Dalla metafisica della contingenza alla determinazione del nemico
- di Patrice Schlauch - 7 dicembre 2023 -
Sul populismo di sinistra di Chantal Mouffe
Allorché, in seguito alla crisi, il marxismo tradizionale ha perso le sue certezze storico-filosofiche, abbiamo visto come i suoi esecutori si siano diligentemente sforzati di rivederne le categorie, usando le teorie postmoderne del discorso, dell'azione e della politica, per le quali è un anatema perfino la critica di una totalità sociale. A partire dall'effettiva ristrettezza mentale del marxismo tradizionale, dalla sua ignoranza delle forme di pensiero e dell'ideologia, dalla sua teorizzazione dello Stato visto come mero fenomeno sovrastrutturale, e dalla sua nobilitazione della classe operaia in quanto soggetto rivoluzionari, insieme al presupposto di un superamento della relazione di capitale visto come conseguenza necessaria dello sviluppo economico, vediamo come anche la critica dell'economia politica in generale cada vittima del verdetto della "grande teoria" e dell’ "economicismo". Il padrino di questa demolizione, è stato ed è Antonio Gramsci, il quale, con i suoi concetti di società civile e di lotta politica per l’egemonia, ha fornito le fondamentali parole chiave al cosiddetto “post-marxismo”. Oggi, nell'ambiente del cosiddetto post-operaismo, e oltre, egli viene considerato come un teorico che avrebbe dimostrato delle prospettive di azione nella sfera politica e culturale, al di là delle determinazioni economiche dell'ortodossia marxista. Tra i suoi seguaci, vediamo la politologa Chantal Mouffe, che nel suo discorso a favore di una rinascita della politica, e di un nuovo populismo di sinistra, fa riferimento non solo al comunista Gramsci, imprigionato e morto sotto il regime fascista, ma anche al costituzionalista nazionalsocialista Carl Schmitt. Ciò che a prima vista potrebbe apparire come un sincretismo selvaggio, ecco che a un esame più attento si rivela come la conseguenza immanente di un modo di pensare che eleva la categoria della contingenza a metafisica politica e che, in ultima analisi, nella modalità del decostruttivismo non riconosce più alcuna forma sociale, ma solo l'immediatezza della decisione politica.
La “decostruzione del marxismo”: epistemologia e politicismo postmoderno
Il fatto che una sinistra auto-identificata trovi la propria strada partendo da Antonio Gramsci e arrivando a Carl Schmitt, la radica nella teoria postmoderna della conoscenza e della politica che Mouffe aveva già sviluppato negli anni Ottanta. Nell’opera fondamentale “Egemonia e strategia socialista”, scritta insieme a Ernesto Laclau nel 1985, i due attestano la «palese mancanza di una teoria del politico» nel marxismo, [*1] cosa cui intendono porre rimedio facendo riferimento al concetto di egemonia di Gramsci. In un dettagliato excursus, Mouffe e Laclau dimostrano, in parte correttamente, che il marxismo di origine ortodossa si basa su un riduzionismo economico-teorico.Gli ottimisti teleologi del progresso - Kautsky, Plekhanov e i loro simili - si basavano sulla contraddizione esistente tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione e, ricordando la necessità di uno sviluppo storico-materialista, si aspettavano che una rivoluzione sarebbe avvenuta da sé, per così dire, in un determinato momento. Non appena gli antagonismi di classe diventano sufficientemente acuti, ecco che entra subito in azione l'automatismo storico di quella che sarebbe una dialettica materialista positiva, e così la classe operaia segue la propria predestinazione rivoluzionaria. Com'è noto, la falsità del materialismo storico è stata poi dimostrata dal fatto che il proletariato non ha mai adempiuto alla sua presunta missione, ma ha piuttosto affermato le categorie della società borghese, adattandole alle proprie condizioni e lottando per il riconoscimento e la rilevanza del proprio lavoro, anziché formulare una critica della società del lavoro. L'entusiasmo socialdemocratico per la guerra, nel 1914, la repressione della Rivoluzione di novembre da parte di Friedrich Ebert e Gustav Noske tramite i Freikorps di destra, il crescente autoritarismo nell'Unione Sovietica capitalista di Stato e, infine, l'accettazione del fascismo e del nazionalsocialismo da parte di ampi settori della classe operaia, avevano praticamente confutato l'automatismo marxista della rivoluzione. Tuttavia, non è questo fallimento storico della classe operaia a spingere Laclau e Mouffe a criticare l' economicismo e il riduzionismo di classe, ma soltanto il quietismo politico dell'ortodossia marxista. Essi vedono nella sua mancanza di impegno politico, nella riluttanza ad agire all’interno della forma politica esistente, e nel preferire una fiducia stoica nella “logica della necessità” [*2] quella che sarebbe un'insufficienza di fondo. Pertanto, appare logico che il giudizio di Mouffe e Laclau, sui sostenitori del revisionismo marxista, sia assai più positivo. Infatti, già a cavallo del secolo era stata affermata la necessità di un'azione politica contro l'ortodossia. L'enfasi, posta da Eduard Bernstein, su alcune categorie soggettive e politiche, quali la "volontà" o la "decisione etica" gli avrebbe valso il giudizio benevolo per aver rotto con il determinismo e affermato così la lotta nell'equilibrio politico del potere, e aver reso così visibile, in politica, la possibilità di una "articolazione aperta". È «l’autonomia del politico, l’aspetto veramente nuovo dell’argomentazione di Bernstein.» [*3] Ancora più favorevolmente di Bernstein, accolgono l’ex sindacalista di sinistra ,e in seguito mente del fascismo, Georges Sorel, il quale, come nessun altro all’epoca, dichiarò che la «volontà» immediata e l’altrettanto immediato «atto» erano i punti di fuga della sua teoria politica. Mouffe e Laclau interpretano il suo omaggio alla violenza, alla guerra e al mito unificante come se fosse una valida obiezione volontaria all'affermazione di una totalità sociale. Qui, la “lotta” figura come l’elemento esistenziale fondamentale di ogni identità politica, la quale si costituisce solo attraverso l’adozione di «chiare linee di demarcazione». «Il punto cruciale è - e questo fa di Sorel il pensatore più profondo e originale della Seconda Internazionale - che l'identità stessa degli attori sociali diventa indeterminata, e che ogni sua fissazione "mitica" dipende da una lotta.» [*4] Con Sorel, i soggetti sociali vengono separati dal loro contesto economico, e collocati nella sfera di una politica indeterminata, concepita solo come immediatamente politica. Questa accoglienza schietta di una teoria politica mirata alla decisione e alla lotta, preannuncia già il successivo adattamento, da parte di Mouffe, del decisionismo di Schmitt. E sebbene Mouffe e Laclau accolgano con favore la svolta politica di Bernstein e di Sorel, tuttavia essi criticano il fatto che, malgrado la loro relativizzazione delle determinazioni economiche, in ultima analisi continuano ancora ad aggrapparsi al rapporto di classe, come a una realtà sociale che precede quella politica. Il proletariato continua a funzionare come un “attore ontologicamente privilegiato”. «Questa risposta» al problema del determinismo marxista «nega ovviamente ogni opacità e densità delle relazioni politiche, come se si trattasse di un palcoscenico vuoto, sul quale delle figure costruite al di là di essa – le classi – combattono la loro battaglia». [*5] In realtà, la concezione marxista dello Stato testimonia una falsa neutralità dello Stato in quanto autorità, la quale può essere perciò plasmata a piacimento dalla classe dominante, secondo i suoi propri interessi; come un mero mezzo di dominio di classe, il quale avrebbe dovuto essere