domenica 31 gennaio 2021

Le sedie di PotOp !

A farmele tornare alla mente, era stato un libro di Marco Codebò, Via dei Serragli.
Ora vengo e mi spiego - come si diceva una volta dalle parti dove sono nato; ma abbiate pazienza, ché a riannodare il filo ci metto un po' di solito! Il libro, dicevo, l'ho letto qualche anno fa. Credo sia stato il 2003 l'hanno in cui uscì e lo comprai. Nato nel 1952, l'autore, era frequentatore della sede di Potere Operaio di Firenze in Via de' Serragli (anche se nel titolo del libro, il nome della via viene scritto male! Senza l'apice e con la "i" a chiudere la congiunzione con il genitivo. "Via de' Serragli", si scrive così). Vabbè...

Del resto, nella sede di Firenze, Codebò veniva arrivandoci da Genova, in trasferta, per prendere parte alle riunioni nazionali che venivano lì tenute mensilmente. Veniva da Genova per arrivare a Firenze, fino in Santo Spirito! Eppure, nonostante il fatto che nel libro si soffermi perfino a descrivere le «panche lignee» della sede genovese, non spende neppure una parola, un solo misero aggettivo per poter dare meglio l'immagine di quelle sedie pieghevoli, comodissime, su cui mese dopo mese era venuto a sedersi.  La verosimile cronaca delle riunioni, che viene spesa tra un «compagni, per favore!» ed un «cominciamo, compagni!», abbellita dal rammentare giustamente «le compagne di rara avvenenza», ecco che viene quasi sciupata da un'inezia. Purtroppo, non dico ci si soffermi, ma non lo fa neppure, il tentativo di mettersi a raccontarli, quei piccoli capolavori di falegnameria che sembravano essere stati fabbricati per tutto tranne che per seguire una riunione politica.

Sedie pieghevoli, ampie e comodissime sulle quali potevi benissimo addormentartici (se ne univi due insieme, contrapposte, una di fronte all'altra, ci dormivi ancora meglio). Provenivano dal cineforum di Sant'Apollonia - in San Gallo accanto alla mensa universitaria - il quale aveva visto chiusi i suoi battenti - "per restauro" - proprio alla fine del 1970 (nel 1971, chiuderanno, sempre "per restauro", anche la casa dello Studente in Piazza Indipendenza). Erano delle gran belle sedie, dallo schienale alto, di legno scuro, eleganti. Ricordo che nel 1974, grazie a Francesco Panichi, le avevo avute in eredità per la sede del collettivo Jackson, durante quella che era stata la sua breve vita in via de' Macci (e anche il nome di questa strada, va scritto con l'apice!). Le sedie, trasportate in Santa Croce, da Santo Spirito, non persero mai quella loro inafferrabile e magica complicità soporifera, e ci dettero modo per troppo poco tempo di discutere comodamente.
Così come dev'essere!

(già pubblicato sul blog il 9/1/2007 )

sabato 30 gennaio 2021

Sputalo !!

La manovra di Heinrich
- by Hicsalta -

Dura da mandar giù: recentemente, Michael Heinrich ha tenuto una conferenza sulla Teoria Monetaria del Valore di Karl Marx. Qui, ne riporto un estratto che ne ha fatto Esben Bøgh Sørensen in "The Ontology of Capitalism" dove presenta e sottolinea alcune di quelle che sono le critiche di Robert Kurz alla posizione di Michael Heinrich: « Una circolazione che comincia e finisce con il denaro, ha senso solo se il valore iniziale nella sua forma di denaro viene incrementato. Pertanto, solo nella forma - o movimento - di M-C-M' , e laddove M' include il plusvalore, il denaro - e quindi il valore - assume la sua forma adeguata; e questa forma corrisponde a ciò che Marx chiama capitale, il quale è essenzialmente valore che auto-valorizza sé stesso. La principale caratteristica del capitalismo è il capitale. »

Nella teoria monetaria del valore di Heinrich, il termine «sostanza» viene riferito esclusivamente alla specifica relazione sociale capitalistica tra produttori privati, e non viene inteso come se fosse qualcosa di comune a tutta la società. Tuttavia, il punto di vista secondo cui il lavoro astratto sia principalmente una categoria dello scambio non viene condiviso da tutte le diverse teorie della forma valore. La questione che riguarda il lavoro astratto e la produzione, è cruciale. Postone e Kurz ci offrono due versioni diverse di una concezione della «sostanza del valore» più orientate alla produzione. (...) Kurz evidenzia diversi problemi che egli ha con l'interpretazione di Heinrich. Per prima cosa, Heinrich separa produzione e circolazione. E in secondo luogo, ciò lo porta ad una separazione tra lavoro concreto e astratto da una parte, e dall'altra i loro prodotti. Questa separazione è causata da un'attenzione particolare per l'apparenza - o per la forma - senza che vi sia alcuna considerazione di quella che è la relazione con la sostanza, o con il contenuto. Di conseguenza, secondo Kurz, l'astrazione reale del lavoro astratto e del valore non può essere realizzata soltanto nello scambio, ma deve essere costituita necessariamente già nella produzione.
Kurz definisce il lavoro astratto come «die Verausgabung abstrakt menschlicher Energie überhaupt» [ "Dispendio di energia umana astratta, in generale" ]: il che è esattamente la definizione cui Heinrich obietta. Secondo Kurz, ciò che rimane dei prodotti del lavoro, una volta che il loro valore d'uso è stato reso astratto per mezzo dello scambio, è solamente la loro comunanza con i prodotti dell'energia umana astratta. In maniera particolare, tuttavia, questa comunanza è simultaneamente sia reale, che un'astrazione nel senso che  occorre che «diese Energie muss ja wirklich in der Produktion verbrannt worden sein» [ "tale energia deve davvero essere già stata bruciata nella produzione" ]. Il lato concreto ed astratto del lavoro, e i loro prodotti non sono due lati separati, quanto piuttosto « zwei Aspekte derselben Logik, die alle Sphären übergreift » [ "due aspetti della medesima logica che abbraccia tutte le sfere" ].

A partire da questo, di conseguenza, Kurz rifiuta ciò che egli considera come la separazione attuata da Heinrich, tra produzione  e mercato. Queste due «sfere» non sono altro che dei momenti del movimento del capitale. Il capitale, in quanto soggetto automatico è « übergreifende transzendentale Apriori des Gesamtsummanhangs » l'[ "a priori trascendentale generale della totalità" ] che interviene nella produzione a partire dal lavoro astratto (secondo la definizione di Kurz) e realizza sé stesso solo sul mercato, ovvero, in quella che Kurz chiama «Sfera della Realizzazione»: «Produktion und Markt oder Realisationssphäre des Kapitals sind beide gleichermassen blosse Funktionssphären oder Momente in der Metamorphose des Kapitals als seines apriorischen gesellschaftlichen Ganzen». [ " La produzione e il Mercato -  ovvero la Sfera di Realizzazione del Capitale - sono ambedue, ugualmente, mere sfere di funzione, vale a dire,  momenti nella metamorfosi del capitale, vista come il suo insieme sociale a priori. "]. In Kurz, il concetto di totalità è  decisivo. L'energia umana astratta che viene spesa nella produzione, è solo un momento del movimento totale del capitale e dev'essere realizzato sul mercato; o sfera della realizzazione: Quest'energia non pertiene alle singole merci, ma si aggrega alle loro spalle, e lo a spese dei soggetti individuali come «gesellschaftlichen Gesamtmasse des Werts», [ "massa sociale totale di valore" ].

* - Riferimento: Kurz, Robert (2012): “Geld ohne Wert. Grundrisse zu einer Transformation der Kritik der politischen Ökonomie” - Horlemann Verlag, Berlin -

- Hicsalta - Pubblicato su Principia Dialectica il 15/11/2020 -

venerdì 29 gennaio 2021

Non tutto il mondo è paese!

Immagina di:
~ Crogiolarti al sole su un’isola creata artificialmente con schiuma ghiacciata.
~ Colonizzare una città vicino a Chernobyl che non è mai stata abitata.
~ Passare la notte in un cimitero popolato (da gente viva) nel nord di Manila.
~ Visitare un microstato situato su una piattaforma militare nel mezzo dell’oceano.
~ Incontrare l’amore della tua vita nella campagna britannica, dove si trova la capitale del sesso open air.

Alastair Bonnett racconta 48 luoghi che non si trovano sulle mappe.
Un inno all’imprevisto su un pianeta ormai interamente mappato (e quindi spiegato) da Google.
Un omaggio emozionante ai confini sfocati e alle fantasie vere, all’idea che l’uomo non conosce tutto, né tutto può essere scoperto e conquistato.
E ancora, un’ode al territorio come fabbrica delle nostre vite, dove costruiamo la nostra identità e la nostra memoria.

(dalla sinossi di: Alastair Bonnett, “Fuori dalle mappe. Un viaggio fantastico in luoghi inesplorati”. Blackie edizioni.)

