venerdì 28 febbraio 2014

Il blues della decrescita

decrescita blues

Rilevanza e limiti degli obiettori della crescita

di Anselm Jappe

Il discorso sulla "decrescita" è una delle rare proposizioni teoriche in qualche modo nuova, che sia apparsa negli ultimi decenni. La parte del pubblico attualmente sensibile al discorso sulla "decrescita" è ancora assai ristretto. Tuttavia, è una percentuale costantemente in aumento. Ciò riflette una presa di coscienza effettiva, a fronte degli sviluppi più importanti degli ultimi anni: soprattutto l'evidenza che lo sviluppo del capitalismo ci trascina verso una catastrofe ecologica, e che non saranno un paio di filtri in più, o delle automobili meno inquinanti, a risolvere il problema. Si è diffusa una diffidenza a proposito dell'idea stessa che una crescita economica perpetua sia sempre desiderabile, e, allo stesso tempo, un'insoddisfazione riguardo le critiche del capitalismo che gli rimproverano essenzialmente la distribuzione iniqua dei suoi frutti, oppure solo quegli "eccessi", come le guerre e le violazioni dei "diritti umani". L'attenzione per il concetto di decrescita riflette la crescente impressione che sia la direzione che ha preso la nostra società ad essere sbagliata, almeno da qualche decennio, e che ci troviamo di fronte ad una "crisi di civiltà", con tutti i suoi valori, anche a livello di vita quotidiana (culto del consumo, della velocità, della tecnologia, ecc.) Siamo entrati in una crisi che è economica, ecologica ed energetica allo stesso tempo, e la decrescita prende in considerazione tutti questi fattori,nella loro interazione, anziché voler "rilanciare la crescita" per mezzo delle "tecnologie verdi", come fa una parte dell'ecologia, oppure di proporre semplicemente una diversa gestione della società industriale, come fa una parte della critica che si rifà al marxismo.
La decrescita piace anche perché propone dei modelli di comportamento individuali che si può cominciare a praticare qui e subito, ma senza limitarsi a quello, ed anche perché riscopre delle virtù essenziali, quali la convivialità, la generosità, la semplicità e il dono. Attrae anche per la sua aria gentile che lascia credere che si possa mettere in atto un cambiamento radicale con un consenso generale, senza dover passare attraverso degli antagonismi e dei forti scontri. Si tratta di un riformismo che si vuole veramente radicale.
Il pensiero della decrescita ha senza dubbio il merito di voler veramente rompere con il produttivismo e con l'economicismo che sono stati a lungo il terreno comune della società borghese e della sua critica marxista. Una critica profonda del modo di vita capitalista sembra, dapprima, più presente presso i "decrescitori" che, per esempio, presso i sostenitori del neo-operaismo, i quali continuano a credere che lo sviluppo delle forze produttive (in particolare nella loro forma informatica) porterà all'emancipazione sociale. I "decrescitori" cercano anche di riscoprire degli elementi di una società migliore nella vita di oggi, spesso lasciatici in eredità dalle società pre-capitaliste, come l'attitudine al dono. Non rischiano, perciò, di scommettere - come fanno altri - su un'ulteriore decomposizione di tutte le forme tradizionali di vita e sulla barbarie come anticamera ad una miracolosa rinascita.
Il problema è che i teorici della decrescita rimangono molto sul vago per ciò che concerne le cause della crescita. Nella sua critica dell'economia politica, Marx ha già dimostrato che la sostituzione della forza lavoro umana mediante l'utilizzo della tecnologia diminuisce il "valore" rappresentato in ciascuna merce; cosa che spinge il capitalismo ad aumentare continuamente la produzione. Sono le categorie di base del capitalismo - il lavoro astratto, il valore, la merce, il denaro, categorie che non appartengono affatto ad ogni modo di produzione, ma al solo capitalismo - a causare il suo cieco dinamismo. Al di là del limite esterno, costituito dall'esaurimento delle risorse, il sistema capitalista contiene in sé, fin dall'inizio, un limite interno: quello di dover ridurre, a causa della concorrenza, il lavoro vivente che costituisce la sola fonte di valore. Negli ultimi decenni, questo limite sembra che sia stato raggiunto e la produzione del valore "reale" è stato in gran parte rimpiazzato dalla sua simulazione nella sfera finanziaria. Inoltre, il limite esterno ed il limite interno hanno cominciato a manifestarsi apertamente nello stesso momento: verso il 1970. L'obbligo a crescere è dunque consustanziale al capitalismo; il capitalismo può esistere solo come fuga in avanti e crescita materiale perpetua, per compensare la diminuzione del valore. Perciò, una vera "decrescita" sarà possibile solo al prezzo di una rottura totale con la produzione di merci e di denaro.
Ma i "decrescitori" in generale rinculano davanti a questa conseguenza che appare loro troppo "utopica". Alcuni tuttavia si sono radunati intorno allo slogan "Uscire dall'economia". Ma la più parte rimane un po' troppo nel quadro di una "scienza economica alternativa" e sembra credere che la tirannia della crescita non sia altro che una specie di malinteso che può essere demolito a forza di colloqui scientifici che discutono circa il modo migliore di calcolare il prodotto interno lordo. Molti dei "decrescitori" ricadono nella trappola della politica tradizionale, vogliono partecipare alle elezioni o fare rilasciare delle dichiarazioni agli eletti. C'è perfino un discorso un po' snob, quando si possono vedere dei ricchi borghesi che scontano i loro sensi di colpa recuperando con ostentazione le verdure che vengono gettate via quando finisce la vendita al mercato. E se da una parte la volontà manifesta di sottrarsi alla vecchia contrapposizione "destra-sinistra" può sembrare inevitabile, bisogna quanto meno chiedersi perché una "Nuova Destra" dimostri interesse per la decrescita, così come si corre il rischio di cadere in un'apologia acritica delle società "tradizionali" del Sud del mondo.
E' quindi in qualche modo stupido credere che la decrescita possa divenire la politica ufficiale della Commissione europea, o qualcosa del genere. Un "capitalismo decrescente" sarebbe un ossimoro, altrettanto impossibile di un "capitalismo ecologico". Se non si vuole che la decrescita si riduca ad accompagnare e a giustificare l'impoverimento "crescente" della società - e tale rischio è reale: una retorica della frugalità può ben servire ad indorare la pillola ai nuovi poveri e a trasformare quella che è un'imposizione in un'apparenza di scelta cose come frugare nei cassonetti della spazzatura - bisogna che essa si prepari a degli scontri e a degli antagonismi. Solo che questi antagonismi non coincidono più con le vecchie linee di divisione formate dalla "lotta di classe". Il necessario superamento del paradigma produttivista - e degli stili di vita che gli si accompagnano - troverà resistenze in tutti i settori sociali. Una parte delle "lotte sociali" attuali, in tutto il mondo, sono essenzialmente lotte per accedere alla ricchezza capitalista, senza mettere in discussione il carattere di questa pretesa ricchezza. Un operaio cinese, o indiano, ha delle buone ragioni per chiedere un salario migliore, ma se lo ottiene, probabilmente va a comprarsi un'automobile e contribuisce così alla "crescita" e alle sue nefaste conseguenze sul piano ecologico e sociale. Bisogna sperare che si attui un collegamento tra tutte le lotte che vengono portate avanti per migliorare la condizione degli sfruttati e degli oppressi, da una parte, e gli sforzi messi in campo per superare un modello sociale basato sul consumo sociale ad oltranza, dall'altro. Può essere che alcuni movimenti contadini nel Sud del mondo si muovano già in questa direzione, soprattutto attraverso il recupero di alcuni elementi delle società tradizionali, come la proprietà collettiva della terra e l'esistenza di forme di riconoscimento del singolo che non sono legati alle sue prestazioni sul mercato.
Riassumendo: il discorso dei "decrescitori" sembra assai più promettente rispetto ad altre forme di critica sociale contemporanee, ma deve ancora svilupparsi e, soprattutto, perdere le sue illusioni circa la possibilità di addomesticare, semplicemente, la bestia capitalista mediante atti di buona volontà.

- Anselm Jappe, 2010 -

fonte: PENSÉE RADICALE EN CONSTRUCTION

giovedì 27 febbraio 2014

Conferenza video

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Agli occhi di molti la crisi attuale non è altro che una crisi finanziaria causata dall'avidità di un gruppo di speculatori senza scrupoli.
Anselm Jappe, uno dei maggiori teorici della corrente internazionale chiamata "critica del valore", è invece convinto che la crisi sia una tappa decisiva verso l'esaurimento storico del capitalismo: dopo duecento anni, il sistema capitalistico basato sulla trasformazione di lavoro vivo in valore ha raggiunto il suo limite interno. Le nuove tecnologie, sostituendosi alla forza lavoro, hanno sgretolato la sostanza del valore rendendo obsoleti il lavoro e la società che su esso si basa. Ogni giorno masse sempre più grandi di uomini sono trasformati in "materiale superfluo", destinato alla barbarie. Siamo allora davanti a un bivio: continuare a proporre soluzioni irrealizzabili, come il ritorno alla vecchia economia keinesiana; o cominciare a mettere radicalmente in discussione il denaro, la merce, il valore e il lavoro e chiederci se proprio il loro abbandono non sia l'unica vera uscita dalla crisi.

Nei due filmati che seguono, l'incontro con Anselm Jappe, organizzato dalla Nautilus Autoproduzioni ed introdotto da Riccardo Frola, che ha avuto luogo a Torino, presso l'Unione Culturale Franco Antonicelli, il 25 gennaio 2014

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mercoledì 26 febbraio 2014

Chi ha ucciso Durruti?!?

amigos Comité de defensa

I comitati di difesa della CNT a Barcellona, la situazione rivoluzionaria del luglio 1936 e il Gruppo degli Amici di Durruti
(Testo dell'intervento di Agustín Guillamón all'Ateneo Cooperativo La Base, 20 febbraio 2014)

La lotta dei lavoratori per conoscere la propria storia è una delle molte battaglie della guerra di classe in corso. Essa non è puramente teorica, né astratta, o erudita, o banale, in quanto fa parte della loro propria coscienza di classe e si definisce come teorizzazione delle esperienze storiche del proletariaro internazionale. Ed in Spagna deve comprendere, assimilare ed appropriarsi, senza accampare scuse, delle esperienze del movimento anarcosindacalista degli anni 1930. Nel discorso di oggi vorrei affrontare la nascita del Gruppo degi Amici di Durruti in quanto opposizione interna al collaborazionismo della CNT e i principali contributi di questo Gruppo alla teoria rivoluzionaria anarchica, ponendolo nel contesto della storia dei comitati di difesa e nel contesto del processo rivoluzionario, a partire dall'insurrezione operaia del 19 e del 20 luglio 1936.