conquistato subito, senza ulteriori indugi da parte del proletariato rivoluzionario, e utilizzato per i propri scopi. Ma non è questa posizione fondamentalmente filo-statale del marxismo a preoccupare Mouffe e Laclau; anzi, addirittura la condividono. Quello che però trovano discutibile in questa “risposta”, è il presupposto del primato delle forme sociali, le quali, nella sfera politica, vengono semplicemente “rappresentate”. Mentre «L'altra risposta», vale a dire la teoria dell'egemonia democratica da loro sviluppata, «sostituisce il principio di rappresentanza con quello di articolazione. L'unità tra questi attori, perciò non è l'espressione di un'essenza comune di fondo, ma il risultato di una costruzione politica e di una lotta politica». [*6] Pertanto, tali “attori” non devono e non possono esistere prima e oltre la politica; secondo Mouffe e Laclau, si formano esclusivamente nel campo della politica, vale a dire nella modalità della lotta per l’egemonia. Riferendosi a Gramsci, intendono tutto questo come se si trattasse di una lotta politica permanente per l'apparato di potere statale e per il predominio nella società civile. In questa “guerra di posizione”, come la chiama Gramsci, non ci sono classi determinate in maniera primaria dal punto di vista economico, ma si tratta piuttosto di “blocchi storici”, costituiti da diversi gruppi sociali, classi e subalterni, nei quali, «tra intellettuali e popolo-nazione, tra capi e guidati» esiste come una “coesione organica”, oltre alla “passione” che crea un legame affettivo comune. [*7] Per Gramsci, la società si dissolve in quelli che sono dei “rapporti di forza” i quali, sebbene plasmati anch’essi dalla situazione storica, possono, in ultima analisi, essere plasmati e trasformati solamente dalla spontaneità e dall’attività politica della “volontà collettiva”; occasionalmente definita anche “volontà collettiva popolar-nazionale”. La sua critica dell’economicismo, dal momento che scarta anche la critica di una totalità autonoma, si trasforma in un politicismo radicale «ed è» – secondo le sue parole – «anche degno di essere sottolineato il fatto che il fatalismo è solo un travestimento di quella che è una volontà attiva e reale, alla maniera dei deboli». [*8] Al falso oggettivismo di un “marxismo scientifico”, che conosceva solo leggi strutturali economiche, si sostituisce così un’altrettanto falsa autonomizzazione della politica, la quale consiste solo nell’equilibrio di potere tra blocchi concorrenti e volontà collettive, che non conoscono più alcuna contestualizzazione sociale. «La volontà collettiva», secondo Mouffe e Laclau, «è il risultato dell’articolazione politico-ideologica di forze storiche sparse e frammentate». [*9] Mouffe e Laclau, non solo riprendono il politicismo di Gramsci, ma lo radicalizzano ulteriormente.
Mentre Gramsci ricadde sempre, ripetutamente e piuttosto bruscamente, nel pensiero economico-strutturale, i due invece si battono per la completa dissoluzione della società nel politico. Essi presuppongono che l'intera economia debba in realtà essere intesa come uno “spazio politico”. Lo sviluppo delle forze produttive, ad esempio, non è espressione di una costrizione economica allo sfruttamento e all'accumulazione, a cui i singoli capitalisti devono conformarsi nella concorrenza, e quindi razionalizzare la loro produzione; bensì è il risultato di una disciplina politica di lavoratori potenzialmente resistenti. L’intero sviluppo della tecnologia di produzione, come quello del taylorismo, non serve ad aumentare la produzione di plusvalore relativo, ma deve essere inteso come una “tecnologia di dominio”, così come l’intera produzione di merci si riduce a essere un “meccanismo politico” ai fini della contro-insurrezione preventiva. [*10] La società viene pertanto vista da loro come se fosse solo la somma delle lotte politiche tra quei gruppi in competizione per l’egemonia. Nella teoria post-marxista di Mouffe e Laclau, tali gruppi non hanno più una definizione sociale, o più precisamente, nessuna definizione, ma sono caratterizzati proprio dalla loro esistenza contingente. I collettivi politici sono il «risultato contingente di una lotta egemonica»; trovano la loro identità unicamente nella differenza relazionale con altri attori politici. Intendono il sociale come uno «spazio scucito» costituito da dei frammenti non fissati, e quindi «la dispersione stessa diventa il principio di unità»; un’unità, tuttavia, così fluida e così amorfa, così «incompleta e permeata dalla contingenza» al punto che l’affermazione di una sintesi sociale, per quanto fragile, diventa impossibile. [*11] «Il momento della creazione è radicale – creatio ex nihilo». [*12] Questa metafisica decostruttivista della contingenza, può essere illustrata contrapponendo al concetto di mediazione, che Mouffe e Laclau aborrivano, quello di articolazione. Per loro, per “articolazione” si intende un’espressione (politica) che emana direttamente dal nulla, che non ha significato né contenuto, e rimane frammentata, instabile e contingente. Solo nel ricordare la differenza immediata allora «emerge una terra di nessuno che rende possibile la pratica articolatoria […]». [*13] Il concetto di articolazione funziona pertanto come cifra centrale della decostruzione di ogni mediazione sociale, per la quale non c’è spazio in un costrutto di pura immediatezza. «O l'organizzazione è contingente, e di conseguenza esterna ai frammenti stessi, oppure sia i frammenti che l'organizzazione sono i momenti necessari di una totalità che li trascende. È chiaro che solo il primo tipo di "organizzazione" può essere inteso come un'articolazione, mentre il secondo è, a rigore, una mediazione.» [*14] Secondo Mouffe e Laclau, è proprio questa differenza a segnare la differenza tra il marxismo e la sua “logica della necessità”, rispetto al loro postulato di una “logica della contingenza”. Non a caso sottolineano che la logica marxista dell'identità, secondo la quale l'intera società deriva da un unico principio o contraddizione – vale a dire quello tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione – risale alla dialettica idealistica di Hegel. Come in Hegel i momenti di mediazione contraddittoria si risolvono sempre in un'identità riconciliata, così anche nel materialismo storico - che secondo Engels, in realtà, capovolse solo Hegel - le forze motrici contrastanti della produzione capitalistica di merci culminano nella loro stessa abolizione, nella transizione al socialismo. L’affermazione secondo cui la mediazione dialettica «si occupa di un sistema di transizioni logiche» [*15] si applica anche al marxismo tradizionale, insieme a Hegel. Il fatto che Marx stesso abbia rotto con la dialettica positiva di Hegel, allorché criticò il rapporto di capitale vedendolo come una contraddizione persistente che andava oltre la trasfigurazione storico-materialista, deve essere frainteso a partire da una teoria, il cui rifiuto della logica dell'identità dialettica avviene solo a favore di un'ipostasi di pura contingenza. Non è la piacevole sublimazione nel socialismo, a costituire il punto di fuga della “Critica dell’economia politica”, bensì la crisi in quanto prodotto di una contraddizione sociale che crea le forme precarie entro le quali può muoversi, ma che allo stesso tempo fa sempre esplodere, queste forme, senza trascenderle. Questa dialettica è negativa perché nel suo stesso concetto non prevede l'abolizione pratica di una sintesi fondata sul capitale, ma intende piuttosto il movimento di contraddizione senza un telos positivo, l'illogicità del capitale, come base catastrofica della socializzazione moderna, che di per sé non conduce ad altro che alla sua crisi fondamentale.
