giovedì 30 marzo 2023

« Lavorare non paga » !!

Francia: contro la riforma delle pensioni, per la fine del lavoro
Editto Collettivo

A forza di sentirla - la cantilena - abbiamo quasi finito per assimilarla: la gioventù è precarietà. Prima a scuola, all'Università o nell'alternanza scuola/lavoro, e poi al lavoro, negli stage, nel lavoro interinale o nei Contratti a Tempo Determinato, e anche nelle trappole per topi dove alloggiamo, fino al nostro status sociale e nelle nostre identità, nell'amore, in tutto, ovunque e dappertutto, finiamo sempre per essere "precari". Vale a dire, non saremo mai veramente compiuti, terminati, non saremo mai veramente stabili – saremo, in qualche modo, sempre mancanti di qualcosa. Di una rivoluzione, forse?

I nostri genitori e i nostri nonni ci compatiscono, e allo stesso tempo un po' ci disprezzano. Mentre i sindacati e i partiti di sinistra di solito non ci parlano, se non per prometterci l'impossibile ritorno dei «Trenta Gloriosi» anni [quelli che vanno dal 1945 al 1973]. Tutte quelle brave persone che pretendono di rappresentarci parlano per noi, e decretano fino alla nausea cos'è che si suppone dovrebbe essere bene per noi; vale a dire, che dovremmo finalmente diventare degli adulti ragionevoli. Ma quello che invece ci viene proposto, è che anche noi dobbiamo accontentarci di essere sfruttati allo stesso modo in cui è stato fatto con le generazioni precedenti. E così, oggi ci viene chiesto di darci una mossa, dal momento che in tempi lontani a venire - quando saremo vecchi e stanchi - potremo vivere nel paradiso terrestre del quel «salario differito» che chiamano pensione e che, per noi, in soldoni, consisterà sicuramente in ancor meno di quello che oggi è uno SMIC (Salario Minimo di Crescita Interprofessionale).

L'idea di felicità, comune alle generazioni dei nostri genitori e dei nostri nonni, si basava su una crescita economica che noi non abbiamo mai conosciuto. Da un punto di vista antropologico, si traduceva nell'immagine del buon cittadino lavoratore-consumatore: un mutuo immobiliare ventennale, in modo da poter così «diventare proprietario di una casa»; un credito sul consumo, in modo da poter provare «la libertà» di guidare un'auto; uno o due figli; simulare una carriera in un lavoro di merda; una scheda elettorale nell'urna di tanto in tanto senza crederci troppo. Oggi sappiamo fino a che punto questo sogno è stato un miraggio. Sappiamo anche quanto tutto questo ci sia costato, in termini di implicazioni politiche delle quali oggi paghiamo il prezzo. Non serve ricordare come questa società si reggeva, e si regge tuttora - da un lato - sul più immondo sfruttamento del lavoro da parte del capitale, e – dall'altro - sull'eccessivo sfruttamento delle risorse della terra - cosa di cui si cominciano a sentire gli effetti, i quali si accentuano sempre di più.

Per la nostra generazione va tutto male, eppure tuttavia non si muove niente. Per non dire che - con l'inflazione e con l'aumento generale dei prezzi - molti di noi hanno già superato ormai la soglia di povertà. Eppure, nonostante tutto ciò, ancora niente. Ovunque e dappertutto sentiamo dire che: «Lavorare non paga», e bisognerebbe aggiungere che neanche prima pagava. Da circa vent'anni, per i nuovi arrivati sul mercato, il messaggio è essenzialmente questo: «Andrai in malora». In questo nostro tempo, ciò che si impone in maniera evidente, è la sofferenza sul lavoro, la quale è diventata uno dei principali indicatori delle trasformazioni sociali della società attuale. Oramai, non si lavora più, non si fa più carriera, ma piuttosto si trova un lavoretto, si fa poco, si lotta, si cerca di intrecciare relazioni. La nostra generazione non ha mai creduto nell'emancipazione attraverso il lavoro. Al contrario, ciò che per noi struttura un mondo felice non è il salario, né la sacrosanta proprietà privata o il regno dei piccoli interessi, quanto piuttosto la cooperazione e le relazioni gioiose, l'aiuto reciproco e lo scambio, l'amicizia e il desiderio di prendersi cura di chi amiamo, così come cercare di rispondere a tutto questo cumulo di problemi che abbiamo ereditato, e che ci pone tutti di fronte alla necessità di rimediare alla follia di un mondo sull'orlo del precipizio.

Tutto questo dà le vertigini, siamo d'accordo. L'epidemia di Covid 19 ci ha costretto all'isolamento. E se è vero che, in un certo qual modo - sovente incollati ai nostri schermi, isolati, prigionieri degli algoritmi - finiamo per essere fragili, manipolabili, sfruttabili, e tuttavia oggi ci troviamo nondimeno a esser parte di un movimento che si pone come antagonista al potere dell'economia e all'autoritarismo governativo, e stiamo cercando di trovare i mezzi per riuscire a fare irruzione in quest'epoca. Siamo tutti dalla parte dello sciopero, del blocco, del sabotaggio e dello straripamento. Ci sentiamo vicini a coloro che, ovunque nel mondo, cercano di alzare la testa insorgendo contro il regno della disuguaglianza e dell'ingiustizia. Ma sono diverse le ragioni, per cui è pericoloso che quella contro la riforma delle pensioni possa apparire come se fosse la madre di tutte le battaglie, quando invece si tratta solo del sintomo – uno tra gli altri - di una dittatura di un'economia che sta cercando di affermare il proprio regno totale sulle nostre vite.

Pericoloso, lo è innanzitutto, perché ci fa rimettere in scena l'inenarrabile movimento sociale “alla francese”, e questo sebbene oggi non ci sia quasi nessuno che possa davvero credere nell'attualità delle forme di lotta che esso veicola, tranne forse all'interno di alcuni bastioni sindacali (RATP, SNCF, energia, educazione nazionale). Si tratta di forme di lotta che sono state ampiamente superate dalla forza della rivolta immediata dei Gilet Gialli. E in secondo luogo, perché, così facendo riduciamo la conflittualità solamente a questi bastioni sindacali, finendo per diventare tutti spettatori di un conflitto nel quale non contiamo. Se infatti, come era avvenuto giovedì 19 gennaio, appariamo in questo tipo di movimento come se fossimo solo una una massa informe, «facendo solo numero», vale a dire buona solamente perché permette di fotografare in tal modo quale sarebbe lo stato dei rapporti di forza esistenti tra le centrali sindacali e il governo. Ma soprattutto, c'è da dire che sono passati almeno 40 anni da quando il repertorio d'azione del movimento sociale classico è stato superato dalla ristrutturazione contemporanea dell'economia (globalizzazione dei flussi di capitale, deindustrializzazione, terziarizzazione dell'economia, gestione per algoritmi, ecc.) In modo che così, oggi, costretto in una posizione difensiva, il movimento sociale classico, "à la française", rigido in quello che è il suo solito repertorio d'azione, finisce per bloccare una ristrutturazione antagonista delle lotte che si basa su una matassa di situazioni sociali, ovviamente diverse, ma che in fondo puntano tutte a una massiccia messa in discussione dell'attuale sistema economico.