Alla ricerca di mete perdute
- di Francesca Milano -

In quel capolavoro che è Moby Dick, per descrivere il villaggio dell'amico e alleato indigeno di Ismaele, Queequeg, Herman Melville scriveva: «Non è segnato su nessuna mappa». Questa è, per molti turisti moderni, la caratteristica più ricercata. Un viaggio non è un viaggio se non si torna con qualcosa di nuovo negli occhi. Se «tutto il mondo è paese», se i grattacieli di New York assomigliano a quelli di Shangai, se il mercato del pesce di Tokyo ricorda quello di Feskekôrka a Göteborg allora dove cercare? Fuori dalle mappe. "Fuori dalle mappe" è anche il titolo di una guida scritta da Alastair Bonnett, professore di geografia sociale all'Università di Newcastle e scrittore. È «un inno all'imprevisto su un pianeta ormai interamente mappato (e quindi spiegato) da Google», come si legge sulla quarta di copertina.
Bonnett racconta 48 luoghi inesplorati: città morte, ma anche isole artificiali, Stati senza territori e posti effimeri, come la piazzola di sosta di Hog's Back. Nel 1831 Jane Austen descriveva la collina erbosa del Surrey in una lettera indirizzata alla sorella: «Non ho mai visto la campagna di Hog's Back così godibile!» Oggi, secondo il sito letsgodogging.com, la collina (diventata nel frattempo una piazzola di sosta) è il secondo più popolare luogo d'Europa per il dogging, che non è la pratica di portare a passeggio i cani ma quella di fare sesso in parcheggi e aeree boschive. Perché gli abitanti del Surrey cercano un luogo del genere per fare l'amore? «I frequentatori di Hog's Back non aiutano a dare una risposta - ammette Bonnett - ritenendolo niente di più che un semplice orgasmatic di woodyalleniana memoria, ma all'aria aperta. Io però non ne sono del tutto convinto, perché è evidente che quel paesaggio abbia su di loro un effetto afrodisiaco». La piazzola di sosta tanto cara a Jane Austen è quindi una delle mete insolite consigliate nella guida, che però suggerisce anche luoghi molto meno affollati. Come Agdam, la città morta più grande al mondo. A chiunque la osservi da Google Earth (le coordinate sono : 39° 59° 35" N; 46° 55° 50" E) viene istintivo pensare che vi sia esplosa una bomba nucleare. Chi l'ha osservata dal vivo la descrive così: «A catturare subito è l'ampiezza delle rovine. (...) In questa città dove un tempo vivevano 50mila abitanti abbiamo incontrato solo 15 civili (una madre che raccoglieva bacche selvatiche insieme ai due figli sulla strada principale, una coppia di anziani con la nipote in cerca di legana da ardere e altri che raccoglievano rottami di metallo)».
Fino a pochi anni fa, Agdam era un'animata cittadina, celebre per i suoi bazar, per il suo museo del pane e per il suo vino fortificato (cognac). Succede che i prodotti locali facciano la fortuna di un posto, e la sua localizzazione geografica ne decreti invece la sfortuna: nel 1993 Agdam si è trovata al centro della guerra combattuta per l'enclave del Nagorno-Karabakh tra Azerbajan e Armenia, ed è stata letteralmente rasa al suolo.
Sono luoghi desolati eppure affascinanti per chi è stufo dei soliti panorami da cartolina. Edward Casey, professore di filosofia alla Stony Brook University, nello Stato di New York, sostiene che «l'invasione di luoghi identici e monotoni su scala globale spinga l'essere umano a bramare posti diversi». Irraggiungibili perché lontani come l'isola di North Sentinel, o perché inaccessibili come le tane delle volpi di Heaton Park, o ancora perché in realtà mai esistiti come Sandy Island. Ma ci sono luoghi irraggiungibili solo per alcune persone. Le donne, per esempio, che sono bandite dal monte Athos, territorio autonomo della Grecia a picco sul mar Egeo. Le turiste non possono avvicinarsi a meno di 500 metri dalla riva e se sbarcassero sarebbero condannate a un periodo di detenzione variabile tra i 2 e i 12 mesi. Il divieto è esteso a tutte le femmine di animali, escluse le gatte che secondo i monaci sono state un regalo delle Vergine Maria per difendersi dall'invasione dei ratti.
«Ci sta una terra di nessuno da qualche parte nel cuore», cantava Francesco De Gregori nel suo disco uscito nel 1987. E ci stanno terre di nessuno anche nel mondo. Terre come Bir Tawil, «l'unica zona abitabile del pianeta a non essere reclamata da nessuno», come racconta Bonnett. Bir Tawil è un'area trapezoidale di duemila chilometri quadrati tra Sudan ed Egitto ed è un unicum in un mondo in cui si è sempre combattuto per l'occupazione del territorio. Non qui. Qui si combatte per non occupare questo pezzo di deserto. È una storia al rovescio quella raccontata - assieme alle altre 47 - nel libro di Bonnett: una storia di due Stati che si rimpallano l'annessione di quest'area rocciosa senza sbocchi sul mare perché così facendo rafforzano la loro pretesa su una zona molto più vasta e utile, i quasi 21mila chilometri quadrati del Triangolo di Hala'ib affacciato sul Mar Rosso.
Un altro itinerario insolito è quello che conduce al Principato di Sealand, uno Stato indipendente creato nel 1967 da un maggiore dell'esercito in pensione, Paddy Roy Bates, su una piattaforma di artiglieria della seconda guerra mondiale, di fronte alla costa dell'Essex. Una storia che ricorda quella dell'Isola delle Rose celebrata nel film di Sydney Sibilia disponibile su Netflix. Stesso anno di costruzione (1967), stesso ideale: «Creare piattaforme marittime sostenibili dove le persone possano scegliere di vivere se insoddisfatte dalla loro esistenza sulla terraferma».