Excursus: La totalità mediata di Stato e Capitale
Il culto della contingenza, che si rifugia nell’irrazionalismo, non cambia la realtà di questa sintesi sociale, che si espande nella totalità, manifestandosi alle spalle dei soggetti e allo stesso tempo attraverso di loro. Totalità in questo senso non significa – ed è l’unico modo in cui Mouffe e Laclau possono concepirla – che ogni azione individuale sia immediatamente determinata o forzata da vincoli oggettivi, ma che la logica di accumulazione del “soggetto automatico” [16] prescrive la forma all’interno della quale gli individui, nonostante tutti gli impulsi individuali e talvolta contingenti, devono assicurare la loro autoconservazione, e che, inoltre, questa forma non rimane loro esterna, ma, in virtù della socializzazione, modella ancora la parte più intima della loro vita istintuale senza comprenderla pienamente. Questa totalità, che esiste solo perché viene riprodotta quotidianamente dagli individui e che tuttavia sfugge al loro controllo immediato in quanto entità autonoma, è stata descritta da Marx come feticismo, come una condizione di dipendenza da una seconda natura in cui i rapporti tra le persone si invertono in quelli tra le cose. Per "trovare un'analogia" per questa metafisica reale del capitale, secondo Marx, «dobbiamo rifugiarci nella nebulosa regione del mondo religioso. Qui, i prodotti della mente umana appaiono come entità indipendenti, dotate di vita propria, in relazione tra loro e con gli altri. Così sono i prodotti della mano umana nel mondo delle merci». Questa indipendenza è solo “apparenza” nella misura in cui nei beni, nel denaro e nella loro elaborazione cumulativa si sedimenta un rapporto sociale, creato in realtà dalle persone. Questa illusione ha tuttavia una validità reale, poiché manifesta la perversione della società in un tutto rivolto contro coloro che la riproducono. La degradazione degli individui ad appendici della loro stessa forma sociale appare con reale validità come la loro sussunzione sotto le merci che producono. «Il mistero delle merci consiste semplicemente nel fatto che esse riflettono agli uomini le caratteristiche sociali del loro lavoro come caratteristiche oggettive dei prodotti del lavoro stessi, come proprietà sociali naturali di queste cose; quindi anche il rapporto sociale dei produttori con il lavoro complessivo come rapporto sociale di oggetti esistenti al di fuori di essi. Attraverso questo quid pro quo, i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili o sociali.» [17] Il fatto che questa società del lavoro abbia il suo rovescio costitutivo nell'intera riproduzione domestica della forza lavoro, sia in termini materiali che psicologici ed emozionali, che il lavoratore salariato doppiamente libero possa vendere solo la sua pelle perché la sua autoconservazione è delegata al sesso femminile, è stato affermato da alcune femministe degli anni Settanta e in seguito da Roswitha Scholz nella loro teoria della separazione contro Marx e il marxismo, senza abbandonare la critica dell'economia politica. [18] Tuttavia, la consapevolezza di questa ambigua totalità sociale è difficilmente presente nel femminismo odierno perché il post-strutturalismo l'ha minata nella contingenza degli atti linguistici performativi. Anche lo Stato e la forma della politica sono momenti di questa totalità. Essi non sono una mera appendice dell'economia, come vorrebbe il marxismo ortodosso, che vede lo Stato come se fosse semplicemente uno strumento della borghesia per far valere i propri interessi di classe; né tantomeno si collocano al di là dell'economia in quanto sfera autonoma, come hanno invece immaginato gli approcci politicanteschi a partire da Gramsci in poi. Già nella “Ideologia tedesca”, Marx ed Engels presupponevano che le forze centrifughe di una società basata sulla concorrenza richiedessero un’autorità violenta che si distinguesse da questa concorrenza, e costringesse i singoli capitalisti a forme ordinate di scambio. Dal momento che gli interessi particolari non coincidono con l'interesse generale della logica dell'accumulazione, ecco che allora la relazione di capitale diventa, secondo la sua logica, riferito a uno Stato che non coincide con esso. «Questa instaurazione dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro prodotto in un potere materiale su di noi, che cresce andando al di là del nostro controllo […], è uno dei momenti principali dello sviluppo storico fino ad oggi, ed è proprio da questa contraddizione tra interesse particolare e comune che l’interesse comune, come Stato, assume un carattere indipendente, separato dai reali interessi individuali e collettivi.» [*19] Questo riconoscimento dello Stato, visto come «esistenza speciale accanto e al di fuori della società civile» [*20] costituisce il risultato di una mediazione critica la quale non si limita a sussumere l’uno sotto l’altro. Sebbene Marx ed Engels derivino, logicamente, lo Stato dalla relazione di capitale, non è certo un caso che il loro discorso sul «potere oggettivo su di noi», e sull’indipendenza dello Stato, includa un vocabolario che Marx avrebbe poi utilizzato per descrivere il feticismo della merce. È a causa di questa derivazione, tuttavia, che qui lo Stato rimane, nonostante o proprio a causa della sua indipendenza, semplicemente relegato alla sua funzione di «capitalista totale ideale» [*21] . Il fatto che il monopolio della violenza - al di là di questa funzione - non sia solo subordinato allo scopo proprio del capitale, ma abbia anche una ragion di Stato in cui l'accumulazione capitalista, al contrario, funziona come mezzo per uno scopo statale, viene escluso dalla visione di Marx ed Engels, proprio a partire dal primato dell'economia. Questa natura egoistica dello Stato, diventa particolarmente chiara nel momento in cui ci si allontana da una prospettiva puramente logica, e si considera la genesi storica dello Stato e del Capitale. Mentre Marx, nel suo capitolo sulla “cosiddetta accumulazione primitiva”, affrontava gli inizi della produzione mediata dal mercato, e le violente trasformazioni dei rapporti di proprietà a essa associate, lo Stato, con la sua “legislazione del sangue”, le sue case di lavoro, la sua persecuzione dei vagabondi, dei mendicanti e di tutti coloro che non volevano lavorare, appare come se fosse solo e semplicemente una garanzia per l’ordine emergente del capitale. [*22] E tuttavia, il modo di produzione capitalistico va inteso come il prodotto di una concorrenza costitutiva tra Stati. I primi stati territoriali - emersi dalla disintegrazione delle strutture feudali del tardo Medioevo - distrussero, in un processo durato secoli, il complesso sistema di relazioni di potere e di autorità sfalsate e sovrapposte orizzontalmente e verticalmente, e lo fecero a favore di un unico monopolio della violenza. In questo processo, sia i patrimoni secolari che quelli ecclesiastici vennero consolidati e incorporati nello Stato