giovedì 14 gennaio 2021

L'ipotesi autonoma

Dalla guerriglia dell'autonomia all'autonomia guerrigliera
- di Freddy Gomez -

Se l'autonomia - organizzata e diffusa [*1] - così come si è manifestata negli anni '70, soprattutto in Italia ma, sebbene in misura minore, anche in Germania e in Francia - è stata politicamente sconfitta, perfino schiacciata, fino a ridursi nei decenni successivi a nient'altro che l'espressione minoritaria e confusa di quei piccoli gruppi che si richiamano alla sua eredità, ecco che ora sembra che l'«ipotesi» politico-strategica che l'autonomia ha costruito nel caos di un'epoca immaginaria si trovi sul punto di riprendere vigore. E soprattutto in Francia, come sarebbe stato attestato dall'emergere di fenomeni assai diversi fra loro, come dalla testa dei cortei, dalle guerriglie scatenate nelle ZAD (zone da difendere), o dall'irruzione selvaggia sulla scena dei Gilet gialli a partire dal novembre del 2018. Potrebbe essere questa la principale tesi difesa da Julien Allavena nel suo libro "L’Hypothèse autonome": una sorta di ritorno ibrido, complesso e non sempre consapevole, nel bel mezzo delle lotte, a delle intuizioni e a dei metodi che avevano segnato la storia del movimento autonomo nel momento del suo massimo splendore.
Allavena aveva ventitré anni ai tempi del movimento del 2016 contro la « loi travail », ed è stato ai margini di quel movimento che ha sperimentato per la prima volta - come ci racconta - l'«ipotesi autonoma», frequentando sulla scia del suo impegno militante alcune delle cosiddette «chiese autonome». A dire il vero, questa sua esperienza in proposito sembra non averlo esaltato affatto. Piuttosto il contrario. Ha visto il peggio; che poi è quello che succede sempre con ogni setta, quando l'aria comincia a scarseggiare. E fino a questo punto possiamo anche capirlo. Si potrebbe perfino chiosare che approviamo la sua rapida sagacia. Può benissimo succedere anche che ci si rimanga per troppo tempo in questo genere di tribù. Quello che appare come eccessivamente problematico, però, è il fatto che, quattro anni dopo, il militante diventato dottorando a Parigi si senta obbligato ad inscrivere il suo libro nel contesto di una sorta di gesto di intima necessità di esprimere tutto il disincanto che la sua breve, brevissima esperienza di militanza gli avrebbe ispirato. Qui e là, si sente perfino parlare di «lutto» o di «esorcismo». Evidentemente, questo è troppo, salvo dire che la soggettività conferirebbe il vantaggio - in questi tempi decostruiti che corrono - di conferire un peso ad un'«ipotesi» che viene ammessa come desiderabile, di per sé,  per una breve unità di tempo. Di modo che il vantaggio - per quanto troppo individuabile, perché troppo costruito - sia certo: al di là delle miserie dell'autonomia parigina o montreuilliana del suo tempo, ci si sente legittimati a riavvicinarsi al continente dell'autonomia storica - la sola che sembra contare ai suoi occhi, quella dell'offensiva italiana degli anni '70 - verso la quale egli si sente, oggettivamente e immaginariamente, inauditamente attratto. Di modo che se, da un lato, Allavena si gioca tutto il suo disincanto critico, dall'altro lato, induce volentieri al lirico-nostalgico. Esageratamente, in entrambi i casi.
A rendere così interessante l'«Ipotesi autonoma» - nonostante una certa predisposizione dell'autore a parlare il linguaggio foucaultiano del periodo e degli ambienti che frequenta - è questa ricerca di una sorta di paradiso perduto che alla fine si sarebbe perso proprio tra i propri vicoli ciechi. E a questo continente sommerso, sprofondato, egli si accosta esplorandone le diverse sfaccettature: la secessione operaia, caratteristica di quest'epoca, e la sua deriva verso il rifiuto del lavoro; l'estraneità, questa forma di straniamento rispetto al proprio mondo, che viene vissuta, tanto nella sfera operaia quanto in quella culturale, come volontà di uscire dal capitalismo, di liberarsi dal suo spirito, di auto-ridurre le sue merci espropriandole, di lasciar fiorire tutte quelle forme di vita e di sessualità che non sono ammesse; l'autonomia femminile, infine, sconfitta tra i vinti,  ci viene raccontata come più incline alla «politica del fare» - asili nido, squat monosessuali - piuttosto che portata ad una feticizzazione virilista della violenza che relega le donne ai compiti subalterni. Il quadro, a tratti illuminante, di questo ampio movimento autonomo italiano che viene tracciato da Allavena, non è affatto esente da quelle che appaiono come delle discutibili scelte interpretative e delle approssimazioni storiche discutibili. Ragion per cui, anche se l'operaismo è stato indubbiamente la matrice principale dell'autonomia degli anni '70, per aver saputo rigenerare - dieci anni prima - un marxismo alleggerito dalla sua ortodossia e dalla sua scolastica, i continui riferimenti da parte dell'autore alla figura paradossale e discutibile di Mario Tronti, considerato come il suo principale pensatore, non lo obbligano a trascurare l'orrore leninista di Tronti per lo spontaneismo, o la sua assurda aspirazione di voler associare il PCI all'operaismo. Analogamente, pur riconoscendo - senza approfondirla - una «diffusa influenza» dell'ipotesi «bordighiana» di una costruzione dell'autonomia in quanto partito del proletariato, il suo modo di minimizzare quella che è stata - a volte marginalmente, a volte centralmente - la tradizione «consiliarista» o libertaria equivale a rendere invisibile il ruolo giocato da Gianfranco Faina, Riccardo d'Este ed altri militanti, soprattutto genovesi e torinesi, che si sono opposti con determinazione sia alle velleità «entriste» di un Tronti che alla rifondazione marxista-leninista attorno a Potere Operaio di un Negri . Essi, al contrario, difendevano, ispirati soprattutto dal comunismo dei Consigli, una chiara linea secessionista rispetto ai partiti - esistenti o in gestazione - e ai sindacati.
