martedì 19 gennaio 2021

Non dimenticar …

L'esigenza del vaccino e il rischio di dimenticare
- di Antoni Aguiló -

Sostiene Boaventura de Sousa che le attuali società si dividono in due grandi gruppi: quelle che non possono dimenticare e quelle che non vogliono ricordare le ingiustizie di ieri e di oggi. La dicotomia tra oblio e memoria è stata una di quelle che ha attraversato con più forza il dibattito etico e sociale della seconda metà del 20° secolo. Le guerre mondiali, i totalitarismi, i fascismi, i campi di sterminio, i gulag e i crimini contro l'umanità hanno richiesto una riflessione sul dovere di ricordare, messa in atto sotto l'imperativo che esigeva che «Auschwitz non si ripeta», secondo le parole di Adorno.
Se il 20° secolo è stato, in gran parte, il secolo della memoria, può darsi che il 21° secolo sia quello della mancanza di memoria,nella misura in cui viviamo in un'era di accelerazionismo, di immediatezza e di fake news. In piena crisi pandemica, corriamo il rischio di sviluppare una memoria fragile e selettiva che registra come "ricordabili" solo alcuni dati chiave (le statistiche ufficiali dei contagiati, dei deceduti e dei guariti, i dati sulla disoccupazione, ecc.) accuratamente selezionati, a discapito di quella memoria comune delle esperienze quotidiane vissute, delle cose apprese, dei sentimenti, della vulnerabilità, della precarietà e della finitezza della vita.
In "Cento anni di solitudine", Gabriel Garcia Marquez racconta una vicenda magistrale circa l'importanza del dovere collettivo di non dimenticare. Ci racconta di una malattia contagiosa, sotto forma di un'epidemia di insonnia che si diffonde tra gli abitanti di Macondo, e la cui tipica evoluzione porta a contrarre la malattia dell'oblio. Nel mentre che il malato si abitua a restare sveglio per giorni, ecco che gradualmente la sua memoria comincia a svanire. Per primi, scompaiono i ricordi legati alla sua infanzia, poi il nome e il significato delle cose, per poi passare alle persone e, nella fase terminale, ci si dimentica completamente della consapevolezza di esistere, cadendo in uno stato che Marquez descrive come «idiozia senza passato». Numerosi i tentativi fatti per ripristinare la memoria perduta: dalle infusioni alla costruzione di una macchina che dovrebbe offrire la possibilità di tramandare le conoscenze acquisite nel corso della vita. Ma nessuno dei farmaci ha effetto. La sola cosa che sembra riuscire  a curare l'amnesia di Macondo è una pozione magica portata dal vecchio Melquíades, una sorta di saggio alchimista.
Il vaccino contro il coronavirus rischia di essere percepito socialmente come se fosse la pozione magica di Melquíades, la cura «miracolosa» in cui le persone ripongono tutte le loro speranza, quando invece, in realtà, la migliore risposta preventiva alle nuove pandemie è quella che consiste nel rafforzare e consolidare gli investimenti pubblici nello stato sociale, insieme ad un approccio ecologico alla vita e all'economia.
Tuttavia, tra gli effetti collaterali del vaccino c'è anche la possibilità di un episodio di amnesia collettiva. Ma, nel contesto attuale, come dev'essere intesa tale amnesia? Che relazione si dà tra amnesia e pandemia?
Metaforicamente parlando, i possibili effetti amnesici derivanti dal vaccino sono molteplici. Tra di essi, c'è la possibilità di dimenticare che il 2020 implica il fatto che con ogni probabilità siamo entrati nel Covid-cene, l'era delle pandemie. Può darsi che il così tanto annunciato «principio della fine» a causa del Covid-19, non sia altro che la fine del principio delle prossime pandemie.
Un altro possibile effetto negativo, consiste nel dimenticare che l'impatto più sconvolgente della crisi lo hanno subìto quei settori che il capitalismo considera come dei fardelli improduttivi: gli anziani, i malati e le persone non autosufficienti. Dimenticheremo l'importanza di politiche sociali efficaci che proteggano quei settori più vulnerabili che non si trovano nelle condizioni di vendere al mercato la propria forza lavoro? Perché l'economia capitalistica della salute permette una cooperazione accelerata tra la comunità scientifica, le amministrazioni pubbliche, l'industria farmaceutica e le agenzie di regolamentazione dei farmaci, al fine di fabbricare un vaccino contro il coronavirus, ma non lo consente contro altri problemi sanitari pubblici, come la povertà?