territoriale, il quale mirava all'unità. In un tale sistema, i poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo dovevano essere conferiti unicamente a un principe sovrano; mentre in precedenza erano stati tutti conferiti ad autorità eterogenee, che arrivavano fino alle strutture feudali più basse, ad esempio sotto forma di giurisdizione patrimoniale. «Per sovranità» - come affermò Jean Bodin nella sua fondamentale opera sullo Stato del 1576 - «bisogna intendere il potere assoluto, e temporalmente illimitato, proprio dello Stato». [*23] Questo costituirsi della sovranità statale, internamente, corrispondeva all'impegno esterno di assicurare e, se necessario, espandere il territorio a spese degli Stati vicini. Costituire, difendere ed estendere territorialmente il potere sovrano in guerra, era il fine in sé dello Stato, che a partire da Niccolò Machiavelli è stato descritto con il termine di “ragion di Stato”. Mentre nel Medioevo cristiano l'azione monarchica si basava ancora su dei precetti religiosi, ai quali anche il principe doveva attenersi, la costituzione degli Stati territoriali garantiva una certa secolarizzazione della moralità delle autorità. «Bisogna», diceva Machiavelli, «capire che un governante, e in particolare uno di un impero di recente costituzione, non può tenere conto di tutto ciò che può portare buona reputazione al popolo, ma è spesso costretto a violare la lealtà, la pietà, l’umanità e la religione proprio per mantenere il potere». [*24] La nuova idea politica della ragion di Stato, venne intesa come un «imperativo incondizionato di autoconservazione dello Stato», [*25] e come predominio del benessere dello Stato su tutti gli altri interessi. [*26]
Furono questi primi proto-stati europei moderni che, nel perseguire la loro ragion di stato, si ritrovarono in uno stato di guerra quasi permanente tra loro, e svilupparono pertanto un bisogno di materiale bellico fino a quel momento sconosciuto. A partire dal XIV/XV secolo, e poi nel XVII secolo, si scontrarono sempre più spesso quelli che erano gli eserciti cavallereschi medievali, che potevano essere ancora tuttavia costituiti da strutture feudali sotto forma di feudi; ma anche eserciti mercenari molto più grandi, i quali poi furono sostituiti, solo alla fine del XVII e XVIII, secolo da eserciti permanenti non meno costosi. Lo sviluppo del potere distruttivo provocato dalla guerra, sotto forma di armi da fuoco - e, di conseguenza, di imponenti fortificazioni e sistemi di difesa - non poteva essere finanziato solo dalle tradizionali imposte feudali, così come non potevano esserlo i nuovi eserciti. La monetizzazione, la standardizzazione e l'inasprimento del regime fiscale - nella forma dei primi sistemi fiscali moderni - aveva lo scopo di soddisfare le necessità materiali di questa fame di guerra. Tuttavia, non era solo il finanziamento della guerra a costituire un problema diffuso per gli Stati, ma lo era anche la costosa produzione dei mezzi di violenza. La produzione di cannoni, la costruzione di fortezze e l'armamento marittimo non potevano essere ottenuti al livello di sviluppo della forza produttiva del tardo Medioevo; motivo per cui l'economia di guerra diretta dallo Stato si espanse in modo significativo. Sia l'aumento dell'onere fiscale monetario, sia l'aumento della produttività imposto dallo Stato, contribuirono all'erosione delle economie di sussistenza feudali, e all'emergere delle prime forme capitalistiche di produzione e distribuzione. All'inizio dell'era moderna, questa prima produzione capitalista, non solo era diretta dallo Stato in ambiti importanti, ma serviva anche e soprattutto all'imperativo della ragion di Stato. Lo Stato aveva il primato sull'economia a esso subordinata. La situazione cambiò quando - a partire dal XVIII secolo - la produzione capitalista raggiunse proporzioni tali da cominciare a condurre una vita propria, al di là di qual era il suo scopo originario. «Il sistema di "economia politica" di un apparato militare e bellico distaccato dalla società, e gestito esclusivamente attraverso il lavoro astratto, si è reso indipendente dal suo scopo originario. La sete di denaro dei primi dispotismi militari moderni, ha dato origine al principio di "valorizzazione del valore", il quale, dall'inizio del XIX secolo, ha poi operato come capitalismo. Il rigido guscio del dirigismo statale-militare, è stato infranto solo per consentire alla macchina monetaria, ormai indipendente, di continuare a funzionare in quanto puro fine in sé stesso di un'economia "staccata" da ogni e qualsiasi legame sociale e culturale, e per dare libero sfogo alla concorrenza anonima.» [*27] Di conseguenza, si è verificato uno spostamento nel rapporto tra Stato e capitale, dove lo Stato ha assunto il ruolo subordinato di “capitalista totale ideale”. Il fatto che la natura egoistica dello Stato, oggi condizionata, non sia stata affatto abolita in modo così semplice, appare evidente, internamente, nella sua politica di sicurezza, che non è solo funzionale al capitale, ma anche rispetto all'irrazionalità delle guerre condotte fino ai giorni nostri; che raramente possono essere ridotte solo a calcoli di interessi economici nazionali. Naturalmente, la politica non è mai stata soltanto una sfera di esecuzione della ragion di Stato e dei vincoli di sfruttamento; ciò soprattutto perché - sia nel contesto delle democrazie di massa che in quello degli Stati autoritari - ci sono forme di ideologia che trovano la loro espressione in politica, e talvolta plasmano in modo significativo l'azione dello Stato. Il discorso sulla sovranità popolare contiene quindi una parte di verità, nella misura in cui le forme ideologiche di elaborazione della negatività sociale ,da parte della popolazione, trovano certamente spazio nell'apparato statale. Sebbene non sia possibile dedurre come queste si esprimano nelle specifiche condizioni storiche - soprattutto in tempi di crisi - esse non sono affatto del tutto contingenti, nel senso di un libero arbitrio slegato dal contesto sociale. Il soggetto borghese non entra nell'arena politica come se fosse quel soggetto autonomo e autodeterminato che crede di essere, ma vi entra come qualcuno che è dominato dalla sua seconda natura, e che è quindi costretto a reprimere la prima, di natura. Compensa l'impotenza che ne deriva, facendolo attraverso la modalità di una rivolta conformista, che proietta il suo disagio nei confronti della natura egoistica della società e delle sue contraddizioni su coloro che il popolo sovrano contrassegna come suoi avversari. «La rabbia è rivolta a chi si distingue senza protezione.» [*28] Ciò che, di conseguenza, si manifesta come ideologia, nello Stato e nella politica - e nel caso estremo del nazionalsocialismo stesso si solidifica in ragion di Stato - è esso stesso, in quanto cattivo modo di affrontare le contraddizioni, un momento della totalità, che poi attacca e difende simultaneamente nei nemici del popolo.
