno di una particolare forma sociale, quanto piuttosto di essere "LA" forma esterna che ha guidato la costituzione del moderno feticismo della merce e del denaro. Pertanto, la rivoluzione militare viene da lui vista come un evento che innesca la costituzione del capitale in quanto forma sociale, cioè, come un fattore di distruzione delle vecchie relazioni di coesione e di obbligo che vigevano nel feudalesimo, e come l'imposizione di quelle che saranno le nuove relazioni, sostenute da una “fame di denaro” fino ad allora sconosciuta. Tutti questi storici, compreso Parker, accettano come elemento comune il fatto che le armi da fuoco abbiano cambiato la guerra. Meno comune, è l'accettazione del fatto che, con esse, il grado di distruttività delle relazioni sociali è cresciuta in maniera esponenziale. In questa prospettiva, la guerra non è più quella che Pierre Clastres (2004) ha descritto e analizzato nelle società primitive, e non ha più nemmeno molto di quello che essa era nelle società non moderne dell'Antichità e del Medioevo europeo (cfr. Creveld, 2004). Il punto qui, non è solo che nella formazione dello Stato moderno, la capacità di resistenza armata degli individui e dei popoli è stata ampiamente espropriata. Secondo Kurz (2014: 102), al di là di questo aspetto, con le armi da fuoco, la materialità dell'armamentario bellico possiede ora una «nuova qualità di macchina distruttiva», che produce forti impressioni relative a   qualcosa che trascende l'umano e - trasformandosi nella forza moltiplicata di un meccanismo impersonale - assume un posto apparentemente intangibile. È diventata la forma demiurgica del “disimpegno” dell'economia rispetto alle altre sfere della vita sociale, ed è ora fondamentale nel determinare il carattere di mostruosità che il Leviatano ha sempre rappresentato. Per questo motivo, il rapporto tra guerra, formazione dello Stato e denaro - e quest'ultimo non più visto come oggetto sacrificale, ma come oggetto di valore (Kurz, 2014: 113) - rappresenta una di quelle Determinazioni di vasta portata che meritano di essere esaminate in profondità.

2 - Dall'atto sacrificale originario, all'interiorizzazione sociale (feticistica) della guerra.
È possibile scorgere, in questo quadro di critica categoriale, una relazione sacrale tra la guerra e il Denaro, che si manifesta nel rapporto con il sacrificio che Guerra & Denaro recano in sé, sebbene con dimensioni diverse. La guerra consiste nel sacrificio di dimenticarsi di sé, e abbandonare il proprio corpo (questa idea è molto chiara, ad esempio, nell'imperativo del “morire per la patria”), accettando di fare della propria vita una mera Cosa (Res), la parte di un meccanismo che la governa indipendentemente dal desiderio e dalla volontà. Mentre il denaro è quella forma astratta che nasce da un'oggettualità che ha cambiato contenuto, non mantenendo più un significato dichiaratamente sacro, bensì l'oggettualità consacrata dello stesso spirito (della forma valore) che è stata realizzata attraverso un sacrificio rituale. Nella misura in cui il «feticcio moderno del capitale è stato [...] un prodotto della rivoluzione militare all'alba della modernità» (Kurz; 2014: 102), possiamo pertanto pensare che la forma valore sia il risultato di un rituale sociale sacrificale che si è costituito e continua a essere attivo nei nuovi rapporti di produzione. Questa affermazione può essere supportata e approfondita dagli studi di Marcel Mauss e Henri Hubert (1999: 147) sulla natura e la funzione del sacrificio, dove gli autori osservano che «il termine sacrificio suggerisce immediatamente l'idea di consacrazione», in un amalgama in cui «le due nozioni si confondono». «Il sacrificio implica sempre una consacrazione; in ogni sacrificio, un oggetto passa dal dominio comune al dominio religioso». Il sacrificio indica quindi una separazione tra corpo (sacrificato) e anima, tra materia e forma (come obiettivo da raggiungere).  Quindi, dal momento che il soldato mercenario ha costituito la proto-forma (lo stampo) dell'operaio salariato dell'industria moderna [*1], ciò vuol dire che, nel suo essere, c'era già qualcosa di preesistente a ciò che successivamente avrebbe costruito il suo compagno di viaggio. L'imposizione della categoria del lavoro - astrattamente universale - è stata favorita, nella logica immanente della valorizzazione del valore, divenuta poi dinamica strutturale della società, grazie a un sacrificio (l'oblio di sé), socialmente necessario ai fini dell'affermazione di tutto questo processo, il cui risultato è stato la produzione di valore. Nel medesimo processo, si può anche osservare inoltre che il denaro subisce la trasformazione dall'oggettualità sacra - carattere, questo, che nelle società non moderne dominava le monete - all'oggettualità del valore, vale a dire l' esprimere un equivalente universale internamente legato alla misura del tempo risultante da questa attività sacrificale che l'imposizione del lavoro ha stabilito. Peraltro, la moderna classe operaia, che ha le sue origini nella stessa epoca della Rivoluzione militare, obbedisce a criteri di gerarchia, disciplina e attività mirati a obiettivi simili a quelli degli eserciti, benché si trovi in un luogo sociale (interiorizzato) secondo i termini della circolazione del denaro e della produzione della sua misura; diverso da quello dei soldati mercenari (il cui luogo è invece esterno a tale produzione). Ciò detto, nella costituzione concreta della moderna società produttrice di merci, è stato questo rituale a guidare la trasformazione della socializzazione in un processo di produzione sociale di “astrazioni reali”, vincolando queste relazioni agli obblighi imposti dal denaro, e a costituire il modello della sua forma di esistenza, ovvero del soggetto monetario in cui queste relazioni, una volta costituite e stabilizzate, dovevano essere vissute.  