1 - Cos'era un Comitato di Difesa?
I comitati di difesa erano l'organizzazione militare clandestina della CNT, finanziati dai sindacati, e la loro azione era a questi subordinata. Non erano un'organizzazione della FAI. Nell'ottobre del 1934, in una riunione del Consiglio Nazionale dei Comitati di Difesa, venne abbandonata la vecchia tattica dei gruppi d'azione, a favore di una preparazione rivoluzionaria seria e metodica. "Non si dà rivoluzione senza preparazione. Bisogna farla finita col pregiudizio delle improvvisazioni. Quest'errore, della fiducia nell'istinto creativo delle masse, ci è costato molto caro. Non ci si procura, come per generazione spontanea, i mezzi di guerra indispensabili a combattere uno Stato che ha esperienza, un forte armamento ed una maggiore capacità offensiva e di difesa".
Il quadro, o gruppo di difesa di base, doveva essere poco numeroso, per facilitare la sua clandestinità e la sua agilità. Doveva essere formato da sei militanti, tutti con funzione molto specifica:
1: il Segretario: contatti con gli altri quadri, creazione di nuovi gruppi, rapporti informativi.
2: Investigatore di persone: determinare la pericolosità del nemico.
3: Investigazione di edifici: Fare piani ed elaborare statistiche.
4: Studio dei punti strategici e tattici della lotta di strada.
5: Studio dei servizi pubblici
6: Investigare in modo da stabilire dove ottenere armi, denaro, rifornimenti.
A tale cifra ideale di 6, si poteva aggiungere qualche altro membro, al fine di una qualche attività di "alto rilievo". La clandestinità doveva essere assoluta. Erano questi i nuclei di base di un esercito rivoluzionario, in grado di mobilitare altri gruppi secondari assai più numerosi, e questi ultimi, a loro volta, tutto il popolo. Il loro ambito d'azione aveva una demarcazione assai precisa all'interno di ogni quartiere, dove si costituiva un Comitato di Difesa che coordinava tutti i quadri di difesa e che riceveva un rapporto mensile da ciascun segretario di ogni gruppo. Il segretario-delegato del quartiere faceva una sintesi di tutti i rapporti mensili che poi inoltrava al Comitato di Distretto che, a sua volta, lo trasmetteva al Comitato Locale di Difesa, e questi poi al Regionale e successivamente al Nazionale. Le funzioni essenziali dei comitati di difesa erano due:
1 - Ottenimento, mantenimento, custodia e apprendimento nell'utilizzo delle armi.
2 - Direzione e governo, nel senso ampio dei termini
I comitati di difesa potevano essere considerati come la continuazione,la riorganizzazione e l'approfondimento dei gruppi di azione e di autodifesa armata degli anni del "pistolerismo" (1917-1923).

2 - Come si passò dai gruppi di azione ai quadri di difesa?
Nel gennaio del 1935 i gruppi anarchici "Indomables", Nervio, Nosotros, Tierra Libre e Germen, durante il plenum dei Gruppi Anarchici di Barcellona, fondarono il Comitato Locale di Preparazione Rivoluzionaria (CLPR). A fronte di un panorama storico davvero desolante, con l'ascesa del fascismo in Italia, del nazismo in Germania e dello stalinismo in Unione Sovietica, da una parte, e la depressione economica e la disoccupazione permanente e di massa negli Stati Uniti, dall'altra, la decisione presa nel corso del plenum opponeva a tutto questo la speranza del proletariato rivoluzionario. Diceva il CLPR: "Nel fallimento universale delle idee, dei partiti, dei sistemi, rimane in piedi solo il proletariato rivoluzionario con il suo programma di riorganizzazione delle basi del lavoro, della realtà economica e sociale, della solidarietà." Il CLPR criticava la vecchia tattica, già abbandonata nell'ottobre del 1934, della ginnastica rivoluzionaria e dell'improvvisazione delle insurrezioni nel gennaio del 1932 e nel periodo da gennaio a dicembre del 1933. E aggiungeva:"La rivoluzione sociale non può essere interpretata come un colpo audace, nello stile dei colpi di stato del giacobinismo, ma essa sarà conseguenza e risultato dello svolgersi di una guerra civile inevitabile, la cui durata non è possibile prevedere." La preparazione rivoluzionaria per una lunga guerra civile esigeva nuove sfide, impensabili per la vecchia tattica dei gruppi d'azione. Ancora: "Dal momento che non è possibile disporre in anticipo delle scorte di armi necessarie a combattere efficacemente, c'è bisogno che il Comitato di Preparazione studi il modo per trasformare, in determinate zone strategiche, le industrie in fabbriche che provvedano a fornire il materiale di combattimento per la rivoluzione". Questo diede origine alla commissione delle industrie di guerra che, costituita il 7 agosto del 1936, riuscì a creare dal niente più assoluto, grazie allo sforzo degli operai, una potente industria bellica coordinata da  Eugenio Vallejo Isla, metallurgico, Manuel Martí Pallarés, del sindacato dei Chimici, e da Mariano Martín Izquierdo; anche se più tardi il merito verrà dato a dei politici borghesi, come Josep Tarradellas.

3 - Gli anarchici potevano prendere il potere?
Nel corso del primo semestre del 1936, nel momento in cui si sapeva con certezza dei preparativi militari in corso per attuare un cruento colpo di stato, il gruppo Nosotros affrontò tutti gli altri gruppi della FAI in un infuocato dibattito circa due concezioni fondamentali. I due concetti erano la "presa del potere" e "l'esercito rivoluzionario". Il pragmatismo del gruppo Nosotros, più preoccupato della tecnica insurrezionale che dei tabù, si scontrò frontalmente con i pregiudizi ideologici degli altri gruppi della FAI, cioè con il rifiuto di quella che veniva definita "dittatura anarchica" e con un profondo anti-militarismo, che tutto lasciava alla spontaneità creativa dei lavoratori. Il duro attacco alle "pratiche anarco-bolsceviche" del gruppo Nosotros, si espresse ampiamente sulla rivista "Más Lejos", sulla quale vennero pubblicata le risposte ad un'inchiesta che era stata lanciata sul primo numero della stessa rivista, nell'aprile 1936, e che consisteva in due domande sull'accettazione o meno dell'astensionismo elettorale, più una terza domanda a proposito di "prendere il potere" : "Possono gli anarchici, in virtù di una qualche circostanza, e VINCENDO TUTTI GLI SCRUPOLI, disporsi a prendere il potere, in una qualche forma, come mezzo per accelerare il ritmo della loro marcia verso la realizzazione dell'Anarchia?". Quasi tutti risposero negativamente. Però, nessuna risposta offriva un'alternativa pratica al rifiuto generalizzato di prendere il potere. Teoria e pratica anarchica avevano divorziato, alla vigilia del colpo di stato militare. Nel plenum dei Gruppi Anarchici di Barcellona, riunitosi nel giugno del 1936, Garcia Oliver spiegò che l'organizzazione di quadri di difesa, coordinati in comitati di difesa di quartiere, nella città di Barcellona, erano il modello da seguire e da estendere a tutta la Spagna, coordinando una struttura a livello regionale e nazionale, di modo da costituire un esercito rivoluzionario del proletariato. Tale esercito doveva completarsi con la creazione di unità guerrigliere formate da cento uomini ciascuna. Molti militanti si opposero alla concezione di Garcia Oliver, confidando più nella spontaneità dei lavoratori che in una disciplinata organizzazione rivoluzionaria. Le convinzioni anti-militariste di molti gruppi di affinità, produssero un rifiuto quasi unanime delle tesi del gruppo Nosotros, e soprattutto delle tesi di Garcia Oliver.

4 - Come si trasformarono, questi Comitati di Difesa, in Milizie Popolari e in comitati rivoluzionari di quartiere?
Il 19 luglio del 1936, la guarnigione militare di Barcellona contava circa seimila uomini, a fronte di quasi duemila "guardie di assalto" e duecento "mozzi di squadra" (polizia barcellonese). La guardia civil, che nessuno sapeva con certezza da che parte si sarebbe schierata, ne contava circa tremila. La CNT-FAI disponeva di ventimila militanti organizzati in comitati di difesa di quartiere, disposti ad impugnare le armi. In 32 ore i comitati di difesa sconfissero l'esercito appropriandosi dei trentamila fucili depositati nella caserma di San Andrés e trasformando la resistenza al golpe in un'insurrezione operaia vittoriosa. Nei quadri di difesa, ebbe luogo una doppia trasformazione: a) in milizie popolari che nei primi giorni andarono a formare il fronte di Aragona, mettendo in atto la collettivizzazione delle terre nei villaggi aragonesi liberati; b) in comitati rivoluzionari che, in ogni quartiere di Barcellona ed in molti villaggi della Catalogna, diedero impulso ad una "nuova situazione rivoluzionaria". Il vero potere di decisione ed esecuzione stava nella strada, era il potere del proletariato in armi, e veniva esercitato dai comitati locali di difesa e di controllo operaio, espropriando spontaneamente fabbriche, officine, palazzi e proprietà; organizzando, armando e trasportando al fronte i gruppi dei miliziani volontari che via via reclutavano; bruciando chiese, o trasformandole in scuole o magazzini; formando ronde al fine di estendere la guerra sociale; controllando le barricate, che erano ora frontiere di classe che servivano a controllare il passaggio e imponevano il potere dei comitati; facendo funzionare le fabbriche, senza padroni né direttori, o riconvertendole per la produzione bellica; requisendo auto e camion, ma anche alimenti per i comitati di rifornimento; riscuotendo imposte rivoluzionarie e finanziando opere pubbliche per alleviare la disoccupazione; sostituendosi alle amministrazioni comunali ed imponendo in ogni località la loro assoluta autorità in tutti i campi, senza aspettare ordini, né dalla Generalitat catalana né dal Comitato Centrale delle Milizie Antifasciste. La situazione rivoluzionaria si caratterizzava per una atomizzazione del potere. A Barcellona, i comitati di difesa trasformatisi in comitati rivoluzionari di quartiere, in assenza di direttive da parte di qualsivoglia organizzazione e senza altra coordinazione se non quella dell'iniziativa rivoluzionaria richiesta da quel momento, organizzarono gli ospedali che erano stati travolti da una marea di feriti, crearono mense popolari, registrarono domicili privati per chi non li aveva, arrestarono sospetti e crearono una rete di Comitati di Rifornimento in ogni quartiere della città, con la significativa presenza del Sindacato dell'Alimentazione. La loro esistenza e la loro attività sostituì tutte le funzioni statali, e lo fecero incarnando la rivoluzione.
Il 21 luglio, si era rinunciato alla presa del potere - intesa come dittatura dei leader anarchici - ma non all'imposizione, alla coordinazione ed all'estensione del potere che i comitati rivoluzionari già esercitavano nelle strade. Venne deciso di creare un Comitato Centrale delle Milizie Antifasciste, cui partecipavano tutte le organizzazioni antifasciste: quello che più tardi, nell'estate del 1937, verrà definito giustamente da "Gli Amici di Durruti" come un "organismo di collaborazione fra le classi".
Il 24 luglio partirono le due prime colonne anarchiche, guidate da Durruti e da Ortiz. Durruti tenne un discorso alla radio in cui metteva in guardia su un probabile tentativo contro-rivoluzionario. Il plenum regionale del 26 confermò, per unanimità, che la CNT manteneva la sua posizione, approvata il 21 luglio, di partecipare a questo nuovo organismo di collaborazione di classe e decise di creare una Commissione per i Rifornimenti che dipendesse dal detto organismo, cui dovevano sottomettersi i vari comitati di rifornimento che erano emersi, e ordinava, allo stesso tempo, la fine dello sciopero generale. Poi ...