Antagonismo e definizione - populista di sinistra - di nemico
Tutto ciò che qui è stato solo brevemente delineato, appartiene a una totalità mediata di Stato e capitale, a partire dalla quale Chantal Mouffe ed Ernesto Laclau astraggono secondo quella che è la loro post-strutturalista avversione alla mediazione. Il loro a priori epistemologico - che rifiuta la mediazione intellettuale e concettuale in quanto presunto pensiero identitario - si traduce nella negazione della mediazione oggettiva; vale a dire, nella negazione della vera sintesi sociale, che, nella forma dell'autonomia feticistica, fornisce il quadro dell'azione sociale, senza però determinarla. Per Mouffe e Laclau, la politica si sgretola in quella che è una somma di pratiche prive di contesto e di determinazione, definite solo dalla loro differenza assoluta, dal loro status di aggregati non mediati di contingenza. Queste monadi svuotate, entrerebbero in una relazione tra loro sotto forma di “antagonismo”, laddove il concetto di antagonismo funziona qui come cifra di una differenza senza mediazione. È un «testimone dell’impossibilità di una ricucitura finale», una «impossibilità del reale». [*29] Di conseguenza, questo antagonismo non può essere definito in termini di contenuto; le forze antagoniste sono caratterizzate unicamente dalla loro immediatezza, e dalla mancanza di mediazione. Nel loro confrontarsi, questi attori amorfi formano ciò che nel senso di Mouffe e Laclau è il politico. Egemonia significa: lotta tra articolazioni antagoniste. Chi stia combattendo, per che cosa, e per quali ragioni rimane assolutamente poco chiaro. Oltre alla contingenza, le uniche determinazioni di questo misticismo politico sono la “divisione” e la “separazione”, caratterizzate proprio dalla loro indeterminatezza. [*30] Questa enfasi sull'antagonismo - sviluppata per la prima volta da Mouffe e Laclau nel 1985, a partire dall'autonomizzazione della politica e dei suoi attori, operata da Gramsci, e abolendo, grazie al determinismo, ogni condizione sociale - trova ora il suo coerente proseguimento nelle opere successive di Mouffe. In particolare, va citato il suo saggio del 2005 “Sul politico”, in cui mantiene sostanzialmente il suo concetto di egemonia, ma lo chiarisce sulla base della teoria politica di Carl Schmitt e sviluppa le implicazioni esposte nel 1985. Il punto di partenza del suo libro è l'osservazione che, dopo il crollo del socialismo reale e la conseguente mancanza di prospettive, la sinistra ha subìto una svolta neoliberista, e si è pienamente integrata in quella che chiama "democrazia consensuale". Ciò indica innanzitutto un'evoluzione reale, a partire dal fatto che il partito laburista britannico, i socialdemocratici tedeschi, la sinistra europea in generale e i partiti verdi hanno tutti aderito ai dogmi neoliberisti della deregolamentazione, della privatizzazione e dello smantellamento delle istituzioni dello stato sociale; partecipando in tal modo alla gestione della crisi politica. Tuttavia, secondo Mouffe, la politica neoliberista non affonda le sue radici in una crisi sociale degli anni Settanta – deindustrializzazione, elevata disoccupazione vista come risultato del crollo assoluto del saggio di profitto dovuto alla terza rivoluzione micro-industriale – ,dal momento che, in ogni caso, lei non riconosce alcuna determinazione sociale della politica, ma unicamente in una falsa comprensione della politica. Dopo la “fine della storia”, l’establishment politico - compresa la sua fazione di sinistra - si convinse che la politica potesse essere praticata solo in quanto processo razionale e tecnocratico di ricerca di soluzioni, che potesse procedere armoniosamente nella modalità della discussione, e al di là delle lotte egemoniche. Mouffe, descrive questa concezione della politica come una «visione antipolitica che rifiuta di riconoscere la dimensione antagonista costitutiva del ‘politico’». Insiste sulla necessità di una “distinzione noi-loro” e considera “reciprocità e ostilità” come “fatti inseparabili” facenti parte della politica. [*31] Mouffe non si concentra, in primo luogo, sulle differenze sostanziali che dovrebbero continuare a essere combattute in politica, ma rivendica piuttosto una differenza pre-sostanziale esistente di per sé.Questo perché non localizza l'antagonismo nella politica, che viene attribuita come “ontica”, ma nella sfera del politico, che viene esplicitamente descritta come “ontologica”. [*32] Dal momento che la democrazia consensuale neoliberista nega a priori questa ontologia dell’antagonismo, Mouffe fa ricorso alla teoria politica del pensatore che, a suo avviso, con la sua “critica provocatoria”, avrebbe attaccato più opportunamente il liberalismo Nel suo attacco al linguaggio liberale, all'innocuo dibattito sui contenuti politici, attribuisce alla politica il ruolo di «sfera di decisione, e non di libera discussione», seguendo così Carl Schmitt. Ciò che Mouffe scrisse nel 1922, nella sua "Teologia politica", avrebbe potuto benissimo essere scritto dalla penna di Schmitt: «Oggi, non c'è nulla di più moderno della lotta contro la politica. Finanzieri americani, tecnici industriali, socialisti marxisti e rivoluzionari anarcosindacalisti sono tutti uniti nella richiesta che venga eliminato il dominio non oggettivo della politica sull'oggettività della vita economica. Dovrebbero esserci solo compiti tecnico-organizzativi ed economico-sociologici, ma non ci dovrebbero più esserci problemi politici. La forma prevalente di pensiero tecnico-economico non è più in grado di percepire un'idea politica. Lo Stato moderno sembra davvero essere diventato ciò che Max Weber vedeva in esso: una grande impresa». Riferendosi al contro-illuminismo politico del XIX secolo, Schmitt - nello spirito di Mouffe - porta avanti una riflessione sul divisivo, sulla decisione tanto contingente quanto ontologica, sulla «riduzione dello Stato a una decisione pura, non ragionante e non dibattimentale, non giustificante e quindi assoluta, creata dal nulla». [*33] Secondo Schmitt, la prima decisione che costituisce la politica, è quella tra amico e nemico; e che Mouffe affronta. Schmitt, più di chiunque altro comprese che in politica si devono sempre creare delle “identità collettive”, costituite ex negativo attraverso la “ostilità” antagonistica contro altre collettività. Un "noi", una "volontà collettiva", può «essere raggiunta solo identificando un "loro", un avversario che deve essere sconfitto per rendere possibile la nuova egemonia». [*34] Mouffe si riferisce qui essenzialmente al testo “Il concetto del politico”, del 1932, nel quale Schmitt colloca "l’essenza del politico" nell’antagonismo. «La distinzione specificamente politica, a cui si possono far risalire azioni e motivazioni politiche, è la distinzione tra amico e nemico.»