Tuttavia, nel momento in cui una rabbia diffusa si prepara a confluire, riunendosi intorno al rifiuto della riforma delle pensioni, ecco che l'occasione è troppo ghiotta per non coglierla come se fosse un trampolino di lancio. Inoltre, uno sciopero è pur sempre un'opportunità per fermarsi, e smettere di lavorare. Il momento dello sciopero, è perciò assai spesso anche quello di una riflessione collettiva sulle nostre condizioni di vita, sui mondi che desideriamo. Ed è anche un momento in cui sviluppare delle nuove strategie di lotta. In che modo fare irruzione e straripare? Come fare a diventare ancora più potenti? Come non fare per non essere recuperati da tutti quei politici ambiziosi? Queste sono tutte domande urgenti alle quali dovremo rispondere nelle prossime settimane. Il movimento che chiede l'abolizione del capitalismo acquista sempre più consistenza, soprattutto tra le giovani generazioni. Tuttavia, rimane ancora bloccato in una critica astratta del mostro economico, e non riesce a trovare delle forme di apparizione che gli siano proprie. Di conseguenza, questo movimento che si contrappone alla dittatura dell'economia sulla vita, si mostra in maniera silenziosa, e quasi invisibile, in quello che è il suo rifiuto sempre più forte e deciso dell'ideologia del lavoro. I sintomi di un simile rifiuto così diffuso sono assai numerosi. Anno dopo anno, lo possiamo vedere nelle statistiche sulla sofferenza del lavoro, sull'ansia e sulla depressione, oppure nel semplice fatto che molti di noi "lavorano" solo nell'ottica di ottenere un salario, vale a dire, senza alcuna altra giustificazione che non sia quella della pura sopravvivenza.

Per farla breve, quasi nessuno ormai si aspetta più dal lavoro qualcosa che possa essere emancipatorio. Tranne forse coloro che sorvegliano e controllano gli altri, rendendo ancora più miserabile la loro vita: la classe dei manager. Oltre tutto, non ingannano più nessuno. Di questo ne sono testimonianza tutti quegli influencer che inondano i social media con i loro video-elogi di ogni redditiere che abbia investito in borsa, in cripto-valute o in immobili, e che nell'ideologia del capitale ha ormai sostituito l'immagine dell'onesto lavoratore nell'ideologia del capitale. Certo, questo rifiuto del lavoro è ancora largamente ed enormemente passivo, ragion per cui queste rare forme di apparizione pubblica sono solo quelle di coloro che possono "permetterselo", come gli studenti delle grandi scuole di ingegneria che dichiarano che la loro è una "diserzione" e una “secessione”, o come quei dirigenti in crisi esistenziale che si reinventano come artigiani o come neo-ruralisti. Nel momento in cui noi interveniamo in un movimento come quello delle pensioni, abbiamo il compito di restituire a questo rifiuto tutta quanta l'ostilità che lo caratterizza. Noi pensiamo che fare irrompere nella scena pubblica tutta questa ostilità collettiva, attraverso tutte le diverse voci che la veicolano, possa essere un modo per andare oltre il quadro sindacale, aprendo la porta a ogni sorta di nuove pratiche di riappropriazione, sia nella lotta che nella vita quotidiana, tanto in questo movimento quanto negli anni a venire.

- TOUS DEHORS - 30/1/2023 -

mercoledì 29 marzo 2023

« Ultima Generazione » !!

La politicizzazione del clima
- Il trattamento riservato a "Ultima Generazione" mostra il modo in cui lo Stato pensa di reagire nei confronti delle prossime proteste di massa contro la politica climatica: criminalizzazione e repressione -
di Tomasz Konicz [***]

Contro-insurrezione preventiva: questo termine, oggi alquanto dimenticato, negli ultimi decenni neoliberisti è stato usato dai critici per descrivere il totale irrigidimento del diritto penale, così come viene oggi usato per parlare delle leggi di polizia che vengono attualmente applicate contro gli attivisti per il clima. Ragion per cui, ad esempio, gli attivisti del gruppo di protesta "Ultima Generazione" hanno dovuto trascorrere diverse settimane di cosiddetta "detenzione preventiva" dal momento che - secondo una decisione del tribunale - c'era il rischio che potessero nuovamente partecipare ad azioni di blocco a Monaco. Il fatto che delle persone possano finire in prigione "preventivamente", rappresenta un inasprimento relativamente nuovo del diritto penale, introdotto frettolosamente dalla CSU nel 2018 come parte del Task Act sulle funzioni di polizia della polizia bavarese. All'epoca non erano ancora cessate le proteste contro questo inasprimento della legge, da parte dello Stato di polizia, che mina il principio dello Stato di diritto borghese, secondo il quale invece i cittadini possono essere puniti con pene detentive solo per dei reati accertati. Ci furono allora diverse organizzazioni della società civile che presentarono, senza successo, un ricorso costituzionale. Questa norma sulla detenzione preventiva - che in precedenza era assente dal diritto penale tedesco per una buona ragione - riporta alla memoria la detenzione preventiva dei nazisti.

Negli ultimi anni, la maggior parte degli Stati federali hanno cominciato a introdurre regolarmente norme di questo tipo, che nel dibattito pubblico dimentico dalla storia sono diventate da tempo "normalità". In quella che è la campagna repressiva e mediatica attualmente in corso, contro i blocchi attuati da "Ultima Generazione", si può pertanto studiare l'interconnessione esistente tra l'inasprimento del diritto penale, le tendenze dello Stato di polizia, il graduale smantellamento della democrazia e la natura di crisi del tardo capitalismo. Ecco perché il termine «contro-insurrezione preventiva» è così appropriato. Le élite del capitalismo funzionale non si fidavano del proprio sistema nemmeno cinque anni fa: esse avevano un senso della crisi assai più acuto di quello di gran parte della sinistra tedesca, cieca alla crisi. Già nell'era neoliberale, l'apparato statale si era formato una sua «coscienza della crisi» strumentale, autoritaria e repressiva, e interamente orientata al mantenimento dell'ordine pubblico nella crisi permanente. Da tempo si discute di un ulteriore inasprimento del diritto penale. Le lobby economiche e politiche della CDU e della FDP esigono che gli attivisti per il clima possano essere normalmente detenuti almeno per 30 giorni. La CSU specula, parlando di una «Frazione dell'Armata Rossa per il Clima», mentre il Ministro della Giustizia, Marco Buschmann (FDP), sta valutando a gran voce la possibilità di mettere in prigione i manifestanti per il clima. Queste misure repressive si vanno a inserire in una campagna mediatica di destra, nella quale gli attivisti per il clima vengono incolpati per gli incidenti stradali che avvengono durante le azioni di blocco. Inoltre, i media hanno cominciato a diffondere ampiamente dei sondaggi secondo i quali gran parte della popolazione rifiuterebbe le forme di protesta messe in atto da "Ultima Generazione". Ovviamente, si tratta di una campagna condotta dai soliti sospetti di destra - da Springer («anarchici del clima!») passando per la CDU/CSU («cinque anni di galera!») e fino all'AfD («estremisti del clima») - contro gli attivisti climatici; una campagna che sta semplicemente cogliendo il momento favorevole per indebolire definitivamente il movimento per il clima, e per istituire nuovi strumenti di repressione il più rapidamente possibile. Mentre all'inizio di dicembre, i ministri della Giustizia federali e statali stavano ancora discutendo se la detenzione preventiva praticata in Baviera contro «coloro che si incatenano per il clima» dovesse essere applicata a livello nazionale, ecco che a metà mese la magistratura ha agito contro "Ultima Generazione" facendo un blitz su scala nazionale. L'accusa: formazione di un'organizzazione criminale; secondo l'articolo 129 del Codice penale. Le azioni di disobbedienza civile portate avanti da “Ultima Generazione” potrebbero pertanto essere assimilabili ad atti terroristici, e al famigerato articolo 129 bis («formazione di organizzazioni terroristiche»).