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5 - Avvenimenti
26 settembre 1936
: 3 anarchici entrano nel governo della Generalitat catalana: Doménech, Fábregas e García Birlán.
1° ottobre 1936: scioglimento del Comitato Centrale delle Milizie Antifasciste. Il bilancio delle sue nove settimane di vita è disastroso:
a) Si è passati dai comitati locali rivoluzionari, che esercitavano tutto il potere nelle strade e nelle fabbriche, al loro scioglimento a beneficio della restaurazione del potere della Generalitat.
b) Si è passati da una milizia operaia di volontari rivoluzionari ad un esercito borghese di stampo classico, sottomesso al codice di giustizia militare monarchico, diretto dalla Generalitat.
c) Si è passati dall'espropriazione e dal controllo operaio delle fabbriche ad una economia centralizzata, controllata e diretta dalla Generalitat.
9 e 12 ottobre 1936: Vengono emessi i decreti di soppressione dei comitati locali che vengono sostituiti dalle municipalità frontiste.
24 ottobre 1936: vengono emessi i decreti di militarizzazione delle Milizie ed i decreti di Collettivizzazione e controllo operaio.
Il ritardo nell'applicazione dei decreti, provocato dalla resistenza dei militanti confederali, che continuavano ad essere armati, spinge il governo della Generalitat a darsi come obiettivo primario quello di disarmare la retroguardia, dando inizio ad una campagna di propaganda contro i cosiddetti "incontrollati" da cui derivò l'obiettivo secondario contenuto nello slogan "armi al fronte".
La forte resistenza, da parte della base anarcosindacalista, alla militarizzazione delle milizie ed al controllo dell'economia, e delle imprese collettivizzate, messo in atto dalla Generalitat, al disarmo della retroguardia e alla dissoluzione dei comitati locali, si concretizza provocando un ritardo di vari mesi alla messa in atto reale dei decreti su tutti questi temi. Resistenza che, poi, nella primavera del 1937, si cristallizzerà in un enorme disagio che si andrà a sommare al malcontento per l'andamento della guerra, per l'inflazione e per la penuria dei prodotti di prima necessità, e sfocerà in una critica generalizzata, da parte della militanza di base della CNT, alla partecipazione al governo dei comitati superiori della CNT-FAI e alla politica antifascista e collaborazionista dei suoi dirigenti, accusati di aver svenduto le conquiste rivoluzionare del 19 luglio.
A Barcellona, il decreto di scioglimento dei comitati locali riguardava teoricamente i comitati rivoluzionari di quartiere, anche se in pratica continuarono a funzionare come prima: erano ancora troppo forti e, inoltre, erano ancora armati.
4 novembre 1936: quattro ministri anarchici nel governo della Repubblica. García Oliver, Federica Montseny, Joan Peiró e Juan López. La posizione di Durruti viene espressa in un discorso alla radio, che ha un grande impatto sugli operai di Barcellona, in cui si oppone al decreto di militarizzazione delle Milizie Popolari e minaccia di MARCIARE SU BARCELLONA, per frenare le manovre controrivoluzionarie della borghesia ed imporre ai capoccia della retroguardia la disciplina che si esige al fronte. Critica la burocratizzazione della CNT e chiede un impegno maggiore per poter vincere la guerra.
Il giorno dopo, viene convocata una riunione del Consiglio della Generalitat, estesa a tutte le organizzazioni antifasciste, nel corso della quale si accusa velatamente Durruti di essere un "incontrollato" che incarna una crescente e generalizzata opposizione alla militarizzazione. Tutti i partecipanti, inclusa la CNT, convengono che si deve collaborare per attuare i decreti della Generalitat, evitando che divengano lettera morta.
6 novembre 1936: il governo della Repubblica (inclusi i quattro nuovi ministri anarcosindacalisti appena arrivati) scappa da Madrid e si trasferisce a Valencia. La popolazione risponde al grido "¡Viva Madrid sin gobierno¡"
20 novembre 1936: Durruti muore sul fronte di Madrid.
Alla fine di novembre del 1936, la direzione della CNT si riferisce ai comitati di quartiere, che si rifiutano di consegnare le armi, come ai "suoi peggiori nemici". I sindacati decidono di mettere dine ai comitati di difesa, dal momento che esistono già le pattuglie di controllo (la polizia creata dal Comitato Centrale delle Milizie Antifasciste) cui la CNT contribuisce con il 50% degli effettivi.
6 dicembre 1936: Balius pubblica su Solidaridad Obrera un articolo dal titolo "Il testamento di Durruti", in cui afferma che "Durruti ha detto, senza mezzi termini, che gli anarchici esigono che la rivoluzione abbia un carattere totalitario".
16 dicembre 1936: il POUM viene escluso dal governo della Generalitat. Nin e Fábregas escono dal governo. Fábregas, della CNT, era il ministro dell'economia che aveva realizzato il Decreto delle Collettivizzazioni. Nel gennaio del 1937, Josep Tarradellas, emette 58 decreti di carattere finanziario e tributario, conosciuti col nome di "Decretos de S´Agaró", con cui sottomette tutte le giunte locali della Catalogna (e i comitati locali che si rifiutano di formare delle giunte frontiste), e sottomette anche tutte le imprese collettivizzate, al controllo del governo della Generalitat.
5/8 febbraio 1937: assemblea plenaria delle colonne confederali e anarchiche a Valencia, per discutere della militarizzazione, che alla fine viene accettata. Alla fine di febbraio, Pablo Ruiz abbandona la Colonna Durruti e, con ottocento uomini armati, marcia su Barcellona.
2 marzo 1937: il giornale La Noche pubblica una nota in cui si comunica la formazione del gruppo Los Amigos de Durruti.
4 marzo 1937: la Generalitat emette il decreto con cui vengono sciolte le Pattuglie di Controllo per dare vita ad un Corpo unico di Sicurezza, formato dalle guardie di assalto e dalla Guardia Civil. Sebbene la dissoluzione delle pattuglie non divenga effettiva fino a giugno del '37, di fronte a questa evidente minaccia, i sindacati decidono di riarmare e riorganizzare i comitati di difesa.
17 marzo 1937: si costituisce formalmente il gruppo de Los Amigos de Durruti. L'intento è quello di costituire un'avanguardia rivoluzionaria che metta fine all'abbandono dei principi rivoluzionari e al collaborazionismo con lo stato capitalista, in modo che la CNT difenda ed approfondisca le "conquiste" del luglio 1936, invece di cederle poco a poco alla borghesia.
12 aprile 1937: ha luogo nella Casa CNT-FAI, un plenum dei gruppi anarchici di Barcellona, con l'assistenza dei gruppi di difesa confederali e della Gioventù libertaria, che decide di ritirare tutti membri della CNT da qualsiasi ufficio od incarico nelle strutture governative antifasciste e di formare un comitato rivoluzionario per il coordinamento della lotta armata con lo scopo di socializzare subito l'industria, il commercio e l'agricoltura. L'incontro era sfuggito di mano alla burocrazia, erano intervenuti i Comitati di Difesa di Barcellona e la Gioventù libertaria, con l'effetto di radicalizzare la sostanza degli accordi raggiunti alla fine della riunione. Nonostante l'opposizione isterica di alcuni burocrati presenti, come Toryho, era stato deciso di farla finita col collaborazionismo, di ritirare i ministri anarchici dal governo della Generalitat di Catalogna e formare un comitato rivoluzionario che dirigesse la guerra contro il fascismo. Fu questo, un passo decisivo in direzione dell'insurrezione rivoluzionaria che avrà luogo il 3 maggio 1937. Questa radicalizzazione era il risultato di una situazione divenuta insostenibile: il 14 aprile, una manifestazione di donne aveva attraversato tutti i mercati di Collblanc, Sants e Hostafrancs, protestando per il prezzo del pane e dei prodotti alimentari. Manifestazioni e proteste si erano estese a tutti i mercati della città di Barcellona. Negozi e panifici assaltati, la fame esigeva soluzioni.
2 maggio 1937: militanti della CNT interrompono una conversazione telefonica fra Companys e Azaña.
Lunedì, 3 maggio 1937, sono le tre del pomeriggio quando Rodriguez Salas pretende di prendere possesso della centrale telefonica, controllata dalla CNT. I militanti, al piano inferiore, presi di sorpresa, si lasciano disarmare, ma ai piani superiori viene organizzata una forte resistenza, grazie ad una mitragliatrice lì strategicamente installata. La notizia dell'attacco si diffonde rapidamente, in meno di due ore sono sorte barricate per tutta la città. Non è una reazione spontanea della classe operaia, ma frutto dell'iniziativa presa dai comitati di difesa che si avvera grazie al diffuso malcontento causato dalla carestia.
4 maggio 1937: scontri in tutta la città, nel quartiere di Sants 400 guardie vengono disarmate, Companys chiede aerei al governo di Valencia per bombardare gli edifici sede della CNT. Le batterie di artiglieria di Montjuic ed el Tibidabo, controllate dalla CNT, puntano i cannoni sul palazzo della Generalitat. La burocrazia della CNT cerca di convincere le divisioni comandate da Máximo Franco (membro de Los Amigos de Durruti) e da José Rovira (del POUM) a desistere dal voler marciare su Barcellona. Alle sette della sera, nel palazzo sequestrato dal POUM, si riuniscono Jaime Balius, Pablo Ruiz, Eleuterio Roig e Félix Martí, in rappresentanza de Los Amigos de Durruti, insieme a "Julián Gorkin", Andrés Nin e Juan Andrade, come rappresentanti del Comitato esecutivo del POUM. Analizzano la situazione e la posizione della CNT, e pervengono alla decisione di proporre una "ritirata ordinata ed armata" di quelli che combattono sulle barricate. Alle nove di sera la radio della Generalitat trasmette l'appello dei leader delle varie organizzazioni (Garcia Olive per la CNT) a far cessare il conflitto
5 maggio 1937: Los Amigos de Durruti distribuiscono un volantino. La CNT, per radio, sconfessa il gruppo Los Amigos de Durruti. Si combatte solo nel centro della città: il resto della città è in mano ai comitati di difesa. Alle tre del pomeriggio la radio della Generalitat emette un nuovo appello alla pace da parte dei leader delle varie organizzazioni (Federica Montseny per la CNT). Muore Domingo Ascaso. Berneri e Barbieri vengono arrestati da guardie e militanti dell'UGT: i loro cadaveri verranno ritrovati il giorno dopo in una strada vicino al palazzo della Generalitat, con evidenti segni di tortura.
6 maggio 1937: su La Batalla viene riprodotto il volantino de Los Amigos de Durruti, nello stesso numero, La Batalla fa un appello agli operai a lasciare le barricate. Solidarid Obrera sconfessa il volantino de Los Amigos de Durruti.
7 maggio 1937: La Batalla ripete il suo appello, subordinandolo al ritiro della forza pubblica e a mantenere le armi. I trasporti riprendono e ha luogo una certa normalizzazione. Alle nove di sera arrivano a Barcellona le guardie d'assalto inviate dal governo di Valencia. Companys cede a loro il controllo dell'ordine pubblico.
8 maggio 1937: si smantellano le barricate. Los Amigos de Durruti stampano e affiggono un manifesto dove si parla del "tradimento" dei dirigenti della CNT.
9 maggio 1937: Solidaridad Obrera definisce il manifesto, demagogico e i membri del gruppo Los Amigos de Durruti, come dei provocatori.
17 maggio 1937: Negrin sostituisce Largo Caballero a capo del governo. Il comitato regionale dell'UGT della Catalogna esige l'espulsione di tutti i membri del POUM e preme perché la CNT faccia lo stesso con Los Amigos de Durruti.
19 maggio 1937: appare il primo numero de El Amigo del Pueblo, organo de Los Amigos de Durruti, con grandi spazi bianchi dovuti alla censura.
22 maggio 1937: Riunione del plenum delle federazioni locali e regionali della CNT, nel corso della quale viene proposta l'espulsione de Los Amigos de Durruti. Viene dimissionato Bruno Lladó Roca, consigliere e delegato commerciale del ministero dell'economia della Generalidad, per aver esposto nel suo ufficio un manifesto de Los Amigos de Durruti.
26 maggio 1937: Appare, senza passare per la censura, il secondo numero de El Amigo del Pueblo. Balius viene arrestato in quanto direttore di una pubblicazione clandestina.
28 maggio 1937: viene chiuso La Batalla, insieme alla radio del POUM. Chiusa la sede de Los Amigos de Durruti sulle Ramblas. Sulla prima pagina di Solidaridad Obrera si esige l'espulsione dalla CNT de Los Amigos de Durruti.
6 giugno 1937: vengono sciolte le Pattuglie di Controllo.
16 giugno 1937: arresto di tutti i membri del Comitato Esecutivo del POUM. Messa fuorilegge del POUM e persecuzione di tutti i suoi militanti.
22/24 giugno 1937: sequestro e assassinio, da parte della polizia segreta sovietica, di Andrés Nin, segretario del POUM.
10 agosto 1937: il governo scioglie con la forza il Consiglio di Aragona.
20 settembre 1937: Forze di polizia e stalinisti assaltano, con bombe, mitragliatrici e carri armati, l'edificio de Los Escolapios, sede del Sindacato di Alimentazione della CNT e del Comitato Rivoluzionario del Barrio del Centro. Era l'ultimo rimasto. I comitati di difesa entrano in clandestinità.
3 ottobre 1937: esce il 1° numero di Alerta, organo dei comitati di difesa clandestini. Vi si denunciano le torture staliniste, in carcere, nei confronti degli arrestati e la liquidazione della CNT in contee come quelle di Cerdaña e di Tierras del Ebro. Del giornale, verranno pubblicati sette numeri, fino al dicembre 1937.
30 ottobre/ 1° novembre 1937: Congresso dell'Unione Anarchica francese, nel corso del quale i dissidenti Mercier-Vega, Carpentier, Feuillade e Guyard si scontrano con una maggioranza che esprime totale solidarietà agli anarchici spagnoli favorevoli a collaborare col governo borghese.
Nel 1938, i Comitati di Difesa, così come tutti rivoluzionari, stavano già sottoterra, in carcere o in clandestinità. Non fu la dittatura di Franco, ma la Repubblica di Negrin a farla finita con la Rivoluzione!