Su un piano diverso - quello storico - potrebbe anche essere interessante il rapporto genealogico, esteticamente seducente, che Allena tenta di stabilire tra l'azione diretta del sindacalismo francese delle origini ed il suo revival nell'autonomia italiana degli anni '70; ma solo a condizione di approfondirlo nel dettaglio, accordandosi sul significato delle parole. Ciò in quanto non c'è molta corrispondenza tra, da una parte, un'azione diretta intesa come azione violenta o non violenta che sia, direttamente esercitata da coloro che l'hanno decisa e, dall'altra parte, un'azione diretta che troppo spesso si è ridotta alla sua forma armata e delegata, a forza, ad un corpo combattente separato. Quanto al «separatismo operaio» delle origini - il quale, contrariamente all'estraneità degli anni '70, è il prodotto di un autentico orgoglio di appartenenza ad una classe - esso era alla base di una strategia che intendeva rompere sia con l'azione diretta di tipo insurrezionalista, blanquista o anarchica, sia con la propaganda attraverso il fatto. Un tale separatismo postulava, di fatto, che era possibile un altro metodo, il quale richiedeva la nascita di una classe operaia consapevole e autonoma chiaramente separata da quei partiti che si richiamavano ai lavoratori per poterli meglio tradire. Per lo stesso motivo, veniva assunta, di fatto, come condizione necessaria per poter espropriare gli espropriatori. Inoltre, questo metodo non era nato nel cervello - ben fatto per quanto confuso - di Georges Sorel, ma dalle profondità e dai recessi di una classa che stava prendendo coscienza della propria forza. Essa non aveva niente a che fare con le imprese della banda Bonnot, che avrebbe potuto benissimo essere un «gruppo di operai anarchici», come dice l'autore, che operava per sé e non aveva alcuna altra causa se non la propria, la quale di fondava sul nulla. Ed è stato precisamente questo ad aver stabilito quale fosse il confine - certo, non sempre a tenuta stagna - tra il separatismo operaio e la deriva illegalista.
A partire dalla felice constatazione fatta da Guattari, secondo la quale si viene sconfitti dal nemico, ma anche dai «vizi di fondo» che hanno reso possibile la sconfitta, Allavena si propone di identificare le debolezze dell'autonomia italiana degli anni '70 che avrebbero causato il suo fallimento. A suo avviso, quello principale avrebbe avuto a che fare con quella che è stata una «secessione senza sussistenza» [*2] che si sarebbe persa lungo la strada in quanto non si era saputo costruire - come direbbe Negri - un processo di positività. In altre parole, sarebbero stati distrutti dei princìpi e dei criteri senza aver saputo costruire dei modi alternati di sussistenza durevoli; sarebbe stato confuso il rifiuto del lavoro con il rifiuto dell'attività produttiva, e non sarebbe stato comunizzato ciò che avrebbe potuto esserlo. Per cui - continua a dire l'autore - malgrado la creazione di spazi autogestiti, malgrado le riviste, le radio e l'espandersi di stili di vita liberati che coinvolgevano diverse centinaia di migliaia di persone, tutto questo non aveva saputo, o potuto sconvolgere il movimento del capitale.
Si potrebbe ribattere modestamente all'autore che, nelle condizioni reali di un momento storico dato, l'«Ipotesi Autonoma» italiana è andata molto lontano, ma non è mai andata oltre quello che è stata in grado di realizzare. Oppure, ancora, che il movimento, anche questo reale, da tale «Ipotesi» messo in moto, era indicativo di quel «comunismo immediato» così come veniva chiamato allora: era un modo di vivere qui e ora fino in fondo la propria vita, una volontà di secessione profonda, di certo illusoria ma perfettamente in sintonia con l'immaginario rivoluzionario di rottura proprio di quella fine di un'epoca [*3]. Se si eccettua la produzione libraria dei teorici che, per poter continuare a esistere, devono continuamente riadattare i loro punti di vista alla nuova doxa dominante, ormai divenuta postmoderna [*4], possiamo vedere come la copiosa letteratura di testimonianze su quel tempo in cui l'oro non si era ancora trasformato in piombo, in genere attesti - malgrado la durezza dello scontro che riecheggia, e malgrado la repressione generata - la felicità di aver tentato l'assalto al cielo.
Naturalmente, Allavena si colloca su un altro terreno, quello dell'analisi e della ricerca. Non c'è niente di freddo e distaccato, oltre tutto, nel suo saggio dal momento che si basa su un impegno militante rivendicato dall'autore. Se egli lavora come sociologo sul passato dell'«Ipotesi autonoma». soprattutto italiana, lo fa anche per portare avanti e coltivare una riflessione sulla pertinenza e sulla possibilità della prassi autonoma nell'attuale devastato presente. Da qui l'importanza concessa ai due maggiori movimenti del nostro tempo, quello degli "zadisti" di Notre-Dame-des Landes e quello dei Gilet gialli. Entrambi godono dei suoi favori, ed entrambi si inscrivono secondo lui, ciascuno a suo modo e con i propri metodi, in una riedizione della storia nella quale la Tradizione autonoma gioca il suo ruolo. Ai suoi occhi, l'interesse da riservare a questi due movimenti è duplice: da un lato, essi provengono da un altrove, da un luogo inatteso e, dall'altro lato, procedono seguendo il ritorno del contrattacco di una nuova offensiva. Come se il loro obiettivo finale fosse quello di invertire l'equilibrio di rapporti di forza generali, di riguadagnare quello che è andato perduto: una dignità, una combattività.
