domenica 31 dicembre 2023

Chissà...

"Le passanti", prima di Brassens,  e poi di De André, e le strofe eliminate da entrambi dalla poesia originale di Antoine Paul, qui tradotte:

«..Per quella bella e flessuosa ballerina di valzer che vi è sembrata triste e nervosa
Durante quella notte di carnevale in cui avrebbe voluto rimanere sconosciuta
E durante la quale poi non è mai più tornata per volteggiare ancora in un altro ballo...
...A quelle timide innamorate che se ne sono rimaste in silenzio e lo rimpiangono ancora...
A quelle che se ne sono andate lontano da te, tristi e solitarie, vittime di uno stupido orgoglio...»

Aspettando il collasso !!

Gli imitatori
- Sulla scia dell'aggressione russa contro l'Ucraina, si profila la minaccia di ulteriori conflitti di annessione armata alla periferia e alla semiperiferia del sistema mondiale in crisi -
di Tomasz Konicz

Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, fa ben pochi sforzi per nascondere le sue ambizioni imperiali sul Caucaso meridionale. Dopo la conquista e la pulizia etnica dell'antica regione armena del Nagorno-Karabakh, da parte dell'alleato Azerbaigian, ora tocca al cosiddetto corridoio di Sangesur, nel sud dell'Armenia, a essere preso di mira dai governi di Ankara e di Baku. Nel 1920, questa regione confinante con l'Iran, che blocca un ponte terrestre tra Turchia e Azerbaigian, venne annessa all'Armenia dall'Unione Sovietica; e bisogna che oggi questa ingiustizia storica venga rimossa. La creazione di un corridoio sul territorio armeno meridionale è una "questione strategica", ha dichiarato il presidente turco nel corso di un incontro con il suo omologo azero Ilham Aliyev, durante l'enclave di Nakhichevan, alla fine di settembre. Così, nel giro di poche settimane, la Turchia e l'Azerbaigian hanno compiuto un'inversione a U che può essere definita orwelliana: l'espulsione completa degli armeni dal Nagorno-Karabakh - descritta dai media statali turchi come una "operazione antiterrorismo" - che precedentemente, nel 1921, era stata legittimata da entrambi i governi, ai sensi del diritto internazionale, a partire dalla solitaria decisione dell'allora commissario del popolo sovietico per le nazionalità, Josef Stalin, di annettere questa antica area di insediamento armeno alla Repubblica Sovietica dell'Azerbajan. Così, mentre nel caso del Nagorno-Karabakh la demarcazione sovietica dei confini è stata trasformata, come se fosse una cosa ovvia, nella base ideologica della pulizia etnica di quella regione (essendo stata, questa tesi del fornitore di petrolio Aliyev, prontamente condivisa nell'Occidente interessato al petrolio), nel caso del corridoio di Sangesur - che deve essere oggetto di negoziati con l'Armenia - Erdogan e Aliyev sostengono esattamente il contrario: e qui  "l'ingiustizia" sovietica va invece rivista.

Non è certamente un caso che questo tipo di discorso, ricordi le osservazioni fatte dal presidente russo Vladimir Putin all'inizio dell'invasione dell'Ucraina, secondo cui Lenin e i bolscevichi avevano fatto alla Russia una grave ingiustizia, dal momento che i sovietici avevano formato l'Ucraina a partire da quelli che erano i territori storici della Russia. Allo stesso modo, l'espulsione degli armeni dal Nagorno-Karabakh può a sua volta essere descritta come se fosse un conflitto analogo che imita l'aggressione russa, nel quale l'Azerbaigian e la Turchia, sulla scia della guerra in Ucraina, cercano di raggiungere i loro obiettivi regionali attraverso la forza militare e la pulizia etnica. Il calcolo è semplice: la guerra di logoramento dell'Ucraina sta esaurendo le risorse militari, sia a Est che a Ovest; cosa che riduce il rischio che da parte delle grandi potenze ci sia una risposta militare alle avventure militari in quella che è una regione che viene considerata un cortile di casa come il Caucaso meridionale, soprattutto perché la dipendenza, che l'Europa ha dalle fonti energetiche azere, riduce al minimo il rischio di sanzioni. La guerra terroristica di Hamas contro Israele, e la minaccia di un conflitto tra gli Stati Uniti e l'Iran hanno intensificato ulteriormente il rischio di un eccessivo sconfinamento militare da parte degli stati occidentali. Pertanto, di conseguenza, non è solo in Azerbaigian che si sta studiando, sulla scia dell'aggressione russa, fino a che punto si possa avanzare militarmente senza dover fare i conti con delle gravi conseguenze provenienti dalle superpotenze. C’è anche il Venezuela che ora vorrebbe correggere, se necessario con mezzi militari, quella che ritiene sia una vecchia "ingiustizia"; la quale, in questo caso, risale al XIX secolo: ossia, il confine, tracciato nel 1840 dalla potenza coloniale britannica, tra il Venezuela e l'allora colonia della Guyana inglese non è mai stato accettato dal Venezuela, che perciò ora sta rivendicando la regione occidentale guyanese dell'Essequibo, che a seguito di una decisione arbitrale del 1899, era stata in gran parte assegnata all'ex impero. Il conflitto, divampato per un breve periodo negli anni '60, nel corso della decolonizzazione della Guyana; per poi essere in gran parte praticamente congelato fino al 2015, allorché la Guyana ha assegnato alla compagnia petrolifera statunitense Exxon delle concessioni per estrarre dalle enormi riserve dei giacimenti petroliferi che si trovano al largo della costa di quella regione contesa immersa nella giungla, dove vivono solo 125.000 persone. Nel contesto di una grave crisi economica, di un'inflazione galoppante, e di un basso indice di gradimento nei sondaggi, il presidente venezuelano Nicolás Maduro, all'inizio di dicembre ha indetto un referendum circa l'annessione della regione contesa, la quale copre circa i due terzi del territorio della Guyana. Secondo i dati ufficiali, oltre il 90% dei partecipanti al referendum – il 51% di tutti gli aventi diritto al voto – ha votato a favore dell'annessione. A partire da allora, il governo ha decretato che vengano stampate solo mappe venezuelane in cui, come nuova provincia, ci sia Essequibo. Nel frattempo, Le truppe venezuelane e brasiliane hanno già marciato verso il confine con la Guyana, che ha una popolazione di appena 800.000 abitanti, e che sta vivendo un frenetico boom petrolifero. Il 9 dicembre, il presidente brasiliano Luiz Inácio "Lula" da Silva ha ammonito Maduro per dissuaderlo dall'innescare un'escalation del conflitto alla frontiera.

La Guyana ha tutto ciò che manca all'Armenia: vale a dire, giacimenti di materie prime strategicamente importanti, che sono il motivo per cui gli Stati Uniti - a differenza dell'ex protettore dell'Armenia, la Russia - hanno già inviato dei chiari avvertimenti al governo venezuelano, annunciando manovre congiunte con le forze armate della Guyana. Viceversa, invece, il regime internazionalmente isolato dell'Eritrea – che viene spesso descritto come la Corea del Nord dell'Africa – difficilmente potrà sperare che ci sia un rapido intervento da parte di una grande potenza. Con il suo porto di Assab, nel sud dell'Eritrea, questo paese dell'Africa orientale ha accesso a tutte quelle rotte commerciali marittime globali, a cui l'Etiopia - senza sbocco sul mare, con i suoi oltre 120 milioni di abitanti - è stato negato dall'indipendenza dell'Eritrea del 1993. Conseguentemente a una guerra di confine tra i due paesi, dal 1998 al 2000, l'Etiopia non ha potuto più utilizzare i porti dell'Eritrea, per mezzo dei quali, precedentemente, veniva gestito gran parte del suo commercio; ragion per cui il paese, ora senza sbocco sul mare, deve effettuare attraverso il porto di Gibuti quello che è circa il 90% del suo commercio estero, pagando dazi per miliardi. Solo nel 2018, entrambi i paesi sono riusciti a porre fine allo stato di guerra, e hanno avviato la normalizzazione. E così, tra il 2020 e il novembre 2022, durante la sanguinosa guerra civile nella provincia settentrionale etiope del Tigray, segnata da gravi crimini di guerra, le forze armate di Etiopia ed Eritrea hanno perfino cooperato alla repressione della rivolta del Fronte di liberazione del popolo del Tigray (TPLF). Ma da ottobre, il primo ministro etiope Abiy Ahmed ha cominciato a manifestare sempre più chiaramente la volontà di essere pronto ad andare in guerra per ottenere l'accesso al Mar Rosso; mentre le truppe etiopi si ammassano al confine con l'Eritrea. Ahmed ha descritto l'accesso al mare, definendolo come una questione di sopravvivenza per l'Etiopia. Il porto di Assab è considerato l'obiettivo primario di un possibile attacco etiope, ma si dice anche che Ahmed abbia minacciato la completa conquista dell'Eritrea.

Con "l'attenzione del mondo concentrata su Gaza", il governo etiope potrebbe essere tentato dall'idea di "creare dei fatti", ha commentato la rivista statunitense Foreign Policy. Tuttavia, una guerra per conquistare rapidamente un porto marittimo – le forze armate etiopi hanno già creato una loro Marina – potrebbe anche trasformarsi in una catastrofe per la regione, a partire dal fatto che l'Etiopia è uno Stato interessato da un gran numero di conflitti regionali, e in cui già imperversano diverse guerre civili, come ad esempio nella regione nord-occidentale di Amhara, e contro le milizie del gruppo etnico degli Oromo. Le autorità etiopi hanno ripetutamente accusato l'Eritrea di appoggiare la rivolta in Amhara. La migliore ipotesi, per il regime eritreo di sopravvivere a uno scontro con l'Etiopia, sarebbe quella di fare tutto ciò che è in suo potere per alimentare il più possibile queste guerre civili. Una guerra di conquista etiope contro l'Eritrea - il cui regime obbliga gran parte della sua popolazione a prestare un servizio militare neofeudale senza alcun limite di tempo - potrebbe finire per trasformarsi in una guerra di de-nazionalizzazione, la quale destabilizzerebbe tutta la regione dell'Africa orientale; è già successo, nel 1977-1978 in particolare, che il collasso dello Stato della vicina Somalia venisse accelerato proprio da una fallita invasione dell'Etiopia. Tutti questi conflitti imitativi, in corso o imminenti, nella periferia e nella semiperiferia del sistema mondiale in crisi, ci offrono uno spaccato di quella che è la realtà dell'emergente "ordine mondiale multipolare", del quale il presidente russo Putin ama così tanto parlare. Si tratta, infatti, nella manifesta crisi mondiale del capitale, di un disordine mondiale multipolare, rispetto al quale, né gli Stati Uniti in declino né la Cina possono assumere il ruolo di egemone, o di poliziotto mondiale imperiale, e dove, di conseguenza, vediamo sempre più Stati tentati di compensare le proprie crescenti contraddizioni interne, causate dalla crisi, per mezzo dell'aggressione esterna. Fino a che lo Stato non comincerà a collassare.