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6 - I principali contributi teorici de Los Amigos de Durruti si possono riassumere:
1
- La necessità di un programma rivoluzionario, chiaro e preciso, difeso con i fucili. Tutto il potere economico gestito dai sindacati.
2 - Le rivoluzioni, o sono totalitarie o falliscono. Totalitario significa che coprono tutti i campi: politico, sociale, economico, culturale. Va preso atto dell'inevitabile repressione violenta da parte della controrivoluzione borghese e la necessità di una direzione rivoluzionaria.
3 - La sostituzione del governo della Generalitat con una Giunta Rivoluzionaria, intesa come organismo rivoluzionario unitario della classe operaia, opposto alla collaborazione fra le classi, senza partecipazione né della borghesia né degli stalinisti, e fuori dalle strutture statali.
Il tradizionale apoliticismo anarchico fece sì che la CNT mancasse di una teoria della rivoluzione. Senza teoria non si dà rivoluzione, e non prendere il potere significò lasciarlo nelle mani dello stato capitalista. Il Comitato Centrale delle Milizie antifascista fu solo un organo di collaborazione di classe e servì solamente a puntellare e rafforzare lo stato borghese, che non si era voluto o saputo distruggere. Da qui la necessità, sostenuta da Los Amigos de Durruti, di costituire una Giunta Rivoluzionaria, capace di coordinare, centralizzare e rafforzare il potere dei tanti comitati operai, locali, di difesa, di impresa, miliziani, ecc., che furono gli unici detentori del potere fra il 19 luglio ed il 26 settembre del 1936. Un potere atomizzato in molteplici comitati che detenevano localmente tutto il potere ma che - non federati, centralizzati e rafforzati -  vennero incanalati, indeboliti e trasformati dal Comitato Centrale delle Milizie Antifasciste in direzioni di imprese sindacalizzate e in battaglioni di un esercito repubblicano. Senza la distruzione totale dello stato capitalista, le giornate rivoluzionarie del luglio '36 non potevano aprire la strada ad una nuova struttura di potere operaio. La degenerazione ed il fallimento del processo rivoluzionario era inevitabile. Tuttavia, il confronto e lo scontro fra l'anarchismo riformista e di stato della CNT-FAI e l'anarchismo rivoluzionario de Los Amigos de Durruti non ebbe la forza di provocare una scissione che avrebbe chiarito le posizioni antagoniste.

Conclusioni
1
-Nel luglio 1936, la questione essenziale non era prendere il potere (da parte di una minoranza di dirigenti anarchici), ma coordinare, promuovere e portare a termine la distruzione dello stato, da parte dei comitati. I comitati rivoluzionari di quartiere (ed alcuni comitati locali) non facevano né dovevano fare la rivoluzione: erano la rivoluzione sociale! La distruzione dello stato, da parte dei comitati rivoluzionari, era un compito concreto e reale, in cui questi comitati assumevano tutte le attività che erano dello stato prima del luglio del '36. Era questa la grande lezione della rivoluzione del 1936: la necessità di distruggere lo stato!
2-Nel corso della guerra civile, il progetto politico dell'anarchismo di stato, costituito come un partito antifascista ma utilizzando un metodo di collaborazione fra le classi e di partecipazione governativa, organizzato burocraticamente con l'obiettivo principale di vincere la guerra contro il fascismo, fallì clamorosamente su tutti i terreni. Però, il movimento sociale dell'anarchismo rivoluzionario, organizzato in comitati rivoluzionari di quartiere, locali, di controllo operaio, di difesa, ecc., costituì l'embrione di un potere operaio che arrivò alla gestione economica e concretizzò iniziative popolari rivoluzionarie e di autonomia proletaria che ancora oggi illuminano e annunciano un futuro radicalmente diverso da quello della barbarie capitalista, dall'orrore fascista, dalla schiavitù stalinista. Ed anche se l'anarchismo rivoluzionario dovette alla fine soccombere alla repressione coordinata dello stato, della borghesia, degli stalinisti e dei comitati superiori della CNT, è rimasto l'esempio, la riflessione e la lotta di alcune minoranze, come Los Amigos de Durruti, la Gioventù Libertaria della Catalogna ed alcuni gruppi anarchici della federazione locale di Barcellona che, oggi, ci permettono di teorizzare sulle loro esperienze, di imparare dai loro errori e di rivendicare la loro lotta e loro storia.

martedì 25 febbraio 2014

Incretinimento manipolato

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Karl Kraus e il mercato dell’idiozia
di Italo A. Chiusano