[*35] Con questa definizione, Mouffe elogia il relazionale: l’identità è sempre riferita a qualcosa di esterno e di estraneo ad essa, e in ciò vede – non senza ragione – un parallelo con il post-strutturalismo, rivelando così anche la comunanza del suo pensiero con quello di Schmitt. Lei lo considera l'antenato del suo pensiero postmoderno sulla differenza, e un teorico della contingenza politica. [*36] Per Schmitt la definizione di amico e di nemico è, fino al 1933, quanto meno superficialmente contingente: il nemico non si definisce nelle categorie del morale, dell’estetico o dell’economico, né nelle griglie del bene e del male, del bello e del brutto, dell’utile e del dannoso. Schmitt si preoccupa piuttosto di una distinzione ontologica e contingente, poiché potenzialmente essa può essere riempita con qualsiasi contenuto; con una differenza senza mediazione. Il nemico è «in un senso particolarmente intenso, esistenzialmente qualcosa di diverso ed estraneo», esso segna «la negazione del suo modo di esistenza» e pertanto dev'essere combattuto «per preservare il proprio, essenziale tipo di vita». [*37] Detto nei termini di Mouffe, ciò significherebbe che non c’è alcuna “cucitura” possibile tra le “forze antagoniste”: esse si trovano tutte ugualmente nella vuota “terra di nessuno” della “articolazione” politicamente immediata dove ottengono la loro “identità”, “relazionalmente”, attraverso la “separazione” e la “divisione”. Mouffe si sforza ripetutamente di dipingere Schmitt quasi come un pioniere della politica democratica, il cui «riferimento enfatico alla possibilità sempre presente di distinguere tra amico e nemico, oltre che alla natura conflittuale della politica, costituisce il punto di partenza necessario per raggiungere gli obiettivi della politica democratica». [*38] Tuttavia, Mouffe evita le conseguenze del decisionismo di Schmitt, che rimangono deliberatamente non citate. Per il democratico Schmitt, uccidere rimane il mezzo ultimo per determinare il nemico: «I concetti di amico, nemico e lotta ricevono il loro vero significato a partire dal fatto che si riferiscono - e si riferiscono in modo particolare - alla possibilità reale dell’uccisione fisica». [*39] Per questo, Mouffe non vuole arrivare fino a Schmitt, dopo aver già postulato l'antagonismo come entità ontologica, e cerca tuttavia di contenerlo. Il “compito principale della democrazia” è quindi quello di sublimare l’antagonismo in “agonismo”. Se i nemici nell’antagonismo non avessero un terreno comune, la legittimità degli oppositori – come vengono oggi chiamati i nemici – verrebbe riconosciuta in uno “spazio simbolico comune”, costituito da dei principi etici e dall’impegno verso il sistema parlamentare. [*40] Ma poiché Mouffe si affida all’impossibilità assoluta della mediazione, e solo attraverso questa può giungere all’antagonismo di Schmitt, ecco che il suo tentativo di mediazione si impiglia in contraddizioni senza speranza. Riguardo alla trasformazione dell'antagonismo in agonismo, scrive: «Si tratta di una lotta tra progetti egemonici inconciliabili, i quali non possono mai essere razionalmente conciliati [!]. La dimensione antagonista è sempre presente [!]; si tratta di uno scontro reale, seppur regolato da un insieme di procedure democratiche accettate dai rispettivi avversari.» Ciò che per definizione è indomabile, dovrebbe essere domato, ciò che non può essere mediato dovrebbe essere mediato e gli antagonisti irrazionali e ontologici dovrebbero accettare improvvisamente una base comune di comprensione basata sull'intuizione razionale. Mouffe si limita a relativizzare la propria definizione di amico-nemico, e allo stesso tempo si aggrappa alla sua inconciliabile assolutezza. Ma poiché basa l'intera teoria sociale sull'assenza di coerenza, difficilmente può lasciarsi influenzare da tali riferimenti a contraddizioni argomentative.
A metà strada tra antagonismo e agonismo, la politica deve perciò riflettere sull'ontologia del politico, e generare identità vere e proprie ex negativo, definendo nemici o oppositori. Tuttavia, poiché queste identità collettive non possono riferirsi primariamente a un contenuto comune che spazia dagli interessi sociali alle ideologie reazionarie – dopotutto sono emerse solo a partire dall’articolazione diretta nella sfera politica stessa, senza alcun a priori sociale – necessitano allora, a maggior ragione, di un legame affettivo. Mouffe - che rifiuta non solo il razionalismo del liberalismo ma anche il suo individualismo - immagina l'uomo vedendolo in un rovesciamento fascista di questi paradigmi liberali; come un animale da branco che deve essere innanzitutto attirato nel proprio campo politico, non con argomenti ma con un'influenza affettiva. «Una volta che [...] accettiamo di essere suscettibili all'attrazione della "folla", vista come parte intrinseca di noi, dobbiamo allora affrontare la politica democratica in maniera diversa: dobbiamo chiederci in che modo questo istinto possa essere mobilitato, senza che minacci le istituzioni democratiche.» [*41] L'ultima frase non fa altro che sottolineare, ancora una volta, quanto Mouffe sia consapevole della propria vicinanza alle idee di agitazione fascista. Nel fare ciò, non si vergogna di sostenere il suo psicologismo di massa-umano facendo ricorso a "Psicologia di massa e analisi dell'Io" di Sigmund Freud, che secondo lei avrebbe spiegato plausibilmente l'importanza della passione e della libido ai fini della costituzione di una massa. L'obiettivo del potere che crea una massa, come riassume Freud, è «stabilire una forte identificazione tra i membri della comunità, legarli in un'identità comune. Un'identità collettiva, un "noi", è il risultato di una carica libidica, che include necessariamente la determinazione di un "loro"». [*42] Ma Mouffe, nell'adottare questo obiettivo, ignora deliberatamente il fatto che, secondo Freud, un individuo può fondersi nel collettivo solo arrendendo il suo super-io in favore di un «ideale di massa incarnato nel leader» [*43] . Freud non era un teorico delle masse, come favorevolmente ritiene Mouffle, bensì era proprio un critico di quella regressione, e dei suoi sostenitori. Il nuovo populismo di sinistra, proclamato da Mouffe, deve - nello spirito della psicologia di massa affermativa - abbandonare le assurdità liberali, e fare appello agli istinti di gregge della gente. Per questo motivo, è profondamente invidiosa dell'estremista di destra austriaco dell'FPÖ, Jörg Haider, al quale gli austriaci si sono uniti, non per la sua ideologia ma per la sua concezione politica antagonista. «Vorrei piuttosto sottolineare che - contrariamente a quanto si crede - non è stato certo l'appello alla presunta [!] nostalgia nazista a essere responsabile della drammatica ascesa dell'FPÖ, quanto piuttosto la capacità di Haider di creare un potente polo di identificazione collettiva nel contesto dell'opposizione tra "il popolo" e le "élite del consenso".» [*44] Che ci sia un'identità tra l'uno e l'altro, che la nostalgia nazista consista proprio nella costruzione manichea di un antagonismo tra il popolo e l'élite traditrice, e che questo rappresenti sempre sia il pensiero nazionalista sia l'agitazione delle esigenze regressive della massa, è qualcosa che la populista Mouffe ha bisogno di negare dal momento che vuole traghettare Haider alla sinistra. Nel suo testo “Per un populismo di sinistra”, invita a rivolgersi agli elettori di destra, assumendo le loro legittime