-  Francesca Milano - Pubblicato sul Sole del 24/1/2021 -

giovedì 28 gennaio 2021

Ideologie di crisi

Adorno, la destra radicale e la democrazia totalitaria
- di Thomas Meyer -

L'ascesa del populismo di destra in questi ultimi anni, richiede una spiegazione. Più volte, in diversi momenti, è stato sottolineato che i movimenti di destra degli ultimi anni non cadono semplicemente dal cielo, ma devono essere visti nel contesto del neoliberismo e delle sue convulsioni sociali di questi ultimi decenni. Secondo Wilhelm Heitmeyer [*1], l'autoritarismo, così come viene espresso e rivendicato dai populisti o dai radicali di destra, si trova già racchiuso e contenuto nel neoliberismo, il quale si presenta sempre come senza alternativa. L'erosione dei processi democratici, la liquidazione della rete sociale, il potenziamento dello Stato di polizia, la fondamentale insicurezza sociale e la resa immediata dell'individuo agli imperativi della valorizzazione del capitale rendono evidente l'autoritarismo del regime neoliberista [*2]. Infine, ma non meno importante, la quota percentuale verificata della popolazione che ha una visione razzista del mondo, è aumentata costantemente nel corso degli anni. Di conseguenza, oggi abbiamo un alto potenziale di «misantropia centrata sul gruppo» che non è affatto una novità degli ultimi anni. [*3]
Le strategie di destra puntano a «spostare i confini di ciò che può essere detto». Indubbiamente, anche la «borghesia volgare» (Heitmeyer) ha contribuito a questo, come appare chiaramente nelle opere di Sloterdijk [*4] e di Sarrazin [*5]. Come scrive Heitmeyer, è «un fatto che, sotto un sottile strato di maniere civili e gentili ("borghesi") si nascondono atteggiamenti autoritari che diventano sempre più visibili, generalmente nella forma di una retorica sempre più rabbiosa» [*6]. Negli ultimi anni questo mimetismo si è continuamente interrotto. Una delle ragioni (non la causa!) è stata la «crisi della chiusura delle frontiere» (David Goeßmann) dell'autunno del 2015, che ha fatto emergere la «borghesia volgare» nel dibattito intorno ai rifugiati, nel quale anche i cosiddetti oppositori alla AfD (Alternativa per la Germania) hanno portato argomenti o «narrazioni» di destra che differivano ben poco, se non per nulla, da quelle dell'AfD [*7]. Alla fine, gli "argomenti" dei movimenti razzisti sono stati ripresi dal mainstream: è la stessa classe media borghese ad essere di destra; è essa che dà origine all'«estremismo di centro» [*8]. Come sottolinea Heitmeyer, il problema è la normalità stessa: «è ovvio che l'estremismo, con le sue forme apparentemente brutali di comunicazione e azione, si trova ad essere indissolubilmente legato alla normalità della vita sociale e politica, e può emergere solo a partire da tale normalità. [...] Perciò andrebbe posta la questione di come la distruttività si sviluppi nella normalità (e non dalle sanzioni contro di essa)» [*9].
Si può quindi dire, con Heitmeyer, che è la normalità borghese a contenere in sé l'autoritarismo, e a rinnovare costantemente gli atteggiamenti autoritari. In tale contesto, la Teoria Critica e la sua ricerca sulla personalità autoritaria riceve un rinnovato interesse [*10]. In previsione del continuo successo elettorale dei partiti populisti di destra e della crescente forza dei movimenti di destra radicali, è stata pubblicata per la prima volta una conferenza pubblica di Adorno, del 1967, sul radicalismo di destra. In questa conferenza Adorno descriveva cos'è che caratterizza i moderni radicali di destra e cosa spinge e rende un successo le agitazioni fasciste. Questo piccolo libro, "Aspetti del nuovo radicalismo di destra", ha fatto parecchio scalpore, a partire dal fatto che è stato discusso nei supplementi culturali borghesi e nelle radio statali. È stato sottolineato il fatto che i commenti di Adorno erano assai attuali e suonavano come se egli stesse discutendo dell'AfD. Lo sfondo sul quale si era svolta la conferenza, era stato il successo elettorale avuto a quell'epoca dal Partito Nazional Democratico di Germania (NPD) [*11]. Nel testo della conferenza, Adorno sottolineava, tra le altre cose, che il fascismo deve il suo successo soprattutto al fatto che continuano ad esistere quelle che sono le sue cause. Tra le altre cose, vedeva una causa centrale dell'agitazione fascista, principalmente nella concentrazione di capitale, e nella collegata minaccia di declassamento della piccola borghesia. L'imminente caduta della classe media è stata "usata" anche per rivendicare la sovranità nazionale. Questa sovranità nazionale è tanto più necessaria nel momento in cui le sue condizioni oggettive non esistono più. Adorno arrivò a questa valutazione nel contesto del confronto tra i blocchi e la CEE (Comunità Economica Europea) [*12]. Le somiglianze con il presente appaiono ovvie: anche i radicali e i populisti di destra odierni lottano per la riconquista della sovranità nazionale [*13], soprattutto a partire dalla loro critica dell'Unione Europea. Tuttavia, le condizioni oggettive per una «sovranità nazionale» sono oggi ancora meno presenti di quanto lo fossero negli anni '60, e ciò a causa della trans-nazionalizzazione del capitale, che le rende completamente illusorie [*14].
Sebbene la presentazione di Adorno venga elogiata per la sua validità analitica, vanno anche sottolineate le differenze con gli anni '60. Volker Weiß, in una sua postfazione commenta: «che valore hanno queste analisi per il presente? Innanzitutto, vanno osservate le differenze. L'avvertimento di Adorno, di non limitarsi alla semplice connessione tra il radicalismo di destra e i movimenti ciclici dell'economia, va preso sul serio. Gli effetti della recessione del 1966/67, vista come sfondo immediato dello sviluppo descritto, non possono essere paragonati né alle conseguenze della crisi economica mondiale del 1929, né a quelle dell'attuale crisi finanziaria e monetaria. [...] Anche le diverse linee politiche non sono facilmente comparabili. A differenza dell'antisemitismo, nel confronto con il Jihādismo globale (elemento chiave dell'agitazione del populismo di destra) non si tratta solo di proiezione patologica. L'Islam politico è un attore reale e va visto come se fosse esso stesso il prodotto di un delirio narcisistico collettivo» [*15].
In realtà, una teoria o una critica dovrebbero essere sempre esaminate nel loro «nucleo temporale», cosa che anche Adorno ha sottolineato. Ma ciò che dovrebbe costituire tale nucleo, rimane assi poco chiaro in quello che è l'attuale «dibattito su Adorno». Pertanto, la crisi attuale viene percepita solo in maniera assai superficiale. Tra i pubblicisti liberali come Volker Weiß, manca qualsiasi osservazione sulla teoria dell'accumulazione o sulla teoria della crisi. Pertanto, per Weiß, le differenze tra le crisi degli anni '60 e quelle del 1929 e dal 2008 in avanti, più che determinate, vanno indovinate.
Adorno, infatti, segnala quello che era già l'anacronismo oggettivo del nazionalismo, ma con solo Adorno non si riuscirebbe a capire perché oggi la sovranità dello Stato nazione in quanto tale si sta erodendo, dal momento che la capacità di regolazione politica del capitale trans-nazionalizzato ha raggiunto i propri limiti, visto che la democrazia viene continuamente de-democratizzata (Stato di polizia, accordi di libero commercio), che gli apparati statali si stanno inselvaggendo [*16], e che sono sempre più quegli Stati che vanno disintegrandosi [*17]. Sotto questo aspetto, la celebrata attualità della conferenza è stata esagerata, anche perché i commentatori come Weiß sono ben lontani dall'essere capaci di formulare una critica adeguata ai tempi attuali. Nel caso di Weiß, appare anche chiaro che egli critica la nuova destra soprattutto per il suo anti-liberalismo. Ora, questa critica è giustificata, ma un anti-liberalismo di destra viene alimentato anche a partire da un certo «disagio della modernità». E anziché rendere un tale disagio - insieme alla sfida alla modernizzazione, alla libertà e all'uguaglianza borghesi -  il tema della discussione, Weiß commette l'errore «di pensare che il mondo del mercato globale sarebbe in ordine se i barbari bruno-fascisti (o attualmente: verdi-islamisti) semplicemente non esistessero» [*18]. Ragion per cui, ad essere rifiutato non dovrebbe essere solo un «antimodernismo» di destra (che in sé è molto moderno), ma anche un'apologia borghese della «libertà e uguaglianza», soprattutto vista nel contesto dello Stato di polizia e dello stato di eccezione, che le democrazie borghesi stanno imponendo (basta pensare alle nuove leggi di polizia). Il monito di Adorno ci avverte che la sopravvivenza del fascismo è più pericolosa quando sta nella democrazia, piuttosto che contro di essa, e quindi merita attenzione [*19]. In altre parole: oggi, il radicalismo di destra potrebbe essere visto come un'ideologia di crisi, come un proseguimento dell'amministrazione democratica della crisi che viene attuato con altri e/o con gli stessi mezzi [*20].
L'ignoranza della crisi corrisponde alla rivendicazione incondizionata della democrazia. E questo può essere legato ad un aspetto problematico e anacronistico della conferenza di Adorno. Così facendo, Adorno propone l'idea di una vera democrazia ancora da realizzare: «Proprio in rapporto a categorie come quella degli "eterni incorreggibili", o analoghe espressioni rassicuranti, si sente spesso avanzare la tesi che in ogni democrazia ci sia un nucleo di incorreggibili o folli, la cosiddetta lunatic fringe, come viene chiamata in America. E qui si cela qualcosa di consolatorio in senso quietistico e borghese, se tale lo si vuole considerare. Io credo che si possa rispondere soltanto: è certo che nel mondo, in ciascuna delle cosiddette democrazie, è possibile osservare con intensità variabili qualcosa di simile, ma solo in quanto espressione del fatto che, fino a oggi, da nessuna parte la democrazia si è concretizzata in modo effettivo e completo dal punto di vista del contenuto economico-sociale, ma è rimasta sul piano formale. E, in questo senso, i movimenti fascisti potrebbero essere indicati come le piaghe, le cicatrici di una democrazia che non è ancora pienamente all’altezza del proprio concetto.» [*21].
Oggi, però, contro la realtà borghese, è completamente sbagliato rivendicare ideali borghesi, e indicare quale sia il quadro presupposto nel quale essi (dovrebbero) essere realizzati, soprattutto in queste condizioni di crisi. Già Marx ha descritto il pericolo di rimanere accecati dagli ideali borghesi [*22]. Così, nei Grundrisse, sostiene: «D'altra parte viene in luce l'inettitudine dei socialisti (soprattutto dei francesi, che pretendono di additare il socialismo come realizzazione delle idee della società borghese espresse dalla rivoluzione francese), i quali dimostrano che lo scambio, il valore di scambio ecc. sono originariamente (ossia nel tempo) o concettualmente (ossia nella loro forma adeguata) un sistema della libertà e uguaglianza di tutti, ma sono stati poi adulterati dal denaro, dal capitale ecc. [...] il valore di scambio o più precisamente il sistema del denaro è effettivamente il sistema dell'uguaglianza e della libertà, e che quegli elementi di disturbo che compaiono a contrastarle nello sviluppo più immediato del sistema sono disturbi immanenti al sistema stesso, e appunto la realizzazione dell' uguaglianza e della libertà, che si mostrano come disuguaglianza e illibertà. [...] Ciò che distingue questi signori dagli apologeti borghesi è da un lato la sensibilità delle contraddizioni che il sistema racchiude; dall'altro l'utopismo di non capire la necessaria differenza tra configurazione reale e ideale della società borghese, e di volersi perciò assumere il compito superfluo di volerne realizzare di nuovo l'espressione ideale, ove questa è in effetti soltanto la trasfigurazione di questa realtà» [*23].
Se, rivolgendo lo sguardo al passato, possiamo percepire condizioni ancora più democratiche di oggi, ciò è dovuto anche al fatto che la «capacità di configurare» la politica esisteva nei tempi precedenti, al tempo dell'espansione fordista, quando le riforme aprivano ancora la possibilità del progresso sociale e lo spazio di azione della politica era assai maggiore. Tuttavia, quando tutto ciò si restringe, soprattutto nel contesto di una crisi del finanziamento pubblico, ecco che la democrazia perde anche la sua «capacità di configurazione» [*24]. E quindi, se la valorizzazione trova i suoi limiti, ecco che allora anche la democrazia viene erosa. In contrapposizione a questo, al giorno d'oggi, molte persone rivendicano una «vera democrazia» [*25], senza però comprendere realmente la logica della democrazia: «La coscienza dominante [...] naturalmente non ha la benché minima comprensione del carattere totalitario della Sacra democrazia stessa» [*26]. Dal momento che perfino l'antica «capacità di configurazione» della democrazia era comunque soggetta a dei limiti ristretti: l'assoggettamento dei soggetti agli imperativi della valorizzazione del capitale, era il presupposto del discorso democratico, e come tale non era negoziabile. Ogni azione democratica deve muoversi dentro tale quadro. «Al pensiero democratico, in tutte le sue varianti, non viene mai in mente l'idea di mobilitare e organizzare in maniera diversa le risorse e la ricchezza sociale che non hanno forma di merce e di denaro; e che così facendo pone come insopportabile limite alla sua presunta liberalità e umanità, le medesime leggi sistemiche della moderna forma merce» [*27]. E inoltre, «L'astratta libertà dell'individuo-monade astratto, il quale deve "auto-valorizzarsi" incessantemente, implica la spietata lotta concorrenziale di tutti contro tutti». E «in realtà, è la capacità di decidere in quanto liberi e uguali che si trova ad essere limitata dalla capacità di pagamento» [*28].
Nel momento in cui tutto ciò viene messo in discussione in pratica, anche se ciò avviene solamente in maniera rudimentale e selettiva, ecco che i mastini si schierano e la democrazia rivela il suo nucleo repressivo. È questa la democrazia realizzata e, quindi, non si tratta di una democrazia formale, o formalmente limitata, che semplicemente non si sarebbe ancora realizzata. La sua realizzazione consiste precisamente proprio nel concedere formalmente dei diritti, ma anche nel sospenderli o nel restringerli nuovamente se si rivelano disfunzionali per l'amministrazione della crisi e per la valorizzazione (o per la svalorizzazione) del capitale. Pertanto, il terrore dello Stato di polizia non è in contraddizione con la democrazia. Dato che una persona può realizzarsi come libera e uguale solo se dimostra di essere un soggetto produttivo di capitale, ecco che allora la democrazia realizzata è compatibile con enormi disuguaglianze sociali. Anche l'opposto della libertà e le sue contraddizioni appartengono quindi a questa medesima libertà, come aveva già sottolineato Marx. In maniera sorprendente, non viene negato neppure questo. Per esempio, Friedrich August von Hayek ha dichiarato che la libertà include «patire la fame», e perfino che «la sottomissione volontaria è una condizione per gli effetti benefici della libertà». Di conseguenza, secondo Hayek, una «democrazia [...] può esercitare violenza totalitaria, ed è concepibile che un governo autoritario possa agire secondo principi liberali» [*29]. Saluti liberali a Pinochet!
Quando c'è una crisi, le proteste sociale e qualsiasi altra contraddizione possono rivelarsi «perturbanti». Non è stato un caso che durante la crisi greca sia stato detto che l'austerità della Germania non doveva essere negoziata democraticamente [*30]. Non è una coincidenza che la Merkel abbia detto che la democrazia deve rimanere «in sintonia con il mercato». Se il «mercato» ormai non permette più delle decisioni immanenti, allora tutte le decisioni equivarranno a «risparmiare e morire» e la libertà democratica consisterà in nient'altro che nell'aiutare a configurare la propria esecuzione per decreto e attraverso il parlamento.
In una democrazia, la capacità giuridica resta legata alla capacità di valorizzazione. Se i contratti di lavoro non possono più essere sottoscritti, ecco che lo stesso diritto viene meno [*31]. Le persone che perdono la loro capacità di valorizzazione, a causa della svalorizzazione della propria forza lavoro - o qualcosa di simile - diventano di fatto cittadini con diritti inferiori, come dimostrato dal regime dell’Hartz IV [*32]. Persone, la cui svalorizzazione aumenta ulteriormente - come avviene per i rifugiati - finiscono per vedersi negare semplicemente il loro diritto alla vita, ovvero, la loro morte viene accettata. Tutto questo viene dimostrato non solo dalla politica isolazionista dell'«Occidente libero e democratico», e dalle continue e persistenti morti nel Mediterraneo, ma anche dal "depositare" in maniera più meno "definitiva" delle persone in delle strutture che somigliano a dei campi di concentramento, e che noi chiamiamo «campi profughi». Il lavoro più sporco viene lasciato volentieri ad altri [*33].
Dal momento che la democrazia come forma dello Stato è vincolata alla forma del valore-scissione e, pertanto, comincia ad erodersi con la crisi della valorizzazione, non ha alcun senso lamentarsi per la perdita della democrazia, né reclamare la realizzazione di una democrazia «reale». Quindi, non può bastare in alcun modo accusare la democrazia di essere soltanto formale ed esigere, a partire da questo, che essa venga finalmente realizzata; magari grazie a una maggior «democrazia diretta», come anche i populisti di destra chiedono. Perciò non basta criticare l'insufficiente partecipazione o rappresentanza, l'ineguale distribuzione della ricchezza. Oggetto della critica, dev'essere la forma dell'interesse e della volontà del soggetto borghese e, pertanto, la forma capitalistica della ricchezza e della (ri)produzione in sé. Dev'essere chiaro che la democrazia non è un discorso libero, non è un'«associazione di persone libere» (Marx) in cui tutti devono accordarsi sull'utilizzo sensato delle risorse. Al contrario: questo discorso non è affatto il tema di un discorso democratico, non è il tema del discorso di un'economia autoritaria di comando, o di un regime nazionale etnico. La sottomissione alla configurazione feticista della società del valore-scissione, alla forma merce e al movimento di valorizzazione del capitale è per l'appunto la base di ogni democrazia. Questa falsa contrapposizione, emersa più volte, dei democratici liberali nei confronti di una democrazia autoritaria, brutale, rozza e perfino fascista, deve, pertanto, essere rifiutata [*34]. Se, come pensava Marx, la verità della società borghese va vista nelle sue colonie [*35], allora anche la verità della democrazia reale deve essere vista nella crisi e nello stato di eccezione. Una teoria critica che sia all'altezza della sua epoca, o prende atto di questo, oppure non è affatto una teoria critica.