Sentite questa notizia giornalistica: “Venne portata morente all' ospedale, dove diede vita ad un bambino morto”. Karl Kraus (1874-1936), il furioso e lucidissimo letterato viennese che per trentasette anni (1899-1936) tenne una specie di giudizio universale contro tutto e contro tutti sulla sua rivista Die Fackel (La fiaccola), non si lascia sfuggire una tal perla stilistica. Noi potremmo anche parlare delle scemenze geniali di Achille Campanile, delle assurdità clownesche di Ionesco. Ma Kraus era a modo suo troppo serio, troppo moralista per non vedere, anche in un fiore di questo tipo, un segno di quell'incretinimento manipolato (si era allora nel 1912) che presto avrebbe portato alla catastrofe. Per lui ne erano colpevoli quasi tutti: monarchi, generali, aristocratici, banchieri, industriali, commercianti, borghesoni e borghesucci, filistei e travet, e poi le due dannate genìe degli intellettuali pennivendoli (cioè la grande maggioranza) e dei giornalisti (tutti, senza quasi eccezioni).
Nel 1914 i nodi sarebbero venuti al pettine; il Fato avrebbe tirato con mani di ferro e la testa dell'Europa sarebbe stata scotennata. E' allora che Kraus può citare un'altra perla. Non subito, ma dopo che il bagno di sangue sarà finito (fino a quando?) e si potranno tirare certe somme. Hermann Bahr, letterato e operatore culturale (ma allora non si diceva certo così) era stato un benemerito promotore di giovani talenti e aveva anche commentato e illustrato le varie correnti culturali del tempo, dal naturalismo all' espressionismo. Kraus gli era stato amico, poi non più. Ora nell'Europa post-apocalittica (o pre-apocalittica) del 1925, egli tira fuori un libro che Bahr aveva pubblicato sul finire del 1914. Era intitolato Benedizione della guerra ed era tutto un inno a quella grande fucina di sangue e di fuoco da cui sarebbe uscita un'Europa germanizzata, cioè migliore. Bahr vi faceva dell'ironia contro certi profeti che all'inizio del conflitto avevano previsto i peggiori sfracelli. Avevano predetto la Comune nelle città tedesche, la rivolta slava in Austria, la rivoluzione in Russia...  (…)
Dunque, due assaggi, e già abbiamo preso contatto col Kraus della “Fackel”. La messa alla berlina dei contemporanei, specie giornalisti e scrittori di mediocre livello e di scarsa tenuta etica, attraverso le citazioni testuali delle cose da loro dette e scritte: un vero e proprio metodo di montaggio smascherante che Kraus manipolerà sempre da maestro. Poi la simbiosi, in lui, tra una serietà feroce, giacobina o savonaroliana, la serietà dell'apostolo eretico e dell'illuminista aggressivo che così spesso si sposa, con effetti alla Buster Keaton, a una comicità grottesca talvolta assolutamente irresistibile. Ancora: la pignolaggine fiscale applicata all'auscultazione e vivisezione del linguaggio, sua vera e intramontabile passione, una passione che lo fece ammutolire solo poche volte (la più grave, una vera afasia patologica e quasi mortuaria, di fronte allo sconcio del regime hitleriano), ma che in genere lo spingeva invece ad alluvioni di parole: invettive beffe accuse caricature maledizioni bassezze invocazioni. Una forma di ripetitività ad alto voltaggio, di querimonia e di sproloquio di un' epica apertura alare e con un tasso di lucidità e affilatezza critica che lo redime quasi sempre dalla bassura del mugugno nostalgico e passatista (lui che pure nostalgico e passatista lo era spesso, mentre al contrario nonostante il suo frenetico rifiuto della società contemporanea di slancio politico-rivoluzionario non ne ebbe mai).
Di Kraus gli italiani hanno finalmente potuto leggere quella che resta la sua opera maggiore, cioè lo sterminato dramma-poema-libello intitolato Gli ultimi giorni dell' umanità (Adelphi, 1980). Ora, tra le migliaia di pagine che riempiono i 39 (nel reprint, 12) volumi delle due edizioni postume della “Fackel” (1968-73 e 1977), Michele Cometa, autore anche di una penetrante e molto densa prefazione ha raccolto una silloge di 35 pezzi (dal 1908 al 1931) intitolata Elogio della vita a rovescio (Studio Tesi, pagg. XLIV-150, lire 20.000). La sventagliata è ampia, e va dalla battuta in due righe al piccolo saggio che, data l'intensità delle cose dette, sembra quasi una monografia.
Allo stile e all'animus di Kraus bisogna abituarsi. A volte risulta quasi odioso, ad esempio quando attacca un regista geniale e innovatore come Max Reinhardt, qualunque cosa faccia o non faccia, per puro rigetto personale; o quando un indubbio snobismo culturale gli fa disprezzare qualcuno non tanto per le idee che manifesta, quanto per lo stile sciatto con cui lo fa o quel po' di vanagloria che dimostra (si veda l'irrisione contro la moglie di Jakob Wassermann, comprensibilmente fiera del grand'uomo che le vive accanto). Così è sacrosanta la collera di Kraus contro un giornalista che, non avendo ottenuto un'intervista da Eleonora Duse, se ne vendica chiamandola una donnetta. Ma ci sembra poco democratico che un uomo come lui, colpevole di ben altri insulti anche contro persone che non li meritavano, invochi il Parlamento e la polizia, in toni altamente drammatici, per impedire simili sconci.
Ma lasciamo da parte le ingiustizie e gl'isterismi di Kraus, che irritano anche i suoi estimatori più accesi. Punti alti o altissimi della sua vena tra polemica e critica, con momenti di vera poesia e di struggente interiorità, sono il suo modo surreale di immaginare la società nelle ore notturne, quando il giornale non funge più da specchio abbrutente della realtà quotidiana (il pezzo intitolato appunto Elogio della vita a rovescio); la cavalcata folle e insieme ragionatissima attraverso quel mercato dell'idiozia lucrosa che è Il mondo della pubblicità (gli spot televisivi attuali, povero Kraus, lo avrebbero sicuramente fatto impazzire); il dickensiano o gogoliano pezzo La pelliccia di castoro, in cui Kraus si sente al centro dell'attenzione universale solo per aver perso un cappotto di pregio; la spietata ma divertentissima satira delle incommensurabili frescaggini di cui il giornalismo nazionale si occupa per giorni settimane mesi (Il tono); la vibrata e nondimeno spassosa indignazione che gl'ispira, in tempo di guerra, la sanguinaria idiozia dei temi patriottici assegnati nelle scuole (Risparmiate i bambini!); l'odio pretto, più ancora che il disprezzo, col quale risponde a una proprietaria terriera che si era permessa di fare dell'ironia su un'umanissima lettera di Rosa Luxemburg caratterizzata da forti venature zoofile (Una donna priva di sentimentalismo...); il duello a distanza (siamo ormai nel 1924) tra Kraus e Francesco Giuseppe, quando l' autore scopre che l'ex imperatore, durante la guerra, non aveva mai sperato nella vittoria, pur continuando a chiedere ai suoi sudditi il sacrificio in massa delle loro povere vite... (…)
Cerchi dunque ciascuno i momenti in cui può entrare in più vibrante sintonia con Karl Kraus. Non è un' esperienza che ci lasci come prima.

Italo A. Chiusano da "la Repubblica” del 25 agosto 1988

lunedì 24 febbraio 2014

Il rifiuto di sé

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Il mistero di Traven - di Italo A. Chiusano

Bisogna che il nostro secolo si rassegni: non è così carcerariamente ben organizzato come s'illude. Può, sì, renderci la vita quasi irrespirabile a forza di scartoffie, fotografie formato tessera, impronte digitali, fatture Iva, dichiarazioni in triplice copia, fedine penali, cartelle cliniche, porto d'armi, atti di nascita, certificati di battesimo, di matrimonio, di vaccinazione, di residenza, di buona condotta, di servizio militare, di sesso, di gruppo sanguigno e di morte. Può, sì, darci l'impressione che nemmeno un sospiro, di noi, sfugga alle autorità statali, regionali, comunali, rionali, civili e religiose, nazionali e multinazionali. Ma ci sono ancora ampi squarci in questa ragnatela d'acciaio percorsa da corrente elettrica ad alto voltaggio. Purtroppo non ne sappiamo approfittare. Dovremmo prendere esempio da un uomo che è riuscito a mimetizzarsi alla maniera di un calamaro che si spande intorno una nube color inchiostro: quello scrittore misterioso che firma i suoi libri B. Traven. Fa quasi rabbia. E' mai possibile che mentre noi siamo sempre seguiti da mille riflettori in ogni azione della nostra vita, costui riesca a tenerci ancora oggi in sospetto su chi sia realmente e, cosa ancor più madornale trattandosi di uno scrittore, in che lingua abbia composto i suoi romanzi? Arrivavano in Germania, negli anni Venti, in lingua tedesca. Poi è stato affermato che l'autore li scriveva in inglese, anzi in americano, e li faceva tradurre in tedesco per pubblicarli in Germania, presso una casa editrice socialista, perché la censura tedesca (allora!) era assai più permissiva di quella statunitense. Ma quest'autore chi è? Le possibilità sono almeno otto. Due addirittura fantascientifiche: Jack London, che nel 1916 avrebbe messo in scena il proprio suicidio per rifugiarsi in Messico ed evadere il fisco; o — qui cambia addirittura il sesso — una giornalista messicana. Un'altra ipotesi è di un patetico orroroso da melò: Traven è un lebbroso che si nasconde in qualche villaggio d'indiani, sempre nel Messico, sua indubbia terra d'arrivo. Una sa di romanzo a fumetti, con risvolti dinastici tenebrosi: Traven è figlio naturale di Guglielmo II, il Kaiser dai baffi a manubrio. Due sono altamente politiche, nascono dal ventre infocato della rivoluzione d'ottobre: è un ex agente di Stalin; no, al contrario, è un trozkista che si nascondeva da Stalin. Una è meno colorita, ma con note di verosimiglianza: marinaio, marinaio tedesco, anzi amburghese.
Resta l'ultima, la più probabile, quella quasi certa. Traven sarebbe un socialista anarchico tedesco, forse di Monaco, di nome Ret Marut, ma che firmava anche, più distesamente, Richard Maurhut. Forse è davvero un figlio illegittimo del Kaiser e di una cantante norvegese. Certo, nonostante le sue idee sovversive, la polizia tedesca lo tratta coi guanti: gli cambia la nazionalità inglese in americana quando lui ne fa richiesta, non censura né requisisce mai il giornaletto anarchico e anticapitalista da lui stampato, gli lascia mettere in salvo i documenti e poi anche prendere la via della fuga quando, nel 1919, la repubblica dei consigli bavarese viene stroncata. E poi? Poi l'esilio, il Messico, gli pseudonimi (Torsvan, Croves nella vita privata; B. Traven come autore), le donne, infine la moglie, Rosa Falena Lujan, messicana, che nel 1966 racconta finalmente questa storia, che sembra quella buona.

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Ma è poi vero? E' proprio Ret Marut quel signor Torsvan che muore di cancro a Città del Messico il 26 marzo 1969, ultraottantenne? E si identifica veramente con B. Traven? E come mai, ammesso che B. Traven sia Ret Marut, di questo Marut non si hanno notizie fino al 1908, quando doveva avere già ventisei anni? Che ha fatto prima? Dove l'hanno tenuto? Sembra il mistero di Raspar Hauser: solo che Raspar Hauser non ha scritto libri, e tanti, e per così lungo tempo. Insomma, prima ancora dell'autore, si vorrebbe applaudire il re dell'anonimo, il disperditore di tracce, il fuggiasco, 1'uomo mascherato, che continua a lasciare con un palmo di naso i nostri investigatori, giornalisti, uffici anagrafici, poliziotti, critici letterari, computer e ispettori fiscali. E' un po' come la lingua etrusca. Ogni tanti anni spunta qualcuno che giura di averla decifrata. Poi continuiamo a brancolare tra le ipotesi. Bello, il mistero. Ma anche stancante. E a un certo punto si vorrebbe stringere qualcosa di più solido.
Per fortuna, nel caso di Traven qualcosa di solido c'è, e sono le sue opere, chiunque le abbia scritte, e in qualunque lingua. Leggiamocele anche solo in italiano. La casa editrice Longanesi se n'è fatta da anni la banditrice. Ora, nella collana «La gaja scienza», ci rimette tra le mani Il tesoro della Sierra Madre (traduzione di Teresa Pintacuda), noto anche per uno splendido film di John Huston, con un devastato Humphrey Bogart e — impagabile vecchio — il padre del regista, Walter Huston.
Quello che mi ha sempre colpito, in questo romanzo, è la «nobilitazione del pretesto». La storia di tre cercatori d'oro, la suspense del tesoro da trovare, da portare a casa tra mille pericoli, le lotte feroci che scoppiano fra i tre. Niente di più western, albo per la gioventù, fumetto per soldati, Salgari e Karl May in edizione messicana. E invece personaggi, paesaggio, vicenda, tutto ha in Traven una tensione rozza ma irresistibile, con un'intensità anche fisica di sensazioni, una tortura anche morale di scelte che è della buona letteratura.
E il «messaggio»? Accidenti se c'è, e a sentirlo enunciare tra intellettuali si reagisce con un sorrisetto imbarazzato. State a sentire: la maledizione dell'oro, l'avidità di ricchezza che corrompe e fa impazzire, che spezza amicizie e genera morte. Non si vergogna il signor Traven? Per farci accettare una morale così ovvia ci vuole almeno una macchina mitico-magica come L’Anello del Nibelungo di quel drittone di Wagner o il balletto straccione e surreale che sa darci, parodisticamente, Charlie Chaplin nella Febbre dell'oro. E invece Traven non si vergogna per niente, e fa bene. Serio serio, più vicino alla tragedia greca di quanto non paia, e comunque lontanissimo sia dai simbolismi wagneriani che dalle estrosità chaplinesche, ci «predica» il suo messaggio col candore brutale di un primitivo, come se questa verità da quattro soldi (o da quattro pepite) l'avesse scoperta lui. E ci azzecca, sì, ci azzecca come una pistolettata in mezzo agli occhi. Vorremmo sorridere, e siamo presi alla gola; vorremmo fare gli scettici, e ci sentiamo intimiditi come cuccioli; vorremmo ricordare altre lezioni più furbe della sua, e per alcuni giorni ricordiamo solo lui, il sudore dei suoi eroi, quel caldo e quegli insetti, quella paura e quell'odio. Polso da vero scrittore, si diceva una volta. Mi sento di ripeterlo anche adesso.