È arrivato il momento di farlo. Perché fa freddo. Con il clima invernale e con la guerra in Ucraina, le preoccupazioni per gli alti costi del riscaldamento, e per un'economia che vacilla, stanno mettendo in secondo piano i timori per una catastrofe climatica. L'estate degli orrori del 2022, è stata semplicemente dimenticata dalla popolazione, la quale, grazie al continuo bombardamento messo in atto dall'industria culturale, ha una memoria pubblica di poche settimane. L'enorme pluralità delle distorsioni ecologiche, sociali e politiche attraverso le quali si sta rapidamente manifestando la crisi sistemica del capitalismo, porta al disorientamento e a un "saltellamento" della crisi, e ciò avviene nella misura in cui le cause sistemiche della crisi rimangono occultate. L'estate scorsa, quando i fiumi europei erano asciutti, gli incendi infuriavano e il caldo mieteva molte vittime, un'azione del genere contro il movimento per il clima sarebbe stata impossibile. Le diverse maggioranze generate dalle campagne diffamatorie, che ora si manifestano con il richiedere pene più severe, semplicemente non si sarebbero potute concretizzare. Mettendo in atto una campagna di repressione in "inverno", vale a dire nella stagione buia - la quale a malapena merita il suo nome, considerate le temperature di quasi 20 gradi a cavallo dell'anno -, la destra sta semplicemente approfittando di una finestra di opportunità per riuscire a creare una situazione nuova e autoritaria. La de-democratizzazione, insieme alla pratica di nuovi metodi di repressione, deve essere stabilita prima che il prossimo evento meteorologico estremo ricordi con forza alla gente che la catastrofe climatica sta progredendo animatamente e rapidamente.
Pertanto, il tempo è perciò diventato un fattore politico; ci sono vantaggi se si tiene conto del tempo nell'azione politica! Ciò è dovuto soprattutto al fatto che l'argomentazione pluridecennale, secondo cui clima e meteo sono cose diverse, non è più valida. La crisi climatica ormai si manifesta in maniera chiara , facendolo attraverso fenomeni meteorologici troppo concreti perché questa mezza verità, che i negazionisti del clima amano strumentalizzare, possa essere convincente (dopo tutto, non c'è più un solo evento meteorologico estremo che non venga identificato come una conseguenza della crisi climatica). La repressione del movimento per il clima deve perciò avvenire in un periodo dell'anno in cui la gente si preoccupa di come riscaldare le proprie case senza finire sul lastrico. Ma questa leva politica può essere tirata anche dalle forze progressiste. La prossima stagione di incendi, caldo e siccità è alle porte, e metterà inevitabilmente al centro del dibattito pubblico anche la crisi climatica, che sta assumendo caratteristiche sempre più catastrofiche. E saranno queste le condizioni meteorologiche nelle quali il movimento per il clima potrà passare all'offensiva, dal momento che con un caldo insopportabile la maggior parte delle persone, senza aria condizionata, avrà naturalmente molta simpatia per le forme di protesta radicali. In tal modo, il clima è quindi diventato un fattore altamente politico. Il vecchio slogan del '68 - plasmato dal pensiero riduzionista della lotta di classe, secondo cui tutti parlano del tempo tranne la sinistra - deve pertanto essere trasformato nel suo opposto: tutti parleranno del tempo e lo includeranno nella pianificazione del movimento, come un fattore importante dei loro calcoli politici. È questo il motivo per cui i riferimenti ai numeri attualmente negativi negli indici di popolarità del movimento per il clima - attraverso i quali i media della sinistra liberale, o i "manager del movimento" del Partito della Sinistra, vogliono dissuadere i "bloccatori climatici" dalle loro forme di protesta che disturbano le operazioni capitalistiche quotidiane - non colgono il nocciolo di questa dinamica politica meteorologica. I discorsi che parlano del "disservizio" che "Ultima Generazione" farà alla politica climatica, sono vuoti. La crisi climatica continuerà ad avanzare, del tutto indifferente all'opinione dei cittadini tedeschi sul clima, e farà letteralmente mutare l'umore della popolazione - seguendo le svolte climatiche del sistema climatico globale. Già la devastante catastrofe dell'alluvione che ha colpito la Repubblica Federale nel 2021 nel bel mezzo della campagna elettorale, può essere intesa come un fattore politico che ha certamente dato una spinta ai "Verdi". Man mano che la crisi climatica avanza, anche il movimento per il clima continuerà a guadagnare terreno; per il semplice motivo che il capitalismo, a causa della sua coercizione a crescere e a valorizzare, semplicemente non è in grado di affrontare la crisi climatica. Il capitale è il valore che si valorizza da sé solo. È il denaro che deve diventare più denaro, e lo fa bruciando energia e materie prime nella produzione di merci. Può adattarsi a quasi tutto, tranne che a sé stesso. Ecco perché in tutto il mondo le emissioni di CO2 continuano ad aumentare, e perché tale aumento delle emissioni viene brevemente interrotto solo dalle crisi economiche globali. Il far ricorso al blocco stradale - praticato da "Ultima Generazione"  - è una forma di protesta che nasce dal coraggio della disperazione, e contrasta con l'ingenuità politica quasi disarmante del gruppo, il quale si limita a lanciare semplicemente degli appelli ai politici affinché risolvano finalmente la crisi climatica. Nonostante l'attuale campagna di destra, persino l'Ufficio per la protezione della Costituzione, si è visto costretto a dichiarare che questo gruppo non è "estremista", in quanto esso si limita solo a «invitare i responsabili ad agire». Il problema di un simile approccio, tuttavia, consiste nel fatto che i politici non sono assolutamente in grado di affrontare in maniera sensata la crisi climatica, e questo a causa delle già citate contraddizioni sistemiche del capitalismo.

Senza una trasformazione del sistema, senza un superamento dell'impulso del capitalismo alla crescita, è impossibile affrontare la crisi climatica. Il capitalismo non è in grado di perseguire una politica climatica efficace. Questo semplice concetto, tematizzato da anni dalla critica del valore, nel frattempo ha raggiunto anche la sinistra. Così, invece di promuovere la divisione del movimento per il clima - dividendolo in forme di protesta "buone" e "cattive" – sarà sempre più importante generalizzare questa coscienza di crisi radicale, in modo da superare la discrepanza esistente tra forme di protesta radicali e richieste ingenue. Finora, gli «incatenati al suolo per il clima», ridicolizzati per la loro ingenuità, sono stati criticati dalla sinistra in termini di percezione pubblica delle loro azioni, soprattutto a partire dalle modalità "sociali" degli ammonimenti provenienti dai liberali di sinistra, secondo i quali i blocchi stradali avrebbero causato il malumore della popolazione nei confronti del movimento. Nella maggior parte dei casi - soprattutto in quelli riferiti allo spettro sindacale del Partito della Sinistra - viene utilizzata l'immagine dell'operaio che farebbe tardi al lavoro a causa di un blocco stradale. Ma in realtà, la crisi del clima capitalista dimostra proprio che non esiste un "soggetto rivoluzionario", e che i salariati, che funzionano come "capitale variabile" nel processo di valorizzazione, hanno un interesse endo-capitalistico nel voler prolungare il processo di valorizzazione del capitale che distrugge il loro futuro ecologico, in modo che esso possa loro garantire un presente sociale. Questa mostruosa contraddizione potrebbe essere risolta solamente nel caso in cui il salariato non volesse più dipendere dal suo salario. Alla critica reazionaria - e di pseudo-sinistra – nei confronti di "Ultima Generazione", così come essa viene in particolare praticata a partire dall'opportunismo di crisi del Partito della Sinistra (cfr. Konkret 10/2022), andrebbe contrapposta una critica radicale, mirata proprio a far emergere una coscienza radicale della crisi vista come conditio sine qua non della prassi emancipatrice: una simile trasformazione del sistema diventa così un prerequisito se si vuole evitare la catastrofe climatica.