Questo medesimo punto zero è stato in seguito stabilito dalle scienze moderne ( inclusa la filosofia, quantomeno a partire da Cartesio) come un'ontologizzazione di queste condizioni di esistenza, che di fatto sono state determinate storicamente. Quindi, in questo fenomeno originario troviamo il tratto di una grande trasformazione che porta con sé queste due dimensioni (esterna e interna) di una stessa struttura che si fonda e si impone. Tutto il periodo che va dal XIV al XVIII secolo è segnato da questo processo violento e distruttivo di costituzione delle categorie di base di questa società, e la guerra è stata una sorta di mandato - nella forma che questo tempo ha acquisito -  proveniente da un deus ex-machina . Ciò implica che la forza distruttiva della guerra è stata plasmata nelle categorie di base costitutive della società capitalista come un obiettivo - «un fine esterno» (Kurz, 2014: 116). Se essa ha effettivamente guidato esternamente il processo di “sganciamento” dell'economia dalle altre sfere della vita sociale, e il suo fine in sé, ecco che allora si può pensare che la guerra sia diventata anche un momento funzionale - un mezzo (immanente), e non più un fine esterno - dell'auto-movimento del denaro. In altre parole, a un certo punto della storia la guerra ha cambiato posto ed è diventata una necessità interna alla dinamica del sistema. In questo modo, l'esistenza organizzata di tutto questo arsenale distruttivo smette di essere estemporanea - né tantomeno essa è il risultato di imposizioni di progresso intrinseche a un'istituzione statale (in questo caso l'esercito, anch'esso concepito come trans-storico dalla teoria sociale illustrata) - rispetto ai disegni e alle dinamiche inconsce del capitale. Questo cambiamento circa la logica - o la funzione - della guerra, ci consente ora di fare il passo analitico inverso. In altre parole, possiamo cercare di scoprire nella guerra la violenza contenuta nelle categorie di base che costituiscono il capitale in quanto forma immanente legittimata della società moderna. In questo modo, possiamo comprendere meglio il significato di questo grande cataclisma (catastrofe) della Seconda Natura che sono le guerre (così come le Crisi), insieme alla proliferazione dell'uso della loro immagine; in effetti, ci troviamo di fronte a qualcosa che fa tremare tutto, ma che tuttavia è lontano dall'esserne la causa.  Di fronte alla domanda se sia possibile evitare la guerra nel capitalismo, la domanda che segue opera sullo sfondo, e si rivela attraverso un'altra domanda della stessa natura: sarebbe possibile avere un controllo democratico (autogestito) e consapevole del processo di produzione delle merci? Controllare la guerra e il suo scoppio, è forse tanto assurdo, nel capitalismo, quanto imporre un controllo sociale sulla trasformazione del valore in altro valore, del denaro in altro denaro. Il nucleo della guerra è questo “scopo esterno” (nel senso di un'intenzione inconscia) che ha guidato la costituzione del processo sociale di astrazione e che si è interiorizzato come mezzo - in una funzionalità che si presenta come meccanismo di compensazione dell'auto-movimento del denaro nelle sue crisi di valorizzazione. La distruzione della guerra è quindi inerente al movimento di astrazione reale e alla sua necessità di intensificazione ed espansione. Come ha osservato Kurz, la Prima guerra mondiale - e poi la Seconda - «si è rivelata un gigantesco acceleratore dello sviluppo del capitalismo» (2019: 73). Quindi, la guerra non è solo un fenomeno di dominio politico e di assoggettamento dei popoli per l'espansione dell'economia aziendale. Essa può essere articolata in una dialettica tra il “fine esterno” - aggiornato e modificato su diverse scale temporali storiche dell'imposizione del sistema sul pianeta (e che non può essere ridotto alla dominazione o alla competizione tra potenze) - e le esigenze della guerra nell'accumulazione del capitale - come nel caso della «grande crisi dello sviluppo del capitalismo» (Kurz, 2020) negli anni 1914-45.  Il paradosso è comprendere la funzione di quella produzione improduttiva, che è la produzione di armi, in termini di accumulazione del capitale; vale a dire, il modo in cui la produzione improduttiva sia legata all'«ascesa del denaro al cielo», e alla disperazione del Capitale per la sua perdita di valore.  Così com'è stato all'origine della decostruzione del denaro dalle forme sacre dell'oggettualità - e ha alimentato il suo auto-movimento come oggettualità del valore -  è stato, negli anni 1914-45, il mezzo che ha permesso di mettere in atto le basi del fordismo su scala mondiale, quando il dominio feticistico del capitale è diventato una forma sociale totale assoluta. L'economia di guerra ha creato le condizioni - grazie ai debiti degli Stati belligeranti - per rendere praticabile la mobilitazione, ancora produttiva, del capitale inattivo, il quale ha forzato le porte dell'accumulazione, a partire da un'enorme svalutazione. È stato tutto questo a permettere la "distruzione creativa” del capitale (secondo i termini di Schumpeter); abbattendo le barriere e creando le basi per l'ultima fase del capitalismo. Visto che la regolamentazione politica ed economica del fordismo venne resa possibile grazie agli investimenti nella ricerca tecno-scientifica generati dalle due grandi guerre, questi divennero un caso paradigmatico nel quale le applicazioni militari dell'innovazione tecnologica si concentrarono inducendo le possibilità di espandere la produzione di beni per il consumo di massa.  La Prima guerra mondiale, ad esempio, incominciò utilizzando un gran numero di animali come trazione per il trasporto di rifornimenti e truppe e, alla fine, divenne in gran parte motorizzata. Allo stesso modo, l'industria dei carri armati in Francia era in gran parte operativa nelle fabbriche Citroen, le quali, subito dopo il conflitto, divennero uno dei giganti della produzione automobilistica. La sottile linea che separa l'economia civile da quella di guerra, e viceversa, si applica ovviamente anche alle tecniche di produzione e alle analogie nella distruttività dei metodi e dei prodotti. Tant'è che l'economia di guerra non si è più ridotta dopo il 1945 e la distruttività della guerra è rimasta attiva nei beni prodotti nei principali rami della produzione fordista.  Per tutte queste ragioni, la guerra deve essere vista come un modello di de-socializzazione catastrofica del capitalismo e di produzione distruttiva della natura.