Dei due, tuttavia, ad avere maggiormente i suoi favori è chiaramente il movimento dello «zadismo». Ci racconta che si sarebbe costituito - cosa che rimane da dimostrare - su un'analisi del fallimento dell'esperienza autonoma degli anni '70, ma anche a partire dall'analisi della fine del mito dell'offensiva - combinata e frontale - contro la cittadella capitalista, preferendogli l'idea di organizzare pazientemente e pragmaticamente il suo accerchiamento attraverso la creazione di enclave di «comunismo immediato». Si potrebbe obiettare che tale idea era già germogliata in alcune menti, soprattutto anarchiche, che per molto tempo - dalle "colonie" ai "comuni" - hanno pensato che l'idea dell'emancipazione per mezzo dell'esempio poteva crescere come i porri. Anch'essi, prima o poi hanno dovuto rinunciare. Che questo non fosse visto dalla nostra parte come una forma moderata del tentativo di ricreare su piccola scala delle isole «comuniste» resistenti, ma piuttosto come una volontà di non estrapolare l'importanza della secessione nella lotta anticapitalistica globale. Niente di più, e niente di meno. Su questo punto, come su tutti gli altri, è meglio conoscere la storia, anche se poi significa riprodurla. Dopotutto, lo «zadismo» arricchisce l'esperienza comune di un'altra vita possibile, e questo è già abbastanza. Ha costretto lo Stato, a Notre-Dame-des Landes, ad abbandonare un devastante progetto aeroportuale - di cui, bisogna dire che esso stesso non era convinto della sua utilità - e, a Sivens, a rinunciare ad un progetto di diga che avrebbe causato la sommersione di 12 ettari di palude. Com’é noto: la lotta paga quando ci si dà i mezzi per portarla a termine [*5]. Per il resto, dovremo attendere che la speranza accenda altri fuochi. L'analisi semi-entusiasta [*6] e semi-moderata che Allavena riserva ai Gilet gialli ci sembra, essa sì, del tutto irrilevante e non pertinente, nel momento in cui lo porta a fare la seguente constatazione: «Per quanto impressionanti siano stati i mezzi utilizzati in questa esperienza, in fin dei conti si riducono alla mobilitazione delle vecchie forme della rivoluzione volta a realizzare un obiettivo che rimane riformista». Vale a dire, egli precisa, di «ristrutturazione del compromesso keynesiano». Ragion per cui questo movimento sarebbe intrinsecamente «riformista», laddove invece lo «zadismo» sarebbe potenzialmente «rivoluzionario». Insomma, tutto si riduce ad una griglia di lettura che i Gilet gialli hanno avuto il merito di fare esplodere. Si sa che, in certi ambienti «radicali», «riformismo» rimane il peggior insulto possibile. Ciò che i Gilet gialli sono stati costretti a pensare, persino contro i loro stessi potenziali alleati, è stato, da un lato, la questione dei rapporti di forza, reinventando, sulla base di quanto abbiamo detto prima, l'azione diretta - non mediata - di massa e, dall'altro lato, la perversione intrinseca del falso dilemma tra un vero riformismo e una falsa rivoluzione. Se si poteva pensare, almeno all'inizio, che il movimento non avrebbe superato i propri limiti legati alla sua capacità di essere compreso - o ingannato - dal potere, relativamente all'aumento del Salario Minimo, al ripristino della tassa sui super-ricchi e al Referendum di Iniziativa dei Cittadini, cosa che invece è avvenuta dopo, come conseguenza di una crescente presa di coscienza, assai rapida, su delle tematiche oggettivamente rivoluzionarie, in seguito ad un'apertura ed un superamento che  era il solo che poteva permettere - come dovrebbe sapere anche Allavena - un'autentica dinamica movimentista, orizzontale ed apartitica.
Va ritenuto che, nonostante tutte le buone intenzioni, lo schierarsi radicalmente distribuisca i ruoli secondo l'idea che si è fatto della purezza, o dell'impurezza di una rivolta. Ancora oggi - troppo strano, troppo confuso - il ruolo dei Gilet gialli continua a rimanere inafferrabile e inassimilabile tanto per un sociologo vicino all'autonomia quanto per un commentatore di un talk show televisivo. Per quel che riguarda il riformismo, che non si riesce a vedere quando, da pragmatici, gli zadisti di Notre-Dame-des-Landes - o alcuni di loro - se ne sono impadroniti, giustamente, per poter negoziare con lo Stato il «comunismo immediato», c'è da dire che i Gilet gialli non se lo aspettavano. Perché non se ne sono mai accorti? Perché la loro natura esplosiva, diffusa, incontrollabile e contagiosa. per poterli sradicare, ha costretto lo Stato ad affidarsi completamente alla sua polizia, senza però riuscirci, dopo più di due anni di rivolte di massa. Perciò, Allavena, per il riformismo bisogna ripassare e rivisitare i classici! In fin dei conti, il Comitato invisibile o i Black Bloc, che pretendono entrambi quanto meno di aver avuto questo vantaggio, anche se tardivo, su alcuni sociologhi dell'autonomia guerrigliera, di essere in grado di allargare la loro prospettiva per comprendere questa insurrezione che è arrivata, ma che proviene da altrove o da nessun luogo.