Nel difendere la prassi dirompente di "Ultima Generazione", appare importante criticarne l'ingenuità politica. Proprio a partire dal fatto che, purtroppo, non esiste un soggetto rivoluzionario, ecco che allora la questione della consapevolezza della crisi diventa decisiva: se non si è coscienti del fatto che è il capitale - con la sua coercizione alla valorizzazione - la causa della crisi climatica, allora non è più possibile alcun percorso emancipatorio nel contesto di quelli che saranno i prossimi sconvolgimenti sociali. Per la sopravvivenza, bisogna che all'azione rivoluzionaria segua la comprensione della necessità di trasformare il sistema in tal senso. Per quanto possa sembrare illusoria, di fronte alla realtà del Paese, data la generale regressione e apatia della sinistra, una tale trasformazione radicale del movimento climatico, rimane una possibilità di successo. Oggi, la produzione ideologica del tardo capitalismo si trova sulla difensiva strategica, dal momento che, in ultima analisi, si tratta di riconciliare la popolazione con la perdita e la scomparsa della propria sussistenza ecologica. Così, la grande domanda è quella se il business dei media - ivi compresa l'industria culturale - riuscirà in un simile intento. Ragion per cui, bisogna semplicemente portare a livello sistemico la medesima percezione della realtà che ha "Ultima Generazione" - a partire dalla quale, nelle sue proteste, lotta per la sopravvivenza collettiva - anziché criticare le proteste in quanto tali.

Nei prossimi anni apparirà sempre più chiaro che a essere estremista è proprio l'adesione al capitalismo, e non il suo superamento. Questo abisso - apertosi palesemente dinanzi a noi - nel quale ora il tardo capitalismo, nella sua agonia, sta sprofondando, ci mostra quanto in prospettiva sia superflua l'ideologia. Arrivati a un certo punto, il sistema ormai a pezzi non sarà più in grado di potersi permettere l'ideologia; nemmeno nei centri capitalistici. Il pericolo, insieme al rischio della pura repressione, di una tirannia nuda e cruda, per mezzo della quale sia proprio lo stesso sistema che, nel suo crollo, soffoca ogni alternativa emancipatrice, sta aumentando sempre più rapidamente, proprio a causa dell'impossibilità di poter mettere in atto una difesa capitalista del clima. E saranno proprio i prossimi eventi climatici estremi, quelli che con ogni probabilità tracceranno il percorso della lotta per la trasformazione; sia per quanto atterrà agli impulsi emancipatori, sia per quel che riguarderà le misure repressive da parte dello Stato. E a puntare in tale direzione non saranno soltanto gli assurdi sforzi - messi in atto dall'apparato - di costruire un'organizzazione criminale costituita da dei borghesi ben educati che «si incatenano al suolo per salvare il clima», e che nelle loro azioni si limitano a invocare la Costituzione. Ed è per questo che, al contrario, il fulcro delle forze progressiste ed emancipatrici dovrà essere la lotta contro le tendenze repressive e post-democratiche dello Stato e della politica.

Quasi simultaneamente alla repressione di "Ultima Generazione", è stata scoperta anche una bizzarra cospirazione di cittadini del Reich - aristocratici ed ex comandanti delle forze speciali della Bundeswehr - che progettava niente meno che un colpo di Stato in Germania. Questi arresti avrebbero dovuto essere un ammonimento (passeggero?) rivolto a  tutte le organizzazioni di destra della DDR che, con l'avanzare della crisi, riterranno possibile poter salvare la loro "Germania" attraverso il fascismo. La crisi dei rifugiati ha già dato origine a dei corrispondenti piani di colpo di stato - tanto nello Stato quanto nella magistratura della DDR - e la crisi climatica probabilmente rafforzerà queste tendenze fasciste a stabilire una forma apertamente terroristica di crisi del dominio capitalista. La lotta per mantenere gli spazi di manovra democratici che si sono ridotti a causa della crisi, è quindi necessaria, se non altro per garantire che la semplice ricerca di alternative sistemiche alla crisi capitalistica permanente non venga, a un certo punto, bollata come "estremista" e trattata con la "detenzione preventiva"; se non con una vera e propria cancellazione.

- Tomasz Konicz [***] - Pubblicato su Konkret nel mese di febbraio del 2022 -

*** NOTA: Il lavoro giornalistico di Tomasz Konicz è finanziato in gran parte grazie a donazioni. Se vi piacciono i suoi testi, siete invitati a contribuire - sia tramite Patreon che con un bonifico bancario diretto, dopo una richiesta via e-mail:  https://www.patreon.com/user?u=57464083

martedì 28 marzo 2023

Marx, tetro e funesto !!

Un Marx che amava il Capitalismo?
- A proposito di un dibattito su tecnologia e disoccupazione -
  di Maurilio L. Botelho, con la collaborazione di Marcos Barreira

«Gli imbecilli pensano che Marx odiasse il capitalismo. No! Era un suo entusiasta ammiratore» Reinaldo Azevedo

Marx, ha mai detto che «la tecnologia avrebbe fatto sparire i posti di lavoro»? Qual era per lui la relazione che si era venuta a stabilire tra la tecnologia e il progresso sociale?
Per un lettore di Marx, la prima idea, qui sostenuta da un "irriducibile" economista liberale, suona un po' strana, dal momento che il teorico tedesco non è che pensi esattamente secondo quelli che sarebbero i termini di "occupazione" e "reddito", allo stesso modo in cui farebbe qualsiasi economista ordinario rimasto fermo alla sfera della circolazione; bensì lo fa piuttosto soprattutto in termini di analisi della forma di produzione che abbiamo nel capitalismo, e delle sue contraddizioni; cosa che ovviamente include anche la circolazione, vista come un momento della totalità. Il problema della relazione esistente tra tecnologia e fine del "lavoro", ci consente tuttavia di aprire nel discorso circolazionista, una breccia dalla quale far passare un'interpretazione attuale della teoria della crisi di Marx. Nel dibattito, il contrappunto che viene fatto dal "lettore di Marx", sembra invece essere invece però proprio quello di chi vuole semplicemente rifiutarsi di stabilire una simile relazione. Qui, il punto decisivo è che - rispetto alla crescita del capitale globale - non esiste una crescita "proporzionale" della forza lavoro. Per cui, anziché di «distruzione creativa», Marx parla invece di una tendenza a ridurre l'uso (l'impiego) della forza lavoro rispetto alla grandezza del capitale globale.

Il risultato di una cosa del genere?
Un ampliamento assoluto dell'«esercito industriale di riserva», vale a dire di quelli che gli economisti chiamano "disoccupati". Ed è questo è ciò che troviamo allorché apriamo il Capitale, «quel libro noiosissimo» - come dice l'economista - nel quale Marx descrive la relazione esistente tra «l'aumento della tecnologia», l'espansione della produttività e l'uso della forza lavoro [il capitale variabile]:

«Il modo di produzione specificamente capitalistico, lo sviluppo della forza produttiva del lavoro a esso corrispondente, e il cambiamento così causato nella composizione organica del capitale che ne deriva, non vanno soltanto di pari passo con il progresso dell’accumulazione, ovvero con l’aumento della ricchezza sociale. ESSI PROCEDONO A UN PASSO INCOMPARABILMENTE PIÙ RAPIDO, perché l’accumulazione semplice, ossia l’estensione assoluta del capitale complessivo, è accompagnata dalla centralizzazione dei suoi elementi individuali, così come la rivoluzione tecnologica del capitale addizionale è accompagnata dalla rivoluzione tecnologica del capitale originario. Con l'avanzare dell'accumulazione, quindi, cambia la proporzione tra la parte costante e quella variabile del capitale. Siccome la domanda di lavoro è determinata non dal volume del capitale complessivo, ma dal volume della sua parte costitutiva variabile, essa diminuisce in proporzione progressiva con l’aumento del capitale complessivo, invece di aumentare in proporzione di esso, come è stato presupposto prima. Essa diminuisce in rapporto alla grandezza del capitale complessivo, e diminuisce in progressione accelerata con l’aumento di questa grandezza. È vero che, con l’aumento del capitale complessivo, cresce pure la sua parte componente variabile, ossia la forza di lavoro incorporata a esso, ma cresce IN PROPORZIONE COSTANTEMENTE DECRESCENTE» (Il Capitale, libro I. maiuscole mie).