- Italo A. Chiusano -su "la Repubblica", 1981 -

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domenica 23 febbraio 2014

Vita quotidiana

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1852-53
Rapporto informativo della polizia prussiana da Londra

Il capo di questo partito (dei comunisti) è Karl Marx; i sottocapi sono Friedrich Engels a Manchester, Freiligrath e Wolff (detto Lupus) a Londra, Heine a Parigi, Weydemeyer e Cluss in America; Burgers e Daniels lo erano a Colonia, Weerth lo era ad Amburgo. A parte costoro, tutti gli altri sono dei semplici gregari. Ma la mente attiva e creatrice, la vera anima del partito è Marx; perciò voglio informarLa anche della sua personalità.
Marx è di media statura; ha trentaquattro anni; malgrado l'età, i suoi capelli sono già grigi; la sua corporatura è vigorosa; i tratti del volto ricordano notevolmente quelli di Szemere (un rivoluzionario ungherese), a parte il colorito più scuro e i capelli e la barba nerissimi; porta la barba completa; i suoi occhi grandi, focosi e penetranti, hanno qualcosa di sinistro, di demoniaco. Tuttavia si nota in lui al primo sguardo l'uomo di genio e di energia. La sua superiorità intellettuale esercita un'influenza irresistibile su chi lo circonda. Nella vita privata è estremamente disordinato e cinico; è un pessimo amministratore, e conduce una vera esistenza da zingaro. Lavarsi, pettinarsi, cambiare la biancheria sono per lui delle rarità; alza volentieri il gomito. Spesso se ne sta tutto il giorno stravaccato, ma se ha molto da fare lavora giorno e notte con una resistenza inesauribile; il sonno e la veglia non sono distribuiti nella sua vita in modo regolare; molto spesso rimane sveglio tutta la notte, poi verso mezzogiorno si getta vestito sul canapè e dorme fino a sera, senza preoccuparsi di chi gli gira intorno, in quella casa in cui tutti vanno e vengono liberamente.
Sua moglie, la sorella del ministro prussiano von Westphalen, è una signora colta e gradevole, che per amore del marito si è abituata a una vita zingaresca e ora si sente perfettamente a suo agio in quella miseria. Ha due bambine e un bambino, tutti molto belli e con gli stessi occhi intelligenti del padre.
Come marito e padre di famiglia Marx, a dispetto del suo carattere altrimenti irrequieto e violento, è l'uomo più tenero e mansueto di questo mondo. Marx abita in uno dei peggiori quartieri di Londra, e di conseguenza anche dei più economici. Occupa due stanze; quella che guarda sulla strada è il salotto, quella che dà sul retro è la camera da letto. In tutta la casa non si trova un mobile pulito e in buono stato; tutto è rovinato, logoro, a pezzi, ricoperto da uno strato di polvere spesso un dito dappertutto regna il massimo disordine. In mezzo al salotto si trova un grande tavolo di età veneranda, ricoperto da uno spesso strato di cera mai rimossa. Su di esso si ammonticchiano i manoscritti, i libri e i giornali di Marx, i giocattoli dei bambini, i lavori di rammendo della moglie, tazze di tè dagli orli sbreccati, cucchiai sporchi, coltelli, forchette, candelieri, calamai, bicchieri, pipe di terracotta olandesi, cenere di tabacco, tutto gettato alla rinfusa su quell'unico tavolo.
Quando si entra in casa di Marx il fumo del carbone e del tabacco è così denso che al primo momento si brancola come in una spelonca; poi, a poco a poco, lo sguardo si abitua al fumo, e si comincia a scorgere qualche oggetto, come attraverso una nebbia. Tutto è sporco e ricoperto di polvere, sedersi è veramente un'impresa pericolosa. Qui una sedia si regge solo più su tre gambe, là i bambini giocano alla cucina su un'altra sedia, casualmente rimasta intera. Naturalmente la sedia intera viene offerta al visitatore, ma senza ripulirla dalla cucina dei bambini, e chi si siede rischia un paio di pantaloni. Ma tutto ciò non procura a Marx e a sua moglie il minimo imbarazzo. L'accoglienza è la più amichevole; la pipa, il tabacco e tutto quello che si trova in casa viene offerto con la massima cordialità. Una conversazione intelligente e piacevole sopperisce finalmente alle deficienze domestiche, rendendo tollerabile ciò che al primo impatto era solo sgradevole. Allora ci si può perfino riconciliare con la compagnia, e trovar l'ambiente interessante e originale. Ecco il ritratto fedele della vita familiare di Marx, il capo dei comunisti.


Da "Colloqui con Marx ed Engels" (a cura di Hans Magnus Enzensberger), Einaudi, 1977, pagg. 206/207

sabato 22 febbraio 2014

un uomo

pellicer cimitero paterna

Cimitero di Paterna, una località vicino Valencia, tranquilla e accogliente. Un monumento ricorda come nella fossa comune siano sepolti i 2.237 uomini che i fascisti fucilarono  nella capitale del Levante e nelle piazze dei tanti ‘pueblos’ che le facevano corona. Le tombe sono di marmo o in ceramica, decorate a volte con conchiglie marine. Alcune tra di esse sono soltanto segnate da un piccolo monticello di terra con un numero e qualche fiore, o una piccola scultura. I nomi dei defunti, a volte sono scritti a mano, sulla croce, in una cornice di ceramica decorata a colori vivaci. E’ un cimitero pieno di leggende come quella che ancora oggi si racconta di ‘El manco della Pesquera’. Un maquisard che in realtà si chiamava Basilio Serrano, fucilato nel 1955 perché faceva parte della ‘Agrupacion Guerrillera de Levante e Aragona’ e che le ballate popolari volevano che per anni avesse rubato ai ricchi per dare ai poveri. Nella parte nuova del cimitero, una scritta sul marmo di una tomba ricorda che: "Solo l’azione tenace per la ricerca della verità nobilita l’esistenza", mentre un uomo dall’espressione ironica ed intelligente con sottili baffetti neri perfettamente curati, la fronte alta - un po’ troppo forse per un uomo di neanche trenta anni - ed una camicia bianca sbottonata sul collo, guarda diritto davanti a sé da una fotografia.

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E’ questa una delle due foto che di lui si conosce, la prima a sinistra. L’altra immagine, quella in mezzo, è un dipinto che la figlia Coral ospita in un appartamento stracolmo di libri, ritagli di giornali, foto, fotocopie di documenti, e lettere che le arrivano da ogni parte del mondo. Chiunque le scrive, sempre sottolinea il coraggio e la dirittura morale di suo padre. Nel quadro che campeggia su un muro, con un passpartout bianco e una sottile cornice nera, l’uomo porta la barba , è elegante in giacca, camicia e cravatta di seta. Guarda verso sinistra e nell’insieme assomiglia a un grande di Spagna di un dipinto di Velazquez. L’uomo parlava quattro lingue, compreso l’esperanto, aveva vissuto a Parigi, in Marocco ed in Belgio. Ferito due volte in combattimento, incarcerato dai comunisti, era stato tante cose: disertore, intellettuale, anarchico, uomo ‘d’azione’, liberatore di prigionieri e sindacalista. Soprattutto era stato il fondatore della ‘Columna de Hierro’, la più denigrata e maledetta tra tutte le colonne anarchiche che parteciparono alla rivoluzione di Spagna tra il 1936 e il 1939 e che arrivò a contare più di 20.000 tra uomini e donne. José Pellicer Gandia - così si chiamava l’uomo - era nato  a Grao de Valencia nel 1912, da una  famiglia appartenente all’alta borghesia valenciana. Suo nonno Vicente aveva infatti fondato la Bodega Castillo de Liria ,una delle più importanti aziende della città, all’interno della quale, lui appena adolescente, aveva scatenato uno sciopero. Responsabile ad appena diciannove anni dell’Ateneo Libertario di Valencia, disertore a Parigi, appena rientrato in Spagna viene incarcerato nel penale di Llieda e poi trasferito ad un reggimento. Nel 1934, nella caserma del Carmen a Marnresa, organizza un gruppo di soldati che si solleva durante lo sciopero insurrezionale di ottobre. Giudicato da un tribunale militare e condannato alla deportazione, viene letteralmente strappato via, dall’avvocato Antonio Reina Gandia, dalla nave che lo doveva portare a Villa Cisneros. Fino al 19 luglio non fa altro che entrare e uscire dalla prigione. Forse partecipa a delle rapine in banca, sicuramente progetta e scava un tunnel che fa scappare molti compagni dal carcere dove sono stati rinchiusi. Non appena l’esercito si solleva, con appena  un centinaio di uomini armati dei pochi fucili rinvenuti all’interno della caserma Alameda di Valencia, e assieme a Rafael ‘Pancho Villa’, Rodilla, Segarra, Paco Mares, Elias Manzanera e Joaquin Canet dà battaglia a Sarrion, Puerto Escandon, e respinge i soldati fin quasi alla periferia di Teruel. E’ a partire da questo momento che il suo nome, come quello di Maximo Franco e di Francisco Maroto, comincia a circolare all’interno del movimento, come uno di quelli tra i più conosciuti e stimati comandanti delle milizie che si battono contro l’esercito di Franco. Quasi sempre Pellicer viene chiamato il ‘Durruti di Valencia’. Ma Pellicer non aveva nulla dell’"eroe proletario". Altri della Colonna di Ferro avrebbero potuto esserlo. Lui era colto, teoricamente preparato, aveva idee molto chiare cui era in grado di dare un’espressione coerente ed incisiva. Aiutato dalla sua alta statura - era praticamente un gigante per quei tempi - quando parlava usava uno stile secco ed incisivo, tanto diverso dall’enfasi retorica che spesso caratterizza gli spagnoli, specie quando parlano in pubblico. Non è certo un caso che il carattere che i due impressero alle rispettive colonne che ebbero in sorte di comandare sia stato quasi opposto. La democrazia combattente era in secondo piano a Bujaraloz, mentre era la cosa più importante nella Puebla de Valverde, e nella ‘Linea del Fuego’ la visione anarchica è molto più accentuata di quanto lo sia negli articoli che appaiono su ‘El Frente’.