- Thomas Meyer - Pubblicato il 22/1/2021 su  OutrasPalavras. Jornalismo de Profundidade e Pós-capitalismo -

NOTE:

[*1] - Cfr.: Heitmeyer, Wilhelm: "Autoritäre Versuchungen – Signaturen der Bedrohung I" ["Tentazioni autoritarie - Segnali di Minaccia I], 3. Aufl., Berlin 2018.

[*2] - Si veda anche: Wacquant, Loic: "Bestrafen der Armen – Zur neoliberalen Regierung der sozialen Unsicherheit" ["Punire i poveri - Sul governo neoliberista dell'insicurezza sociale"], Berlin/Toronto 2013, zuerst Paris 2004.

[*3] - Heitmeyer 2018.

[*4] - Cfr.: Kurz, Robert: Das Weltkapital – Globalisierung und innere Schranken des modernen warenproduzierenden Systems ["Il capitale mondiale - Globalizzazione e limiti interni del moderno sistema di produzione delle merci"] Berlin 2005, p. 387ss e 458ss. Si veda anche: Winkel, Udo: Der Geist geistloser Zustände – Sloterdijk u. Co.: Zum intellektuellen Abstieg der postkritischen deutschen Elitedenker ["Lo spirito degli Stati senza spirito - Sloterdijk & Co.: sulla decadenza intellettuale dei pensatori d'élite tedeschi post-critici"], in Exit! Krise und Kritik der Warengesellschaft, Nr.7, Bad Honnef 2010, p. 251–259.

[*5] - Cfr.: Lux, Vanessa: Verschiebungen in der biologistischen Diskussion: das Beispiel Sarrazin ["Cambiamenti nella discussione biologica: l'esempio di Sarrazin"]. in Schulze, Annett; Schäfer, Thorsten: Zur Re-Biologisierung der Gesellschaft – Menschenfeindlichen Konstruktion im Ökologischen und im Sozialen ["Sulla ribiologizzazione del sociale - costruzione misantropica nella sfera ecologica e sociale"], Aschaffenburg 2012, p. 129-152. Si veda anche: "Konicz, Tomasz: Generation Sarrazin – Eine kurze Skizze der Genese der neuen deutschen Rechten" ["Un breve profilo della nuova genesi della destra tedesca"], 2015a, online in - https://www.streifzuege.org/2015/generation-sarrazin/  -

[*6] - Heitmeyer 2018, p. 310.

[*7] - Cfr.: Goeßmann, David: Die Erfindung der bedrohten Republik – Wie Flüchtlinge und Demokratie entsorgt werden ["L'invenzione della repubblica minacciata - Come si scartano i rifugiati e la democrazia"], Berlin 2019. Lo dimostrano, ad esempio, i cambiamenti che ci sono stati nel discorso circa la fine della «cultura dell'accoglienza», cfr.: Jäger, Margarete; Wamper, Regina (Hg.): Von der Willkommenskultur zur Notstandsstimmung – Der Fluchtdiskurs in deutschen Medien 2015 und 2016 ["Da una cultura dell'accoglienza a uno stato di necessità: il discorso sui rifugiati nei media tedeschi 2015 e 2016"] Duisburg 2017, online: http://www.diss-duisburg.de/wp-content/uploads/2017/02/DISS-2017-Von-der-Willkommenskultur-zur-Notstandsstimmung.pds -

[*8] - Konicz, Tomasz: Kapitalkollaps – Die finale Krise der Weltwirtschaft [*Il collasso del capitale - La crisi finale dell'economia mondiale"] Hamburg 2016, p. 158ss.

[*9] - Heitmeyer 2018, p. 279.

[*10] - Ziege, Eva-Maria: Nachwort der Herausgeberin [Postfazione dell'editore] in Adorno, Theodor W.: Bemerkungen zu The Authoritarian Personality [Note alla "personalità autoritaria"], Berlin 2019b, p. 135ss.

[*11] - L'NPD, nel 1969, poi mancò per un pelo il suo ingresso nel Bundestag. Questo poi portò ad un «cambiamento di strategia» di parti della destra, che in questo modo si modernizzò; si veda Weiß, Volker: Die autoritäre Revolte – Die Neue Rechte und der Untergang des Abendlandes ["La rivolta autoritaria - La nuova destra e il declino dell'Occidente"] Stuttgart 2018, p. 27ss., e anche: Feit, Margret: Die »Neue Rechte« in der Bundesrepublik – Organisation, Ideologie, Strategie [La "nuova destra" nella Repubblica Federale - Organizzazione, ideologia, strategia], Francoforte/New York 1987, p. 23 ss.

[*12] - Adorno, Theodor W.: Aspekte des neuen Rechtsradikalismus [Aspetti del nuovo radicalismo di destra] 4. Aufl., Berlin 2019a, p. 9-13.

[*13] - Non è un caso che la rivista di estrema destra di Jürgen Elsässer abbia come sottotitolo "Magazin für Souveränität" [rivista per la sovranità].

[*14] - Si veda  Kurz, 2005.

[*15] - Si veda 2019a, p. 74s. Volker Weiß evidenzia le somiglianze tra il radicalismo di destra e l'Islam. Per esempio, la relazione tra i due è evidente nella misoginia e nella mania della mascolinità. La mania neofascista della mascolinità è esemplificata nel libro di Jack Donovan "Der Weg der Männer" ("La via degli uomini"), pubblicato dalla destra radicale Antaios-Verlag, cfr. Weiß 2018, p. 227ss. Jack Donovan potrebbe anche, in linea di principio, unirsi all'ISIS, come ha osservato Weiß: per esempio, nell'intervista "Tacheles: Volker Weiß su attori, ideologia e sviluppo della Nuova Destra", https://www.youtube.com/watch?v=5xtMdgVayOw al  7:50 min.

[*16] - Cfr.: Kurz, Robert: Die Demokratie frisst ihre Kinder – Bemerkungen zum neuen Rechtsradikalismus in: Rosemaries Babies – Die Demokratie und ihre Rechtsradikalen, Unkel/Bad Honnef 1993, p. 11–87  [La democrazia divora i suoi figli]. si veda anche: Scholz, Roswitha: ›Die Demokratie frisst immer noch ihre Kinder‹ – heute erst recht [La democrazia divora i suoi figli– ancora!], in: exit! – Krise und Kritik der Warengesellschaft, Nr. 16, Springe 2019, 30–60. Si veda anche: Konicz, Tomasz: Failed State BRD, 2018, online: https://www.heise.de/tp/features/Failed-State-BRD-4232674.html -

[*17] - Si veda: Kurz 2003 e Bedszent, Gerd: Zusammenbruch der Peripherie – Gescheiterte Staaten als Tummelplatz von Drogenbaronen, Warlords und Weltordnungskriegen [Il crollo della periferia. Stati falliti come terreno di coltura per baroni della droga, signori della guerra e guerrieri dell'ordine mondiale], Berlino 2014. Si veda anche: Konicz, Tomasz: Kapitalkollaps – Die finale Krise der Weltwirtschaft [Il collasso del capitale - La crisi finale dell'economia mondiale], Hamburg 2016.

[*18] - Hanloser, Gerhard: Die libertäre und die liberale Linke und die Neue Rechte – Bemerkungen zu einer drängenden Frage [La sinistra libera e liberale e la nuova destra - Commenti su una questione urgente], in: Neznam: Zeitschrift für Anarchismusforschung, Nr.7, Lich 2018, p. 167.

[*19] -  What it means to draw up the past, da circa 3 min: https://www.youtube.com/watch?v=ioj9UPuP374

[*20] - La continuità di entrambe le cose è particolarmente evidente nell'imperialismo di esclusione razzista e nella costruzione democratica dei muri, si veda Kurz, Robert: Weltordnungskrieg – Das Ende der Souveränität und die Wandlungen des Imperialismus im Zeitalter der Globalisierung, Bad Honnef 2003. [La guerra di ordinamento mondiale - La fine della sovranità e le metamorfosi dell'imperialismo nell'era della globalizzazione], soprattutto p. 190ss. Si veda anche: Trenkle, Norbert: Der Demokratische Mauerbau – Elendsmigration und westlicher Abgrenzungswahn [La costruzione democratica dei muri - Migrazione della miseria e mania di delimitazione occidentale], in: Rosemary Babies - Die Demokratie und ihre Rechtsradikalen, Unkel/Bad Honnef 1993, p. 227-262.

[*21] - Adorno 2019a, p. 17s.

[*22] - Vale qui la pena ricordare, in questo contesto, che nella sua polemica contro Karl Kautsky, Lenin faceva riferimento all'ipocrisia delle democrazie borghesi e menzionava ciò che oggi verrebbe chiamato «stato di eccezione». Dice: «Prendete le leggi fondamentali degli Stati moderni, i loro apparati governativi, prendete la libertà di riunione o di stampa, la "eguaglianza dei cittadini davanti alla legge", e troverete ad ogni passo l'ipocrisia della democrazia borghese, ben nota ad ogni operaio onesto e cosciente. Non vi è un solo Stato, anche il più democratico, nella cui Costituzione non esistano scappatoie o clausole che assicurano alla borghesia la possibilità di procedere manu militari contro gli operai, di dichiarare lo stato di assedio, ecc. "in caso di perturbazione dell'ordine pubblico", in realtà nel caso in cui la classe sfruttata "turbi" il proprio stato di schiavitù o tenti di agire come una classe non schiava. Kautsky inorpella spudoratamente la democrazia borghese, tacendo, per esempio, quanto la più democratica e più repubblicana borghesia dell'America e della Svizzera fa contro gli operai in sciopero.»  (Lenin, W.I.: Die proletarische Revolution und der Renegat Kautsky [La rivoluzione proletaria e il rinegato Kautsky], in: Ausgewählte Werke Band III, Berlin 1970, p. 87).

[*23] - Marx, Karl: Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Berlin 1953, p. 960

[*24] - Si veda:  Konicz 2016, p. 180ss.