3 Il posto della guerra nel tardo capitalismo
La relazione tra la filosofia e la critica dell'economia politica è sempre stata una zona grigia: o essa viene intesa come un presupposto che non ha bisogno di essere spiegato, oppure viene vista come un malinteso che non vale la pena spiegare.  In questo saggio, partiamo da un'analisi sviluppata in precedenza (Menegat, 2019: 11-57), secondo cui la forma sempre insufficiente di critica sviluppata dalla filosofia illuminista ha perso completamente la sua forza negativa quando il capitalismo è entrato nella sua fase liberale nel XIX secolo. Pertanto, la critica sociale - se voleva rimanere attiva - era chiamata a contrastare l'Illuminismo, ampliando di conseguenza i margini della filosofia in quanto forma teorica, in chiave di una meta-teoria che potesse assumere, come momenti della critica della società capitalista, le elaborazioni concettuali sviluppate da particolari discipline (come l'economia, la storia, ecc.), producendo così, in ultima analisi, una percezione della realtà e della verità distinta da quelle proprie del dominio di tali discipline positive non totalizzanti. Occorreva sconvolgere criticamente i concetti di base ontologizzati, affinché il moderno patriarcato produttore di merci non venisse naturalizzato. In tal senso, Marx ha compiuto un importante sforzo di elaborazione, sebbene in vari punti sia caduto in disgrazia. Il punto culminante del suo sforzo, tuttavia, fu la comprensione del fatto che il processo sociale moderno è costituito da una sorta di soggetto automatico (Marx, 1985: 139), formato da oggettivazioni reali, ovvero le categorie astratte che stanno alla base del modo di essere di questa sociabilità. Tale concezione di un dominio impersonale determinato da forme feticistiche di oggettivazione sociale, costituite da astrazioni reali come il valore-merce, il denaro, ecc. consente un inedito luogo di analisi critica della totalità di questo processo sociale. Sebbene in vari punti dell'opera di Marx questo sforzo sia stato limitato dall'accettazione di posizionamenti comuni al periodo storico in cui è stata scritta, più vicini al liberalismo che alla critica dell'economia politica, come ad esempio per quel che attiene all'attenzione smodata nei confronti della lotta di classe e del progresso - che si sono rivelati aspetti limitati (e determinati) storicamente al processo di modernizzazione - in Marx ci sono formulazioni teoriche che vanno oltre questi quadri. Quindi, pensare alla guerra nel modo qui proposto, significa pensare criticamente al significato di questo fenomeno, visto nell'ambito dello sviluppo delle categorie costitutive di base del capitalismo. Nella misura in cui la posizione della guerra nella società moderna è cambiata, ed è diventata subordinata al feticismo del capitale - in altre parole, nella misura in cui la guerra diventa, da fattore fondante del feticismo, un elemento determinato da esso, senza che per questo, la distruttività scompaia, o passi a essere controllata da decisioni razionali (ciò che accade è invece esattamente il contrario) - ecco che la sua distruttività è stata naturalizzata e, cosa essenziale per lo sviluppo della critica del capitalismo, è diventata un elemento che realizza il significato storico di questa società (quello di avere come fine l'autodistruzione). In questo processo, la guerra ha subito una metamorfosi, in cui sembra essere stata gradualmente sottoposta a una sorta di “purificazione”, diventando uno strumento, o meglio un mezzo tecnico per i fini del capitale. La professionalizzazione degli eserciti, cerca di adempiere a questo ruolo di distruzione priva di ogni valore soggettivo “impuro”; come può esserlo il fanatismo religioso o nazionalista, oppure anche il semplice desiderio di dominio per mezzo delle armi. Il soldato professionista - il quale si differenzia ben poco dal mercenario del passato - concepisce la guerra come se fosse qualcosa che esula dalla sfera delle scelte umane. In altre parole, il conflitto diventa una «circostanza inevitabile» (Keegan, 2006: 19), un'imposizione delle leggi della (seconda) natura, allo stesso tempo estranea e (cognitivamente) familiare rispetto alle esigenze delle dinamiche sociali. Nella misura in cui la guerra è un evento inevitabile, proprio come lo sono gli tsunami, i criteri razionali per comprenderla vengono subordinati agli standard tecnici di produzione, dove il modo più efficiente per affrontarla coincide con quello di raggiungere il massimo annientamento di massa con il minimo dolore per individuo [*2]. Come nell'apriorismo che costituiva la società - e in cui la guerra era un fattore determinante - ora il capitale si presenta sviluppato in quelle che sono le sue forme di base, e lo fa attraverso un potere costitutivo feticizzato, cioè, una forza sociale trascendente che deve svolgere quel lavoro. La guerra attuale, quindi, in quanto espressione di questo potere, ha una congruenza logica con la sua imago. Più precisamente, essa è la miccia del governo immanente di questo modo di essere del nostro metabolismo con la natura, organizzato dalla produzione incessante di