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La Columna de Hierro fu infatti allo stesso tempo reparto da combattimento e organizzazione rivoluzionaria. Pubblicò un giornale, distribuì manifesti,lanciò comunicati per spiegare agli operai e ai contadini tutto quello che faceva. Fu questa la sua particolarità. Le parole di José Pellicer sulla inscindibilità tra la guerra e la rivoluzione sono affilate come il rasoio, il suo disprezzo per l’entrata degli anarchici nella Generalitat catalana prima, e nel governo di Largo Caballero subito dopo, era assoluto e totale. La storia della vita e delle azioni degli uomini e delle donne che come Pellicer lottarono per la liberazione integrale dell’uomo, sono state dimenticate anche da coloro che le avrebbero dovute tener presenti come parte integrante della memoria. Come scrive Miguel Amoros, "I libertari di oggi hanno una scarsa attenzione per i loro eroi, ad eccezione della deplorevole santificazione di Durruti. Impegnati a fare di lui un mito, finirono per uccidere il rivoluzionario". Tutti coloro che conobbero Pellicer, e condivisero le sue idee e i suoi obiettivi, gli hanno riconosciuto una dimensione umana inusuale, unita ad un disinteresse personale e ad una profonda umiltà: altrimenti quegli uomini che non riconoscevano autorità alcuna, non sarebbero mai andati assieme a lui. La Columna de Hierro insegnò la dignità ai galeotti che aveva liberato dal Penal di San Miguel de los Reyes, e mostrò loro cosa significasse essere uomini liberi. La prima esperienza di comunismo libertario ebbe luogo nel fuoco dei combattimenti e nelle immediate retrovie che la Columna de Hierro controllava. Il fatto  che José Pellicer risulti ancora oggi indigesto a molti anarchici proviene dal fatto che la sua integrità e il suo sacrifico rendono ancora più sconcertanti le ambizioni, e più vergognosa ancora la capitolazione, di molti. La tendenza rivoluzionaria dei tanti Pellicer si dissanguò sui vari fronti, con sempre poche armi e poche munizioni  a disposizione. Le spedizioni della Columna de Hierro in cerca di armi nelle caserme della Guardia Civil e della nuova Guardia Popular, per non parlare degli archivi bruciati, o degli assalti ai tribunali, erano un pugno nell’occhio dei dirigenti della CNT. E le critiche di Pellicer e Segarra contro il vergognoso abbandono di Madrid assediata, e la fuga del governo a Valencia, bruciavano come sale sulle ferite. La Colonna non accettò la militarizzazione, e di conseguenze le cominciarono subito a mancare munizioni, fucili ed artiglieria, per non parlare della copertura aerea che mai ricevette durante gli assalti. Così José andò a Parigi prima e a Bruxelles poi, alla disperata ricerca di armi e di munizioni per la colonna. A complicare le cose, un centinaio di miliziani, proprio mentre si stabilizzava il fronte di Teruel, lasciò la colonna e se ne andò nelle retrovie. Il comitato di guerra li considerò disertori, mentre Pellicer si rifiutò di andare al di là della loro espulsione pubblica dal reparto. Per lui infatti un anarchico non poteva mai esercitare, per nessuna ragione, violenza alcuna su un compagno. I dirigenti della CNT decisero allora di "lasciare soli i rivoluzionari davanti alla legalità repubblicana ricostruita e armata." Il risultato fu il massacro del 30 dicembre a Vinalesa, in Plaza de Tetuan, dove anche Pellicer rimase ferito; prefigurazione di quello che sarebbe successo nel maggio del 1937 nelle strade  e nelle piazze di Barcellona: trenta anarchici vennero assassinati, ed ottanta rimasero feriti, nel corso di una manifestazione di protesta. Fucilati dal ricostituito esercito repubblicano, senza che i rappresentati ‘ufficiali’ della CNT muovessero un dito per aiutarli. Anzi, i rivoluzionari si videro sottoposti dai loro stessi compagni a un vero e proprio linciaggio morale, quando in tanti sostennero che se essi avessero abbandonato il fronte per vendicarsi, avrebbero scatenato una guerra civile nel campo repubblicano, ed a quel punto i fascisti avrebbero vinto facilmente.

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Fu in un plenum delle colonne confederali convocato dalla Columna de Hierro, Pellicer ed i suoi si resero conto che contrari alle militarizzazione, oltre a loro stessi, erano soltanto la ‘Tierra y Libertad’ e la 4° ‘Agrupacion della Durruti’, mentre tutte le altre colonne si erano piegate alle ‘circostanze’; la formula che avevano inventato Garcia Oliver, Federica Montseny e molti altri dirigenti della CNT,  per cercare di spiegare il loro cedimento, ponendo agli uomini che combattevano sui vari fonti il consueto ricatto: ‘adeguarsi o scomparire’. In una tumultuosa riunione, alla fine Pellicer sostenne che la decisione doveva essere presa da un’assemblea. Per parteciparvi, la colonna venne sostituita sulla linea del fronte da altre unità confederali. A Valencia, in una grande assemblea, fu accettato di convertirsi in una brigata dell’Esercito Popolare, questa decisione fu presa mentre 92 membri della Columna de Hierro, fra cui il fratello di Pellicer, Pedro, erano ancora in carcere per i fatti di Vinalesa. Con la cassa della colonna venne fondato un settimanale, ‘Nosotros’, dotando così gli anarchici di Valencia di un organo di stampa proprio che poi divenne il punto di riferimento per tutti quei compagni che criticavano la svolta ‘ministerialista’ della CNT, gli opportunismi, i cedimenti,  ed anche i tradimenti, di tanti che per molto tempo erano stati accanto a loro. Il gruppo ‘Nosotros’ fu disconosciuto dai vertici della FAI. Malgrado le enormi pressioni, non divenne mai un giornale filogovernativo, neanche di un governo dove sedevano dei compagni conosciuti. Con un processo rapidissimo di degenerazione, i rivoluzionari vennero sostituiti dai burocrati, e vennero così costretti a 'rifugiarsi' nei sindacati e nelle unità da combattimento in attesa di giorni migliori. Giorni che non vennero mai. Pellicer, malgrado l’opposizione di molti, fu nominato comandante della 83.a Brigata, quella che era stata l’antica colonna di Ferro. Ferito alla fine di luglio sul fronte di Teruel, mentre si curava nelle retrovie venne arrestato dai comunisti con le solite infamanti accuse. Venne trasferito prima nella Checa di Valmajor, a Barcellona, poi sulla nave prigione Uruguay, ed infine rinchiuso nel castello del Montjuic. Uscì dal carcere nel 1938 per essere relegato al comando di un battaglione della 129.a Brigata. Dopo la caduta della Catalogna, invece di attraversare assieme a tanti altri i Pirenei, passò nella regione del Centro alla ricerca dei fratelli. Negli ultimi giorni di guerra, divise i mille dollari che aveva rinvenuto nella cassa del sindacato fra gli operai rimasti, affinché questi potessero riuscire a fuggire, e non tenne per sé nemmeno un centesimo. Poi arrivò ad Alicante, dove attese assieme a tanti altri l’arrivo delle navi che avrebbero dovuto portare in salvo quelle migliaia di uomini  e di donne in agonica attesa, e che non arrivarono mai. Alla fine riuscì a rintracciare i suoi due fratelli, ma era ormai troppo tardi per cercare di fuggire. Preso prigioniero dagli italiani, venne selvaggiamente torturato dai falangisti nelle segrete del castello di Santa Barbara. Varie volte lo misero al muro e fecero finta di fucilarlo. Non gli potevano perdonare di essere stato il comandante della ‘Columna de Hierro’, così decisero di ammazzarlo. Era l’8 di luglio del 1942, e quel giorno i fascisti lo portarono fin dentro al cimitero e lo misero contro il muro. Veniva fucilato assieme al fratello Pedro a cui era legato da un profondo affetto e con il quale aveva condiviso tutta quanta la sua avventura politica e umana e che non era riuscito a salvare. La raffica del plotone di esecuzione lo lasciò in piedi, e lui continuò a guardare fisso gli uomini che lo dovevano ammazzare, mentre il fratello agonizzava steso per terra. Allora l’ufficiale che aveva ordinato il fuoco si portò a pochi passi da José e gli sparò un solo colpo in piena fronte. Pellicer cadde al suolo e solo a quel punto l’ufficiale gli vuotò un intero caricatore nella schiena. Poi fu sepolto, mentre continuava a risuonare le scariche dei fucili dei plotoni di esecuzione che ammazzavano i tanti che, come lui, avevano osato ribellarsi.

fonte: di anarchici e anarchia

venerdì 21 febbraio 2014

al Gaslight

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"Guardandomi indietro, mi rendo conto che molta gente non capisce che all'inizio fu dura, per Bobby. Era giovane, era appena arrivato in città, aveva una voce particolarmente irritante e nessuno poteva sapere che sarebbe diventato BOB DYLAN. Era solo un ragazzino con una voce irritante. Sam Hood, che proprio in quel periodo prese in mano il Gaslight, insiste nel dire che lo usava soltanto nelle serate di pienone, per svuotare il locale. Sono certo quindi che l'esperienza di Bobby e i suoi ricordi di quel periodo sarebbero parecchio diversi dai miei, perché io almeno riuscivo a guadagnarmi da vivere. Lui suonava ovunque lo lasciassero suonare e accompagnava la gente con l'armonica e cose del genere, ma non è che ci fosse davvero del lavoro per lui. Scroccava da mangiare e dormiva sui divani degli altri, molto spesso sul mio."

- Dave Van Ronk - da "Manhattan Folk Story" (titolo originale: " The Mayor of MacDougal Street. A Memoir" )-

Kiev

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giovedì 20 febbraio 2014

Piccola storia fotografica dei cretini!

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Con l'invenzione della fotografia, ci siamo ritrovati con una possibilità in più, che i nostri antenati non avevano: quella di poter ammirare le facce e l'aspetto di persone che non hanno avuto alcun timore di voler passare alla storia, immortalati, come quello che sicuramente erano, degli autentici cretini. Certo, c'è da dire che la prima fotografia, ci priva in buona parte di un tale piacere, mostrandoci solo di spalle, i cinque protagonisti catturati in tutta la loro idiozia da un fotografo anonimo nel 1905, davanti al Quartier Generale, a Washington, dell' Associazione nazionale contro il suffragio femminile. Sono stati fortunati, non c'è che dire!

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Meno fortunato, è stato questo infelice, ritratto a Dublino novant'anni più tardi, e che magari non aveva alcun dubbio circa il fatto che le donne avessero diritto al voto. Quello che riteneva al momento, era il fatto che Dio stesse mettendo alla prova l'elettorato irlandese, il quale, se avesse votato diversamente dalle aspettative dell'essere supremo, sarebbe stato sicuramente - a scelta - sprofondato nell'Atlantico oppure sommerso sotto un diluvio di fuoco; e il cretino in questione stava cercando di salvare da tutto questo il suo proprio popolo. Dio lo stava mettendo alla prova, solo che lui si era sbagliato circa la posizione della sua divinità, a proposito del divorzio!