[*25] - A causa dell'evidente discrepanza tra «la parvenza e la realtà della democrazia», ovviamente, sempre meno persone credono alla propaganda democratica occidentale. In diversi frangenti si parla di «post-democrazia», di «democrazia di facciata», di «oligarchia (finanziaria)», ecc.; tutti termini che presumibilmente catturano la realtà democratica. Queste critiche, tuttavia, rimangono fenomenologiche, non vanno al di là di una «critica al neoliberismo», criticano la mancanza di «rappresentanza», l'insufficienza di «democrazia diretta», lo «Stato dentro lo Stato» e fanno appello ad un assurdo «sistema finanziario democratico», ecc.

[*26] - Kurz, Robert: Schwarzbuch Kapitalismus – Ein Abgesang auf die Marktwirtschaft [Il libro nero del capitalismo  – una canzone di addio all'economia di mercato], Frankfurt 1999, p. 574.

[*27] - Kurz 1993, p. 18 .[2020, p. 29].

[*28] - ivi, [2020, p. 31]. Corsivo nell'originale.

[*29] - Hayek, Friedrich A. von: Die Verfassung der Freiheit [La costituzione della libertà] (Gesammelte Schriften Bd. 3), Tübingen 2005, p. 25, 82 e 132.

[*30] - Konicz, Tomasz: Willkommen in der Postdemokratie [Benvenuti nella post-democrazia], 2015b, online: https://www.heise.de/tp/features/Willkommen-in-der-Postdemokratie-3374458.html -

[*31] - Cfr. Kurz 2003, p. 324s.

[*32] - Rentschler, Frank: Der Zwang zur Selbstunterwerfung – Fordern und Fördern im aktivierenden Staat [La coazione alla sottomissione – Esigere e promuovere nello Stato di attivazione], in: exit! – Krise und Kritik der Warengesellschaft, Nr.1, Bad Honnef 2004, p. 201–229.

[*33] - In questo modo, all'inizio del 2017, il Ministero degli Affari Esteri parlava di condizioni simili per i campi di concentramento in Libia. La relazione afferma, tra el altre cose, che «lì, esecuzione di migranti non paganti, tortura, stupri, estorsione e abbandono nel deserto sono all'ordine del giorno» si veda: https://www.welt.de/politik/deutschland/article161611324/Auswaertiges-Amt-kritisiert-KZ-aehnliche-Verhaeltnisse.html -

[*34] - Per non essere frainteso: è ovvio che la democrazia e il fascismo non sono esattamente la stessa cosa, e non è la stessa cosa se al potere c'è un socialdemocratico corrotto o un fascista del calibro di Bolsonaro. Ragion per cui, pertanto, sarebbe reazionario accettare o dichiarare irrilevante, per esempio, il consolidamento o lo smantellamento della giustizia borghese con un'alzata di spalle.

[*35] - Come dice l'articolo di Marx, "The Future Results of British Rule in India", dell'8 agosto 1853: «La profonda ipocrisia, l'intrinseca barbarie della civiltà borghese si palesano tostoché dalle grandi metropoli (dove assumono forme rispettabili) volgiamo gli occhi alle colonie, dove vanno in giro ignude.» (Marx, Karl; Engels, Friedrich: MEW Band 9, Berlin 1960, p 225). La flagranza di questa barbarie, per esempio, viene dimostrata da Mike Davis nel suo libro "Olocausti tardovittoriani". Feltrinelli. 2002.

mercoledì 27 gennaio 2021

Come in uno specchio rotto …

« Un’affermazione falsa, un’affermazione vera e un’affermazione inventata non presentano, dal punto di vista formale, alcuna differenza. Quando Benveniste analizzò i tempi del verbo francese si servì senza esitazione di esempi tratti sia da romanzi sia da libri di storia. In un romanzo breve intitolato Ponzio Pilato, Roger Caillois esplorò con molta intelligenza le implicazioni di quest’analogia. È notte: la mattina dopo Gesù verrà processato. Pilato non ha ancora deciso quale sentenza pronuncerà. Per indurlo a scegliere la condanna, un personaggio predice una lunga serie di eventi che seguiranno la morte di Gesù: alcuni importanti, altri insignificanti – ma, come il lettore capisce, tutti veri. La mattina dopo Pilato decide di assolvere l’imputato. Gesù viene sconfessato dai discepoli; la storia del mondo prende un’altra strada. La contiguità tra finzione e storia fa pensare a quei quadri di Magritte in cui sono raffigurati, uno accanto all’altro, un paesaggio e il suo riflesso in uno specchio rotto. »

Carlo Ginzburg, da "Descrizione e citazione", in "Il filo e le tracce. Vero falso finto". Feltrinelli
- Immagine - René Magritte, « La clé des champs » -

martedì 26 gennaio 2021

Anime Belle

Nel 20° secolo, le edizioni degli scritti di Marx erano incomplete. Tuttavia, con quelle diverse edizioni delle presunte opere complete di Marx, si sono dovute confrontare diverse generazioni di marxisti e di studiosi di Marx. Per esempio, la pubblicazione, negli anni '30 degli scritti giovanili di Marx cambiò drasticamente la comprensione del suo progetto. Semplicemente, né Lenin né Rosa Luxemburg erano stati a conoscenza di quelle opere; avevano conosciuto ed affrontato un Marx che appariva come una sorta di scienziato dello sviluppo storico, del quale si avevano ben pochi indizi riguardo la sua impostazione filosofica. Avevano trovato quel Marx che era critico della Filosofia del Diritto di Hegel, ma non avevano conosciuto il Marx che invece sembrava essersi potuto ispirare al concetto rivoluzionario di libertà della Filosofia dello Spirito di Hegel. Potrebbe essere benissimo accaduto - ha ipotizzato qualcuno - che le immagini parziali che si avevano di Marx, soprattutto quelle del 20° secolo, abbiano avuto delle implicazioni storiche a livello mondiale. Difficile dirlo, ma fatto sta che siamo assai lontani dal poter contare di avere accesso ad una biografia soddisfacente, se si considera che la Marx - Engels Gesamtausgabe (versione 2) verrà completata forse solo nei prossimi 15 - 20 anni! Fino ad allora, almeno, la controversia continuerà.
Quali sono, attualmente, i temi e le questioni oggetto di controversia? Ce n'è uno particolarmente significativo. Riguarda il fatto che Kohei Saito, dopo aver esaminato i quaderni delle annotazioni scientifiche di Marx, è arrivato alla conclusione che l'ultimo Marx  non era alla ricerca di una «concezione scientifica», o di una «filosofia della natura» (del materialismo dialettico engelsiano?!?), ma era interessato, piuttosto, all'impoverimento del suolo nel capitalismo. Una ricerca del genere, schiude tutta una serie di possibilità affascinanti. Il tema dell'esaurimento del suolo può sembrare secondario, ma se viene visto come un esempio dell'insostenibilità del "metabolismo" del capitale con il mondo naturale, ecco che allora Marx  può avere molto da dirci riguardo la nostra crisi ecologica, e circa la sua soluzione. Non appare più come se fosse l'avvocato di una subordinazione "prometeica" della natura per fini socialisti, ma piuttosto come un autore che vincola la sostenibilità ecologica alla politica emancipatoria. Ci parla in maniera viva e chiara degli attuali movimenti per la giustizia climatica.
Michael Heinrich, in una sua nota, del 24 aprile 2018, al suo libro,  "Karl Marx and the Birth of Modern Society", sostiene che bisognerebbe familiarizzare in maniera affidabile e dettagliata con Marx e con i suoi scritti. E senza andare ad esplorare le affermazioni di Marx, nella loro sostanza, Heinrich si limita a sottolineare tre punti che sarebbe un peccato non riportare qui:

1) Il primo di questi punti ha a che fare con le poesie che Karl Marx studente ha scritto alla sua ragazza Jenny e ad altre. Marx aveva preso molto sul serio il fatto che concepiva e considerava sé stesso come un romantico, e ciò che va chiarito è che fu proprio la sua lettura di Hegel che poi lo spinse a ritenere di dove mettere da parte simili concezioni. Heinrich specula, arrivando a sostenere che il brano di Hegel che lo allontanò dal romanticismo sia stato quello in cui Hegel,nella "Fenomenologia dello Spirito" menziona il protagonista dei "Dolori del giovane Werther" come un caso esemplare di "anima bella" [*1]. Qui, un lettore di Marx con inclinazioni romantiche potrebbe rimpiangere un simile allontanamento, ma credo non ci sia dubbio che ciò in cui Marx si è convertito a causa di questo distanziamento, sia stato assai più interessante dello scrittore di poesie che era stato prima. Qui, nel pensiero di Marx ha luogo una «svolta» innegabile, che appare assai più decisiva di quanto possa essere stata qualsiasi presunta «rottura epistemologica», che sarebbe avvenuta successivamente. La svolta decisiva di Marx è verso Hegel, verso il giovane Hegel rivoluzionario della Fenomenologia dello Spirito, e non quella che lo avrebbe portato via da Hegel, come ha sostenuto Althusser.

2) Il secondo passaggio da sottolineare ha a che vedere con i Giovani Hegeliani (come venivano chiamati gli autori in questione). «Considereremo in quali casi si possa parlare di giovani hegeliani e di vecchio hegelismo», (sostiene Heinrich a pagina 267). È moneta corrente, dire, per esempio in un contesto storico, che «dopo la morte di Hegel avvenuta nel 1831 i suoi seguaci si divisero nelle "scuole " dei giovani hegeliani e dei vecchi hegeliani», (continua Heinrich a pagina 270). Egli non nega affatto che negli anni successivi alla morte di Hegel, alcuni hegeliani siano stati dei reazionari mascherati, mentre ce ne sono stati altri che però teorizzavano in maniera critica, perfino rivoluzionaria. Questo serve a fare giustizia della «falsa pista» che parla delle «scuole» di pensiero e a gettare luce su quale fosse la politica dell'epoca per comprendere lo sviluppo del pensiero di Marx.

3) Il terzo passaggio è quello in cui Heinrich affronta la questione della continuità o della discontinuità nelle opere di Marx, e cerca di seguire un percorso, una pista, in mezzo alle affermazioni - precedentemente menzionate - che parlano di una «rottura epistemologica», da una parte, e quelle che sostengono una assoluta continuità, dall'altra. Il suo suggerimento è quello di considerare quanto siano entrambe errate [*2]. Sia individuare una semplice continuità nello sviluppo di Marx, sia l'idea di un'unica «rottura» che fonderebbe una «scienza» marxista (come pretende Althusser), in egual misura, non riescono a capire quanto fossero multiformi ed enciclopedici gli interessi di Marx. Negli scritti di Marx ci sono numerose svolte, cambi di rotta e sviluppi. E non si può non rivendicare il fatto che in lui non ci sia né una mera continuità né una rottura letterale tra il Marx "giovane" e il Marx "maturo". Tuttavia, quando si arriva a considerare il Marx che (una volta terminata la sua gioventù romantica) torna ad appoggiarsi in maniera definitiva a Hegel, e la coerenza del suo progetto di vita, ecco che la risposta appare in tutta la sua evidenza. Ecco che allora la domanda è: a quale Hegel si è appoggiato Marx? La risposta è il giovane Hegel, nella cui Fenomenologia dello Spirito si respirava ancora l'aria delle rivoluzioni francese e haitiana, e non il tardo Hegel che nella sua Filosofia del Diritto si era rappacificato con le istituzioni di un mondo ormai non più rivoluzionario. E non si può fare a meno di notare che leggere Marx insieme al giovane Hegel ha prodotto quelle che sono state alcune delle interpretazioni politicamente più radicali degli ultimi cento anni (Lukàcs, Kojève, Sartre, Adorno, Fanon, per menzionarne alcuni).