valore. Questo riposizionamento della guerra all'interno della critica delle categorie fondamentali, ci obbliga pertanto ad analizzarla dal punto di vista del movimento di riproduzione allargata (cfr. Marx, 2017: 877 sgg.), dove il feticismo del capitale, come forma totalizzata, si colloca e agisce pienamente nel processo storico. In questo senso, la guerra, in quanto economia di guerra (essendo la sostituzione dell'antica economia teologica cristiana, che durò dall'antichità ai secoli XV e XVI - cf. Agamben: 2016), è il prodotto di questa dimensione matura della forma sociale, che ha trovato in esso un modello adeguato per il suo sviluppo. La corsa agli armamenti della fine del XIX e l'inizio del XX secolo è stato, di conseguenza, un meccanismo per compensare l'accumulazione. Il rapporto, tra la produzione di armi e la grande disponibilità di capitale fittizio esistente all'epoca, allorché si manifestarono le prime manifestazioni di sovra-accumulazione, che poi divennero inevitabili, fu l'espressione di quello che allora fu un tipo di crisi ancora nuovo, realizza così questo cambiamento di luogo, con il suo aggiornato mandato distruttivo.
Questo aspetto si può approfondire - in questa sede, però, sarà solo accennato - nell'ambito della relazione tra scienza e tecnologia in quanto branche della produzione di capitale, e del loro stretto legame con la corsa agli armamenti. L'affermazione della scienza come forza produttiva si sviluppa a partire dalla seconda metà del XIX secolo e richiede la guerra come laboratorio di sperimentazione. La relazione esplosiva tra queste moderne forze produttive - soprattutto a partire dalla Seconda Rivoluzione Tecnologica - e le merci, vede nella guerra più di un incontro occasionale, ma si configura come una delle strutture modellanti di base dello sviluppo della forma valore. Questa relazione, che fa parte dell'intera dinamica di sviluppo del tardo capitalismo, ha fondato l'economia di guerra - ed è stata spinta ai suoi limiti da essa. In questo modo, l'economia di guerra non è un caso o un capriccio delle scelte nazionali. Il suo primo e più riuscito esperimento, iniziato con la Prima Guerra Mondiale (WWI), è una buona dimostrazione del posto privilegiato della guerra come struttura di modellazione. Si trattava di un metodo barbaro - la cosiddetta “distruzione creativa” - utilizzato per adattare le varie economie nazionali al piano di concorrenza che il fordismo stava inaugurando. In questa modalità distruttiva, per molti versi simile - se presa astrattamente - a quanto avveniva anche nella primitiva accumulazione del capitale, risiedono elementi importanti per analizzare la permanenza e le metamorfosi della guerra, anche se spostata dal suo luogo di origine e successivamente rifunzionalizzata dal capitalismo. Nella Grande Guerra del 1914, si è trattato di una curiosa miscela di un processo di modernizzazione ritardato a diversi livelli - dalla Francia alla Germania alla Russia - e di distruzione tout court. In “Sulla Rivoluzione”, Hannah Arendt (1988: 12) commenta che dopo il 1870 le guerre sono diventate messaggere di rivoluzioni. Questa idea, se pensata dal punto di vista della guerra nella fase classica dell'imperialismo, indica una dinamica che può essere storicamente verificata, come dimostrano la Comune di Parigi del 1871, la Rivoluzione russa del 1905 e, infine, le rivoluzioni tedesche e russe del periodo post-WWP. Erano tutti eventi associati a guerre che li avevano preceduti. Non erano quindi solo “politica con altri mezzi”, come pensava Clausewitz, ma erano anche forme strutturanti della dinamica dello sviluppo arretrato della produzione di merci e della finanziarizzazione dell'era fordista. Un salto nella notte dell'orrore che il progresso produce. Intendendo la Prima e la Seconda Guerra Mondiale (WWII) come un unico grande evento, quello della nascita della globalizzazione del capitalismo che, per Kurz, ha innescato il processo di transizione verso la forma matura del sistema, la guerra, in quanto gigantesco acceleratore dello sviluppo (distruttivo) del capitale, essendo stata assimilata in questa relazione immanente, dal contenuto, cioè avendo creato le condizioni per gli investimenti e la realizzazione allargata di una massa di capitale inattivo, ha creato le circostanze perché il capitalismo si sviluppasse come modo generalizzato di produzione e consumo industriale. Se il XX secolo è stato il secolo delle guerre, e queste guerre hanno avuto la loro infrastruttura nelle economie di guerra, è ragionevole pensare che il tempo storico - e la logica strutturante di questo tempo - sia stata un'organizzazione distruttiva della produzione che ha seguito e si è svolta su questo modello. Non importa se questo stato si è realizzato nelle guerre calde convenzionali o nella produzione di guerre congelate. Il punto è che entrambe erano essenziali per sostenere la democrazia e la massificazione dei consumi. La verità che si nasconde nella guerra sembra essere la falsità stessa dell'affermazione dello sviluppo delle forze produttive come “progresso civilizzatore del capitalismo” necessario per l'emancipazione umana.