preoccupazioni e richieste, ma anche a fornire loro un «vocabolario alternativo in modo da poter ripensare queste richieste in termini di obiettivi egualitari». Mouffe ammette prontamente che la “leadership carismatica” potrebbe essere vantaggiosa tanto per la sinistra populista quanto per la destra. «Non c'è motivo di equiparare una leadership forte all'autoritarismo. […] Tutto dipende dal tipo di relazione che si instaura tra il leader e il popolo.» [*45] Finché il popolo applaude, e finché le masse si identificano con il leader, allora per la Mouffe non si può parlare di autoritarismo. Haider non ha mai sostenuto il contrario, dal momento che il fascismo prospera sulla denuncia di un'élite inautentica e dei suoi presunti sostenitori, nonché sul desiderio di sostituirla con un'autorità autentica, attraverso - per dirla con Schmitt - «un'incondizionata uguaglianza di specie tra capo e seguaci». [46] Continuando a cercare di astrarre dalla totalità sociale e dall'ideologia, e definendo gli antagonismi politici come delle articolazioni contingenti, la teoria di Mouffe non fornisce un giudizio plausibile e sostanziale per quello che è il suo populismo di sinistra. Sarebbe altrettanto facile sostenere una posizione di destra sulla base della sua teoria. Mouffe e Laclau spiegano il loro impegno nella politica di sinistra, come il risultato del loro sviluppo individuale casuale: «Per noi, la validità di questo punto di partenza si basa semplicemente sul fatto che costituisce il nostro passato». [*47] Tuttavia, la loro posizione politica non è così tanto arbitraria come credono Mouffe e Laclau. Infatti la definizione contingente del nemico, visto come forma di politica, rimanda, nonostante tutte le affermazioni contrarie, al contenuto di questa definizione formale. Il decisionismo astratto, che non attribuisce alcuna importanza al contenuto della decisione, porta, per sua stessa logica, alla sostanzializzazione di amico e nemico; cosa che si può osservare tanto in Schmitt quanto nella stessa Mouffe. Mentre nel 1932 Schmitt aveva già definito il politico come una “decisione a favore della risolutezza - non importa per che cosa”[*48], ovvero come forma priva di contenuto, già a partire dal 1933 si impegna nel tentativo di fissare il contenuto del rapporto amico-nemico. Nel senso di un «pensiero concreto e sostanziale del movimento nazionalsocialista», egli rifiuta l’arbitrarietà della decisione, facendolo a favore di una distinzione tra «compagni e stranieri». [*49] Ora è la “uguaglianza di specie” che fissa i partecipanti del collettivo, al di qua della linea antagonista, mentre al di là di essa viene già indicata l’identità del nemico. In contrasto con lo Stato del movimento, lo Stato liberale ci appare «solamente come un occultamento e un camuffamento di forze e poteri non statali - ma per niente apolitici, anzi sovra-statali, spesso persino sovversivi - che possono svolgere in segreto, in modo anonimo, invisibile e irresponsabile il loro ruolo di entità politicamente decisive sotto la protezione delle libertà liberali ». [*50] Quali forze si intendano qui è ovvio, e lo fu anche allora quando Schmitt scrisse poco dopo a proposito della ”infezione ebraica”, allorché pensò di vedere nel singolare collettivo dell’ebreo il «nemico mortale di ogni genuina produttività in ogni altro popolo», e da allora non perse mai occasione per dichiarare l’antagonismo tra tedeschi e gli ebrei come la causa primaria della politica. [*51]
Chantal Mouffe - che non dice una parola sull'antisemitismo di Schmitt - non si spinge certo fino alla sua fonte di ispirazione. Ma dopo che nella sua fase iniziale aveva rifiutato qualsiasi definizione di antagonismo, anche lei ora occupa i poli dell'antagonismo facendo riferimento ad attori concretamente nominati. Da questa parte della “prima linea politica”, c’è il “popolo” attribuito positivamente, e dall’altra parte c’è la “oligarchia” di quello che è un piccolo gruppo di governanti cospiratori. [*52] E questo sviluppo non può sorprendere. Infatti, l'idea politica dell'antagonismo, che dissolve la totalità sociale nel calcolo dell'egemonia di quelli che sono gruppi concorrenti e ostili tra loro, contiene già in sé il manicheismo e la personificazione del dominio senza soggetto. Chantal Mouffe, dimostra involontariamente che la forma politica dell'antagonismo è indissolubilmente legata al suo contenuto politico-ideologico, e che un adattamento della teoria politica di Schmitt, non è possibile senza subirne simultaneamente le conseguenze nazionaliste. Che non esista una società, ma solo degli antagonisti politici, è già un'espressione della forma di pensiero di una falsa immediatezza, che non può assumere altro che un contenuto ideologico. Sebbene Mouffe non abbia fatto affermazioni antisemite nelle sue opere precedenti, la sua rivendicazione del popolo, il suo appello alla mobilitazione affettiva delle masse, la sua immediata determinazione antagonista del nemico sono tutte cose già al servizio dello schema di pensiero dell'antisemitismo. La riduzione, che Gramsci fa della società, vista come lotta per l'egemonia, e la pessima abolizione dell'economismo marxista tradizionale a favore di un politicismo senza mediazioni, così come la sua “filosofia della prassi”, oggi lo rendono attraente, non solo per la sinistra in generale, che cerca di compensare la propria reale impotenza attraverso l'allucinazione di lotte sovversive, ma anche per la decostruttivista Chantal Mouffe, che giustamente lo adatta alla sua divulgazione post-strutturalista della società tramite articolazioni contingenti di soggetti politici. Benché lo stesso Gramsci non avesse compiuto appieno la dissoluzione della totalità nella politica, ma fosse invece partito - per quanto in maniera erronea - da strutture sociali antecedenti, la sua teoria mirava, in ultima analisi, alla diffusione di queste ultime nell'equilibrio di potere dei soggetti politici. Mouffe trae le conseguenze di questo modo di pensare, dichiarando che la sintesi sociale è una finzione, e intendendo il sociale solo come un'emanazione incondizionata di articolazioni politiche, alla stregua di una “creatio ex nihilo”, come una “terra di nessuno” senza “cuciture”. E poiché queste articolazioni si coagulano in antagonismi privi di mediazione sotto il segno dell'ipostasi postmoderna della differenza, è facile che si leghi al decisionismo di Carl Schmitt e alla sua definizione di amico-nemico. Come il suo antenato decostruttivista, anche Mouffe passa dalla contingenza radicale alla sostanzializzazione dell'antagonismo, all'ossessione, rivolta a sinistra, per il popolo e per i suoi nemici. La mediazione - che, sul piano reale, smentisce l'immediatezza dell'antagonismo, e su quello intellettuale impedisce alle masse di mobilitarsi affettivamente contro i nemici designati - ha una reputazione altrettanto negativa tanto presso Chantal Mouffe quanto presso Carl Schmitt. La loro comune avversione alla mediazione, è il segno di un modo di pensare che risponde all'esigenza regressiva di individuare finalmente il male di una società opaca nel nemico del popolo e di condannarlo all'innocenza.