- Tomasz Konicz - Pubblicato il 21/12/2023 su Jungle World

sabato 30 dicembre 2023

Il Produttore & il Mecenate

12 Tesi su Walter Benjamin - VI -

Pertanto, la prima richiesta che viene rivolta ai lavoratori dell'arte e della conoscenza è quella di essere consapevoli della propria posizione nel processo di produzione; e questo soprattutto per non rimanere in disparte, come fossero semplici osservatori, rispetto agli eventi delle lotte sociali. «Nella lotta di classe, il ruolo dell'intellettuale può essere determinato solo a partire dalla sua posizione nel processo di produzione»; sosteneva Benjamin. Il posto dell' osservatore - parallelo all'oggetto di studio - finirebbe così per corrispondere a quello di una sorta di «mecenate dell'ideologico: un posto impossibile». Per Benjamin, «l'apparato borghese è in grado di assimilare e propagare enormi quantità di temi rivoluzionari, senza che ne sia messa in discussione la sua sussistenza stessa». Secondo quella che è la riflessione di Benjamin circa il mecenatismo ideologico, esso «è riuscito persino a trasformare la miseria in un oggetto di piacere, ritraendola grazie alla perfezione tecnica». La sua funzione diviene così quella di estetizzare e spettacolarizzare la miseria del mondo, e renderla digeribile, per poi offrirla al pubblico per il suo godimento. E l'estremità cinica di questa catena di appropriazione «riesce a trasformare in oggetto di consumo» non solo la rappresentazione della miseria, ma persino «la lotta contro la miseria». Secondo Gerald Raunig, il problema fondamentale degli intellettuali dei media non è quello della loro appartenenza alla classe borghese, né le loro modalità narcisistiche di soggettivazione, e neppure il manierismo con cui si autoglorificano persino a partire dal proprio presunto status di esclusi, ma piuttosto nel far coincidere la personificazione dell'intellettuale con quella che sarebbe una figura individuale. «La proletarizzazione dell'intellettuale non porta quasi mai a un nuovo proletario», sostiene Benjamin.

fonte: Materia Construida

Intanto, in Ucraina… l’appetito vien mangiando "!!

Il piano di Putin sta dando i suoi frutti
- A medio termine, l'Ucraina perderà la guerra contro la Russia: l'unica domanda è quanto sarà alto il prezzo -
  di Tomasz Konicz

Quanto è grave la situazione in Ucraina? Ebbene, alla fine di novembre, la Casa Bianca si è sentita in dovere di smentire le notizie secondo cui gli Stati Uniti e la Germania stessero cercando di convincere Kiev ad avviare colloqui di pace con la Russia. I negoziati equivarrebbero a un «monologo di capitolazione», e inoltre non ci sono segni che da parte del Cremlino ci sia una volontà "sostanziale"  di negoziare - ha detto un portavoce del Dipartimento di Stato americano. In precedenza, i media occidentali avevano riferito che diplomatici europei e statunitensi avevano visitato Kiev per esplorare quali fossero le condizioni per avviare dei negoziati di pace. Nel processo, sono stati redatti anche degli "abbozzi" di tutto ciò «a cui l'Ucraina dovrebbe rinunciare per raggiungere un simile accordo» - così ha riferito la NBC all'inizio di novembre. In effetti, per molto tempo, il momento ottimale per poter avviare dei negoziati con il regime di Putin è andato perso. Nel novembre 2022, dopo la riconquista della città di Kherson, nel sud dell'Ucraina, e dopo l'umiliante ritiro delle truppe russe dalla regione a ovest del Dnepr, c'erano - quanto meno potenzialmente - le condizioni ottimali per un "accordo" con i demoralizzati invasori. Nel frattempo, dopo l'ultima grande vittoria dell'Ucraina, la situazione bellica era di nuovo cambiata radicalmente a favore della Russia. Dalla fine del 2022, l'Ucraina non ha avuto alcun significativo successo sul campo di battaglia, mentre invece, nel marzo 2023 la Russia è stata in grado di ottenere la sua prima vittoria simbolica grazie alla caduta della città ucraina orientale di Bakhmut. L'offensiva estiva ucraina di quest'anno equivale a un disastro, che ha in gran parte esaurito le scarse risorse militari dell'Ucraina, consentendo alla Russia di espandere la propria superiorità materiale.

Trincee, bunker, droni
L'approccio che ha la Russia, nei confronti dell'usura di persone e materiali, che è stato stabilito con successo durante la presa di Bakhmut, si sta ora svolgendo in rapido movimento nella piccola città di Avdiivka, un sobborgo della metropoli filorussa di Donetsk, che dal 2014 le truppe ucraine hanno trasformato in una vera e propria fortezza, che presto cadrà. Anche la città di Kupyansk, nella regione nord-orientale di Kharkov, è minacciata. Si tratta di un'insensata guerra di logoramento, nella quale il Cremlino sta usando le sue maggiori risorse e sta dissanguando l'Ucraina. Ogni volta che le truppe russe o ucraine cercano di avanzare, concentrando truppe e carri armati, vengono abbattute da dei precisi attacchi di artiglieria guidati da droni. Tutti i rapporti occidentali, di giubilo per le elevate perdite russe nel corso degli sforzi offensivi, ignorano per lo più il fatto che l'Ucraina ha delle perdite altrettanto elevate e che Kiev può permetterselo assai meno del Cremlino. La situazione strategica ricorda la Prima Guerra Mondiale - quando tutte le parti in conflitto non erano capaci di sfondare il fronte - che provocò mesi e mesi di "battaglie materiali". Nei combattimenti in Ucraina – nonostante il mostruoso numero di vittime a sei cifre che la guerra di aggressione russa ha già mietuto – potrebbero non esserci perdite così grandi come quelli che ci furono a Verdun e sulla Somme, ma per le persone colpite che vengono bruciate vive nei bunker e nelle trincee della zona di guerra, si tratta di un vero e proprio inferno. Non c'è luogo dove ci si possa ritirare, dal momento che l'onnipresente flotta di droni è specializzata nell'attaccare i coscritti trincerati nelle loro posizioni. "Gocce d'odio", è il soprannome che i blogger militari russi hanno dato a questa tattica di logoramento. In questo, che è il più grande massacro europeo dalla fine della seconda guerra mondiale, a essere cruciale è la quantità, e non la qualità. Dopo il fiasco dell'offensiva estiva ucraina, l'idea di utilizzare la superiore tecnologia delle armi occidentali per spingere l'esercito russo fuori dall'Ucraina orientale è stata abbandonata. La Russia ha più artiglieria, più droni, più carri armati, più aerei, più materiale umano. All'inizio di dicembre, Putin ha annunciato un ulteriore incremento delle forze armate russe, per diverse centinaia di migliaia di soldati. Il Cremlino è stato anche in grado di concludere diversi accordi sulle armi, con la Corea del Nord e l'Iran, che hanno assicurato la fornitura di massa di droni e proiettili di artiglieria. Secondo i dati dell'intelligence, la Corea del Nord ha fornito al Cremlino un milione di proiettili di artiglieria, mentre l'Occidente finora è stato in grado di consegnare solo un terzo del milione promesso. L'industria degli armamenti russa è cresciuta, e ora produce a pieno ritmo, ma c'è carenza di lavoratori, per le esportazioni russe di energia e materie prime che finanziano questa economia di guerra. Ora, le innovazioni militari russe mirano a utilizzare anche il vecchio arsenale sovietico, nel modo più efficace possibile. A basso costo, un numero massiccio di bombe aeree sovietiche viene convertito in bombe plananti a guida satellitare. che vengono sganciate dai bombardieri russi stando fuori dalla portata delle difese aeree dell'Ucraina occidentale, per mezzo di cariche esplosive che vanno da 500 chili a 1,5 tonnellate. I sistemi missilistici termobarici, l'uso di munizioni a grappolo (da entrambe le parti), i sistemi di mortaio che tagliano la ritirata delle unità che sono state abbattute: l'apparente stallo al fronte è comprato al prezzo di vite umane, che vengono gettate dentro questa macchina militare calibrata sul logoramento e sull'usura. E questo fino a quando, ad un certo punto, una sezione del fronte va in pezzi, per aver raggiunto un punto di non ritorno, dopo il quale tutto può accadere assai rapidamente.

Fronte interno che si sgretola?
Sul fronte interno di entrambe le parti in conflitto, cresce la riluttanza a bruciarsi in questa guerra di logoramento, la quale viene condotta in maniera sempre più efficiente. Nel territorio dell'aggressore, in Russia, è emerso un movimento dei familiari - tollerato dal Cremlino - che manifestano per chiedere il ritorno dei figli e dei mariti mobilitati l'anno scorso. Secondo i sondaggi, in Russia, le elevate perdite e l'andamento in gran parte statico del fronte, stanno causando stanchezza per la guerra, ma allo stesso tempo quelli favorevoli a una  pace vittoriosa sono ancora in netta maggioranza. Pertanto, la popolazione russa vuole la pace, ma la vuole solo alle condizioni russe. Nonostante la parziale mobilitazione dell'autunno 2022, il Cremlino è riuscito a isolare la maggior parte della popolazione da quelle che sono le conseguenze dirette della guerra. Gli attacchi dei droni ucraini e le incursioni in territorio russo, non sono stati sufficienti a cambiare tale situazione. Inoltre, dopo il "disastro aereo" del comandante della Wagner, Yevgeny Prigozhin, non esiste più alcun polo organizzativo intorno a cui possa raccogliersi il malcontento per l'andamento della guerra. In ogni caso, per l'Ucraina, l'unica possibilità realistica di non perdere questa guerra poteva essere solo la discordia politica interna legata alla guerra, e/o una disintegrazione del potere verticale del Cremlino. Entrambe le cose sono ora diventate improbabili, dopo la morte di Prigozhin e le mutevoli fortune nel corso della guerra. In un'Ucraina sotto attacco, e dove le elezioni previste per il prossimo anno sono state sospese, talvolta la stanchezza per la guerra può essere quantificata addirittura in termini concreti.. Secondo l'ufficio statistico dell'UE, dallo scoppio della guerra, circa 650.000 uomini in età militare sono fuggiti dall'Ucraina verso l'Europa. Per poter seppellire ogni giorno le centinaia di vittime della guerra di aggressione russa, i cimiteri ucraini devono essere ampliati. A Kiev, all'inizio di dicembre, i parenti dei soldati che combattono dall'inizio della guerra hanno manifestato chiedendo che si renda possibile un loro smobilitazione. Dopo più di un anno e mezzo, devono essere finalmente altri ad andare al fronte. In quello che appare come un evidente cambiamento di narrazione, i media mainstream occidentali stanno ora riportando anche i crescenti dubbi sulla continuazione della guerra, tra la popolazione ucraina, la quale deve aspettarsi dei massicci attacchi russi contro le infrastrutture del paese, in gran parte devastato economicamente nel corso di questo inverno. Mentre la Russia si prepara a una guerra a lungo termine, le rinnovate ondate di mobilitazione in Ucraina stanno provocando una crescente resistenza, mentre la corruzione dilagante spinge in prima linea gli ucraini poveri e senza alcuna difesa. Inoltre, dovuto soprattutto la fatto che la situazione bellica continua a deteriorarsi, potrebbe esserci anche la minaccia di una presa del potere da parte della destra fascista ucraina, la quale nel frattempo è stata in grado di guadagnare sempre più influenza nell'apparato militare e statale.