4. La caduta nell'inferno della guerra
Nel marxismo tradizionale, il dibattito sulla guerra e sul suo rapporto con la società moderna - l'economia in particolare - è stato preso in considerazione da diversi autori, anche se in forma limitata. Rosa Luxemburg, ad esempio, è sempre stata molto sensibile e attenta a questo evento definitorio del moderno patriarcato produttore di merci. Nella sua opera sull'accumulazione del capitale (1985), e in altri testi minori, analizza il ruolo importante che le armi rivestono per l'economia capitalista.  In quel periodo, le epidemie saturnine si stavano già imponendo come un destino ineluttabile della società moderna.  A partire dall'accumulazione primitiva, afferma la Luxemburg, il militarismo aveva già svolto un «ruolo decisivo nella conquista del Nuovo Mondo (...) nella conquista delle colonie moderne (...) e nell'istituzione del lavoro salariato nelle colonie (...)» (1985: 311). Questo ruolo percepito da Rosa Luxemburg è ovviamente ben lontano dall'essere quello di un “fine esterno” relativo alla costituzione del “moderno feticcio del capitale”, come pensato da Kurz. Infatti, non ha alcun legame con la definizione, vista sopra, di un potente meccanismo di interiorizzazione dei presupposti di una sociabilità produttrice di merci. La posizione dell'autore costituisce, in questo senso, un luogo comune del marxismo tradizionale relativamente a questo processo originario, che vede la guerra solo come uno strumento di violenza extra-economica di dominio coloniale, necessario per l'imposizione del sistema, dovuto alla differenza di sviluppo delle forze produttive tra le metropoli e le loro periferie. Per quanto riguarda la relazione tra le armi da fuoco e le origini del capitalismo, forse (e molto timidamente) soltanto Engels ha intravisto un legame, senza tuttavia attribuirgli alcuna conseguenza teorica di rilievo [*3]. Tuttavia, in un altro contesto storico, risalente soprattutto all'inizio del XX secolo, Rosa Luxemburg ha reso più acuta la lettura di questo fenomeno nel momento in cui si è resa conto che il militarismo era diventato “un buon terreno di accumulazione” (1985: 311). In questo senso, esso ha giocato un ruolo importante nel processo di accumulazione nella fase imperialista del capitalismo. Qui Rosa Luxemburg apporta delle novità teoriche, sebbene, come nel primo scritto, anche in questo caso venga sottolineato il carattere politico, sebbene in modo molto più complesso rispetto alla precedente formulazione sull'accumulazione primitiva. Nella sua fase terminale, secondo l'autrice, a causa della scarsità di nuove e redditizie opportunità per l'espansione esterna del capitale, il sistema compirebbe scelte politiche e di investimento compensative, generando situazioni regressive che “mettono in discussione l'intera cultura umana” (1985: 398). Questo sarebbe il caso della guerra e degli armamenti.  Dovendo finanziare queste spese con una crescente tassazione indiretta, questi casi indicherebbero, nella chiave del crollo del capitalismo, la fine della tendenza a migliorare le condizioni di sussistenza delle masse. A una tale tendenza aveva pensato, tra gli altri, Marx (1985: 141 sgg.), quando aveva affermato che i “bisogni fondamentali dipendenti dal livello culturale di un Paese” potevano avanzare dalle battaglie di diritto contro diritto e, in caso di vittoria, dalla conseguente imposizione di limiti alla voracità del capitale. Questa tassazione rivela l'inversione del potenziale di tale processo storico, poiché “significa il trasferimento di parte del potere d'acquisto della classe operaia allo Stato”, producendo così una limitazione del suo potere d'acquisto, la quale crea “una diminuzione del consumo di prodotti di sussistenza” (1985: 313). Il sottoconsumo, che è il risultato di questa inversione delle aspettative, può essere spiegato da questo spostamento degli investimenti, dove il capitale totale, una volta ridotta la spesa per il consumo di forza lavoro, si ritrova libero di acquistare capitale costante e lavoro vivo. È proprio questo capitale “avanzato” che verrebbe investito nella corsa agli armamenti, “come se si trattasse di un mercato appena conquistato” (1985: 315). Per Rosa, le spese di guerra erano l' effetto peggiore della lotta del diritto contro il diritto. In questo caso, la sconfitta della classe operaia è vissuta come un'epidemia della fame e come una catastrofe distruttiva. Tuttavia, la domanda rimane: in che modo gli armamenti e la guerra funzionano come meccanismo di compensazione? Con le tasse “nelle mani dello Stato”, afferma Rosa Luxemburg, si creerebbe “un nuovo ciclo, che prenderebbe la forma di un potere d'acquisto totalmente estraneo ed alieno al capitale e ai lavoratori (...), offrendo così al capitale nuove opportunità di creare e realizzare plusvalore” (1985: 318).  L'impressionante consumo di valore rappresentato dagli aumenti delle tasse verrebbe utilizzato per generare nuovo valore, dando impulso a una “nuova possibilità di accumulazione” (1985: 319). Così, tassando i contadini e le classi medie, lo Stato trasforma questi risparmi e queste risorse dalla spesa per il consumo individuale e disperso, come nel caso degli alimenti di sussistenza, “in richieste e investimenti potenziali del capitale”.  E poi, aggiunge: “c'è ora una domanda potenziale omogenea concentrata nello Stato.  