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Amiche autoproclamate di Dio, sicuramente, erano anche queste donne della Woman’s Christian Temperance Union, che vediamo in una foto scattata nel 1919, poco prima che negli Stati uniti entrasse in vigore la "Legge secca", che avrebbe proibito il consumo di alcolici su tutto il territorio nazionale. "Le labbra che toccano il liquore non toccheranno le nostre", si può leggere sul cartello insieme al quale queste cretine hanno deciso di passare alla storia. Ovviamente, davano per scontato che le loro labbra fossero, se non più appetibili del liquore, quantomeno appetibili!

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Hanno sempre strane idee, quelli infervorati dal credo religioso, come la cretina della quarta foto, alla quale se qualcuno avesse chiesto se aveva qualcosa in contrario al fatto che i negri potessero studiare, sicuramente avrebbe risposto no, che non aveva niente in contrario. Quello che le dava fastidio, ad Hazel Massey, era il fatto che studiassero insieme a lei. Almeno così raccontò al "Guardian" quando, molti anni dopo quella mattina del 1957, nel 1998, la intervistarono e le chiesero cosa stesse pensando mentre col viso stravolto dall'odio urlava come una pazza improperi contro Elizabeth Eckford. La cretina in questione, allora, si giustificò adducendo la scusa che stava solo ripetendo pappagalescamente le parole che sentiva sempre pronunciare a suo padre, il quale si definiva un anticomunista!

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Ed anticomunisti sono i componenti di questo folto gruppo di cretini che, nello stesso periodo, sfoggiano cartelli in cui si afferma che "la mescolanza delle razze è comunismo". Ma, si sa, al peggio non c'è mai fine, e se si dovesse assegnare un Oscar al cretinismo, non avrei dubbio alcuno ad assegnarlo al prossimo tizio con il suo cartello. Ed il vincitore è sicuramente Carlos Almonte,  jihadista di origine dominicana che, nel 2008, si piazzò senza vergogna alcuna davanti all'ambasciata israeliana a New York, per chiedere educatamente, e con rispetto parlando, la morte degli ebrei. Ma, ahimè, aveva un grosso problema di ortografia per sua disgrazia, ed invece di reclamare l'olocausto dei "jews" (ebrei) si ritrovò a richiedere lo sterminio del quasi sicuramente incolpevole "juice" (succo). Essì, bisogna proprio esser cretini!!

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No, non è un pranzo di gala!


Kiev, giovedì 20 febbraio, 8:15, ora locale: I ministri europei hanno dovuto annullare l'incontro con Yanukovych ed abbandonare la città per "ragioni di sicurezza". Gli oppositori hanno riconquistato piazza Maïdan, strappandola alle forze di polizia. Ci sono corpi a suolo, sul selciato della piazza, dieci corpi coperti da lenzuoli, ha testimoniato un fotografo della Reuters. Vasily Fedosenko ha detto di aver visto almeno sei cadaveri nella parte nordovest della piazza, si tratterebbe di civili. Le vittime sono state colpite da proiettili, non si sa se di gomma. Stamattina, centinaia di manifestanti, armati di bastoni e con caschi e scudi simili a quelli della polizia, hanno caricato il cordone di poliziotti, costingendolo ad arretrare di diverse centinaia di metri e ad abbandonare così il territorio che avevano conquisto con l'assalto effettuato nel corso della notte fra martedì e mercoledì. La polizia ha sparato centinaia di proiettili di gomma che hanno ferito una dozzina di manifestanti che sono stati trasportati con delle barelle verso le infermerie di fortuna degli oppositori. Nel frattempo, il ministero dell'interno ucraino, in un comunicato, ha affermato che un cecchino avrebbe aperto il fuoco sui poliziotti, ferendone una ventina. 


mercoledì 19 febbraio 2014

Guerra civile

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"(...) Le forze di polizia hanno effettuato numerosi attacchi sulla piazza principale di Kiev, questa notte. Gli scontri continuano anche per tutta questa giornata si mercoledì, tanto che il presidente Yanoukovitch ha denunciato che è in corso un'insurrezione."

Kiev, Maïdan Nézalejnosti, Piazza dell'Indipendenza brucia. La piazza, occupata da più di tre mesi dai manifestanti, è sotto attacco da parte delle forze di polizia da martedì sera. Gli scontri hanno causato finora 25 morti, fra poliziotti, civili ed un giornalista di Vesti, un quotidiano ucraino. Finora, 241 persone sono state ricoverate in ospedale, fra cui 79 poliziotti e 5 giornalisti, secondo un comnunicato del ministero ucraino della Sanità. E' stata aperta un'inchiesta, da parte dei servizi speciali, per tentativo di presa illegale del potere. Yanoukovitch ha decretato, per giovedì, una giornata di lutto nazionale.
Le truppe antisommossa hanno lanciato un nuovo attacco questa mattina. Hanno avanzato e si sono attestate intorno al monumento che occupa il centro della piazza, subito dopo le quattro del mattino (alle 2, ora di Greenwich), dopo aver lanciato una pioggia di candelotti lacrimogeni e di granate assordanti. Le tende, che si trovavano intorno al monumento, hanno preso fuoco, una dopo l'altra.
Per proteggersi dall'attacco della polizia, i rivoltosi hanno eretto un muro di fuoco, con le bottiglie molotov. Dietro la cortina di fiamme, alcuni insorti, equipaggiati con caschi da motociclista, ed armati di bastoni e di scudi simili a quelli dei poliziotti, hanno formato una prima linea di difesa ...

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l’insurrezione del Nibelungo

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Nel 1849, dopo aver partecipato all'insurrezione di Dresda, Wagner scrive "Arte e rivoluzione" (il libro, in italiano, può essere liberamente letto e/o scaricato qui), in cui compie una riflessione sull'arte e sull'emancipazione attraverso la creatività e attacca le istituzioni borghesi proponendo una rivoluzione creativa.
Richard Wagner arriva a Dresda nel 1843, da Parigi, dove ha vissuto in estrema povertà ed in una miseria che ha sortito l'effetto di accrescere il suo profondo disgusto per la borghesia e per la corruzione che regna nell'ambiente artistico che ritiene rappresentativo dello stato in cui versa tutta la società del tempo. La sua rivolta diventa più politica quando entra in contatto con August Röckel, musicista appassionato delle teorie socialiste e dei movimenti sociali. Insieme, benché Wagner abbia già ottenuto una certa notorietà, lottano per il miglioramento delle condizioni materiali dei musicisti, rivendicando un salario sufficiente a vivere per i loro collaboratori. Nel 1849 incontra Bakunin, il teorico anarchico che incarna in quel periodo storico la riflessione critica e la passione rivoluzionaria insieme. Il personaggio seduce Wagner, e l'identificazione di Bakunin col "fuoco rivoluzionario, vendicatore, purificatore" impregnerà, pochi anni dopo, in modo significativo una parte essenziale della sua "Tetralogia". 
Wagner partecipa attivamente all'insurrezione del 1849, ed anche se non è mai direttamente presente sulle barricate, non esita ad assumersi i suoi rischi, affiggendo manifesti e distribuendo armi ed esplosivi. Dopo l'insurrezione, riesce a fuggire a Zurigo, e lì pubblica "Arte e rivoluzione". Nel suo testo, propone una nuova organizzazione dell'umanità al fine di liberare la creatività e il godimento artistico. L'attività umana deve legarsi alla creatività artistica, e non all'oppressione del lavoro e dello sfruttamento. Wagner critica l'arte della sua epoca corrotta che non consente di arricchire qualitativamente la vita dell'individuo. Rifiuta la separazione fra arte e vita: la rivoluzione artistica passa per l'abolizione del lavoro e della società divisa in classi, per mezzo della rivoluzione sociale. Si rivela perfino un precursore del "femminismo", contro la "coppia piccolo borghese", attaccando l'istituzione del matrimonio insieme al patriarcato e alle norme sessuali.
Dopo aver sottolineato come le vite precarie degli artisti rassomiglino sempre più a quelle della classe operaia, propone una sua "storia dell'arte". Il suo riferimento è l'antica Grecia, con la sua Tragedia che incarna un genere di arte tanto esigente quanto popolare; in questo la oppone a Roma che invece privilegia il divertimento volgare con i suoi combattimenti fra gladiatori. Passa poi ad attaccare la cultura cristiana che valorizza una vita fatta di sacrifici e di miseria: il cristianesimo "esclude dalla vita qualsiasi gioia, e la rappresenta come una maledizione".
E' a partire dall'epoca romana che l'arte comincia ad apparire come un prodotto di consumo ed un genere di lusso: "la sua vera natura è l'industria, il suo fine morale è il denaro, il suo pretesto estetico è distrarre gli annoiati", ironizza. Ugualmente, critica l'educazione. Nell'antica Grecia, la gioventù era oggetto di sviluppo artistico e di gioia, fisica e intellettuale. L'educazione era allora volta al piacere raffinato e allo sviluppo intellettuale, quanto oggi è orientata verso la ricerca del profitto e del facile divertimento. E' la remunerazione professionale, e non il piacere, a motivare l'artista moderno. Come l'operaio, che deve sottostare ai vincoli sociali e alle condizioni lavorative, per beneficiare di un salario. Il lavoro e lo sfruttamento distruggono ogni forma di piacere nell'attività umana. "Le nostre fabbriche, oggi ci danno l'immagine deplorevole della più profonda degradazione dell'uomo: un lavoro incessante che uccide l'anima e il corpo, senza gioia e senza amore, sovente senza scopo". E la religione, soprattutto il cristianesimo, impone il sacrificio e la sottomissione al capitale, indispensabili al fine di imporre la disciplina del lavoro.
L'arte oggi è frammentata e separata; al contrario, nell'antica Grecia tutto era connesso, la retorica, la scultura, la pittura, la musica. Qui, ogni arte isolata diventa un settore di mercato con i suoi prodotti di consumo specializzato. Solo una rivoluzione potrà permettere una riunificazione di tutte le arti, al di là di ogni barriera, facendo saltare le frontiere imposte fra le diverse discipline. Bisogna liberarsi dal lavoro meccanico e dall'asservimento al mondo del mercato. I lavoratori devono diventare individui cullati dalle gioie artistiche.
Le dottrine socialiste che valorizzano il lavoro permettono solo un egualitarismo al ribasso. La rivoluzione, invece, deve permettere una vera emancipazione, perciò deve appoggiarsi all'arte per ottenere un autentico sviluppo politico ed estetico. Deve appoggiarsi alla diffusione delle pratiche artistiche. L'abolizione del denaro deve permettere "una libera azione collettiva, per amore dell'oggetto artistico, e non per un fine industriale accessorio". La società sarà allora basata sulla creatività, sulla gioia di vivere e sul godimento.