Tuttavia – lo diciamo per i "non lettori" del Capitale –per quanto le singole unità aziendali impieghino sempre meno forza lavoro, il capitalismo rimarrebbe però dotato di un'eterna capacità di espansione, la quale porterebbe sempre a compensare questi tagli grazie a ulteriori e nuove "opportunità". Così, nella visione liberale radicale «le nuove tecnologie distruggeranno alcuni posti di lavoro, ma altrove ne creeranno altre». Mentre, invece, nella visione dell'"economista dello sviluppo", «se un Paese raggiunge un livello x di tecnologia, allora la sfida dell'economista lì diventa quella di trovare nuovi campi di accumulazione; ma se raggiunge un punto di altissima complessità economica, ciò che viene dopo è la creazione di servizi tecnologici, e la tendenza dei salari in quel settore diventa quella di alti salari».

La differenza tra il roseo mondo del fondamentalismo di mercato e la panacea sviluppista, consiste nel fatto  che nel primo caso il mercato esegue automaticamente l'aggiustamento economico, purché non sia ostacolato da "interventi politici"; mentre nel secondo, l'intervento tecnocratico svolge il ruolo opposto, impedendo così che l'accumulazione si trasformi in "disoccupazione strutturale". In questo dibattito - che ignora le contraddittorie dinamiche strutturali delineate da Marx - gli estremi ideologici divergono solo circa quale debba essere il ruolo della "politica"; ma lo fanno pur sempre sulla medesima base che vede un capitalismo in grado di continuare indefinitamente il processo di accumulazione. La visione che ha Marx dell'accumulazione capitalistica, invece, è del tutto diversa: egli sostiene che il capitale possiede una dinamica storica quasi oggettiva [feticista], la quale conferisce all'accumulazione un carattere socialmente incontrollabile e distruttivo. La conclusione circa la riduzione relativa della forza lavoro in linea con l'espansione del capitale globale, cui Marx perviene, è talmente importante da essere stata definita come la «legge generale dell'accumulazione capitalistica». Al di là di quelli che sono i cicli periodici di incorporazione della forza lavoro, la tendenza generale dell'impiego della forza lavoro è quella di «diminuire progressivamente con la crescita del capitale globale»:

«Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e il peso della sua crescita, cioè la sua densità e intensità, e quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la produttività del suo lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva. Le stesse cause che sviluppano la forza di espansione del capitale, aumentano la forza di lavoro disponibile. La grandezza proporzionale dell’esercito industriale di riserva cresce dunque insieme con le potenze [meccaniche e astratte, tangibili e intangibili], della ricchezza. Ma quanto maggiore, in rapporto all’esercito operaio attivo, è l’esercito di riserva, tanto maggiore è la sovrappopolazione consolidata, la cui miseria è in proporzione inversa del suo tormento di lavoro. Quanto maggiore, infine, è lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva tanto maggiore è il pauperismo ufficiale. Questa è la legge generale e assoluta dell’accumulazione capitalistica: [a un polo della società si concentra la ricchezza e al polo opposto dilaga la miseria]. La legge di attrazione per la quale una massa sempre crescente di mezzi di produzione, grazie al progresso compiuto nella produttività del lavoro sociale, può essere messa in moto mediante un dispendio di forza umana progressivamente decrescente, che permette all’uomo della società moderna di produrre di più con meno lavoro, si esprime nel sistema capitalistico –dove non sono i mezzi di produzione al servizio del lavoratore, bensì il lavoratore al servizio dei mezzi di produzione– in legge di repulsione: quanto più alta è la forza produttiva del lavoro, tanto più grande è la pressione degli operai sui mezzi della loro occupazione, e quindi tanto più precaria diventa la condizione di esistenza del salariato e la vendita della sua forza di lavoro per l’aumento della ricchezza altrui, ossia per l’auto-valorizzazione del capitale.»  (Capitale, Libro I).

A essere qui in discussione, non è solo un ampliamento assoluto del "proletariato" - il quale del resto può essere definito come quelle persone che non possiedono direttamente i mezzi di produzione – ma la crescita dell'esercito degli esclusi in «rapporto all'esercito attivo dei lavoratori». La "legge generale dell'accumulazione capitalistica" rende evidente il carattere mendace di affermazioni come quelle che sostengono che «in Marx non esiste una simile relazione secondo la quale la tecnologia distruggerebbe i posti di lavoro», ma serve oltretutto anche a chiarire il problema della condizione del lavoratore inserito nel processo produttivo e la cosiddetta "legge di bronzo", o "legge di ferro" dei salari.

La "legge di bronzo dei salari" divenne famosa grazie ai dibattiti all'interno del Partito Socialdemocratico Tedesco. Nel 1875, i rappresentanti dei due partiti operai si incontrarono nella città di Gotha ed elaborarono un programma comune che, tra le altre cose, si batteva per uno «Stato libero», per una «società socialista» e per il superamento del sistema salariale e della «legge di bronzo del salario». Il principale ispiratore di un simile dibattito non era stato Marx, bensì il socialista Ferdinand Lassalle, l'ideatore della "legge di bronzo". Secondo lui, il salario dei lavoratori tenderebbe sempre al minimo di sussistenza, e farebbe questo in funzione dell'aumento della popolazione. La confusione tra marxismo e lassalismo, all'interno del movimento operaio e nei programmi dei partiti socialisti, avrebbe portato, nel corso del XX secolo, allo stigma dell'«errore di Marx», secondo cui al centro del capitalismo si sarebbe verificato - almeno fino agli anni Settanta - un reale miglioramento della "condizione operaia". Tuttavia, Marx aveva immediatamente respinto la "legge di bronzo" lassalliana, nella Critica del Programma di Gotha, dove sottolineava che l'origine di questa legge risiede nell'economia politica classica, nel pastore Malthus, il quale vaticinava a proposito di un aumento costante della popolazione, visto come causa della povertà. La critica di Marx a questa "legge del bronzo" non si limita solo al fatto che la crescita della popolazione dipende da dei criteri sociali (critica al malthusianesimo), ma asserisce che anche la determinazione del livello salariale dipende da delle condizioni storiche: il valore della forza lavoro viene definito come l'insieme dei "mezzi di sussistenza", ma questi mezzi, a loro volta, sono determinati dal "livello di civiltà" della classe operaia. Così, se esistesse una legge della povertà legata alla crescita naturale della popolazione, anche il futuro previsto dai socialisti sarebbe condannato alla povertà, dal momento che «questa [legge naturale] governa non solo il sistema del lavoro salariato, ma l'intero sistema sociale» (Marx, Critica del programma di Gotha).