Cresce la stanchezza per la guerra in Occidente
Il fatto che le élite funzionali dell'Occidente non credano più in una vittoria dell'Ucraina, è diventato chiaro nell'ultima riunione dei ministri degli Esteri della NATO che c'è stato alla fine di novembre. La NATO sta ridimensionando i suoi obiettivi, e anche solo "tenere il fronte" viene ora considerato un successo. Ma finché l'Ucraina non si arrende, «dovremmo sostenerla», ha commentato il Frankfurter Allgemeine Zeitung. Fino a che punto, però, sta scritto nelle stelle. Negli Stati Uniti, il principale sostenitore di Kiev, sta crescendo rapidamente l'opposizione repubblicana di destra al Congresso per quanto riguardano gli ulteriori aiuti militari, lasciando così nell'incertezza il proseguimento a lungo termine della guerra, con un Cremlino che invece pianifica una guerra molto lunga. D'altra parte, l'Europa da sola non sarebbe in grado di tenere militarmente a galla l'Ucraina. Ad alimentare il dibattito circa la possibilità di un ulteriore sostegno all'Ucraina, a causa dell'associata carenza di materiali, è stata in particolare la guerra in Israele e a Gaza; ma tutta questa crescente stanchezza per la guerra in Ucraina  è dovuta anche a dei fattori strutturali. Per continuare a fornire materiale sufficiente per il fronte ucraino, l'Occidente dovrebbe ora passare de facto all'economia di guerra. Ma questo, però, sarebbe un passo epocale che l'Occidente non è affatto disposto a compiere. E inoltre o probabilmente non sarebbe nemmeno sufficiente, visto che l'Ucraina, semplicemente, non ha abbastanza persone da mandare in battaglia. In definitiva, nel medio termine, solo un intervento militare diretto potrebbe salvare l'Ucraina dalla sconfitta; cosa questa che non accadrà, data la minaccia di uno scontro nucleare. Ora, rimane da chiedersi se i negoziati offrano o meno una via d'uscita praticabile da questa guerra. Com'è noto, l'appetito imperialista vien mangiando, gli obiettivi di guerra di Putin cambiano con il corso della guerra. La situazione militare della Russia è ora assai migliore rispetto a un anno fa. Di conseguenza, il prezzo della pace sarà più alto, anche perché la Russia ha subito delle pesanti perdite e Putin, per ragioni di politica interna, deve assolutamente ottenere una vittoria in Ucraina. Nel frattempo, non si tratta più soltanto del territorio che la Russia ha annesso (gli oblast di Lugansk, Donetsk, Kherson, Zaporizhzhia), o di qualsiasi altra rivendicazione territoriale (Odessa, Kharkov), ma la posta è diventata l'esistenza e la sovranità dello Stato ucraino. Mosca non accetterà i legami dell'Ucraina con l'Occidente e, in caso di ulteriori successi militari, lavorerà persino per un "cambio di regime" a Kiev, al fine di formare uno Stato satellite. È risaputo che Putin considera lo Stato ucraino una finzione. L'Ucraina si trova così incastrata tra un Occidente che ora si preoccupa principalmente di limitare i danni, da una parte, e l'imperialismo russo militarmente rafforzato, dall'altra, che chiederà un prezzo molto alto per la pace.

- Tomasz Konicz - Pubblicato il 12/12/2023 su AK - analyse & kritik -

venerdì 29 dicembre 2023

Kavka, in ceco…

Nel settembre del 1923, mentre passeggiavano in un parco a Berlino, Dora e Franz si imbatterono in una bambina in lacrime, inconsolabile all’offerta di una carezza e persino di un gelato. Kafka le chiese cosa potesse darle tanto dispiacere. La bambina disse di non trovare più la sua bambola, quella che tante ore di felicità aveva condiviso con lei. Credeva di averla smarrita al parco. Kafka quasi pianse, dice Dora, ma senza farsi notare dalla bambina. Disse, so io dove si trova la tua bambola. Come fai a saperlo, chiese la bambina. Mi ha scritto una lettera per te, disse Kafka, ce l’ho a casa, se vuoi vado a prenderla. Sì? chiese la bambina, davvero? prendila, per piacere. Io mi chiamo Franz, si presentò Kafka. Io Ludmilla, disse la bambina.

Uno studioso islandese siede all’ombra di una veranda affacciata sui vitigni di Coimbra. Tiene la mano poggiata su un plico di fogli ingialliti, che si credeva esistesse soltanto nelle fantasie più spericolate dei critici letterari di mezzo mondo. Se fosse ciò che sembra, vi si troverebbe raccontato il lungo viaggio di una bambola braccata da elusivi figuri che la tengono lontana dall’amore della sua vita, un corvo. Alla ricerca di quelle pagine fantasma – inseguite invano fra tendoni da circo, casseforti inviolabili e traduzioni approssimative – si sono lanciati per decenni cacciatori di manoscritti e fanatici pronti a tutto. Si vocifera possa essere il leggendario romanzo che Franz Kafka avrebbe scritto per consolare una bambina in lacrime, incontrata durante una passeggiata al parco nel settembre del 1923.

Gennaro Serio prende spunto da questo episodio reale della vita del grande scrittore praghese e, con una prosa iridescente e un’inventiva densa di umorismo, lo trasforma in un implacabile gioco narrativo. Ludmilla e il corvo è un romanzo fiabesco, avvincente e caparbiamente inverosimile, una festa della finzione che celebra il potere immaginifico della letteratura.

(dal risvolto di copertina di: Gennaro Serio, "Ludmilla e il corvo", L'orma, pp. 208, €18)

Lettere a una bambola

«Dobbiamo bruciare kafka?» era la provocazione lanciata dal settimanale comunista francese Action, nel maggio 1946. Questa domanda riecheggia, per motivi completamente differenti, nella lettura di "Ludmmilla e il corvo", seconda opera di Gennaro Serio. L'autore ha preso ispirazione da un aneddoto riportato da Dora Diamant, l'ultima fidanzata dello scrittore praghese, che raccontò di un incontro avvenuto in un parco di Berlino nel 1923, tra Kafka e una bambina in lacrime per lo smarrimento della sua bambola.

Secondo quanto raccontato da Dora, Kafka invento una corrispondenza tra le due, scrivendo i messaggi della bambola e recapitandoli alla bambina in successivi incontri. Su questo dato biografico, Serio imbastisce un raffinato meccanismo paraletterario, a metà tra gioco e racconto fiabesco: ci si perde in una girandola di snodi narrativi e di personaggi, tra cui la Ludmilla del titolo, bambola/bambina e un agrimensore islandese (chiaro riferimento a K.) in terra lusitana, in cerca del manoscritto di Der Rabe (Il Corvo), opera favoleggiata dell'autore de Il castello e al centro di un intrigo internazionale. La narrazione, carica di innumerevoli riferimenti (alcuni esplicitati, come Eco e Poe, via Pessoa) costituisce un atto d'amore per la letteratura, dove accade che una cornacchia (kavka, in ceco) abbandoni il «mai più» e stringa la sua amata a sé, sotto l'ala nera, prima di spiccare il volo.

Pubblicato su Tutto Libri del 12/8/2023

Ecologia macchinica...

12 Tesi su Walter Benjamin - V -

Secondo Benjamin, è attraverso la tecnica che la pratica artistica diventa accessibile a un'analisi materialista. E il concetto di tecnica rappresenta il punto di partenza per superare la sterile opposizione tra forma e contenuto. L'idea benjaminiana di tecnica non è per niente segnata dal determinismo tecnico; sostiene Gerald Raunig. L'immagine di un progresso lineare può essere dedotta sia a partire dal fatto che la storia è quella dei vincitori, raccontata dallo storicismo, sia che sia quella dei vinti, dacché questi tipi di storiografie generano solo subordinazione, servitù e obbedienza.

L'innovazione tecnica significa l'emergere di nuovi dispositivi, e non è una sfera separata dalla meccanica. La rivoluzione tecnica coinvolge tutto, dai dispositivi tecnici agli atteggiamenti incarnati e alle macchine sociali. L'essere umano è un altro componente di questa macchina, collegato agli altri componenti. In un'ecologia macchinica delle cose, dei corpi e delle società, le modalità di comportamento devono essere praticate e mantenute.

fonte: Materia Construida

Il Pugnale & il Revolver

Nel suo racconto "La morte e la bussola", Jorge Luis Borges racconta la morte di Daniel Simó Azevedo, «un uomo di una certa fama nei vecchi sobborghi del Nord», uno degli uomini assassinati da Scharlach per coinvolgere il suo nemico, Lönnrot, in una trama poliziesca che è, allo stesso tempo, anche una trappola. Sempre a proposito di Azevedo, Borges ci dice anche che «era l'ultimo rappresentante di una generazione di banditi che sapevano maneggiare un pugnale, ma non il revolver».

Questo passare da un attrezzo di lavoro all'altro - dal pugnale al revolver - non rappresenta solo un fatto materiale, ma è come una sorta di simbolo, utilizzato da Borges, per raccontare in maniera condensata alcune metamorfosi: l'immigrazione, la città vista nella sua relazione con la campagna, e le frontiere, l'onore, la legge, le comunità maschili (nel passaggio dal pugnale al revolver, il segno di una trasformazione, e forse di una decadenza). 

Ed ecco che in una simile prospettiva, assume nuova risonanza anche una scena del racconto "Il gobbetto" di Roberto Arlt, nella quale il narratore - un tipo strano che dubita dell'amore della propria fidanzata - incontra un giorno in un caffè un nano gobbo che subito gli appare come se fosse profondamente odioso; ha l'assurda idea di portare il nano gobbo a casa della sua fidanzata e di farlo baciare da lei: baciare il nano gobbo, per il narratore, sarebbe la prova d'amore che fugherebbe tutti i suoi dubbi. Ma quando il piano gli va storto e la promessa sposa rifiuta il bacio, ecco che il gobbetto, naturalmente, assume il suo ruolo di protagonista, estrae una rivoltella, e minaccia tutti i presenti in casa della fidanzata e pretende il suo bacio: per lui, è l'occasione di far pagare alla società gli anni di soprusi subiti (l'apparizione della rivoltella costituisce solo il culmine della costruzione di un personaggio odioso e pericoloso).