Per soddisfare questa domanda, tuttavia, l'esistenza di un'industria su larga scala, di una produzione su larga scala (...) è un prerequisito. Sotto forma di ordini (...) questo potere d'acquisto concentrato delle grandi masse di consumatori sfugge (...) all'arbitrarietà e alle fluttuazioni soggettive del consumo personale, per acquisire una regolarità quasi automatica, una crescita ritmica”.  E conclude: “questo campo specifico dell'accumulazione del capitale sembra essere dotato, in linea di principio, di una capacità di espansione indeterminata (...) la produzione bellica rappresenta un dominio la cui espansione successiva e regolare sembra dipendere soprattutto dalle intenzioni del capitale stesso” (1985: 319). Poiché l'imperialismo è la fase finale del capitalismo, per Rosa la guerra e il militarismo sono già sintomi evidenti del collasso [*4]. Curiosamente, è accaduto il contrario. Le due grandi guerre sono state un potente strumento per la crescita del sistema. Tuttavia, l'osservazione che il sistema si trova di fronte a un limite assoluto - con la differenza che questo limite logico è interno e non esterno - che si manifesta nella guerra, è esatta. Né Rosa Luxemburg né altri autori del marxismo tradizionale, tuttavia, hanno ammesso la possibilità che denaro e lavoro si scindano in situazioni di crisi e non siano più coincidenti (Kurz, 2019: 55), come è avvenuto nelle due Grandi Guerre del XX secolo - e più recentemente, dopo la fine dell'accordo di Bretton Woods. In questa prospettiva, la consacrazione dell'oggetto - qui l'oggettualità del valore del denaro - non ha più a che fare con il sacrificio del lavoro, benché questo lavoro non cessi. In questo modo la guerra diventa una nuova versione del modello sacrificale: un sacrificio “puro”, senza che vi sia la consacrazione di un oggetto, al di là dell'olocausto volontario dell'umanità, che è necessario al feticcio del capitale per mantenere la dinamica del processo sociale e innalzarla a un livello superiore. Dato che “la moltiplicazione del denaro avviene più velocemente dell'accumulo di lavoro morto” (Kurz, 2019: 55), l'autoinganno secondo cui il denaro possa esistere senza la sua sostanza astratta costituita dal lavoro è allettante. La trasformazione del denaro in altro denaro, senza che venga speso direttamente per la valorizzazione del lavoro astratto, finisce per separare il capitale produttivo reale dal capitale fruttifero, cioè dal capitale destinato, in linea di principio, al credito. Questa situazione finisce anche per creare le condizioni affinché la tautologia secondo cui D-D' produca la sua immediata rappresentazione sociale. Quest'ultima figura di capitale, dice Kurz, “diventa una merce”, in cui la distanza dal capitale produttivo reale può crescere ulteriormente “quando il denaro prestato non viene effettivamente utilizzato per l'effettivo consumo imprenditoriale del lavoro astratto” (Kurz, 2019: 58). Ciò fa sì che il divario con il processo di valorizzazione reale si approfondisca e che il capitale fruttifero diventi capitale fittizio. Rosa Luxemburg non si accorse di questo processo in atto ai suoi tempi, che segnalava una “crescente sproporzione strutturale tra il capitale fisso e la massa di lavoro che [era] ancora possibile utilizzare con profitto” (Kurz, 2019: 60). Con la crescita della composizione organica del capitale, il capitale fruttifero venne ad occupare un ruolo di crescente importanza, al punto che il rapporto tra questo capitale e il capitale produttivo reale si invertì: “Ciò significa che il capitale imprenditoriale reale, per poter continuare a produrre (...), deve semplicemente ipotecare in anticipo quantità sempre maggiori di lavoro da utilizzare in futuro (...)” (Kurz, 2019: 60). Pertanto, contrariamente a quanto pensava Rosa Luxemburg, la separazione tra denaro e lavoro sta creando una preponderanza delle istituzioni finanziarie nella gestione generale delle dinamiche di accumulazione che le porta a salvare lo Stato come strumento per sostenere il tutto. All'epoca queste “istituzioni finanziarie sono cresciute su scala secolare” segnando l'ingresso di questo processo in una “nuova fase” (Kurz, 2019: 73). La guerra industrializzata creò una nuova situazione, che, per inciso, non era estranea alle esigenze del capitale, costringendo “lo Stato ad assumere il ruolo (...) di responsabile della logistica e delle ‘spese generali’ di questo processo” (ibid.). Prima, il capitalismo era solo un segmento della riproduzione sociale e lo Stato non era ancora il capitalista collettivo ideale. L'espansione delle finanze statali, sotto forma di immensi debiti, scaturita da questo grande evento, creò “una situazione completamente nuova: il problema delle finanze statali e quindi del ‘capitale fittizio’ sotto forma di credito statale”, e subito dopo “la vita sociale stessa organizzata secondo la forma merce” (Kurz, 2019: 75). Rosa Luxemburg è stata forse la persona che meglio ha annunciato il collasso del capitalismo all'interno di un limite alla sua espansione. Tuttavia, il limite stesso, che venne enunciato solo in quel frangente, quando la guerra e il militarismo divennero “un buon campo per l'accumulazione”, si è presentato in seguito, con lo sviluppo della microelettronica alla fine del XX secolo, sotto forma di un limite interno assoluto all'accumulazione del capitale. A questo punto, tra una fine di secolo di guerre e l'altra, quando il limite interno si è presentato come un momento di crisi strutturale, la guerra in quanto modello di dissociazione catastrofica ha consolidato questa funzione interna di sistema ed è stata in grado di portare avanti il suo piano di autodistruzione in maniera più efficace.