NOTE:

[*1] - Si noti che il significato dell'espressione "anima bella" è oggetto di discussione negli studi su Hegel. Alcuni lo prendono come un riferimento all'amico giacobino di Hegel, Hölderlin, altri invece fanno riferimento a fonti letterarie come, per esempio, Wilhelm Meisters Lehrjahre (1795) di Goethe o La nouvelle Heloise (1761) di Rousseau. L'accordo lo si trova quando "anima bella" viene riferito a «un tipo di persona che si ritira dall'azione etica o politica e il cui atteggiamento verso il mondo è caratterizzato o da una pietà autocompiaciuta o da un desiderio impotente.»

[*2] - Heinrich sostiene che «Marx ha sempre seguito traiettorie tematiche multiple», per cui il concetto di rottura epistemologica (al singolare) è troppo rozzo.

lunedì 25 gennaio 2021

A volte dimentico di scordare …

Della sua morte, avvenuta il 15 dicembre del 2006, lo seppi solo qualche tempo dopo. Spero solo che quel giorno non sia stato troppo freddo nella sua Ragusa. Che strano, quando è morto aveva poco meno di 86 anni, ma non mi riesce pensarlo ... "vecchio"! E non perché ora siano passati così tanti anni da quando lo vidi per l'ultima volta. No, non per questo, non per non averlo visto ... "invecchiare".Gli è che già da subito, da quando lo conobbi all'inizio degli anni '70 - ed allora, ad esempio, rispetto a mio padre era più giovane solo di un anno - lo percepii immediatamente come se fosse, per usare un'immagine stantìa, un ... fratello maggiore. Quella sensazione era destinata a rafforzarsi, non troppo tempo dopo nel 1974, quando passammo una buona "mesata" a Vallo della Lucania, stando praticamente insieme giorno e notte per tutta la durata del processo a Giovanni Marini. O certo, allora lui «ne sapeva qualcuna» più di me, come quando mi rimbrottò perché stavo lasciandomi scappar detto al commissario Juliano venuto a portarci in camera di sicurezza, che la porta dell'immobile che avevamo forzato - nella piazza centrale di Vallo della Lucania, per stendere uno striscione che poi sarebbe stato visto da tutto il paese -  l'avevamo, per l'appunto, forzata. Ne aveva di esperienza di poliziotti e magistrati!
Fummo gli unici, io e lui, allora a "farcelo" tutto, il processo. Arrivammo - io da Firenze, lui non so da dove -  qualche giorno prima che cominciasse, venuti lì per preparare un po' il terreno per le decine di compagni che poi via via si sarebbero succeduti in quel posto che, senza offesa, poteva essere definito come uno dei buchi di culo del mondo. L'impatto fu dei peggiori, all'inizio. Il segretario della locale federazione comunista ci venne ad esprimere tutta la solidarietà e tutto il dispiacere per non aver potuto  mettere a disposizione la sede, nonostante il fatto che i militanti di base del paese avessero cercato di spingere in tal senso. Ordini dall'alto! E ciò, nonostante il fatto che Terracini fosse nel collegio di difesa (gli alti papaveri anarchici avevano ritenuto che «poteva servire alla causa»!!). Ma allora già Terracini non ci stava troppo con la testa. E, ad onor del vero, anche quando ci stava aveva da tempo accettato di far da gagliardetto ad un partito comunista che aveva non troppo a che fare con quello da lui fondato insieme a Bordiga e ad altri. Ma tant'è, anzi tanto fu.
Ho passato fra le più belle giornate, e nottate, della mia vita, a Vallo della Lucania, nel 1974, insieme a Franco Leggio. A fare, a organizzare, a chiacchierare. Ricordo sempre le lacrime del gestore della trattoria dove mangiavamo tutti i giorni, quando lo salutammo dicendogli, la mattina dopo la notte della sentenza, che andavamo via. Un omone enorme che piangeva come un bambino, mentre abbracciava e baciava Franco, cercando di strappargli la promessa di un ritorno. E ne ricordo, di Franco, la modestia e le battute. Lo spirito siciliano che traboccava da quei suoi occhi dallo strano taglio quasi orientale. Ne ricordo la tranquillità, persino quella volta che - lui (che non aveva, e non avrebbe mai preso la patente) seduto dietro nella macchina dalle gomme lisce che ci aveva prestato Libero Fantazzini per andare a fare un bagno nel mare di Velia - persi il controllo della vettura, facendola sbandare paurosamente, per poi riuscire a fermarmi solo dopo un chilometro di paura e un paio di testa-coda. La sua bocca, impreziosita da quei baffi spioventi che lo avevano fatto scambiare per un fascista, alla Occhipinti, la prima volta che lo vide, allora non fece una piega!
Già, Vallo della Lucania. Come ricordare tutto e tutti? I compagni che arrivavano da tutte le parti d'Italia. Quelli che andavano via poco dopo e quelli che si fermavano un po' più a lungo. Gli slogan, che la sera andavamo a urlare sotto il carcere per farci sentire bene da chi stava dietro quelle mura, e quella volta che si cominciarono a sentire i secondini sparare,  e Luca Villoresi che il giorno prima si era fatto una brutta storta alla caviglia, ed era alto [credo lo sia ancora, e gli auguro di aver continuato ad esserlo] più di un metro e novanta e si appoggiava a me e a Franco mentre cercavamo in maniera improponibile di scappare stando chinati. E la gente del luogo che nell'unica osteria del paese si ubriacava e ci raccontava la propria vita, storie di resistenza umana e politica. E Dario Fo che arriva e fa lo spettacolo in paese, e noi gli si monta e poi gli si smonta il palco. E Franco che mi guarda e sorride ammiccando, come a dire che è meglio essere tra quelli che lo montano e poi lo smontano il palco, piuttosto che fra quelli che si limitano a salirci sopra per poi tornare in albergo senza nemmeno fermarsi a parlare, non dico a ringraziare.
Ma forse ci si nasce, come Franco Leggio. Minatore in una miniera di zolfo, probabilmente fu lì che tutto incominciò. Poi in Marina, per sfuggire alla sorveglianza che a Ragusa si faceva sempre più stretta. Nel 1944 contrae la tubercolosi e viene ricoverato in un sanatorio, a Ragusa, da cui scappa nel gennaio del 1945 per mettersi a capo della rivolta contro la coscrizione. Il movimento "Non Si Parte" si scontra, armato, con la polizia sotto il controllo degli alleati e viene represso con centinaia di arresti. Gli costa un anno e mezzo di prigione, a Franco! Torna a lavorare in miniera nel 1949 e partecipa al grande sciopero di due mesi, e all'occupazione delle miniere, durante il quale i minatori e le loro famiglie si battono contro la polizia. Come spesso è avvenuto, soprattutto in Sicilia, la lotta è svenduta dai sindacati ed alcuni, fra cui Franco, sono costretti a lasciare Ragusa. Fra il 1949 ed il 1969 lavora a Napoli, a Bari, a Genova e a Milano, e infine in Francia. In questo periodo si lascia coinvolgere nel lavoro clandestino che gli spagnoli hanno messo in piedi contro il franchismo. E' uno degli italiani della "banda" di Jose Luis Facerias e riesce a sfuggire all'agguato della polizia spagnola in cui lo stesso Facerias perde la vita, nel 1957. Nel 1960 fonda la casa editrice "La Fiaccola" e i costi di "produzione" per stampare libri e opuscoli sono alti e comportano perquisizioni e arresti. Continuerà a pagarli per anni, questi costi, senza mai cedere di un passo. Anche quando, nel 1986, i magistrati chiederanno una perizia psichiatrica, dichiarerà pubblicamente che, se lo vogliono, dovranno venire a prelevarlo a casa! Sarà un vasto movimento di opinione internazionale a scongiurare l'ennesima brutalità ai suoi danni. E ora è morto, in quello stesso ospedale da cui era evaso nel 1945!
E io, insieme al ricordo dei suoi occhi brillanti e del suo sorriso - come lo si può vedere in questa foto, scattata fuori dal tribunale della mia Siracusa risalente a quegli anni in cui l'ho conosciuto -  mi tengo quello del suo tranquillo coraggio che non ho mai avuto e non avrò mai. Nato il 2 marzo 1921, oggi come allora continua ad essere un mio coetaneo, un fratello maggiore, di poco, e lo è ancora. Come in quest’altra foto dove siamo insieme. E fratello maggiore e insieme lo sarà sempre!

- già pubblicato sul blog il 26/7/2007 -

domenica 24 gennaio 2021

« Scrive giustamente ... »

Nel suo libro del 2004, "Immagini malgrado tutto" (p .45 - 47)Didi-Huberman salva Georges Bataille e la sua riflessione a proposito della relazione tra «vittime e carnefici» vista nel contesto della Shoah. Subito prima, Didi-Hubermann ha preparato il terreno per mezzo di una riflessione di Blanchot tratta dal suo "La scrittura del disastro": dove afferma che con i campi di concentramento, emerge il paradosso per cui l'«invisibile si è reso visibile per sempre».
È assai significativo - continua Did-Huberman - che Blanchot, colui che è per eccellenza il pensatore senza tregua della negatività, non abbia accostato la Shoah all'«inimmaginabile», o all'«invisibile» (come ha fatto, secondo l'esempio riportato da Didi-Huberman, Sartre). Poco dopo aver citato il testo scritto da Bataille contro Sartre e contro le sue "Riflessioni sulla questione ebraica" ("Sartre", del 1947), Didi-Huberman salva un altro testo di Bataille, sul quale poi tornerà in altri momenti della sua opera, intitolato "Réflexions sur le bourreau et la victime" ["Riflessioni sul carnefice e la vittima"], un testo anch'esso del 1947. Scrive Bataille, «[...] noi non siamo soltanto le vittime possibili dei carnefici: i carnefici sono i nostri simili». Cosa faremmo se fossimo al posto delle vittime? Cosa attueremmo? La fuga, la resistenza, la desistenza? E che cosa faremmo se fossimo al posto dei carnefici?
Didi-Huberman commenta asserendo che Bataille aveva compreso, già nel 1947, la necessità di pensare a partire dal possibile e dal simile; che bisognava parlare dei campi come del "possibile" stesso, come del "possibile di Auschwitz". «Se il pensiero di Bataille rimane vicino a questa terribile "possibilità umana", ciò avviene perché riesce ad enunciare, sin da subito, il legame indissolubile tra l'immagine (la produzione del simile) e l'aggressività (la distruzione del simile)». E qui Didi-Huberman aggiunge in una nota che il legame esistente tra immaginario e aggressività è stato teorizzato - in maniera abbastanza simile a quella di Bataille - da J. Lacan in un suo articolo del 1948, "L'aggressività in psicoanalisi" [in "Scritti", Einaudi, 1974 pp. 95-118].