Ma se in Borges, il passaggio dal pugnale al revolver appare quasi come un problema, come un cambiamento che significa la morte di un mondo; in Arlt, invece, il problema non si pone nemmeno: il revolver è già un oggetto indispensabile, si trova già perfettamente integrato nella narrazione e nel mondo che sta esplorando. E questa dinamica potrebbe anche essere una possibile conferma testuale dell'ipotesi sollevata da Ricardo Piglia nel suo romanzo "Respirazione artificiale", secondo cui Borges sarebbe l'ultimo scrittore argentino del XIX secolo e Arlt, a sua volta, il primo del XX secolo: ecco che il passaggio dal pugnale al revolver, in altre parole, sarebbe anche il passaggio dal XIX al XX secolo.

fonte: Um túnel no fim da luz

giovedì 28 dicembre 2023

Vita da sopravvissuti !!

Una donna e un bambino vivono in una baracca in mezzo alla foresta, non hanno legami di sangue ma insieme formano una famiglia, atipica e silenziosa. Il rapporto tra i due si riduce a gesti, sguardi e abitudini condivise. La vita nella baracca è semplice, primitiva, finalizzata alla sopravvivenza, mentre il mondo fuori è ostile e selvaggio, il cibo scarseggia, la civiltà e la tecnologia sono echi lontani, appartengono a un passato dimenticato… Con uno stile asciutto e poco rassicurante José Ovejero ci racconta un futuro primordiale abitato da personaggi solitari e senza alcuno spirito eroico, e ci spinge a riflettere sull’animalità profonda della natura umana ma anche sulla sua straordinaria capacità di resistenza.

(dal risvolto di copertina di: Jose Ovejero, "Fumo". Traduzione di Bruno Arpaia, Voland, pp.144 €17)

Leggere una storia che riesca in poche pagine a restituire uno spazio è sempre soddisfacente; se poi la storia tratta dinamiche che lambiscono il genere della «post-catastrofe» è per me ancora più coinvolgente. "Fumo" di José Obejero è un breve e denso racconto di «survivalismo» in un mondo ormai a scatafascio. I telefoni cellulari sono oggetti ormai inservibili, l'insolito passaggio di un aereo ci ricorda che l'epoca in cui si svolge è la nostra. La trama è solo apparentemente già conosciuta: il solvo e l'omaggio richiamano "La strada" di McCarthy. Sconosciuto il motivo che catapulta la civiltà in uno stato appena più che primordiale; il luogo sono le foreste, inospitali a causa degli smisurati sciami di api che ciclicamente arrivano alla baracca rifugio per la Donna (protagonista e voce narrante) e il Bambino. Tra i due non ci sono legami di sangue, solo gli ultimi barlumi di umanità: merce rara in un mondo in cui scarseggiano le fonti primarie per la sopravvivenza. Raccogliendo provviste con caccia e coltivazione ed evitando di essere depredati, la Donna e il Bambino cercheranno una sistemazione migliore. Ovejero scrive un libro dolce e terribile: scene angoscianti riescono a essere evocative con una poesia che non va mai nell'inutilmente complesso, e che non ricerca, nel contenuto, l'aspetto salvifico che certa letteratura a volte vuole avere.

Pubblicato su Tutto Libri del 12/8/2023

Tendenze…

12 Tesi su Walter Benjamin - IV -

«La tendenza migliore è senza dubbio quella erronea, nella misura in cui essa non ci  indica l'atteggiamento secondo cui va seguita».
Avvalendosi dell'aiuto di alcuni diversi esempi provenienti dall'arte "borghese di sinistra" del suo tempo, Walter Benjamin, nel"L'autore come produttore" (1934) cerca di dimostrare che «per quanto rivoluzionaria una tendenza possa apparire, ha tuttavia una funzione controrivoluzionaria». Pertanto, non si tratta di quali siano le opinioni soggettive dell'autore, viste nel loro complesso, ma piuttosto di collocare la pratica artistica in quelli che sono rapporti di produzione stessi. Un cambiamento di prospettiva, questo,  che rappresenta il passo decisivo nell'argomentazione del testo di Benjamin. Qui, non si tratta - chiarisce Gerald Raunig, seguendo il concetto relativo alla "tendenza" - di una differenza tra contenuto e forma, ma tra una tendenza che immagina di trovare la propria sostanza nel soggetto autore, e un'altra tendenza che invece illumina e mostra quale sia la relazione dinamica tra soggettività e struttura. Ciò che ci interessa, non è il modo in cui l'artista si relaziona, ma quale attitudine può essere scoperta e sviluppata al fine di «cambiare il mondo, in quello che è un processo molto ramificato».
Nel contesto contemporaneo, esistono dei sedimenti della relazione tra atteggiamento e rapporti di produzione. Questi concetti oggi non implicano semplicemente soltanto dei luoghi comuni addomesticati, o dei sottogeneri artistici limitati, bensì costituiscono dei criteri, i quali segnano un modo critico-riflessivo di affrontare gli apparati statali; sia quelli del campo artistico sia quelli  di altri campi di produzione circostanti: sono procedure e componenti fondamentali dell'arte politica.

fonte: Materia Construida

mercoledì 27 dicembre 2023

La «guerra per amore» !!???

Del resto è già successo. E anche innumerevoli volte, tra l'altro. In tempi di guerra, e in tempo di natale; che in fondo si assomigliano, e parecchio, come tempi. Che si sia trattato della Prima guerra mondiale, o della guerra civile spagnola, o di tante altre guerre in cui bisognava prendere per forza parte,e  schierarsi. comunque. E se non si capiscono le ragioni dell'uno, ecco che diventa ed è subito guerra contro l'altro. In altri tempi, forse solo più tragici di questi, sebbene a volte non meno ridicoli, i mezzi per "cancellarsi" non erano certo quelli attinenti ai social forum, o ad altre simili amenità. Bisognerebbe andare a chiederglielo, ma non è più in alcun modo possibile. Andare a chiederlo ai Tresca, ai Koestler, ai Blair (Orwell). Ci avrebbero risposto che, semplicemente non si fidavano più. Non si fidavano di quelli che combattevano per il bene. Preferivano garantirselo da sé soli, il proprio bene. Non credevano che Stalin potesse fare il loro bene. Così come oggi non crederebbero che lo sia facendo Hamas o Hezbollah, o Putin o Recep Tayyip Erdogan; quest'ultimo occupato a sterminare gli armeni con una mano, mentre con l'altra sta salvando i palestinesi dall'ultimo nuovo Hitler (stavolta israeliano; hai visto mai ?!??). È natale e siamo in guerra, ma - tra "noi" - di rubare una tregua di natale, come avveniva sui fronti veri, non se ne parla nemmeno! In fondo anche la nostra somiglia a una guerra per procura: la stanno facendo gli altri, per noi. Su diversi fronti. Mentre noi, invece, quaggiù dentro, ce la stiamo facendo l’un l’altro… «per amore»! Ormai è così che funziona. Ecco che subito si formano i due schieramenti: e che in fondo che importa su che cosa? Che sia il Covid  o che siano le “Sardine”, la musica ormai è sempre questa. La solita vecchia e stanca musica del rumore delle armature dei belligeranti che si scontrano. Massì... cancellatevi l'un l'altro. Cancelliamoci, ciascuno lo faccia da solo, si risparmia all’altro l’onere. Che così magari poi alla fine, ci sarà finalmente un po' di... pace. Ad ogni modo, non mi sottraggo affatto, e anche qui mantengo pubblicamente la mia posizione in proposito. Non sono ebreo, e tanto meno sono sionista. Ché gli stati li voglio cancellare tutti dalla faccia della terra. Solo che - insieme a Robert Kurz - penso, dal basso della mia generazione - e considerato quello che è accaduto alla generazione di mio padre - che lo stato di Israele dovrà essere l'ultimo a scomparire. Hai visto mai che qualche bello spirito ci riprovi. Come? C’è qualcuno che dice che ci stanno già provando, e che in fondo non hanno mai smesso di continuare a riprovarci.