Ora, se la guerra è il modello attuale di riferimento della pianificazione statale - che, secondo le parole di Lenin, non sarebbe altro che un «meccanismo di direzione sociale dell'economia» -; e se essa costituisce il motivo forte del complesso militare-industriale, in quanto base dell'industrializzazione fordista; e se essa è l'architettura economica del debito, con l'uso intensivo del capitale fittizio e con il finanziamento delle infrastrutture che lo sviluppo del fordismo richiedeva; è tuttavia nel concetto di guerra totale che si realizza, con tutta la sua intensità, il tremore e il cataclisma della seconda natura. Nella guerra totale, la guerra è dovunque. Essa realizza una unificazione totale delle forze della società, e le mobilita per il fine in sé di produrre distruzione - fino all'ultimo uomo. Si tratta di una decisione di vita e di morte il cui rituale, come abbiamo visto, non è stato solo una caratteristica del nazifascismo e dello stalinismo, ma è stato vissuto intensamente anche nella formazione degli eserciti delle democrazie occidentali (Stati Uniti, Inghilterra e Francia) - nella trasformazione del lavoratore disciplinato in un soldato impegnato nella difesa della patria (cfr. Mosse, 2019). Ed è stata l'esperienza di queste due guerre (PGM e SGM), direttamente collegate al passaggio alle forme mature delle categorie fondamentali del sistema, a dare il via alla corsa al nucleare e, alla fine, a realizzarne il suo intento di orrore assoluto.  Le bombe nucleari non sono più semplici ordigni, ma artefatti di sterminio di massa talmente potenti da non avere più alcuna capacità di rappresentare la propria forza. Questo tipo di morte e distruzione ha poco a che fare con la guerra - nel senso classico clausewitziano - al punto che lo Stato, entrato in questa modalità di potere, non può più essere pensato - anche se questa è sempre stata un'illusione - dal punto di vista delle relazioni contrattuali, in cui il cittadino e la società si sono presentati come le fonti della sovranità. È un fenomeno di cambiamento estremamente profondo sia nella chimica della terra, con l'uso industriale della radioattività, sia per il potere sovrano che i dispositivi nucleari rappresentano. La società che ha compiuto questo passo non è più in grado di garantire l'esistenza umana in forme sociali, perché il mondo, equilibrato dalle tensioni nucleari, non è più abitato. Il fatto che non sia ancora precipitato non garantisce nulla. La diplomazia ha funzionato per le guerre regolari, ma per la guerra di sterminio totale non c'è più spazio nemmeno per il dialogo. Il moderno fallimento della diplomazia indica in questo caso che gli Stati che possiedono la bomba sono totalitari (cfr. Anders, 2006), visto che la questione non potrà mai essere affrontata e decisa in un'elezione. Questa situazione indica possibilmente che, dopo le due grandi guerre del XX secolo, la guerra totale è diventata il modello per la mobilitazione totale della produzione civile (la produzione di massa del tardo capitalismo) e che, una volta iniziata la sua crisi strutturale negli anni '70, il tempo di questa crisi si è presentato come un precipitato di guerre sospese in attesa della fine del sistema. Rappresentano una delle modalità fenomeniche di questa dissociazione catastrofica del sistema. In questo tipo di guerre, ormai non più classiche e regolari, ma prevalentemente irregolari (la formulazione stessa di questo concetto di guerra è emersa con la minaccia della guerra nucleare), l'imposizione totalitaria del mercato, dell'esistenza unica determinata dalla merce e dal denaro, si realizza come sacrificio senza fine.  L'aspetto inquietante dell'opera di Franz Kafka consiste proprio in questo: che il sacrificio non ha termine. Nel collasso del capitalismo, il denaro non incorpora più la misura del tempo di lavoro, abolito dallo sviluppo tecnologico. Quanto più il denaro è incapace di esprimere valore, perché totalmente slegato dal lavoro, tanto meno esso è, di fatto, la sua forma originaria consacrata.  Questa situazione, per molte ragioni, porta alla percezione che le fondamenta siano state profanate e che, per il bene della continuità dell'insieme, si debbano aumentare i sacrifici. Il patriarcato moderno è proprio questa reductio ad absurdum. Il suo predominio è comune a ogni coscienza feticista che, nel momento in cui le norme oggettivate del suo mondo falliscono, attribuisce la causa di questo fallimento a una diminuzione dell'intensità e della quantità del suo rituale sacrificale. La fine del capitalismo è stata pertanto una generalizzazione della guerra - al punto che il lavoro, che non ha più senso come misura immanente del processo di valorizzazione, è stato ridotto a un mero simulacro di questa attività distruttiva. Porre fine alla guerra implica, senza mezzi termini e nel medesimo atto, porre fine al lavoro come attività che lo sostiene.