fonte: Um túnel no fim da luz

sabato 23 gennaio 2021

Sottolineature

C'è un libro, fra i tanti che ho, disperatamente sottolineato (a matita, ai tempi non c'erano gli evidenziatori), letto e riletto. Le pagine sono oramai ingiallite, però hanno tenuto e la rilegatura non si è disfatta. Il libro è un libro per così dire "sfortunato". Rifiutato dalle due case editrici di riferimento di Danilo Montaldi, che con Einaudi e Feltrinelli aveva pubblicato quelli che vengono invece considerati due classici della cosiddetta "inchiesta militante": "Le Autobiografie della leggera" e "Milano Corea", rispettivamente. Questo invece, alla fine - parlo del "Saggio sulla politica comunista in Italia (1919 - 1970)"  - venne edito per i tipi di  "Quaderni Piacentini". Ricordo che al tempo non mi erano simpatici "quelli" di "Quaderni Piacentini". E questo perché, da subito, nell'autunno del 1970, appena sbarcato alla Casa dello Studente di Piazza Indipendenza, avevo conosciuto tra gli inquilini della "Casa" stessa uno che con quella rivista ci collaborava. Bruno Accarino. Anche oggi, se non sbaglio, collabora a varie riviste e giornali, fra cui "Il Manifesto" ed ha, o forse aveva, una cattedra di filosofia da qualche parte. Ma non importa. Fatto sta che ero convinto (e non ritengo di avere mai avuto dei motivi per dover cambiare opinione in  proposito) fosse questo, già da allora, il suo unico scopo, ed è proprio per questo che non mi risultò simpatico fin dal primo acchito. Ad ogni modo, a rischio di scivolare nell'aneddotica, ricordo che era amico di un altro napoletano, un pazzo scatenato che si definiva "il barone situazionista" e  che di notte, dall'ultimo piano della "Casa", si divertiva a lasciar cadere nella tromba delle scale cose tipo il contenuto di un pacco di pasta, uno per uno. Ricordo anche che a quel tempo dovetti faticare non poco per far rimuovere l'Accarino dalle liste nere dei compagni di mezza Italia che lo avevano classificato come "fascista fiorentino". Come fu come non fu, era successo che, durante l'assalto alla casa dello studente da parte dei “simpatici ragazzi” che frequentavano la prospiciente sede del "Movimento Sociale" (c'era stata una loro riunione regionale, e si erano sentiti disturbati dalle note delle canzoni che provenivano dall'ultimo piano della palazzina universitaria). Fatto sta che, insieme ai più esuberanti dei ragazzi in camicia nera, anche l'Accarino era finito al commissariato per aver chiesto ad un maresciallo di salutargli ... la signora! Comunque - a prescindere dalla digressione – dicevo che il libro di Montaldi andò in stampa e finì per essere ignorato pressoché da tutti. Pubblicato nel 1976, quando il PCI si trovava al massimo della sua fortuna, Danilo Montaldi aveva commesso lo "sbaglio" di enunciare la previsione, agghiacciante per la puntualità con cui poi si è verificata, secondo cui il partito egemone della sinistra, una volta abbandonato del tutto il presunto "sogno rivoluzionario", si  sarebbe avviato mestamente verso il nulla. Verso i Fassino, i Veltroni, i Mussi... Inoltre, non andò a genio a molti - per non dire a punti - la tesi che approcciava da un altro punto di vista la cosiddetta "autonomia del politico" trontiana, per dichiarare che «la storia della classe operaia italiana è totalmente autonoma dalla struttura istituzionale del movimento operaio». E questa autonomia della classe, dentro il libro, emerge da sotto ogni parola, e in questo mi aiuta la sua (che poi è la mia, anche se spesso non la condivido più in quanto tale) sottolineatura che di tanto in tanto mi vado a rileggere, quasi a mo' di conforto da breviario! Quasi sperando che venga un altro Montaldi che sappia trovare il punto di sutura fra i superstiti, i sopravvissuti di oggi e un nuovo ciclo di lotte.

(già pubblicato sul blog il 10/7/2007)

venerdì 22 gennaio 2021

«Non fumammo con lui, non era venuto in pace»

No, il PCd'I non me lo ricordo, ovviamente non me lo posso ricordare, anche se qualcuno tra quelli che c'erano l'ho anche conosciuto, e gli ho perfino stretto la mano: nel 1974, a Vallo della Lucania quando era nel collegio di difesa di Giovanni Marini, allora a processo per l'accoltellamento di un fascista, Falvella. Non è che però ci fosse poi tanto con il cervello, allora, Terracini, ma anche prima, azzarderei, a leggerne ...
Dicevamo? Ah già, il Partito Comunista... Oh, certo quello l'ho conosciuto, e come se l'ho conosciuto! Dapprima, al principio, quando avevamo bussato alle sue porte che non si aprivano, e che non si sono mai aperte; poiché noi non contavamo un cazzo e volevamo solo rompere i coglioni, ed era perfettamente vero ... Poi, poco tempo e un migliaio e rotti di chilometri dopo, quando avevamo cominciato a contare qualcosa - come nel 1970 – quando gli si fece il torto di occupargli la loro preziosa Regione Toscana, esigendo da quei miserabili che ci pagassero i miseri  presalari che ci spettavano e che l'Opera Universitaria di Staderini ci negava. Ed ecco che fu lì e allora che il grande e glorioso partito ebbe la splendida idea di sgomberare gli abusivi, e per attuare lo sgombero ci mandarono contro il loro altrettanto glorioso servizio d'ordine, quello degli operai della Galileo - fiore all'occhiello del partito di quella città, ché il lavoro è sempre andato per la maggiore da quelle parti - cui avevano detto, senza fare alcun sfoggio di un'immaginazione che tra l'altro non hanno mai avuto, che ad aver occupato la Regione Rossa erano stati niente di meno che i "Fascisti"! Tra quei "fascisti", manco a dirlo, c'ero anche io, a quel tempo diciassettenne. Ecco, l'ho conosciuto allora il Partito, e l'ho conosciuto bene! Credo che in quell'occasione, come in altre che poi si sarebbero ripetuti in altri luoghi e in altri momenti e occasioni, avesse tutte le intenzioni di lasciarmi i segni della sua conoscenza; che altro da lasciare non hanno mai avuto in tutta la loro storia. Proprio bene non gli andò, e nel nostro piccolo - come dire, "alzammo le mani", ma non per arrenderci. Ci sarebbe stato tempo e modo di continuare qua e là il discorso che ormai da tempo si era fatto troppo annoso. E che forse è ancora, tuttora, destinato a continuare. Fino a quando non finisca.

giovedì 21 gennaio 2021

Ai quattro angoli del mondo

Dalla sua fondazione, avvenuta nel 1957, fino alla sua autodissoluzione del 1972, l'Internazionale Situazionista si è imposta come una delle organizzazioni più radicali del 20° secolo. Questo libro riunisce i principali studiosi dell'IS, in modo da poter offrire un'analisi critica complessiva dei concetti chiave e dei contesti del gruppo, a partire dalle prime relazioni avute con le avanguardie artistiche, con il romanticismo, con l'hegelismo, con la storia del movimento operaio e con il maggio '68, per poi arrivare ai concetti e alle pratiche dello «spettacolo», della «costruzione delle situazioni», della «vita quotidiana» e del «détournement». Il libro prende in considerazione anche quelle aree dell'IS storicamente poco esaminate in precedenza, comprese la situazione delle donne nel gruppo e la sua opposizione al colonialismo e al razzismo. Con il contributo di una vasta gamma di pensatori, inclusi Anselm Jappe e Michael Loewy, questo libro propone un punto di vista originale a quella che è stata la complessa opera di un gruppo che è riuscito a ridefinire la politica e la cultura radicale nel secondo dopoguerra.

(dal risvolto di copertina di: "The Situationist International: A Critical Handbook", a cura di Alastair Hemmens & Gabriel Zacarias. Editore Pluto Press.)

Alastair Hemmens e Gabriel Zacarias: «L'Internazionale situazionista è diventata oggetto di ricerca accademica».
- Intervista di Galaad Wilgos - Pubblicata su Marianne del 28/11/2020 -

Alastair Hemmens e Gabriel Zacarias, entrambi ricercatori universitari, hanno appena pubblicato un importante libro sull'Internazionale Situazionista, per il momento solo in lingua inglese.
Gruppuscolo di estrema sinistra per alcuni, ultima avanguardia artistica per gli altri, l'impatto che ha avuto l'Internazionale situazionista (1957-1972) è stato per molto tempo sottovalutato dagli storici. Attivi sia in ambito politico che culturale, intendevano farla finita con la società di classe e con la dittatura della merce. Tuttavia, da qualche tempo, abbiamo visto un sempre più consistente numero di lavori mettere in luce l'importanza di questo collettivo rivoluzionario e la serietà della sua analisi. "The Situationist International: A Critical Handbook", curata da Alastair Hemmens e Gabriel Zacarias, si propone di fare un bilancio su questa ricerca e su quale sia la portata attuale di questa Internazionale situazionista, pubblicando i contributi di tutta una serie di intellettuali di paesi diversi, fra cui Anselm Jappe e Michaël Lowy.

Marianne: Nell'introduzione che apre il libro, voi affermate che dall'inizio di questo secolo c'è stata un'evoluzione sulla ricerca sui situazionisti. Sappiamo che in Francia esiste tuttora una tradizione, minoritaria ma ben viva, di situazionismo rivoluzionario, che comprende numerosi pensatori e collettivi che si richiamano a dei siti e a delle case editrici che li pubblicano:  L’échappée, Allia, L’Encyclopédie des Nuisances, o il Comité Invisible, tra gli altri. Ma voi in questo libro pubblicate anche i testi di diversi autori dai quattro angoli del mondo. Qual è lo stato del situazionismo nel resto del mondo (eredità, pubblicazioni, ricezione, ecc.)?