«Hamas ed Hezbollah non solo dichiarano pubblicamente l'annichilimento di Israele come loro obiettivo supremo, su cui non possono essere fatte concessioni, ma si sono anche armati, sotto la protezione dell'Iran, per quel "conflitto asimmetrico" che di fatto stanno conducendo. In tal modo, si è venuta a creare una nuova situazione militare, visto che i razzi sono di facile costruzione e semplici da produrre, e vengono così anche contrabbandati bucando la rete di controllo, e provocano un certo numero di vittime, traumatizzando la popolazione locale. Tuttavia, queste milizie sono state armate dall'Iran anche con armi più precise, missili terra-aria, ecc.. Inoltre, Hezbollah e Hamas si sono trincerati, come dei veri e propri regimi armati, in ciascuna delle loro cosiddette società civili, sfruttando così di fatto la debole sovranità, sia del Libano che dell'Autorità Palestinese autonoma. A partire da questa base politico-militare, possono operare tatticamente per realizzare il loro obiettivo supremo, guadagnando fiato, mentre aspettano eventuali ribaltamenti della situazione nel contesto dei focolai di crisi globale, e avvicinarsi così al loro proposito di distruggere lo Stato di Israele. Arrivati a questo punto, la ragion di Stato autonoma di Israele doveva per forza manifestarsi militarmente, contro la costellazione nemica dichiaratamente armata alle sue frontiere. Questa costellazione non ha ormai più niente a che vedere con la precedente Intifada nei territori occupati; e anche l'intervento militare non può più essere criticato alla stessa maniera, né tanto meno può essere attribuito ai crimini di guerra autodistruttivi di Israele, come è avvenuto nel caso degli attacchi ai campi dei rifugiati palestinesi in Libano, nel decennio 1980. Perciò, anche la guerra contro Hamas ed Hezbollah non può venire ridotta semplicemente al fatto che il governo è dominato da partiti conservatori di destra, nazionalisti, "guerrafondai", ed anche sospetti di corruzione, coma ama suggerire la sinistra anti-israeliana e non solo. Qualsiasi governo israeliano - anche quello con obiettivi democratici di sinistra e costituito contro i nazionalisti della linea dura ed i fanatici ultra-ortodossi - avrebbe comunque dovuto procedere secondo la medesima ragion di Stato, secondo la quale non è ammissibile né il lancio dei razzi e l'armamento islamico alle sue frontiere, né il fatto che Hamas ed Hezbollah possano essere riconosciuti. Diversamente, Israele allora potrebbe anche ammettere perfino il postulato del suo annichilimento, come se fosse una posizione nel quadro della libertà generale di opinione e di negoziazione. Questo è anche il motivo per cui il movimento per la pace in Israele va scemando, e i pacifisti per principio, così come alcuni intellettuali di sinistra isolati, che avevano preso posizione contro questa guerra come se niente fosse cambiato, ora lamentano il loro crescente isolamento. Nel momento in cui capitolano in maniera pacifista davanti alla situazione modificata, e invocano una pace impossibile con Hamas ed Hezbollah, pace per la quale questi, innanzi tutto a causa della loro condizione ideologica di esistenza, non potrebbero mai essere disponibili, abbandonano il campo alla destra israelita. Ovviamente, questo non significa che in Israele la regressione di destra possa essere considerata come una cosa buona. Al contrario, è una svolta che merita di essere criticata in sé - come del resto dovunque - e su questo punto si può comprensibilmente dare ragione alla sinistra intellettuale che le si oppone. Però, ridurre in maniera falsa l'intervento militare contro Hamas a una mera regressione politica di destra, è qualcosa di completamente differente, così come lo è usare la necessaria critica di questa destra come un pretesto per denunciare qualsiasi azione militare israeliana contro la barbarie di Hamas. In realtà, invece, quest'azione come tale viene con ogni ragione appoggiata, all'interno di Israele, perfino dalla grande maggioranza dei critici della svolta di destra. Smettere di menzionare queste voci, predominanti nello spettro di sinistra e liberale israeliano, in quanto si pretende di condannare comunque l'azione militare israeliana in sé, attribuendola, convenientemente, soltanto alla destra, è letale. [...] La figura argomentativa di cui stiamo parlando, compie una svolta particolarmente bizzarra quando problematizza la fondazione dello Stato ebraico relativamente alla sua localizzazione geografica, e lo fa con un sguardo particolarmente ingenuo. Com'è noto, il presidente dell'Iran, Ahmadinejad, non solo ha negato l'Olocausto, ma ha anche aggiunto che: se è vero che c'è stato un crimine tedesco contro gli ebrei - cosa cui egli non crede - allora lo Stato di Israele, come adeguata punizione, dovrebbe essere dislocato quanto meno in Germania. Naturalmente, questa "proposta" non è seria e non dev'essere presa sul serio, ma al contrario non è altro che propaganda retorica, nel senso di una volontà di annichilimento dello Stato ebraico reale. Occasionalmente, il chiacchiericcio delle clientele dei blog e di altre espressioni mediatiche della sinistra "critica di Israele", ha avuto la faccia tosta di giocare a un simile gioco retorico, e lo ha fatto per mezzo di una "correzione della Storia" svolta secondo il modello fantascientifico, come se se si trattasse di un pensiero "in fondo legittimo", anche se impossibile da realizzare. "L'esperienza del pensare" che Israele andrebbe sradicata dalla sua storia reale e dalla sua posizione geografica, al fine di rettificare il corso del 20° secolo, eliminare dal mondo uno scandalo e offrire la pace al Medio Oriente, per poterne percepire tutta la sua perfidia può essere solamente simulata. Come si potrebbe immaginare questo sradicamento? Gli ebrei dell'ex Stato di Israele, naturalmente, dovrebbero consegnare all'ONU i caccia, i missili, i carri armati, i pezzi d'artiglieria e le armi leggere, che a quel punto sarebbero diventate del tutto ingiustificate; e dovrebbero, a maggior ragione, consegnare le bombe atomiche, che per loro sono meno adeguate ancora, all'Agenzia Internazionale dell'Energia Atomica, la quale disattiverebbe e smantellerebbe tutto l'arsenale. Forse, a quel punto, anche l'Iran acconsentirebbe a rinunciare a un programma di armamento atomico. Verrebbe permesso agli ebrei - riforniti di cibo dalle milizie di Hamas e di Hezbollah divenute pacifiche - di tornare a scoprire la loro vecchia pazienza di Giobbe e aspettare, seduti sulle loro valige e  sui loro zaini, l'arrivo dei tedeschi disposti nel frattempo all'espiazione, in modo da poter essere imbarcati in direzione della loro riserva nel Meclemburgo-Pomerania Anteriore. Lì, essi potranno, liberi dalla minaccia di missili artigianali, i quali ora potrebbero partire solo dalla Danimarca o dalla Polonia, dedicarsi senza preoccupazioni al folklore ebraico, ad esempio, alla musica klezmer, che è adorata dappertutto, e conseguire così un reddito modesto, ma sufficiente, attraverso il turismo; non da ultimo proveniente dagli Emirati Arabi, la cui casta dominante è da sempre amante dei viaggi e curiosa dei costumi di tutto il mondo. Ma, presumibilmente, gli ebrei, troppo avidi, rifiuterebbero anche questa generosa proposta, semplicemente per il fatto che non vogliono la pace.»

(estratto da: Robert Kurz, «Gli assassini dei bambini di Gaza. - Un'operazione "piombo fuso" per cuori sensibili» - )

- Pubblicato per intero su: https://francosenia.blogspot.com/2015/11/la-guerra-per-procura-e-lodio-inconscio.html  e seg. -

domenica 24 dicembre 2023

Riti purificatori…

Il volume racconta il Cantagiro nel suo decennio iniziale (1962-1972) nel quale l’industria discografica, forte di uno slancio che dai tempi del boom non si era ancora arrestato, seppe intercettare e proporre ai consumi giovanili le diverse tendenze musicali che questo show itinerante puntualmente registrava grazie agli specifici gironi. La risposta del pubblico fu straordinaria ed è, dunque, di grande interesse ragionare sulla ricaduta di questo concorso sulla mentalità e sui costumi, sul suo rapporto con la politica, sulle narrazioni che di esso vennero fatte dai grandi mezzi di comunicazione di massa. All’inizio dei Settanta, il Cantagiro subiva il mutamento di clima della società italiana: dopo due anni di relegazione nei teatri (edizioni 1973 e 1974), la manifestazione sarebbe stata interrotta per essere ripristinata verso la fine del decennio. La sua ripresa, però, avrebbe rivelato un evidente declino del suo impatto su un Paese dal profilo, anche musicalmente parlando, profondamente mutato.

(dal risvolto di copertina di: Paolo Carusi, Gioachino Lanotte: "Cantagiro! Storia e musica di un decennio fra tradizione e modernità (1962-1972)". Le Monnier, pagg. 187, €18)

Cantagiro, così l’Italia vide i cantanti da vicino
- di Roberto Balzani -

Nell’Italia del boom, dei dischi a 45 giri e della motorizzazione di massa incipiente, un impresario di successo, Ezio Radaelli, già organizzatore di Miss Italia e di alcune edizioni del Festival di Sanremo, ha l’idea di un “Giro d’Italia” dei cantanti. È l’estate del 1962, sta per nascere il primo centro-sinistra organico e anche la musica pop vive un altrettanto delicato passaggio. Questo il contesto in cui Paolo Carusi e Gioachino Lanotte situano Cantagiro! Storia e musica di un decennio fra tradizione e modernità (1962-1972), un saggio approfondito, ironico e brillante sulla manifestazione musicale che, facendola uscire dal chiuso delle sale, ha portato la canzone italiana «direttamente ai consumatori» (Radaelli).
Il Cantagiro fu il frutto di diverse novità. In primo luogo, la transizione dalla canzone al cantante. Il Festival degli albori prevedeva che alcuni interpreti proponessero brani diversi nella medesima competizione canora. Ancora nei primi anni Sessanta, una stessa canzone era declinata secondo il genere ritmico o melodico. Per esempio, Addio… addio, che vinse la competizione nel ’62, era stata intonata da Claudio Villa e da Domenico Modugno. La fruizione dei testi di successo avveniva attraverso la radio o le riproduzioni dal vivo che ne facevano gruppi musicali più o meno spontanei. L’industria discografica muoveva appena i primi passi. Radaelli si rese conto che il pubblico, in realtà, stava spostando l’attenzione sui “personaggi”, cioè i cantanti. L’identificazione fra volto e canzone, resa inossidabile dai dischi in vinile a basso costo, costituì quindi la principale intuizione – insieme alla centralità dello spettacolo itinerante, dedicato alla provincia italiana – che sancì il successo del Cantagiro. Non fu l’unica. La gara canora, articolata in modo piuttosto complicato per dar spazio a seniores e giovani, integrando i nuovi generi, prevedeva il voto del pubblico, che giocava schedine modellate su quelle del Totocalcio, uno straordinario simulatore di «procedure elettorali» (Lanaro). I luoghi delle esibizioni erano i più vari: campi sportivi, palazzetti dello sport, velodromi, autodromi, ma anche sale e teatri più consueti. Quanto alla geografia, infine, si andava da Imola a Macerata, da Siena a Perugia, da Chieti a Foggia (senza dimenticare le grandi città, ovviamente). Il Cantagiro accompagnò l’ascesa irresistibile del disco singolo, le cui vendite passarono dai 10,4 milioni di pezzi del 1958 ai 36,76 milioni del 1969. Nel frattempo, il mangiadischi avevano reso portatile l’ascolto (1966), trasferendolo negli ambienti più vari, dalle campagne alle spiagge. Un supporto duttile e “privato” affiancava così il più statico jukebox. Radaelli avrebbe voluto esportare il modello in Europa, e riuscì perfino a realizzare una trasferta moscovita, nel luglio 1965, conclusasi in modo grottesco; ma, con l’emergere dei “complessi” e l’evolversi della musica beat, la formula, benché ancora sostenuta dal favore del pubblico, cominciò a dar segni di stanchezza. I protagonisti, da Celentano a Morandi, da Rita Pavone a Caterina Caselli, da Gino Paoli a Bobby Solo erano accolti da ovazioni al passaggio lungo la strada; e però altri fenomeni stavano nascendo – basti pensare a quello dei cantautori, collegato al successo del concept album, il long playing “monografico”, anticipato dai Beatles nel ’67 -, irriducibile allo schema del duello canoro estivo, svagato e semplificato. Come in altri ambiti della vita sociale, il Sessantotto, anche in questo, avrebbe prodotto una cesura: ma non tanto per la politicizzazione della canzone, o per l’aperta contestazione dei cantanti da parte di scioperanti e contestatori (alcuni episodi tuttavia si verificarono), quanto per la rapida moltiplicazione di altri filoni di successo: il rock d’avanguardia, lo sbarco dei gruppi internazionali, infine la discomusic e il punk. L’autosufficienza nazionale, sulla quale si era retta per buona parte dei primi due decenni repubblicani produzione e fruizione del pop nostrano, cedeva il passo alla globalizzazione dei gusti giovanili, sotto l’impulso della poderosa industria dell’intrattenimento americana.

E dire, scrive Carusi, che il PCI aveva cercato di valorizzare la “popolarità” del Cantagiro, proprio per quella «sensazione di regalare qualcosa senza trucchi, senza il diaframma del mezzo tecnico e meccanico»: il suo successo appariva «una specie di rito purificatore … per cui le illusioni e i fantasmi del divismo potevano ritornare ad essere qualcosa di concreto, uomini in carne ed ossa». Faticosamente emancipati da una cultura musicale al di fuori della contemporaneità, i comunisti avevano appena sfiorato quello che Umberto Eco aveva già individuato dal 1963 come un fenomeno di massa da analizzare “positivamente”: «Ai Festival dell’Unità si suonano i dischi di Rita Pavone; compiendo in tal modo un gesto automatico di antropologia culturale, si riconosce l’esistenza di un altro universo di valori». L’analisi si confermava brillante ed esatta: nell’anno simbolo della contestazione, il 1968, il disco più venduto, in Italia, era non a caso Azzurro di Celentano. Quasi il commiato da un decennio che, nell’immaginario collettivo, era già divenuto sinonimo di nostalgia.