Come è noto, Marx fu il più grande critico della tesi di «un'astratta legge demografica [che] esiste solo per le piante e gli animali». Proponendo l'esistenza di una relazione immanente tra la composizione organica del capitale e l'aumento progressivo del capitale fisso, Marx si misurava con una "legge naturale della società": una legge sociale "quasi naturale" del capitalismo, un processo sociale che agisce come se fosse una forza anonima che viene esercitata sugli individui. Questa legge preme - dietro le spalle dei soggetti e al di là di quelle che sono le variazioni congiunturali dei salari - in direzione di una miseria delle masse, vale a dire di un allargamento dello «strato lazzaro della classe operaia» e dell'«esercito industriale di riserva». Nel momento in cui l'esclusione sociale si aggrava, quando la "rivoluzione tecnologica" espelle i lavoratori dal processo produttivo, ecco che la pressione sui salari costringe a una caduta generale del livello salariale, che porta al "pauperismo ufficiale", che viene oggi chiamato "precarizzazione". Nel primo libro del Capitale, la "legge generale dell'accumulazione capitalistica" corrisponde a quella che nel terzo libro Marx chiamerà "legge tendenziale della caduta del saggio di profitto"; e questo perché la «rivoluzione tecnica», vale a dire l'aumento della composizione organica del capitale, non solo dissolve le basi sociali della riproduzione della forza-lavoro, gettando le masse nella miseria e nell'emarginazione, ma dissolve anche le basi della stessa produzione capitalistica: la creazione di valore e, con essa, il fine capitalistico in sé sotto forma di profitto, «Poiché lo sviluppo della forza produttiva, e la corrispondente maggiore composizione del capitale mobilitano un "quantum" sempre maggiore di mezzi di produzione per un "quantum" sempre minore di lavoro, ogni aliquota del prodotto globale, ogni singola merce o ogni singola parte di merce della massa complessiva prodotta assorbe meno lavoro vivo e, inoltre, contiene meno lavoro oggettivato, sia a partire dal deprezzamento del capitale fisso che viene impiegato, sia nelle materie prime e ausiliarie utilizzate. Ogni singola merce contiene pertanto si una somma minore di lavoro oggettivato nei mezzi di produzione che di nuovo lavoro aggiunto durante la produzione. A partire da questo, il prezzo della singola merce diminuisce. La massa di profitto contenuta nella singola merce può tuttavia aumentare, nel caso aumenti il tasso di plusvalore assoluto o relativo. Contiene meno nuovo lavoro aggregato, ma rispetto a quella retribuita, la parte non retribuita aumenta.  Questo però avviene SOLO ENTRO CERTI LIMITI. Con la diminuzione assoluta, enormemente incrementata nel corso dello sviluppo della produzione, della somma di lavoro vivo che viene aggiunto alla singola merce, anche la massa di lavoro non pagato in essa contenuta diminuirà assolutamente, per quanto possa essere cresciuta relativamente, cioè in proporzione alla parte pagata» (Capitale, libro III - corsivo aggiunto) [*1].

Così, anziché una visione positiva del progresso tecnologico, visto come espressione del "successo capitalistico", l'analisi di Marx sembra piuttosto suggerire che lo sviluppo delle forze produttive - in quanto necessità immanente del capitalismo stesso - spinga il capitale a confrontarsi con i propri limiti storici: «il capitalismo diventa senile» (Capitale, libro III), vale a dire che quando le forze produttive sviluppate dislocano più forza lavoro di quanta ne possano impiegare, allora ecco che «crolla la produzione basata sul valore» (Grundrisse). Marx ha reso tutto questo ancora più evidente in una delle sue bozze per Il Capitale: «La contraddizione tra capitale e lavoro salariato si sviluppa sino alla sua piena contrapposizione, dal momento che il capitale non solo è il mezzo di svalorizzazione della forza-lavoro vivente, ma è anche il mezzo che trasforma quest'ultima in superflua, sia che lo faccia completamente in alcuni determinati processi, sia riducendola alla quantità più bassa possibile all'interno della produzione nel suo complesso. II lavoro necessario si trasforma cosi immediatamente in popolazione superflua, in quanto massa incapace di generare plus-lavoro.» (Manoscritti 1861-1863).

Questa visione «tetra e funesta» di Marx si trova in diretta contraddizione con l'idea secondo cui «Marx era entusiasta di ogni innovazione tecnologica che emergeva nel suo tempo», dove in fondo questo entusiasmo sarebbe invece proprio quello che viene professato dall'economista liberale: nonostante la divergenza nella lettura dell'opera di Marx, entrambi rifiutano a priori il carattere dirompente della tecnica, visto che alla fine ogni progresso tecnologico sarebbe in grado di ricreare le basi dell'occupazione precedentemente rimosse. A questo proposito, l'evoluzionismo tecnologico di Elias Jabbour distorce palesemente la teoria di Marx, dal momento che gli attribuisce una visione immediatamente positiva della tecnica vista come «forza produttiva», ignorando i passaggi nei quali sottolinea che nel capitalismo le forze produttive hanno un carattere "unilaterale", e quindi per la maggior parte della società diventano "forze distruttive" (L'ideologia tedesca); o che l'industrializzazione dell'agricoltura «disturba il metabolismo tra l'uomo e la natura» e la «fertilità permanente del suolo» (Il capitale). Questo disinteresse per gli avvertimenti di Marx circa gli effetti distruttivi dell'accumulazione di capitale per l'ambiente, serve anche a mascherare le contraddizioni piuttosto gravi del «socialismo di mercato» nella Cina di oggi.

Certo, nonostante tutte le critiche radicali, c'è un momento in Marx in cui lo sviluppo delle forze produttive appare come effettivamente positivo; questo "ottimismo", tuttavia, non fa parte dell'orizzonte della società capitalista, ma ha luogo solo nella transizione verso una società emancipata, dove le forze sviluppate potrebbero essere utilizzate al di là del "fine in sé" dell'auto-valorizzazione del capitale; cosa che implica anche una crisi fondamentale del capitalismo. All'interno della forma capitalistica, lo sviluppo delle forze produttive assume un carattere socialmente distruttivo e autodistruttivo, e ciò perché le forze produttive del capitale creano «le condizioni materiali per farlo volare per aria» (Marx, Grundrisse). Le "catastrofi" e le "convulsioni" annunciate da Marx, sono il risultato immediato dello sviluppo tecnologico del capitale, non nel mondo roseo della riduzione della giornata lavorativa e del godimento del "tempo libero" visti come parte di un continuum storico. La crisi del lavoro appare immediatamente come se fosse una recrudescenza della dittatura del lavoro socialmente obsoleto [*2]. Nella sua utopia tecnologica schumpeteriana, che si combina con una teoria della transizione al socialismo attraverso il mercato e, in ultima analisi, anche "verso" un mercato inteso come antitesi del capitalismo [*3], Elias rifiuta categoricamente l'esistenza di un nesso tra «sviluppo della tecnologia e disoccupazione». Egli propugna, inoltre, il salvataggio dell'economia di mercato attraverso l'interventismo statale, che agirebbe come un medico sul letto del capitalismo. Non si può dubitare di Elias quando dice: «Sono comunista, ma non voglio il socialismo per me stesso. Se ho un capitalismo che funziona, mi basta». Qui appare evidente come l'«ammiratore entusiasta del capitalismo» non sia esattamente Marx, bensì l'ideologo della "proiezione" - il quale, a sua volta, "proietta" ingenuamente su Marx il proprio punto di vista. Il pensiero scolastico sosteneva che non esiste una posizione "più" sbagliata o "meno" sbagliata, poiché l'errore sarebbe solo uno stato assoluto, il quale non può essere suddiviso in gradazioni. Sebbene entrambi i partecipanti alla discussione si siano sforzati di dare un carattere quasi assolutamente errato alle loro formulazioni della teoria della crisi di Marx - al punto da dare quasi ragione agli scolastici - è inevitabile concludere che in questo dibattito ad avere più torto è l'amico di Marx, dato che la sua posizione - non meno superficiale di quella del suo avversario - vieta ed esclude completamente qualsiasi dibattito sullo stato reale della crisi capitalistica.

Maurilio L. Botelho, con la collaborazione di  Marcos Barreira 

NOTE:

[*1] Per un analisi di questa contraddizione capitalista, fatta a partire dal contesto della Terza Rivoluzione Industriale alla fine del  XX secolo, vedi: Robert Kurz, “A crise do valor de troca”, Consequencia Ed. RJ, 2018.
[*2] Grupo Krisis, “Manifesto contra o trabalho” [edição de 20 anos], Krisis/ Igra Kniga, 2019. 
[*3] Cfr. Maurilio L. Botelho e Marcos Barreira, “Ainda sobre o ‘milagre chinês’” [segunda parte] , Blog da Boitempo: https://blogdaboitempo.com.br/2022/01/19/ainda-sobre-o-milagre-chines-ii/


fonte: Krisis - Crítica da sociedade da mercadoria

Bio-Oggetti !!