Corriamo anche il rischio di dimenticare che la pandemia ha colpito in maniera particolare i giovani lavoratori precari, per quel che attiene alla loro capacità di avere un lavoro, avere accesso alla formazione (non tutti sono in grado di effettuare il passaggio alla didattica online) ed esercitare attivismo sociale.
Gli effetti collaterali del vaccino possono anche farci perdere di vista il fatto che la pandemia di Covid-19 non colpisce allo stesso modo uomini e donne, ricchi e poveri, bianchi e neri, cittadini con pieni diritti e migranti privi di documenti, eterosessuali e persone LGBTI.
Analogamente, esiste il rischio di dimenticare che questa pandemia non è la conseguenza di una fatalità naturale, ma il risultato di una natura colonizzata: un fenomeno derivante dall'azione predatoria del capitalismo nei confronti della vita, invadendo e distruggendo gli ecosistemi. Il disgelo delle zone polari, la distruzione e lo smantellamento di intere foreste, l'innalzamento del livello del mare, il proliferare di uragani, di piogge torrenziali e di siccità, l'estinzione di intere specie e la comparsa di alcune malattie, tra le altre cose, sono il risultato di un modello di sviluppo che si trova vincolato più alla morte, che alla vita. Secondo una relazione della Intergovernmental Scientific-Normative Platform on Biological Diversity and Ecosystem Services (IPBES), se non smettiamo di sfruttare la natura, saranno circa 850.000 i virus sconosciuti negli animali che potrebbero causare pandemie. Cosa faranno i governi? Adotteranno delle misure preventive per frenare una volta per tutte la più che prevedibile pandemia climatica che si sta avvicinando, oppure aspetteranno che le persone comincino a morire in massa a causa della loro esposizione  ad una contaminazione eccessiva, come è accaduto alla piccola Ella Adoo-Kissi-Debrah [una bambina che, a causa dell'inquinamento atmosferico illegale di una zona di Londra, è morta in seguito ad un attacco d'asma]?
Infine, non si deve ignorare il fatto che i paesi con i più alti tassi di mortalità da Covid-19 sono governati da politici populisti di estrema destra: gli Stati Uniti di Trump, il Brasile di Bolsonaro e il Regno Unito di Boris Johnson, quegli stessi che avevano completamente disconosciuto tanto la pandemia quanto il cambiamento climatico.
In parole povere, il problema dell'amnesia collettiva rende possibile che il coronavirus venga assimilato come un'esperienza di shock che viene  archiviata in quanto memoria passiva e sconfitta. Walter Benjamin ha spiegato come, dopo la prima guerra mondiale, molti soldati tornati dal campo di battaglia fossero rimasti muti e traumatizzati. Non riuscivano a trasformare l'esperienza vissuta in guerra in una «esperienza comunicabile», vale a dire, in conoscenza condivisa, in memoria vivente.
Esperienza e memoria sono entrambe parte costitutiva della nostra identità. Separarle provoca la perdita di ogni legame, la perdita dei riferimenti condivisi, della comunità. Abbiamo il dovere di preservare e di condividere la memoria sociale della pandemia, un registro fatto di affetti, di valori e di aspirazioni che ci consente non solo di ricordare il passato. ma anche di ricostruire il presente, di curarne le ferite sofferte.
Milan Kundera, ne "Il Libro del Riso e dell'Oblio", ci ricorda che «la lotta dell'uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l'oblio». Solo per mezzo delle riflessioni e dell'esercizio del ricordare riusciremo a vincere la pandemia dell'oblio, a superare le semplificazioni storiche e a prendersi cura del tenue e fragile filo della nostra memoria.

- Antoni Aguiló - Pubblicato il 18/1/2021 su blogdaconsequencia -

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