- Roberto Balzani - Pubblicato su Domenica del 6/8/2023 -

Capitalismo macchinico !!

12 Tesi su Walter Benjamin - III -

La questione del diritto all'esistenza dell'arte, così come la pone Platone, è chiara: egli nega agli artisti un posto nella repubblica, perché li ritiene superflui, addirittura dannosi per il suo sviluppo. Nel XX secolo, lo Stato sovietico non li avrebbe espulsi, ma piuttosto, secondo Benjamin, avrebbe assegnato dei compiti che non consentissero loro di mostrare, attraverso nuovi capolavori, la ricchezza della personalità creativa; diventata ormai da tempo falsa.

Per Benjamin, la creatività individuale non è altro che un aspetto centrale della falsa ricchezza del capitalismo. Così, nel capitalismo, ciò che viene distorto è la comunanza dei processi creativi, la quale pertanto appare alienata nella forma individualistica, e viene privatizzata in una successione di nuovi capolavori. Visto da questa prospettiva, il capitalismo strumentalizza la personalità creativa.

Una simile percezione, secondo Gerald Raunig, si applica ancora di più a quella che è la nostra odierna situazione, dove è diventato sempre più evidente il modo in cui l'autonomia della personalità creativa sia stata costituiva di un'anticipazione delle trasformazioni, le quali avrebbero poi infine portato a un capitalismo macchinico, nel quale la creatività e la soggettività sono diventate funzioni centrali dell'asservimento e della sottomissione a un determinato modo di produzione. Nel capitalismo macchinico troviamo un accumulo di accoppiamenti contraddittori, quali "individualismo radicale" e "narcisismo generalizzato".

In un simile contesto, l'invocazione della libertà incontra le costrizioni imposte da delle forme di controllo sempre più autoritarie, e le incessanti richieste di innovazione incontrano, da parte loro, la gabbia di procedure e protocolli obbligatori. Per il capitale, si tratta pertanto di cercare degli antidoti, sotto forma di modalità di dispersione disobbedienti, e non servili. Oggi si tratta di andare oltre la ricezione nella dispersione, per inventare così una dispersione smodata nella produzione.

fonte: Materia Construida

Il Capitale & il Capitalismo …

Noterelle sul concetto di “capitale” in Thomas Piketty, o meglio sulla sua assenza
di Afshin Kaveh e Clément Homs   

Premesse del traduttore
Questi brevissimi appunti a firma del compagno Homs, animatore in Francia delle edizioni Crise&Critique e dell’omonimo gruppo ruotante attorno alla “Critica del valore” (Wertkritik), mettono in luce i grossi limiti di base delle analisi di Thomas Piketty, economista, accademico e autore di bestseller francese. Eppure c’è dell’altro. Infatti ci danno l’opportunità di chiarire un concetto marxiano imprescindibile – tanto quanto l’aria che si respira per vivere – ma che viene sempre più a mancare nelle premesse delle critiche che si vogliono radicali – proprio come l’aria che diviene irrespirabile nella tossicità e nell’inquinamento dei nostri contesti sempre più invivibili. Tale premessa è che il “capitale” non è una “cosa” ma un “rapporto sociale”. Homs dimostra come, mancando questo cominciamento, Piketty (che, pover’uomo, non è né il primo né sarà l’ultimo) caschi puntualmente in letture monche e nell’utilizzo aspecifico e astorico delle categorie costitutive e generalizzate del modo di produzione capitalistico. Eppure i pochi osservatori italiani che hanno dato una breve sbirciata al castello teorico della “Critica del valore” sono arrivati alla medesima conclusione: questa corrente di pensiero “cosifica” il “capitale” perdendosi per strada il fatto che si tratti di un “rapporto sociale”. Così, per esempio, l’economista Bellofiore scrive che “in Postone e in Kurz l’accento è, unilateralmente, sul solo Capitale come Feticcio, che si fa Soggetto Automatico, e non (anche) sul capitale come relazione, come rapporto sociale, da cui quel feticcio emerge[*1]; il sociologo Sivini, allo stesso titolo, scrive che “per la Critica del valore, invece, il capitale non è un rapporto sociale; è – un altro modo di interpretare Marx – il soggetto automatico che presiede all’accumulazione[*2]. La “Critica del valore” rimprovererebbe ad altri un limite che conterrebbe essa stessa in nuce? Il bue che dà del cornuto all’asino? La verità è che Bellofiore e Sivini, così come altri, incappano in una svista bell’e buona dovuta allo spaesamento che suscita la centralità critica data al “soggetto automatico”. Scriveva Marx: “Il valore trapassa costantemente da una forma all’altra [nda. merce e denaro], senza perdersi in questo movimento, e si trasforma così in un soggetto automatico. Se si fissano le forme fenomeniche particolari assunte alternativamente nel ciclo della sua vita dal valore valorizzantesi, si hanno le dichiarazioni: capitale è denaro, capitale è merce. Ma di fatto qui il valore diventa soggetto di un processo nel quale esso, nell’assumere forma di denaro e forma di merce, passando continuamente dall’una all’altra, altera anche la propria grandezza e, in qualità di plusvalore, si stacca da se stesso in quanto valore iniziale: valorizza se stesso. Perché il movimento durante il quale esso aggiunge plusvalore è il movimento suo proprio, il suo valorizzarsi, quindi la sua autovalorizzazione. Per il fatto d’esser valore, ha ricevuto la proprietà occulta di partorir valore. Scarica figli vivi o, per lo meno, depone uova d’oro[*3]. Questo passaggio ci aiuta a comprendere il funzionamento logico della moderna sintesi sociale basata sulla produzione di merci, il modo di produzione capitalistico che, in quanto “soggetto automatico” da cui si è agiti e non agenti [*4], impersonalmente, alle proprie spalle, come “maschere di carattere[*5]non sanno di far ciò ma lo fanno» [*6]), si autoalimenta come fine in sé, invertendo le attività materiali e i bisogni concreti nell’astrazione quantitativa della forma-merce e della forma-denaro, attività e bisogni la cui validazione passa per la realizzazione di queste stesse forme dal contenuto autoreferenziale. Che si producano bombe oppure olive è indifferente, se per di più le prime realizzano un valore di scambio su mercati anonimi e le seconde no, di fronte alla logica del capitale le prime sono ben più utili e le seconde trovano posto nelle discariche. Ciò disvela dialetticamente le contraddizioni insanabili (sia interne: crisi politiche, sociali ed economiche; sia esterne: collasso ambientale) e i limiti irrazionali di un tale modello sempre più insostenibile. Tutto ciò non nega il “capitale” come “rapporto sociale” ma anzi, la centralità e gli sforzi che la “Critica del valore” cede all’estrema e specifica storicizzazione delle categorie costitutive di questa particolare forma di sintesi della produzione e della riproduzione degli esseri umani associati (valore, merce, denaro, lavoro, Stato), rafforza la sua affermazione come “rapporto sociale”, vale a dire storicamente determinato, e non come “cosa” ontologicamente naturale nei secoli dei secoli. Bellofiore e Sivini possono dunque mettersi l’animo in pace rispetto alla loro critica infondata alla “Critica del valore”. Dal canto nostro, di fronte ai riformismi di Piketty, seguiremo i consigli del Virgilio dantesco, “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, ma lo faremo con in mano le preziose conclusioni a cui giunge Homs nel breve testo che segue.

(Afshin Kaveh, inverno 2023)

Noterelle sul concetto di “capitale” in Thomas Piketty, o meglio sulla sua assenza
di Clément Homs

Negli ultimi anni l’economista Thomas Piketty è diventato il beniamino della sinistra americana e, grazie al campo mediatico mondiale, una figura di tutela di tutti i “progressisti” nel resto del mondo. Questo economista si è sempre evoluto sullo sfondo reificato delle scienze economiche moderne e non avrebbe mai ricevuto gli elogi dei media e del pubblico se avesse formulato una critica sostanziale della società capitalista. Piketty non ha mai smesso di descrivere il suo progetto e le sue motivazioni nel modo seguente: democrazia e capitalismo sono i suoi obiettivi politici. Tuttavia l’evoluzione attuale, con il peggioramento delle disuguaglianze nella ridistribuzione, punta nella direzione di uno smantellamento della democrazia e della promessa di uguaglianza della Rivoluzione francese. In quanto democratico ed europeo Piketty si oppone a tutto questo. Il significato sociale del best-seller Il capitale nel XXI secolo consiste quindi nell’esaminare le contraddizioni del capitalismo in un modo che si conforma al sistema rendendole infine negoziabili. I riferimenti all’estremo peggioramento della situazione sociale – il crescente divario tra ricchi e poveri – sono ampiamente discussi, ma sempre con l’intenzione di salvare il sistema del capitalismo. Il senso è riformista: gli eccessi estremi devono essere affrontati e trattati dagli Stati attraverso l’attuazione di una “tassa globale e progressiva sul capitale” al fine di consentire il mantenimento del sistema del capitalismo e della democrazia. Alla domanda che fare? Piketty risponde: «inventare nuovi strumenti che aiutino a riprendere il controllo di un capitalismo finanziario praticamente impazzito, dall’altro occorre rinnovare e modernizzare in profondità e con continuità i sistemi di prelievo fiscale e di spesa che sono connaturati allo Stato sociale moderno» [*7]. Ma il riformismo di Piketty non può essere letto solamente nelle misure preconizzate, ma si ritrova concettualmente nel suo stesso metodo e nel suo stesso rapporto irriflessivo con le categorie economiche, le quali non colgono il nesso interno tra la genesi e il peggioramento delle disuguaglianze e il rapporto capitalistico stesso nel suo processo di crisi. Questo perché l’economista non ha alcun concetto di “capitale” o di “capitalismo” che si presenti anche solo lontanamente come serio. Sotto la sua penna «il capitale è uno stock», «corrisponde alla quantità totale di ricchezza posseduta in un dato momento» [*8], in altre parole, secondo questa definizione reificata, diventa «l’insieme degli attivi non umani che possono essere posseduti o scambiati sul mercato. Il capitale comprende in particolare l’insieme del capitale immobiliare (immobili, abitazioni) impiegato per l’alloggio privato e del capitale finanziario e professionale (edifici, infrastrutture, macchinari, brevetti, ecc.) impiegato dalle imprese e dalle amministrazioni» [*9]. «Per semplificare l’esposizione», riconosce, «utilizzeremo le parole “capitale” e “ricchezza” in modo intercambiabile, come due perfetti sinonimi» [*10].