Alastair Hemmens e Gabriel Zacarias: Cominciamo col sottolineare che i situazionisti hanno sempre rifiutato il termine "situazionismo". Non è solo una questione di stile, o un'ostentazione, ma si tratta di un'importante distinzione che - insistiamo - dev'essere mantenuta. L'Internazionale situazionista (IS) non aveva alcuna intenzione di diventare un dogma, né un'ideologia. Non c'è mai stata una posizione prestabilita. I membri del gruppo affrontavano gli stessi problemi, ma lo facevano in modi diversi. Allo stesso tempo, il "situazionismo" è qualcosa di molto reale, ma così come ne parliamo nel libro, definendolo, esso è effettivamente «la storia dei malintesi e dei fraintendimenti, a partire dai quali l'IS si è resa oggetto»; e costituisce la più parte del modo in cui l'IS è stata e viene "recepita".
In effetti, nel nostro libro sottolineiamo come la ricezione dell'IS sia complicata, frammentata e problematica. È perfino impossibile parlare di una ricezione singolare, per non dire, dominante dell'IS. Abbiamo l'IS così come veniva intesa dalla gioventù e dall'estrema sinistra degli anni '60. Poi ci sono le interpretazioni diverse dell'IS da parte delle istituzioni artistiche, e degli artisti, dopo che avviene il suo scioglimento. Poi c'è l'influsso che le idee situazioniste hanno esercitato sul movimento punk degli anni '70. Inoltre, oggi esiste, nonostante gli sforzi dei membri dell'IS  e dei loro sostenitori, un "patrimonio" nazionale di "situazionismo"; il cui esempio probante risiede nel destino degli archivi di Guy Debord, classificati dal governo francese nel 2010, come «tesoro nazionale».
Tuttavia, e la varietà e la diversità dei contributi lo dimostra, l'IS è un oggetto di interesse «ai quattro angoli del mondo», come dici tu, e non si riuscirà mai a ridurlo ad un patrimonio "francese". Il modo in viene recepita l'IS, può variare da un paese all'altro, già a partire dal fatto che ci sono dei paesi in cui l'IS è stata presente tramite delle "sezioni" (non bisogna dimenticare che la "I" di IS significa "internazionale"), mentre altre l'hanno scoperta solo dopo la sua dissoluzione. Alcuni capitoli del nostro libro evidenziano la dimensione internazionale dell'IS, parlando dei suoi rapporti con la lotta anticoloniale e sottolineando l'importanza che avevano i membri non europei del gruppo. Ciò è parte di uno sforzo volto a chiarire e a mettere in luce dei punti ciechi che continuano ancora ad esserci nella recezione e nella letteratura che tratta l'IS. Ciò riguarda anche il capitolo che affronta la problematica di genere.
Il nostro libro testimonia anche che l'IS è diventata oggetto di ricerca accademica, cosa che solo qualche decennio fa sarebbe stato impensabile. Questo indica una istituzionalizzazione dell'IS che avrebbe deluso e scontentato (e a ragione) molti dei suoi sostenitori. Ma la cosa apre anche la strada ad un rinnovo della comprensione che ci può essere delle idee situazioniste riguardo al presente. Se si condivide il fine situazionista di liberarsi dal capitalismo, oggi non basta riprendere le dichiarazioni del gruppo come se non ci fosse nulla di sbagliato nella loro teoria nella loro pratica. La teoria critica non si è fermata agli anni '60. In Francia, per esempio, ci sono molti lettori dei situazionisti (compresi noi stessi) che sono poi passati a leggere «la critica della dissociazione-valore». Un simile passaggio è stato possibile soprattutto grazie ad Anselm Jappe (uno dei contributori al libro), autore di un libro fondamentale su Guy Debord, diventato in seguito uno dei teorici della critica del valore.

Marianne: Il nome stesso di "Internazionale situazionista" ha come sua radice l'idea di "situazione", un concetto complesso, definito in modo elusivo che trae origine dal teatro, ma che in seguito diverrà poi a tutti gli effetti un concetto specifico di Debord e dei suoi compagni. Questi ultimi ne faranno poi uno degli elementi fondamentali della pratica situazionista, oltre che uno dei pilastri del loro progetto di società. Potete dirci qualcos'altro a riguardo? Che cos'è una situazione nella teoria situazionista e perché volere assolutamente crearne?

Hemmens & Zacarias: I situazionisti hanno un debito con le avanguardie storiche (Dada, Surrealismo), e come quelle volevano servirsi dell'arte per trasformare la vita. Il nome del gruppo trae effettivamente origine dal concetto di «situazione costruita», che i situazionisti hanno definito nel 1° numero della loro rivista come «Momento della vita, concretamente e deliberatamente costruito mediante l'organizzazione collettiva di un ambiente unitario e di un gioco di avvenimenti». La definizione è tutt'altro che esaustiva, ma propone già alcune idee centrali da tenere a mente: il fatto che la «situazione» ha una limitazione nel tempo; che il suo fine è quello di arricchire la vita quotidiana; e, infine, che noi possiamo agire consapevolmente per poter raggiungere un tale scopo (la vita smette di essere una serie di situazioni fortuite e diventa così una serie di situazioni costruite).
Originariamente formulata da Guy Debord, la questione rimane complessa, ed è stata rideclinata da altri situazionisti. Nel capitolo del nostro libro dedicato a questo argomento, cerchiamo di capire meglio quali siano le implicazioni legate all'idea di situazione, riformulandola in un contesto artistico e intellettuale, e mettendola a confronto da vicino con altre concezioni provenienti dall'arte (come il distanziamento e lo straniamento, in Brecht) e dalla filosofia (come la situazione nella fenomenologia o nella teoria dei momenti, in Henri Lefebvre). Senza mai più perdere di vista il fatto che la situazione, in quanto controllo attivo esercitato sulla vita quotidiana, appare come l'antidoto alla passività spettacolare; così tanto criticata dai situazionisti.

Marianne: Allo stesso modo in cui l'IS è inseparabile dal nome di Debord, lo è anche dal concetto di «spettacolo». Che cos'è lo spettacolo per Debord e i situazionisti?

Hemmens & Zacarias: Parlando di «società dello spettacolo», Debord ha trovato una formula particolarmente efficace per riferirsi ai nostri tempi. Ma al di là della formula pregnante, in Debord c'è una teoria assai complessa della società contemporanea, che affonda le sue radici nella teoria di Marx (e di alcuni lettori di Marx, tra i quali Gyorgy Lukàcs) e che non si limita affatto ad essere solo una critica dei media. Pe poter meglio comprendere Debord, non si deve perdere di vista il fatto che la sua riflessione, ispirata com'è dalla tradizione filosofica hegeliana, si muove sempre tra il particolare e il generale.
Stando così le cose, il concetto di spettacolo può essere usato in puù sensi, a volte facendo riferimento alla manifestazione particolare, altre indicando la totalità sociale. In altre parole, il concetto di spettacolo può essere riferito ai media, ma anche alla società che essi rappresentano. Il parallelo con Marx è sempre istruttivo: il termine capitale serve ad indicare degli specifici oggetti nella sfera della riproduzione economica (il capitale costante, il capitale variabile ecc.); ma il capitale è anche il «soggetto automatico» che domina la totalità della vita sociale. Lo spettacolo è il nuovo nome assunto da questo stesso «soggetto automatico» che ha sottomesso tutte le sfere della vita alla necessità di un'accumulazione ininterrotta i valore astratto. Quindi non si tratta di una critica nei confronti della natura ingannevole delle immagini, svolta in senso platonico. La critica debordiana non viene fatta in nome di una verità metafisica che si trova collocata altrove, ma piuttosto, al contrario, è una critica immanente delle contraddizioni prodotte dalla modernità capitalistica. Debord è sempre stato un critico della separazione. Quando afferma che «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione», non sta denunciando la rappresentazione in sé, ma la distanza crescente tra ciò che viene effettivamente vissuto e ciò che viene rappresentato. Da un lato la vita quotidiana, sottomessa ad un lavoro specializzato, si impoverisce; dall'altro, la produzione delle rappresentazioni si arricchisce, il consumo di immagini colma il vuoto dell'esperienza.
Ciò significa che la critica dello spettacolo è anche la critica di una società che continua a lavorare nonostante lo sviluppo produttivo che, per Debord, aveva già reso superfluo il lavoro. In definitiva, Debord considera l'inversione della realtà nello spettacolo, come il prodotto del fatto che il capitalismo prolunga la propria esistenza e la sua ragion d'essere per mezzo del consumismo e attraverso la mercificazione di ogni aspetto della vita. La base del potere della borghesia è il profitto che viene estratto dal lavoro, ma grazie alla tecnologia la necessità "naturale" di lavorare è stata pressoché bandita, e quindi dev'essere preservata artificialmente. Il bisogno di bere diventa il "bisogno" di bere Coca-Cola. Per Debord, la realtà celata della superfluità del lavoro in quanto centro della vita umana è la principale menzogna del capitalismo contemporaneo.

Marianne: Come si può rimanere coerenti con l'opera e la vita dei situazionisti senza ricadere nella rielaborazione, nell'imitazione, nella "pastiche", se non addirittura nel recupero?

Hemmens & Zacarias: Nel suo contributo, nel capitolo sul «recupero», Marcolini suggerisce che è accaduto proprio quando i situazionisti hanno condiviso il cammino con i loro nemici che essi hanno finito per ritrovarsi «recuperati». All'epoca, sono stati gli stessi situazionisti a notare, per esempio, che una campagna pubblicitaria del Club Med, negli anni '60, stesse utilizzando un linguaggio assai simile a quello dell'IS. I situazionisti appartenevano al loro tempo. Celebravano le possibilità date dalla tecnologia liberata dal capitalismo, ed adottavano una concezione del soggetto liberato dalle restrizioni e dai tabù che, alcuni decenni più tardi, è diventata perfettamente adatta ad alcuni aspetti della cultura neoliberista. Allo stesso tempo - e si tratta di un argomento che abbiamo sviluppato altrove [Alastair Hemmens, "The Critique of Work in Modern French Thought: From Charles Fourier to Guy Debord (Studies in Revolution and Literature)" Palgrave Macmillan]  - per il capitalismo non è possibile "recuperare" quella che è una critica implacabile delle sue forme di base.
La critica situazionista categoriale dello Stato, della politica, dello spettacolo, della forma merce e del lavoro non è recuperabile. Se si vuole rimanere fedeli all'opera e alla vita dei situazionisti, si deve evitare di ricadere in un «situazionismo» dogmatico, che consiste nel ripetere i medesimi gesti e le medesime idee dell'IS degli anni '60. Ecco perché bisogna avere un'idea chiara di che cosa sia stata l'Internazionale situazionista, la sua storia, le sue idee, le sue pratiche, i suoi punti di forza e i suoi limiti. È questo ciò che abbiamo cercato di fare in questo libro, riunendo i migliori ricercatori in questo campo di ricerca. E allo stesso tempo, bisogna che la critica radicale del capitalismo rimanga necessariamente ai margini e, idealmente, all'esterno rispetto alla ricerca accademica. La "via" situazionista prosegue a partire da dove l'Internazionale situazionista stessa è stata un proseguimento di una lotta storica: nel dibattito tra compagni, nei movimenti sociali anticapitalisti, nello scontro con lo Stato, nei giornali radicali, ecc.

Libro: Dir. Alastair Hemmens and Gabriel Zacarias, The Situationist International: A Critical Handbook, Pluto Press, 344 p., 27,79 euros

Intervista di Galaad Wilgos - Pubblicata su Marianne del 28/11/2020 -