Combattere il riduzionismo tecno-scientifico

Per la conclusione del suo libro, Céline Lafontaine adotta una prospettiva più generale. Sottolinea quali sono i problemi legati all'impronta ecologica delle biotecnologie e della bio-oggettivazione, riferendoli alla loro (massiccia) relazione industriale, che genera inquinamento, insieme a un dispendio energetico colossale e a una diffusione incontrollata e incontrollabile delle biotecnologie in natura. L'autrice dimostra così, con grande acutezza, che l'intera tecnoscienza si basa su alcuni miti fondanti, tra i quali continua a esserci la cieca speranza in un progresso senza limiti:

«Mentre la banchisa si sta sciogliendo, e mentre il cambiamento climatico è diventato ormai ineluttabile, continuiamo comunque a inseguire il sogno di poter finalmente sfuggire ai vincoli della vita organica, e invertire gli effetti del tempo rimodellando i nostri corpi, i quali sono già diventati protesi delle nostre identità liberalizzate. Di fronte ai progressi biomedici che tendono a farci credere di essere ormai diventati gli ingegneri della nostra stessa vita, la bioetica liberale si dimostra del tutto impotente a cogliere quali sono le questioni relative alla complessità dell'essere vivente; così tanto essa rimane impregnata del mito di un soggetto autonomo distaccato dal mondo.» (Céline Lafontaine, "BIO-OBJECTS. Les nouvelles frontiéres du vivant". Seuil, 2022).

Il secondo mito, che viene demolito con fervore dall'autrice, è quello del riduzionismo, così caratteristico della scienza moderna, il quale vede tutto quanto in termini di funzionalità e informazione, e che si traduce nella biotecnologia vista come "genetismo"; la visione cibernetica della vita. Leggendo il libro, non si può fare a meno di essere d'accordo con le sue affermazioni, e si finisce per prendere molto sul serio quello che è il problema delle biotecnologie, nella misura in cui si vuol vivere in un mondo più rispettoso degli esseri viventi, dell'uomo e della natura. Tanto più che oggi ci è ancora più chiaro fino a che punto la biotecnologia e i suoi avatar di biologia sintetica - così come la biomodifica del corpo e la biocitizzazione - siano tra i principali fronti di avanzamento del tecno-capitalismo, in quello che è la sua folle corsa al profitto, al potere e all'eccesso.

La pandemia di SARS-CoV2, dove lo stimolo biotecnologico nel quale vaccino/informatica/laboratorio P4/smartphone-obbligatorio sono diventate una delle manifestazioni concrete del fronte tecno-capitalista delle biotecnologie in quello che è stato un momento di follia prometeica (corsa smisurata per "salvare il pianeta"), che si impadronisce del mondo e degli esseri umani. Allo stesso tempo, sono degli "strumenti" per chi intende semplicemente mostrare i misfatti del capitalismo, e possibilmente combatterlo. Senza per questo negare gli altri fronti principali, è arrivato il momento di condurre delle lotte che possano rallentare - se non fermare -tutto questo, e avviare così un'inversione di valori proprio nel momento in cui la biomodificazione e la biocitizzazione, così come l'intero settore medico delle biotecnologie, vengono visti il più delle volte in modo positivo, persino benefico per la maggior parte delle persone che sostengono l'emancipazione dell'individuo e una società più egualitaria.

- Groupe Grothendieck, luglio 2022 -

fonte: lundimatin#349

lunedì 27 marzo 2023

E ora levate il muro !!

Per Alfredo Cospito, nel giorno della sua condanna a morte !!

La scritta invincibile, (1934) di B.Brecht

Al tempo della guerra mondiale in una cella del carcere italiano di San Carlo pieno di soldati arrestati, di ubriachi e di ladri, un soldato socialista incise sul muro col lapis copiativo: viva Lenin!

Su, in alto, nella cella semibuia, appena visibile, ma scritto in maiuscole enormi. Quando i secondini videro, mandarono un imbianchino con un secchio di calce e quello, con un lungo pennello, imbiancò la scritta minacciosa. Ma siccome, con la sua calce, aveva seguito soltanto i caratteri ora c'è scritto nella cella, in bianco: viva Lenin!

Soltanto un secondo imbianchino coprì il tutto con più largo pennello sì che per lunghe ore non si vide più nulla. Ma al mattino, quando la calce fu asciutta, ricomparve la scritta: viva Lenin!

Allora i secondini mandarono contro la scritta un muratore armato di coltello. E quello raschiò una lettera dopo l'altra, per un'ora buona. E quand'ebbe finito, c'era nella cella, ormai senza colore ma incisa a fondo nel muro, la scritta invincibile: viva Lenin!

E ora levate il muro! Disse il soldato.

- Bertolt Brecht - 1934

domenica 26 marzo 2023

Ghiaccio Nero !!

«Vasto è l’Impero, disse il narratore, così vasto che la vita di un uomo non basta a percorrerlo tutto». Così inizia uno degli undici racconti che compongono Kalpa Imperial. A pronunciare queste parole, al cospetto di un uditorio di curiosi, è un narratore senza volto, che si appresta a raccontare la sua versione dei fatti. Dopo la fine, ogni Impero è destinato a essere ricordato, nei secoli, attraverso la propria storia ufficiale; ma è solo nel suono di innumerevoli storie parallele, apocrife, clandestine e inattendibili che potrà rinascere, di nuovo prosperare e sperare di riuscire, stavolta, a raggiungere l’eternità. Questa è la storia del più grande e antico Impero mai esistito e a raccontarla sono undici narratori diversi. Ognuno di loro sa qualcosa che gli altri non sanno. Ognuno conosce solo una piccola porzione dell’enorme vicenda di fondazione, prosperità, miseria, crolli, resurrezioni che l’Impero ha attraversato. Chiunque si sia avventurato in un viaggio nei territori dell’Impero non ha potuto vederne che una minuscola parte. Il resto è ignoto. Come ogni Impero, anche quello raccontato in questo libro non può essere oggetto di una narrazione lineare. È intrappolato, invece, in un grande ciclo cosmico che contiene in sé numerosi cicli minori. La sua esistenza si è già compiuta, ma al tempo stesso non si è esaurita. Come scrive Loris Tassi nella sua prefazione, «in mezzo secolo di intensa produzione letteraria Gorodischer ha saputo “aprire la porta”, per dirla con Cortázar, introducendo i lettori in mondi nuovi che si sono rivelati misteriosi, affascinanti e, talora, terribili».

Kalpa Imperial è un romanzo, una raccolta di racconti, un prodigio, maestoso e polifonico, culto per intere generazioni di lettori latinoamericani, amato e tradotto in inglese da Ursula K. Le Guin, un inno alla forza multiforme del racconto di fronte alla parola di ferro del potere, uno dei vertici della letteratura fantastica mondiale.

(dal risvolto di copertina di: Angélica Gorodischer, "Kalpa Imperial. Il più grande impero mai esistito". Rina Edizioni. Traduzione Giulia Zavagna, pagg. 344, euro 18)

L’impero allegorico
- Arriva in Italia il romanzo della scrittrice argentina Angélica Gorodischer pioniera del genere in Sudamerica -
di Pablo Maurette

Tra coloro che hanno considerato Il mondo sfavillante (The Blazing World) la prima opera letteraria di fantascienza vi è stata innanzitutto la sua autrice, Margaret Cavendish, duchessa di Newcastle. Pubblicato nel 1666, questo romanzo utopico racconta la storia di una ragazza rapita da marinai che la portano verso il Polo Nord dove muoiono tutti di freddo. Protetta dalla temperatura sanguigna del suo cuore virtuoso, l’eroina sopravvive e prosegue il viaggio finché la nave non attraversa il confine del nostro pianeta per arrivare in un altro mondo, il mondo sfavillante, abitato da coltissime e civilissime razze di animali che la ricevono con grande pompa e la coronano imperatrice. Cavendish, che era anche filosofa, poeta e fashion designer, dice nella lettera di prefazione indirizzata al lettore che questo mondo sfavillante è assolutamente nuovo: «Non come quello di Luciano oppure quel mondo lunare del francese, ma un mondo creato da me». Nel distinguere il suo romanzo da La storia vera (II sec. d.C), di Luciano di Samosata, e da L’altro mondo: gli stati e gli imperi della luna (1657), di Cyrano de Bergerac (strano peraltro che non menzioni l’Utopia del suo compaesano Tommaso Moro), la duchessa si presenta come la prima scrittrice a creare un mondo dal nulla avvalendosi soltanto del potere dell’immaginazione.