Allo stesso modo in cui il pensiero economico borghese ha retroproiettato le sue categorie sull’insieme delle forme storiche della società umana, il capitale, con una tale definizione, si emancipa dal capitalismo e può essere esteso a qualsiasi società, capitalista oppure no. La naturalizzazione delle forme sociali di base del capitalismo percepito come trans-storico è in pieno svolgimento e Piketty, nella sua sconcertante ingenuità, non lo nasconde nemmeno: «In tutte le civiltà, il capitale svolge due grandi funzioni economiche: da una parte abitativa […] e, dall’altra come fattore per produrre altri beni e servizi» [*11]. La stessa osservazione apologetica vale ugualmente per la nozione di accumulazione del capitale: «Storicamente, le prime forme di accumulazione capitalistica sembrano riguardare sia gli utensili (selce, ecc.) sia gli interventi agricoli (recinzioni, irrigazione, drenaggio, ecc.), sia rudimentali tipi di abitazione (grotte, tende, capanne, ecc.) prima di passare a forme più sofisticate di capitale industriale e di investimento, e a soluzioni abitative sempre più sviluppate» [*12] (preistorici, antropologi e storici apprezzeranno).

Questa è la situazione di un “economista di sinistra” nel XXI secolo: allo stadio minimale della coscienza economica borghese in cui il capitale appare non come un rapporto sociale, ma come una “cosa”, una somma anticipata di denaro e/o una quantità di beni economici che devono essere anticipati all’inizio di un dato periodo per realizzare una produzione e permettere la ricostituzione di questi progressi alla fine dello stesso periodo. Partendo dal quadro inverso rispetto a quello proposto da Marx, per il quale «il capitale non è una cosa, ma un rapporto sociale fra persone mediato da cose» [*13], Piketty rileva l’aumento esponenziale delle disuguaglianze, senza essere in grado di fornirne una spiegazione. Tutti i critici delle disuguaglianze dovrebbero essere coscienti del fatto che una critica fondamentale di queste ultime e del loro aggravamento è possibile soltanto se si supera criticamente il quadro categoriale dell’economia borghese. Soltanto una riflessione capace di criticare i concetti di base del capitalismo nel contesto della crisi (segnata dal limite interno assoluto dato dallo sviluppo della logica autocontraddittoria del capitale) potrà prevedere un cambiamento sociale fondamentale. Chiunque continui a muoversi all’interno del quadro categoriale dell’economia borghese non sarà in grado di trascendere il nostro universo sociale globale in crisi e non lo sarà né teoricamente né praticamente. A questo proposito il superamento teorico dei limiti della coscienza borghese si presenta come un processo di riflessione sui concetti irriflessivi delle scienze economiche.


- Afshin Kaveh e Clément Homs    - Pubblicato il 16/12/2023 su L'Anatra di Vaucanson -

Note:

1. R. Bellofiore, Le avventure della socializzazione, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 82.

2. G. Sivini, La fine del capitalismo. Dieci scenari, Asterios, Trieste 2016, p. 63.

3. K. Marx, Il Capitale, Libro primo, tr. it. di D. Cantimori, Editori Riunti, Roma 1980, p. 187.

4. «Come capitalista, egli è soltanto capitale personificato. La sua anima è l’anima del capitale. Ma il capitale ha un unico istinto vitale, l’istinto cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di assorbire con la sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa di pluslavoro più grande possibile. […] L’operaio qui non è altro che tempo di lavoro personificato», in: Ivi, pp. 267 e 278.

5. «Le maschere economiche caratteristiche delle persone sono soltanto le personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra», in: Ivi, p. 118.

6. Ivi, p. 106.

7. Thomas Piketty, Le Capital au XXIesiècle (Il capitale nel XXI secolo, tr. it. di S. Arecco, Bompiani, Milano 2018), Seuil, Paris 2013, p. 756.

8. Ivi, p. 89.

9. Ivi, p. 82.

10. Ivi, p. 84.

11. Ivi, p. 337.

12. Ibidem.

13. K. Marx, Il Capitale, cit., p. 828.

sabato 23 dicembre 2023

Tra messianesimo e materialismo…

12 Tesi su Walter Benjamin -II -

«L'autore come produttore» sostiene Gerald Rauning (da cui le frasi tra virgolette vengono qui citate) rappresenta implicitamente una teoria estremamente condensata di ciò che è l'arte politica. In questa sofisticata teorizzazione dell'arte politica - o in una teoria materialista dell'arte, probabilmente benjaminiana - il termine “tendenza”, gioca un ruolo importante. Tuttavia, dal punto di vista di Benjamin, la questione della tendenza non rimanda alla tradizionale dicotomia forma/contenuto, ma serve piuttosto a spostare il concetto in modo che esso inizi a cristallizzarsi, facendolo al di là dei limiti determinati dal contenuto. Ci permette insomma, di concettualizzare una forma di lavoro della conoscenza, e di produzione artistica, la quale va oltre la separazione tra il lavoro materiale e quello immateriale. Benjamin scrive che egli sta cercando di dimostrare che: «La giusta tendenza politica di un’opera include, quindi, la sua qualità letteraria, e lo fa in quanto include anche la sua tendenza letteraria». Detto più in generale, la tendenza politica della produzione artistica si dispiega come se essa costituisse sia una linea di fuga, piuttosto che un punto di frattura; entrambe, cose che diventano visibili soprattutto nel corso delle rivoluzioni tecnologiche. Descrivere così la tendenza, indica il modo in cui l'equilibrio di Benjamin - tra messianismo e materialismo – contiene delle caratteristiche proto-post-strutturaliste. La tendenza si rivela, in quanto essa si mostra come «una formazione profonda», la quale può apparire solo in determinate costellazioni, e lo fa «allo stesso modo in cui, gli strati profondi della pietra vengono alla luce solo nelle fratture, così anche quella formazione profonda che chiamiamo "tendenza" è visibile solamente nelle fratture inerenti alla storia dell'arte... le rivoluzioni tecnologiche costituiscono senza dubbio la medesima cosa che nello sviluppo artistico, è costituito dalle fratture, attraverso le quali vengono alla luce le tendenze».

fonte: Materia Construida

venerdì 22 dicembre 2023

Della stessa sostanza del fumo delle ciminiere…

«Il movimento operaio - restando sempre positivamente legato al sistema del lavoro astratto e all'industrialismo - non poteva essere altro che una componente e una forza immanente della modernizzazione capitalista stessa. Nella storia del movimento operaio, pertanto, non si trova alcuna critica esplicita della forma merce, se non sotto forma di tracce, e anche in questo caso, una tale critica continua a svolgersi assumendo il punto di vista del "lavoro", che viene visto come "lavoro sottomesso", vale a dire, nel contesto di un'opposizione di facciata tra capitalismo e democrazia; ossia, un elemento strutturale del sistema di produzione di merci che - senza essere compreso - viene schierato in contrapposizione a un altro elemento strutturale dello stesso sistema. Una tale immanenza della critica, dimostra solo che lo sviluppo di quel sistema non si è ancora esaurito, di modo che così, oggi, questa critica si scontra con i suoi limiti, dal momento che è il sistema stesso che è arrivato a dover affrontare i suoi propri limiti».  (Robert Kurz)

fonte: @Palim Psao

Artisticamente politica…

12 Tesi su Walter Benjamin – I -

«Fino a quando l’arte sarà costretta a restare la figlia maggiore, che conosce anche i vicoli più malfamati, ma che però non può in nessun modo sognare la politica?».

Così diceva Walter Benjamin, già nel 1927, in relazione a una critica borghese della Corazzata Potemkin di Eisenstein ["Replica a Oscar A. H. Schmitz"]. Oggi, la critica delle pratiche artistiche politiche – così come la esprime Gerald Raunig – dev’essere portata avanti, anche nelle fratture, nelle crisi e nelle catastrofi del XXI secolo, proprio nel momento in cui le forme artistiche devono espellere da sé la logica identitaria dei movimenti sociali, ovvero nel momento in cui la propaganda e la controinformazione, in quanto pratiche artistiche, quello che producono ed elaborano è un sapere marginale.

Nell'arte politica, il politico non si riferisce alla politica; la quale non è altro che una pratica strumentale, strumentalizzata e strumentalizzante. Il significato post-strutturale classico del politico risiede nella dissidenza, nell'agonismo, laddove si situa il luogo del conflitto e della negoziazione.

La trasformazione del femminile in maschile non è sufficiente. Al di là del dualismo politica/polizia esiste un altro spostamento, ed è quello che procede  dall'aggettivo all'avverbio. Come nella famosa frase di Godard che propone - anziché fare dei film politici - di produrre dei film politicamente. L'arte politica deve implicare che si faccia arte in modo politico, piuttosto che fare un’arte che venga poi identificata come politica a causa di quelli che sono alcuni suoi contenuti; essa deve diventare politica anche in modo artistico.

Il nocciolo del problema è la modalità in cui avviene la congiunzione e la disgiunzione di ciò che costituisce un legame illimitato tra la politica e l’arte. Avverbializzando l'aggettivo politico, allo stesso modo in cui lo si fa con il sostantivo “Arte”, si cerca pertanto di evitare la strumentalizzazione di un termine da parte dell'altro, in modo che così non si consenta a nessuna delle due componenti di affermarsi come autonoma.

Singolarità, piuttosto che autonomia. Senza mai separare il politico dall'estetico.

fonte: Materia Construida

giovedì 21 dicembre 2023

Nella vaghezza di un sogno…

Un ragazzo e una ragazza scappano sui tetti della Londra elisabettiana. È il 1601, Shay è un'addestratrice di falconi e sacerdotessa di un antico culto degli uccelli, Nonesuch è un attore adolescente, stella oscura dei Blackfriars Boys, compagnia teatrale di giovanissimi interpreti noti in tutta Londra per le loro incredibili performance. È un incontro destinale tra due outsider che non sapevano di cercarsi a vicenda: il loro rapporto si consuma in fuga lungo le vie buie della città, nelle case vuote dei nobili, sul palcoscenico, mentre con gli altri mettono su il Teatro fantasma, che appare e scompare nei luoghi più nascosti grazie all'aiuto dei trucchi dell'occultista John Dee. Presto la loro fama cresce: perfino la regina Elisabetta viene a conoscenza delle doti medianiche di Shay, che cantando vede nel futuro. E sarà proprio una profezia di Shay alla regina a innescare una catena di eventi che insanguinerà tutta l'Inghilterra fino all'assoluto e bruciante dramma finale. Intrecciando con sapienza realtà storica e dimensione immaginifica, Mat Osman dà vita a un romanzo magico e mozzafiato che mette in scena l'eterno scontro tra appartenenza e destino, passato e futuro, inganno e verità.

(dal risvolto di copertina di: MAT OSMAN, "Il teatro fantasma". Traduzione di Paola Olivetto e Mirko Zilahy. ATLANTIDE Pagine 400, €19,50)

Nel mondo l’eroe muore. In teatro no
- di Orazio Labbate -

Offre uno stile pimpante, visionario e pirotecnico Il teatro fantasma, romanzo fantastico, dallo sfondo storico, scritto da Mat Osman, bassista dell’iconica band britannica Suede. Attraverso la lingua esplosiva propone, infatti, una macedonia di immagini variopinte, di figure retoriche accese, di dettagli preziosi e scintillanti. È una specie di colorato tetris, il linguaggio. Non è pertanto rischioso avvicinare il romanzo di Osman — per quanto riguarda l’inventiva — al primo volume della Trilogia di Gormenghast, Tito di Gormenghast dell’inglese Mervyn Peake. I due autori non si limitano a navigare nel genere fantastico, decidono di alimentarlo secondo un massimalismo mai indigesto. Si riscontra, nel cuore del meccanismo fraseologico, un’abbuffata equilibrata tra pura orizzontalità narrativa e costanti azioni rocambolesche che si manifestano sulla pagina a suon di cortocircuiti sintattici. Questa mistione originale funziona come l’interfaccia di un videogioco di avventura punta e clicca (è possibile citare il pittoresco videogame The Secret of Monkey Island). Se nel caso videoludico trionfa, nella schermata principale, un inventario ricco di oggetti con cui interagire; nel caso del romanzo, ogni luogo è disseminato di cose e personalità sempre pronte all’interazione narrativa. In virtù dell’originalità che Il teatro fantasma imbastisce, c’è altresì un film a esso accostabile, Parnassus di Terry Gilliam. Pellicola e libro si servono in egual modo di una città dalle storie magiche, Londra, nonché della funzione simbolica, camaleontica, metafisica dello spettacolo teatrale, in grado di fungere da perno letterario, grazie a cui esistono i personaggi, come fossero burattini caduti all’improvviso dall’alto, pronti però a vivere.

Mat Osman costruisce la trama, difatti, attorno a un gruppo di giovani artisti, di una compagnia teatrale chiamata Blackfriars Boys. Siamo in una straripante Londra elisabettiana, il gruppo è noto, lo è soprattutto il suo leader carismatico Nonesuch, per le fantasmatiche performance — che si svolgono nella «vaghezza di un sogno» —, su un palcoscenico pantagruelico dagli addobbi stellari. I copioni non servono a molto durante l’attrazione poiché gli attori tutti paiono incarnare non solo la figura, l’opera, che intendono rappresentare, che recitano, ma anche una sorta di loro nuova identità. A queste folgoranti apparizioni artistiche improvvisate vuole unirsi, per pochi penny, una giovane addestratrice di falchi, Shay, colei che sostiene che «gli uccelli sono dèi». Vive a Birdland, vagabonda lungo il Tamigi con il padre, su un’imbarcazione stretta, il cui nome è Barcacigno, mentre il ricordo della madre scomparsa, Ava (anche lei dotata di veggenza), immalinconisce lei e il padre, Lonan, senza requie. «Shay adorava gli istanti che precedevano qualcosa. Lo stesso silenzio che era calato con il sipario al Blackfriars. Un centinaio di occhi erano rivolti al cielo quando apparve un unico uccello, un solitario segno di matita sopra un cielo di carta. Poi un altro paio, uno sgocciolio, quindi un fiume e infine un nubifragio di migliaia di volatili rese il cielo illeggibile: troppi da contare, persino da vedere; la miriade si bloccò e si contrasse. Il cielo ribollì finché, con una grazia che ancora le mozzava il fiato, gli uccelli divennero un’unica entità. Cos’erano? Prendevano la forma del fumo di candela o del volteggio delle stelle che illumina le notti limpide. Erano seta nera». È proprio la sua magica relazione con gli uccelli a permettere a Shay di poter leggere il futuro, attraverso le loro traiettorie, un dono che esercita in compagnia dello stesso Nonesuch, con il quale crea un legame professionale esotico e originale, mentre comincia a nascere un profondo sentimento d’amore. Entra, quindi, anche lei a far parte del Blackfriars Theatre. Tra esibizioni che sembrano crudeli sogni e incubi delicati (si inizia con un palcoscenico inondato di soppiatto di sangue e si finisce con l’apparizione di regine bambine dietro lo specchio), Shay prova terrore, amore, forza. Un pazzesco teatro di strada, dunque, fatto di meraviglioso orrore, frutto di semplici finzioni organizzate a regola d’arte e che paiono orchestrate da chissà quale disordinata divinità in terra. Ma può uno spettacolo così fuori dal comune andare bene a tutti o desta invidie, anche da parte della stessa regina? E ancora, può la magia sistemare discordie, conflitti tra il reame e gli artisti, oppure ci vuole l’amore per evitare una possibile tragedia? Meglio dare un nome nuovo a questa banda, per sfuggire e nascondersi dall’odio e dalla legge, il nome giusto è Ghost Theatre.

Mat Osman consegna un romanzo immaginifico che quasi imprime sulle pagine lo stesso ritmo vulcanico delle scenografie di Baz Luhrmann. Allo stesso modo del regista australiano, Osman passa da una pagina all’altra senza troppo badare alla rigidità della narrazione (a volte esagerando pur di far perdere la bussola narrativa). È come leggere il saggio di Neil MacGregor, Il mondo inquieto di Shakespeare, però romanzato, intriso di metafisica e immerso nel regno del fantastico. Seppure sia presente e chiara la trama nell’opera di Osman, colpisce, invece, come motore impazzito della storia, la funzione trasformativa di questo teatro assurdo che dà il titolo al libro. Camaleontico, in grado di generare amori, magie e fare splendere i reietti contro ogni forma di potere costituito, il teatro stesso è, infatti, il regno per antonomasia dove l’essere umano può essere finalmente il suo fantasma. Ciò accade senza troppo badare alla tristezza della realtà, alla figura da impersonare, a cosa indossare, a chi sfidare per rimanere sé stessi. Come dice Nonesuch alla sua amata «il fatto è, Shay, che il palcoscenico è il solo luogo dove tutto ha senso. Fuori di qui è arbitrario. Gli eroi muoiono e i buoni soffrono. Questo, è qui che abita la verità. Fuori tutto è morto, niente può respirare e niente può crescere. Le parole nascono morte. Ma qui...».

- Orazio Labbate - Pubblicato su La Lettura del 6/8/2023

mercoledì 20 dicembre 2023

Anticapitalismo “tronco” !!

Note su Robert Kurz: le ontologie storiche e i due concetti della critica dell'Illuminismo (vale a dire, ciò che continua a sfuggire a Stephanie Roza e ad Antoine Lilti).

A differenza delle ontologie storiche antiche o medievali, le quali erano auto-evidenti e - secondo Kurz - non avevano alcun bisogno di essere misurate riferendole ad altre ontologie, in modo da poter essere così legittimate, l'ontologia capitalistica moderna deve essere giustificata, in maniera riflessiva, in due modi: da un lato, nel senso di un'autolegittimazione nei confronti delle precedenti ontologie, le quali dovevano invece essere ancorate a un'apertura verso il futuro, piuttosto che a delle tradizioni passate o ai miti delle origini (il risultato di questo, è stata la filosofia della storia dell'Illuminismo). In questo modo, l'età dell'oro, dalle origini, veniva a essere proiettata nel futuro. Dall'altro lato, i meccanismi di queste ideologie di legittimazione, riguardavano principalmente la trasformazione di quelle categorie ontologiche, storicamente specifiche dell'epoca moderna, in categorie trans-storiche (vale a dire, la naturalizzazione del capitalismo), così come la retro-proiezione di tali categorie, in tal modo convertite e trasformate sull'insieme di tutta la storia umana passata, attraverso e grazie a una teoria della storia che viene vista come se fosse uno "sviluppo" (stadi, tappe, fasi, ecc.).

Pertanto, di conseguenza, le ontologie storiche del passato hanno perso così la loro specificità, e sono state «relegate al rango di ontologie moderne embrionali, categoricamente "immature" e insufficientemente "sviluppate"» [*1]; tanto internamente quanto esternamente a tutto il sistema capitalistico visto nel corso della sua ascesa. In tal modo, «la filosofia illuminista della storia è servita essenzialmente come l'ideologia legittimante la colonizzazione, tanto interna quanto esterna» [*2]. Il concetto di critica dell'Illuminismo - intesa come «regno della critica» evocato dallo storico Reinhardt Koselleck, o come «tribunale dell'opinione» nei confronti della «Repubblica delle lettere», e fino al «Rousseau dei ruscelli» di Robert Darntorn - era esso stesso riduttivo, dal momento che «il liberalismo illuminista, identificava il concetto di critica in generale con la critica della società agraria, nel mentre che la modernità capitalista continuava invece ad apparire come "progresso", malgrado tutti i mali che recava con sé, e nonostante il fatto che le cose, nella vita reale, si presentassero spesso, per la stragrande maggioranza delle persone, sotto una luce francamente diversa, vale a dire, come un deterioramento» [*3]. Robert Kurz, in tal modo, sottolinea come «l'Illuminismo non abbia criticato altro che le forme precedenti di dipendenza personale, facendolo solo allo scopo di legittimare le nuove forme di dipendenza reificata incarnatesi nel "lavoro astratto", dal mercato e nello Stato» [*4].

Una volta superata, alla fine del XIX secolo, quella che era stata la formazione feudale-ecclesiale medievale, ecco che, a quel punto, la concezione liberale della critica abbandona la critica dell'ontologia precedente, e si limita a una critica intra-capitalistica. «In tal modo, così facendo, ovviamente non si tratta più di criticare l'ontologia moderna e le sue categorie, ma piuttosto solo di sostituire i vecchi contenuti e le vecchie strutture con degli altri, nuovi, che ora si collocano sullo stesso terreno ontologico» [*5]. Ed è a questo titolo, che l'anticapitalismo tronco - per Robert Kurz, una categoria centrale che comprende tanto l'anarchismo classico che i "socialisti utopisti", quanto i rappresentanti del marxismo tradizionale, i quali, questi ultimi, sono gli eredi diretti del Marx essoterico -  fa parte di questo nuovo limitato pensiero liberale intra-capitalista di critica (a cui, tutta una parte dell'opera di Marx, il Marx essoterico, da buon rappresentante dell'Illuminismo, rimane legata).

Anticapitalismo "tronco", nel senso che tale critica non consiste mai in una critica dell'ontologia moderna, e delle sue categorie storico-ontologiche - vale a dire, di una critica categoriale - ma piuttosto, riguarda solo il trattamento immanente delle contraddizioni interne di una tale ontologia, la quale si configura e si manifesta sotto forma di una critica affermativa, ricercando solo una biforcazione, una frattura, una giustizia, un riconoscimento o un'alternativa che rimanga in quest’ambito, e che si trovi così sempre all'interno di tale ontologia, la quale viene lasciata del tutto intatta [*6].

fonte: @Palim Psao

NOTE:

[1] Kurz, « La Rupture ontologique. Pour que débute une autre histoire mondiale », in Jaggernaut, n°2, Albi, Crise & Critique, 2020, p. 204.
[2] Kurz, « La Rupture ontologique », op. cit., p. 204.
[3] Kurz, « La Rupture ontologique », op. cit., p. 206-207.
[4] Kurz, « La Rupture ontologique », op. cit., p. 206.
[5] Kurz, « La Rupture ontologique », op. cit., p. 207.
[6] Per una discussione approfondita del concetto di critica e una distinzione tra critica affermativa e critica negativa categoriale, si veda R. Kurz, "Gris e l'arbre de la vie" Albi, Crise & Critique, 2022.