- Marildo Menegat - Pubblicato su Passages de Paris, n° 21 (2021.1) -

NOTE:

[*1] - Anche la moderna figura del soldato stipendiato, nella forma del mercenario, è il risultato delle trasformazioni avvenute con l'introduzione delle armi da fuoco nella guerra. Creveld (2004: 231) osserva: «Una volta confinati nelle loro caserme, i soldati e i loro comandanti [...] crearono una cultura propria. Erano finiti i giorni in cui essi stessi costituivano la società, come nel Medioevo». E poco più avanti: “... essere un soldato (dal tedesco soldat, qualcuno che veniva pagato) si trasformò in una professione con numerosi vincoli internazionali» (2004: 232). Sulla stessa linea, Bruyère-Ostells (2012: 10) afferma che: «In senso stretto, il termine latino mercenarius designa tanto un "soldato ingaggiato per denaro" quanto un "domestico pagato"». Per riassumere, tornando a Creveld: «Oltre all'evoluzione militare-tecnologica che gli ha dato origine, il cambiamento del modo di fare la guerra ha avuto anche degli aspetti finanziari».  Così, già nel XIII secolo, «i governanti talvolta liberavano i propri vassalli dall'obbligo di combattere per loro, chiedendo il pagamento di una tassa speciale o scutagium. Le somme così ottenute venivano poi utilizzate per assoldare mercenari, e verso la metà del XV secolo i mercenari avevano già sostituito quasi tutti i loro predecessori feudali, tranne che negli strati più elevati» (2004: 223-24). La Guerra dei Trent'anni avrebbe rappresentato l'apice di questo “nuovo” tipo di esercito.

[*2] - La buffonata di Basil Liddell Hart (1895-1970), un uomo traumatizzato dagli orrori della Prima Guerra Mondiale, che divenne un esperto militare dopo il 1918, bene illustra questo senso di professionalità della guerra. In linea con l'«umanesimo della ghigliottina», passò la propria vita a pensare ad armi e strategie belliche che potessero abbreviare il calvario della morte, rendendolo il più rapido possibile... E Luis Alvarez, uno dei creatori della bomba di Hiroshima, dice di essersi dedicato a questa invenzione con la speranza che potesse significare la fine di tutte le guerre!

[*3] - Engels, nell'Anti-During (1979: 146) fa la seguente osservazione: “All'inizio del XIV secolo l'invenzione della polvere da sparo giunse dagli arabi agli europei occidentali, rivoluzionando in tal modo (...) tutti i metodi di guerra. E l'introduzione della polvere da sparo e delle armi da fuoco non fu propriamente un atto di violenza, quanto piuttosto un progresso industriale e quindi economico. L'industria non perde il suo carattere industriale perché i suoi prodotti sono progettati per distruggere piuttosto che per creare oggetti. E l'adozione delle armi da fuoco non ha rivoluzionato solo i metodi di guerra, ma anche le istituzioni politiche di potere e di dominio. Per ottenere polvere da sparo e armi da fuoco erano necessari industria e denaro, ed entrambi (...) gli elementi erano nelle mani della borghesia cittadina”. In risposta al significato di questo passaggio, Kurz ha scritto (1997: 241): “Si può concedere pienamente al materialismo storico che la maggiore e principale rilevanza non risiedeva in semplici cambiamenti di idee e mentalità, ma nello sviluppo a livello di fatti materiali concreti. Tuttavia, non è stata una forza produttiva ma, al contrario, una clamorosa forza distruttiva a spianare la strada alla modernizzazione, ossia l'invenzione delle armi da fuoco”.

[*4] Un'altra importante elaborazione nel campo del marxismo tradizionale è il contributo di Natalie Moszkowaska alla dinamica del tardo capitalismo, in cui si mostra come la creazione di un complesso militare-industriale sia una necessità permanente del tardo capitalismo. Oltre a questa autrice, anche Ernst Mandel ha dato ampio spazio al ruolo dell'“economia permanente degli armamenti” nel tardo capitalismo, così come hanno fatto Paul Baran e Paul Swyzee nel loro Il capitalismo monopolistico, in cui hanno discusso la funzione ineludibile della spesa bellica permanente in un'economia di sovraccumulazione. In tutte queste analisi, la guerra è politica con altri mezzi ed è un riflesso dell'economia nei suoi bisogni immanenti, ma non è mai l'aspetto oscuro dissociato dal valore pensato qui.

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