- Patrice Schlauch - 7 dicembre 2023 - Pubblicato su fractura - Gruppe für kategoriale Kritik
NOTE:
[1] Così Michael Hintz e Gerd Vorwallner nella loro prefazione all'edizione tedesca, in: Laclau, Ernesto; Mouffe, Chantal: Egemonia e democrazia radicale. Sulla decostruzione del marxismo, Vienna 1991, p. 11.
[2] Ivi, p. 46.
[3] Ivi, pp. 73 e 69.
[4] Ivi, p. 79 segg. e 83.
[5] Ivi, p. 108.
[6] Ivi.
[7] Gramsci, Antonio: Quaderni del carcere, Volume 6: Filosofia della prassi, Amburgo 1996, p. 1490.
[8] Ivi, p. 1387.
[9] Laclau/Mouffe (1991), p. 111.
[10] Ivi, pp. 125-127.
[11] Ivi, pp. 114, 182, 155, 161ss.
[12] Ernesto Laclau, citato in Laclau/Mouffe (1991), p. 18 seg.
[13] Ivi, p. 162.
[14] Ivi, p. 141.
[15] Ivi, p. 143.
[16] Marx, Karl: Il Capitale. Critica dell'economia politica. Primo volume (Opere di Marx-Engels, Volume 23), Berlino 2008, p. 169.
[17] Ivi, pp. 86ss.
[18] Vedi Scholz, Roswitha: Il genere del capitalismo. Teorie femministe e metamorfosi postmoderna del capitale, Bad Honnef 2011.
[19] Marx, Karl; Engels, Friedrich: L'ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti, Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (Opere di Marx-Engels, Volume 3), Berlino 1962, p. 33.
[20] Ivi, p. 62.
[21] Engels, Friedrich: Lo sviluppo del socialismo dall'utopia alla scienza, in: Marx-Engels-Werke, Volume 19, Berlino 1962, pp. 177-228, qui p. 222.
[22] Marx (2008), pp. 741, 761.
[23] Citato in Münkler, Herfried: In nome dello Stato. La giustificazione della ragion di Stato nell’età moderna, Francoforte a. M. 1987, pag. 167.
[24] Citato in Münkler (1987), p. 49.
[25] Ivi.
[26] Sul rapporto tra totalità capitalista e ragion di stato come forma feticistica egoistica dello Stato nel primo periodo moderno, vedi Späth, Daniel: Querfront allerorten! o La “nuova destra”, la “nuova sinistra” e la fine della trascendenza socialmente critica. Parte 1: L’emergere della “nuova destra”. La crisi dell'Unione Europea e la svolta immanente del postmodernismo, in: Exit! Crisi e critica della società delle merci, numero 14, Angermünde 2017, pp. 95-212, qui pp. 101-107.
[27] Kurz, Robert: Il botto della modernità. Innovazione attraverso le armi da fuoco, espansione attraverso la guerra: uno sguardo alla preistoria del lavoro astratto, in: ibid.: Crisi mondiale e ignoranza. Capitalismo in declino, Berlino 2013, pp. 88-108, qui p. 106.
[28] Adorno, Theodor W.; Horkheimer, Max: Dialettica dell'illuminismo. Frammenti filosofici, Francoforte a. M. 2012, pag. 180.
[29] Laclau/Mouffe (1991), pp. 181 e 185.
[30] Ivi, p. 261.
[31] Mouffe, Chantal: Sulla politica. Contro l'illusione cosmopolita, Francoforte a. M. 2020, pag. 8 seg.
[32] Ivi, pp. 15ss.
[33] Schmitt, Carl: Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, Berlino 2015(a), pp. 68f.
[34] Mouffe (2020), p. 71.
[35] Schmitt, Carl: Il concetto del politico, Berlino 2015(b), pp. 19 e 25.
[36] Mouffe (2020), p. 23.
[37] Schmitt (2015b), p. 26.
[38] Mouffe (2020), p. 21.
[39] Schmitt (2015b), p. 31.
[40] Mouffe (2020), pp. 29ss.
[41] Ivi, p. 34.
[42] Ivi, p. 37.
[43] Freud, Sigmund: Psicologia delle masse e analisi dell'Io, in: ibid.: Edizione di studio, Volume 9, pp. 61-134, qui p. 120.
[44] Mouffe (2020), p. 89.
[45] Mouffe, Chantal: Per un populismo di sinistra, Francoforte a. M. 2018, pp. 33 e 83.
[46] Schmitt, Carl: Stato, movimento, popolo. La tripartizione dell'unità politica, Amburgo 1933, p. 42.
[47] Citato in Mattutat, Liza; Breunig, Felix: Involontariamente con Schmitt. La ricezione di Carl Schmitt nella teoria democratica di Chantal Mouffe, in: Hetzel, Andreas (a cura di): Radical Democracy. Sulla comprensione dello Stato di Chantal Mouffe e Ernesto Laclau, Baden-Baden 2017, pp. 65-84, qui p. 77.
[48] Löwith, Karl: Il decisionismo occasionale di C. Schmitt, in: ibid.: Scritti completi, Volume 8, Heidelberg 1984, pp. 32-71, qui p. 44.
[49] Schmitt (1933), pp. 42 e 5ss.
[50] Ivi, p. 28.
[51] Schmitt, Carl: Gli ebrei nella scienza giuridica, Berlino 1935, pp. 16 e 34.
[52] Mouffe (2018), p. 16.
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