Verso la fine del Seicento, sempre in Inghilterra, va in stampa il capolavoro di Aphra Behn, Oroonoko, lo schiavo reale (1688). Sebbene non menzioni Cavendish, l’inizio della novella pare contestare in modo diretto la poetica di Il mondo sfavillante. Scrive Behn: «Io non pretendo di intrattenere il mio lettore con le avventure di un eroe inventato della cui vita e sorte la fantasia possa gestire secondo il piacere del poeta. C’è abbastanza realtà a sostenere questa storia e a renderla divertente senza l’aggiunta dell’invenzione». Il fatto che Oroonoko sia infinitamente più efficace e più toccante che Il mondo sfavillante ha semmai a che vedere con questa differenza concettuale. Cercando in modo ingenuo (tipicamente da filosofo, tra l’altro) di separare la ragione dalla fantasia, Cavendish crea dei personaggi rigidi ed inerti. Behn a sua volta illude il lettore giocando con i limiti tra realtà e finzione e crea un mondo perspicuo con dei personaggi tangibili che patiscono una tragedia straziante. Il dilemma di Cavendish diventerà la principale sfida della fantascienza. E cioè: come creare dal nulla mondi evidenti che si sostengano da soli per la forza e concretezza della loro densità letteraria. Kalpa Imperial: Il più grande impero mai esistito non riesce a superare la prova. Come nel caso di Il mondo sfavillante, il suo maggior pregio è puramente storico, più contestuale che non testuale. Se Cavendish è stata pioniera assoluta del genere, Angélica Gorodischer (Buenos Aires, 1928 – Rosario, 2022) lo è stata in Sudamerica. Pur senza essere stata la prima donna a pubblicare fantascienza in spagnolo, è stata senza dubbio la più influente.

In un’intervista con Carolina Roche, Gorodischer racconta di aver scoperto la fantascienza attraverso Cronache marziane, di Ray Bradbury. «In quel momento mi sembrò che ero capace di inventare dei mondi». Kalpa Imperial, scritto durante gli anni dell’ultima dittatura militare in Argentina e pubblicato contemporaneamente al ritorno della democrazia (1983-1984), è la sua opera più celebrata. Il libro è composto da racconti indipendenti che narrano episodi nella storia di un impero immaginario.
Nel 2003 uscì la traduzione in inglese a cura da non altri che Ursula K. Le Guin, grande ammiratrice di Gorodischer. Questa edizione pubblicata da Rina Edizioni, la prima in Italia (con prefazione di Loris Tassi), arriva in un’esemplare traduzione di Giulia Zavagna che preserva con rigore lo stile di Gorodischer, un linguaggio preciso ed elegante che permette al lettore di scivolare piacevolmente sopra una superficie liscia e fredda come il ghiaccio. Si tratta tuttavia di ghiaccio nero, quel fenomeno che si produce sopra l’asfalto dopo una pioggia congelantesi, perché al di sotto della superficie non c’è altro che la caligine, un grande nulla opaco. I personaggi sono bidimensionali, figure fuori fuoco le cui parole e azioni vengono dettate da idee che non riescono mai ad accendere la scintilla della vita.

Il narratore, l’imperatore e l’imperatrice, l’archivista, i principi oscuri, la fantesca, il gigante, non fanno mai il salto mortale dalla parola all’effetto vivo, all’emozione, al mistero. I racconti spesso sembrano parabole, ma prive della profondità storica millenaria che danno sostanza a quelle della Bibbia. E, nonostante i colori metafisici d’ispirazione chiaramente borgesiana, allo stile manca la più grande virtù di Borges, la concisione. Infine, Gorodischer non narra tanto quanto allegorizza. Il problema, come capì bene Walter Benjamin, è che nel discorso allegorico qualsiasi oggetto può far riferimento a qualsiasi cosa. L’allegorista svaluta il mondo mentre il genio letterario lo trasfigura.

- Pablo Maurette - Pubblicato su Robinson del 10/11/2022 -

venerdì 24 marzo 2023

Un autore come gli altri ?!!???

« Questi saggi sono il prodotto di quasi vent'anni di riflessioni sull'opera di Guy Debord e sul percorso attuato dai Situazionisti. Nel 1991, quando cominciai a mettere insieme i diversi materiali per scrivere la mia tesi su Debord, mi trovai tra le mani un vero e proprio cofano del tesoro. Rimanevo sempre sorpreso quanto incontravo qualcuno che conosceva i situazionisti: era come incontrare qualcuno che fosse anche lui a conoscenza del "segreto".»
(dalla prefazione di Anselm Jappe)

«Uno sguardo pieno di sospetto nei confronti del mondo intero», era questa la definizione con cui Guy Debord descriveva le edizioni "Champ Libre", che pubblicavano i suoi libri. Una definizione che, volendo, potrebbe essere riferita a tutta l'intera traiettoria pubblica dello stesso Debord. Tuttavia, per quanto dopo il suo suicidio avvenuto nel 1994 sia sembrato apparentemente essere "accettabile"  - se non addirittura trasformato, secondo alcuni, in un'icona e una gloria nazionale - il fondatore dell'Internazionale situazionista, nonostante tutte le accuse in tal senso, non è mai diventato «un autore come gli altri».

Così, oggi questo libro si propone di ritrovare e salvare tutta la forza inquietante della sua opera, prendendo in esame, tra le altre cose, "la fine dell'arte" e "la fine della politica", la sua "lettura di Marx"; così come il suo contributo alla riflessione storica insieme ai possibili parallelismi (o meno) con gli scritti di Theodor Adorno, di Hannah Arendt e di Jean Baudrillard. Viene altresì evocato sia quello che è stato il suo quantomeno curioso recupero da parte del mondo dell'arte, che la questione della sua "attualità". Vale la pena perciò ricordare oggi - di fronte ai personaggi, e alle persone più diverse, che sostengono di richiamarsi a Debord e ai Situazionisti - come l'autore della "Società dello Spettacolo" abbia sempre voluto contrapporsi al mondo intero, o quasi. Probabilmente, dopo aver letto questi testi, gli storici e gli artisti, gli attivisti e i cineasti si chiederanno se hanno fatto bene ad accogliere e includere Debord tra i loro amici.

- Anselm Jappe - "Guy Debord: Un complotto permanente contro il mondo intero". Misesis 2023, 176 pp. ISBN: 9788857597218 16,15 -

giovedì 23 marzo 2023

Critica del Lavoro !!

Porto di Marsiglia (nella foto) tutti gli accessi sono bloccati, e le navi che non possono caricare e/o scaricare sono ferme. Allo stesso modo, dappertutto in tutta la Francia, sembra che a quanto pare questi qui ... «insorgono» davvero!

Senza piani di «reindustrializzazioni», senza «Fabbriche sociali», nel loro programma ciò che lampeggia è il diritto al riposo, e non quello al lavoro! Forse per questo (e forse no), com'è sempre accaduto finora, non vinceranno. Ma vuoi mettere la soddisfazione !?!!!