- Freddy Gomez - Pubblicato l'11-1-2021 su A Contretemps -

 

NOTE:

[*1] - La prima, partitaria, ci teneva alla A maiuscola di Autonomia, la seconda, spontaneista, se ne fotteva.

[*2] - Contrariamente a quella italiana, ci dice Allavena, l'autonomia tedesca - più alternativa che secessionista, avrebbe incarnato quella che era una forma di «sussistenza senza secessione».

[*3] - Va notato, di sfuggita, che ammettere, come limite dell'autonomia italiana, la sua maggiore predisposizione alla spettacolarizzazione delle sue azioni, soprattutto violente, ci sembra ancora più interessante nella misura in cui ciò entra in risonanza con la principale critica che gli viene rivolta dai situazionisti. Critica alla quale Allavena sostiene di essere sensibile, ma lo fa senza soffermarvisi.

[*4] - Risulta essere altresì interessante, notare che l'incessante ricerca di tracce di "micro-domini" - alla quale si dedica l'odierna post-estrema-sinistra accademica e militante - appare notevolmente in sintonia con lo spirito del mondo neoliberista che decostruisce diabolicamente tutti i cosiddetti «arcaismi» che ostacolano sia l'estensione illimitata del dominio del mercato che i post-desideri che esso è così ansioso di soddisfare.

[*5] - Ricordiamo che a Sivens si è vinto - sebbene ciò sia avvenuto al prezzo della morte di Rémi Fraisse, militante ecologista di 21 anni ucciso il 26 ottobre 2014 da una granata lanciata da un gendarme.

[*6] - Entusiasta per la sua nascita, per i suoi metodi, per l'occupazione delle rotatorie ( che però, a suo dire, i Gilet gialli non avrebbero saputo - né tantomeno pensato di farlo - «zadificare»), per la sua relazione con la sommossa, per il fatto che i Gilet gialli avrebbero sorpassato in audacia i Black Bloc... Tutte queste cose sono però altrettanti indicatori del fascino esercitato dall’autonomia di Montreuil, che se da una parte ha stancato l'autore, dall'altra egli continua ancora a conservarne dei riflessi.

Nessun commento: