mercoledì 6 dicembre 2023

Contro il Diluvio, il «disfattismo rivoluzionario» !!

"Al-Aqsa Flood": spargimento di sangue, sacrificio e invito al suicidio
- Per l'odierno "antimperialismo", le élite russe e arabe sono degli oggettivi alleati, allo stesso modo in cui i proletari israeliani e americani sono dei nemici naturali -
di Felipe Catalani

Nel quadro di una conflagrazione internazionale che sta colpendo un mondo sull'orlo del baratro, la guerra in Ucraina - che dall'invasione russa di inizio 2022, ha mietuto circa mezzo milione di vittime [*1] - ora si accompagna a un conflitto non meno distruttivo innescato dal massiccio attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre 2023. Sorprendentemente, non sono poche le persone che hanno celebrato l'assassinio di 1.300 persone come se fosse stata una gloriosa "rivolta popolare" messa in atto per resistere all'oppressione; questa "rivolta popolare" ha culminato in un bagno di sangue, avvenuto durante una festa, dove si sono viste scene come quella di gruppo di uomini che brandiscono, come fosse un trofeo, il corpo insanguinato di una donna che viene caricato su una jeep gridando «Allahu 'akbar» [Dio è il più grande]. La gioia sfrenata di tutti coloro che hanno esaltato questo mega-pogrom, può essere spiegata solo a partire dalla gioia antisemita di veder versare il sangue degli ebrei (conseguenza di ogni atto terrorista). E la cosa appare tanto più assurda se si pensa come fosse chiaro, e del tutto prevedibile, che la conseguenza sarebbe stato il massacro dei palestinesi dovuto all'immediata risposta militare di Netanyahu, il quale, in sei giorni, ha sganciato più bombe su Gaza di quante ne abbiano sganciate in un anno gli Stati Uniti sull'Afghanistan, accumulando in tal modo migliaia di morti, ininterrottamente. Sulle braccia dei bambini palestinesi, ancora vivi, i parenti scrivono i loro nomi, in modo che poi così possano essere identificati quando vengono ritrovati morti sotto le macerie. E se questa rappresaglia poteva essere prevedibile per coloro che hanno seguito gli "eventi" da lontano,  per Hamas lo era di certo. Per i numerosi «esperti di Medio Oriente», un'azione simile è stata «inevitabile», «l'unico esito possibile», quando non viene paragonata addirittura a una qualche sorta di reazione fisica, o organica, quasi si trattasse di un cane che ti morde la mano quando gli tiri la coda; come se stessimo parlando di «animali umani», così come li ha definiti il ministro della Difesa di Netanyahu, oppure come se si trattasse quasi di un fenomeno naturale, e non una struttura politica che ha preso una decisione, e che ha un comando, un programma e un progetto: in sintesi, stiamo parlando di una struttura che ha capacità umane di astrazione e di pianificazione, e non ha solo delle reazioni impulsive. Per poter comprendere il fenomeno, abbiamo visto riapparire le solite spiegazioni automatiche: il 1948; la Nakba (termine ufficializzato da Yasser Arafat nel 1998); le violenze e gli abusi quotidiani e ogni genere di tragedie di cui si è a conoscenza a Gaza; e come giustificazione - non meno automatica - la frase «Non va confusa la reazione degli oppressi...» è diventata un cliché che viene ripetuto fino alla nausea. Per la velocità, e la facilità con cui sembrano essere state applicate, e per la relativa calma che producono di fronte all'accelerazione dei disastri cui stiamo assistendo, queste spiegazioni appaiono stupefacenti. Del resto, come ha detto un leader palestinese, in Brasile: «Gaza è come una baraccopoli, ma è una baraccopoli che potrebbe dare inizio alla Terza Guerra Mondiale». Da bravi materialisti, ci sono alcuni che invocano persino «cause materiali»: l'oppressione, la miseria, la lotta per il riconoscimento. Ma stranamente sembra che non ci sia stato nessuno che abbia prestato attenzione agli annunci ufficiali di Hamas stessa.

Nel "comunicato stampa", emesso il 7 ottobre stesso dal suo "Ufficio Centrale dei Media", si legge «un invito a coprire l'operazione "Al-Aqsa Flood"», che comincia così: «Alla luce della benedetta operazione militare annunciata dalle vittoriose Brigate dei Martiri di Izz al-Din al-Qassam - in risposta all'aggressione sionista contro il nostro popolo, i nostri prigionieri, la nostra terra e i nostri luoghi santi - il "Diluvio di Al-Aqsa" ha avuto inizio questa mattina. Nonostante gli avvertimenti del movimento di Hamas e delle varie tendenze della resistenza questa aggressione non si è fermata. Continuando con i suoi crimini e le sue politiche fasciste, che prendono di mira l'esistenza palestinese e i suoi luoghi santi islamici e cristiani, al centro dei quali c'è la moschea benedetta di Al-Aqsa - che è oggetto di frenetici tentativi di colonizzazione volti a frazionarla nel tempo e nello spazio e impedire al nostro popolo di pregare lì, per marcarne il suo territorio ai fini della costruzione del loro cosiddetto tempio - il nemico sionista sta giocando con il fuoco.» Poche righe dopo, il comunicato informa che: «la priorità di questa operazione è quella di proteggere Gerusalemme e Al-Aqsa e impedire i piani dell'occupazione volti a giudaizzare e a costruire il loro cosiddetto tempio sulle rovine della prima qibla [direzione di preghiera] dei musulmani» [*2]. Secondo un comunicato di Reuters, una «fonte vicina ad Hamas» sostiene che «è avvenuto nel maggio 2021, dopo che c'è stata un'invasione di quello che è il terzo luogo più sacro dell'Islam, cosa che ha fatto arrabbiare il mondo arabo e musulmano, di modo che [Mohammed] Deif ha iniziato a pianificare l'operazione». In altre parole, gli ci sono voluti circa due anni e mezzo di preparazione per poter mettere in atto la «benedetta Operazione Al Aqsa Flood»; dove ci si riferisce alla famosa moschea di Gerusalemme. Secondo la fonte di Gaza, «la cosa è stata innescata dalle scene e dalle immagini di Israele che invade la moschea di Al Aqsa durante il Ramadan, picchiando i fedeli, attaccandoli... Tutto questo ha alimentato e infiammato la collera» [*3]. La stupidità dei poliziotti che invadono un luogo di culto e picchiano le persone che pregano, è scioccante. Ma vale la pena sottolineare che il principale motore del "Diluvio di Al Aqsa" - nella misura in cui è stato inoltre necessario reclutare molte persone per un'operazione del genere (con le sue prevedibili conseguenze suicide), è potuto partire solo da un senso di offesa morale e religiosa – cos che sfugge alle nostre classiche analisi agnostiche – anche se tutte le umiliazioni e le sofferenze accumulate pesano allo stesso modo. Tuttavia, va ricordato come in Brasile nel 2018 - malgrado tutto il retroterra materiale preparato dal bolsonarismo - sono stati piuttosto i sentimenti di orrore morale e di indignazione a causa dell'indecenza (sentimenti mobilitati per mezzo di immagini oltraggiose dell'avversario, per quanto alla fine fossero il prodotto di ogni genere di finzione possibile) a essere diventati una gigantesca forza politica, e hanno mobilitato le persone spingendole ad agire, anche contro i loro interessi oggettivi. Così, nel 2020, decine di migliaia di musulmani sono scesi nelle strade del Pakistan per protestare contro la ristampa delle vignette di Maometto da parte di Charlie Hebdo [*4], che nel 2015 aveva subito un attacco terroristico nel quale vennero uccise 12 persone.

La tesi marxista, secondo la quale sarebbero la fame, e il desiderio di libertà il motore politico della rivolta, è diventata obsoleta? In quella stessa dichiarazione di Mohammed Deif citata da Reuters, il capo dell'ala militare di Hamas si riferisce a Israele come a un'«orgia». Non è un caso che, in questa operazione complessa e meticolosamente pianificata, come obiettivo principale di un massacro, sia stato scelto un rave, visto come luogo di immoralità e di dissolutezza occidentale. Un attacco di questa portata richiede un'organizzazione che coinvolga necessariamente l'élite politica ed economica dell'«asse della Resistenza», vale a dire, da un lato, Hamas, cioè, la milizia il cui documento fondativo si basa sui Protocolli dei Savi di Sion (la stessa teoria del complotto che venne utilizzata dai nazisti per sterminare gli ebrei), e dall'altro, il regime degli ayatollah dell'Iran, il cui capo di Stato nega la realtà storica dell'Olocausto – inutile ricordare quale sia la «missione benedetta» che li accomuna (e che viene verbalizzata pubblicamente giorno dopo giorno). In ogni caso, per compiere questo massacro, era necessario che ci fosse un meccanismo di partecipazione – non da parte dei leader dell'organizzazione, che sono ben protetti e a loro agio in Qatar – da parte di coloro che erano disposti a servire da carne da cannone in un atto che era simultaneamente e allo stesso tempo sia ultra-violento che suicida (il più grande degli ultimi decenni). In maniera calcolata, questo atto ha anticipato il contrattacco militare di Israele, che adesso cerca niente di meno che la distruzione militare di Hamas, e una sanguinosa incursione di terra a Gaza. Tra gli spettatori mediatici della distruzione, ci sono molti sostenitori attivi; alcuni di loro vogliono che la piccola enclave sul Mediterraneo venga trasformata in un grande parcheggio, mentre altri invece sperano che Iran ed Hezbollah «ribaltino i ruoli». Paragonare l'azione di Hamas alle strategie classiche dei guerriglieri rivoluzionari di liberazione nazionale, ha poco o nessun senso. Per abbellire un atto barbaro, certuni hanno evocato l'eroica temporalità storica dell'epoca di Mandela, dell'Algeria, del Vietnam, e persino di Che Guevara. Potremmo anche sbagliarci, ma il messaggio di Hamas sembra essere che la causa palestinese, quanto meno a Gaza, sia una causa persa [*5]; da qui, di conseguenza, la volontà di sacrificare la propria popolazione in un'azione militare autodistruttiva. Naturalmente, un simile nichilismo amok trascende tanto Gaza quanto Hamas, e andrebbe collegato tanto a quella che è la logica sociale generale del capitalismo contemporaneo, quanto alla logica dell'Islam politico, il quale non è di certo né arcaico né premoderno, dal momento che di fatto costituisce un sintomo ideologico del nostro capolinea storico. Per quanto si senta spesso discutere della questione israelo-palestinese come se questo conflitto costituisse un microcosmo storico totalmente immune ai processi sociali generali. Per riuscire a comprendere qual è la disposizione soggettiva di coloro che partecipano a queste azioni - anche in missioni direttamente suicide [*6], come quelle dei "kamikaze" (che richiedono, se non un'enorme dose di coraggio, quanto meno la soppressione di ogni elementare e istintiva paura della morte [*7] - non possiamo ignorare la figura del martire che, per quanto sia presente in tutte le culture militari, nell'Islam politico assume una forma particolare [*8]. Qui il martire non è solo colui che agisce, ma lo diventano tutti coloro che, in un modo o nell'altro, vengono sacrificati in seguito all'attacco dell'avversario: anche un bambino che rimane ucciso in un bombardamento diventa un martire. La vedova di un martire di Hezbollah, ha raccontato a un giornalista che aveva trascorso anni a fare ricerche sull'argomento: «Mio marito è un martire. Ora è in paradiso. Per lui, è stato molto triste avere più di trent'anni e non essere ancora diventato un martire. Il giorno del suo compleanno, era molto infelice, e così gli ho detto: "Non ti preoccupare, otterrai quello che vuoi". [...] Per noi, vivere in questo modo è normale.E se mio figlio deciderà di seguire lo stesso percorso, io lo aiuterò a farlo» [*9]. Di certo, per noi è assai difficile comprendere un simile ragionamento. Un'ideologia del genere può avere senso solo in una situazione nella quale l'idea del futuro (in senso terreno) cessa di essere un elemento operativo, storico e soggettivo, facendo in modo che la gloria simbolica del martire possa così acquistare effettivamente abbastanza peso. Nel caso di Hamas, questa gloria si produce a partire da tutta una serie di pratiche (messaggi televisivi, radiofonici, ecc.) e di documenti (biografie) che caratterizzano e rappresentano questi martiri come se fossero dei santi che considerano futile la vita temporale, e vedono la morte come l'unico modo che possa consentire oloro di raggiungere un'esistenza che abbia un senso [*10].

La violenza che permette questa "ascesi" - tanto distruttiva quanto potenzialmente suicida - non ha nulla a che vedere con delle incontrollate «pulsioni animali», come si pensa in maniera stereotipata (e "orientalista"), quasi fossero dei «barbari e dei selvaggi», privi di qualsiasi freno civilizzante. Al contrario, quel che è all'opera è un eccesso di astrazione, un'enorme forza di trascendenza. Si sbaglia anche chi suppone che le "reclute" che commettono queste azioni siano sempre delle persone incolte, degli "ignoranti" che vivono in una situazione di povertà materiale. Ad esempio (per ricordare un vecchio episodio), uno dei piloti dell'attacco dell'11 settembre, Mohamed Atta, aveva studiato architettura al Cairo, e aveva continuato in Germania gli studi accademici. Ironia della sorte (oppure no), era critico nei confronti dell'architettura moderna, e non amava gli altissimi edifici della capitale egiziana. Nemmeno il mondo accademico e universitario si trova poi così lontano da Hamas, se consideriamo il fatto che Ismail Haniyeh - uno dei leader dell'organizzazione che ha più incoraggiato questo tipo di attacchi tra i palestinesi - è diventato rettore dell'Università islamica di Gaza. In ogni caso, ha un senso dire che Hamas sarebbe un tiranno che soggioga i palestinesi; ma lo ha solo a metà, perché va considerato che è riuscito a costruire un'egemonia su un dato territorio. Del resto, anche quando si parla di "mafia" (e di quelle che sono le forme di un racket), questa espressione non serve a designare semplicemente una banda armata, ma si riferisce a quelle persone che offrono effettivamente protezione, ivi compresa la protezione sociale, sicurezza, fiducia, ecc. La relativizzazione "de-coloniale", se non addirittura la positivizzazione "antimperialista", di questi gruppi è deprimente. Oltre al consueto antisemitismo (di solito camuffato sotto forma di "analisi" manichee o calunnie sentimentali) - oggi sempre più intensificato e disinibito - assistiamo anche a una certa fascinazione per lo spettacolo della violenza, quasi come un brivido, un'emozione compensatoria in una situazione di accresciuta impotenza politica (che avevamo potuto già osservare con quell'ondata di adolescenti che sui social network gridavano che «Stalin ha ucciso troppe poche persone!», ecc.). Alcuni anni fa, riflettendo sull'elogio di Hamas, Matthew Bolton ha osservato come «esprimere sostegno pubblico alla violenza politica (antisemita) diretta contro i civili (ebrei), per un certo tipo di attivista di sinistra, sembra generare un'eccitazione vicaria : un brivido di ammirazione narcisistica per la propria durezza rivoluzionaria, l'orgoglio e la fierezza per aver coltivato quella sensibilità indurita e quella moralità "superiore'", di cui c'è bisogno per accettare qualsiasi morte e qualsiasi distruzione necessarie al perseguimento della causa» [*11]. Quando non si arriva addirittura ad abbassarsi a quella che appare come una pura crudeltà del godimento dispettoso, come nel caso del cosiddetto esperto (di sinistra) del conflitto israelo-palestinese che ha postato la foto della donna brasiliana morta durante il rave attaccato da Hamas, con il commento: «Si era fatto tardi». Cose simili, sono state pubblicate in vari ambiti e luoghi, dalla sezione "Black Lives Matter" di Chicago [*12] o dal malmesso "Partido da Causa Operaria” [Nota: Questo gruppo trotskista, creato nel 1995 - inizialmente legato all'OCI (Organizzazione comunista internazionale) francese - si è fatto un nome durante le recenti manifestazioni pro-palestinesi a San Paolo in Brasile, indossando e vendendo magliette riproducenti la bandiera verde di Hamas] [*13]. A sinistra, la celebrazione del massacro del 7 ottobre [*14] è sorprendente, anche a partire dal fatto che immagina che un'operazione militare così gigantesca condotta da Hamas sarebbe passata attraverso «organi decisionali democratici» (il che è impossibile), e che quindi ci sarebbe stato un sostegno popolare alla decisione di compiere un attacco che avrebbe poi sottoposto la popolazione palestinese al più che prevedibile diluvio di quelle bombe e missili che da allora imperversa a Gaza [*15]. C'è da chiedersi, se queste persone nutrano davvero così tanto amore nei confronti dei palestinesi, o se invece stiano solo proiettando su di essi il loro sogno di distruggere Israele, visto come il compimento della giustizia suprema. Un sondaggio pubblicato di recente - i cui dati erano stati raccolti prima della guerra - mostra che «in generale, gli abitanti di Gaza non condividono l'obiettivo di Hamas di eliminare lo Stato di Israele. [...] Nel complesso, il 73% degli abitanti di Gaza è favorevole a una soluzione pacifica del conflitto israelo-palestinese. Alla vigilia dell'attacco di Hamas del 7 ottobre, solo il 20% degli abitanti di Gaza era a favore di una soluzione militare che potesse portare alla distruzione dello Stato di Israele» [*16].

Tuttavia, anche le ideologie finiscono per incontrare i propri limiti nella realtà materiale e - come si può immaginare - non tutti gli esseri umani si convincono della meravigliosa idea di diventare dei martiri. Così, quello stesso sondaggio mostra come ad aver fiducia in Hamas sia solo il 29% dei palestinesi, e che nella classe operaia il rifiuto era ancora maggiore. I dati complessivi mostrano quale sia lo scetticismo popolare, non solo nei confronti del clan al potere, ma anche verso tutto l'apparato politico nel suo complesso. Ciò, tuttavia, non ha impedito che a causa dell'odio - accumulato nel corso di una vita, per aver visto dall'altra parte del muro di separazione «ville con acqua, piscine e feste» - il 7 ottobre molte persone si siano mobilitate spontaneamente, semplicemente per uccidere, saccheggiare, ecc. [*17]. Oggi, sul lato israeliano, con Netanyahu, la tendenza alla guerra sia aggressiva che suicida ha raggiunto dei livelli apocalittici. Al di là della permanente minaccia esterna, oggi appare probabile che la più grande minaccia per Israele e per la sopravvivenza degli ebrei, sia proprio la tendenza entropica di quello che è il suo regime neo-messianico, il quale - nella misura in cui ripropone gli ideali di conquista da realizzare per mezzo delle sue bande che uccidono e terrorizzano gli arabi palestinesi in Cisgiordania - si sta sviluppando in maniera assolutamente autodistruttiva. Per quel che riguarda la posizione sulla Palestina, invece, quello cui assistiamo non è altro che la ripetizione e la riaffermazione di una decisione che era già stata presa, nel momento in cui Netanyahu aveva optato per una soluzione tecnocratica e militare, piuttosto che politica, del conflitto, la quale verrà necessariamente perpetuata con la gestione armata di una popolazione che era già economicamente superflua; perennemente condannata a vivere (e a morire)tra sotto le bombe, tra Ong e milizie, in mezzo a macerie, rovine e campi profughi. Il tutto, in nome di una "sicurezza" rivelatasi anch'essa inesistente. La sociologa israeliana Eva Illouz, ha osservato come a Gaza, Netanyahu - con la sua utopia tecnologica della sicurezza automatizzata - abbia «trasformato l'esercito in un esercito di occupazione, addestrato a controllare i civili, anziché sorvegliare i confini», funzionando, in tal modo, sotto forma di una banda di criminali senza legge. E non è certo un caso, che Netanyahu sia stato usato per così tanto tempo al servizio di interessi privati, dal momento che ora viene mobilitato per proteggere e sostenere i coloni in Cisgiordania [*18]. Sono passati più di vent'anni,da quando subito dopo l'assassinio di Yitzhak Rabin, due autori israeliani sostenevano: «Gli israeliani vedono sempre più il paese come se fosse una polveriera con la miccia accesa. Per loro, la più grande minaccia non è il terrorismo fondamentalista, e neppure la guerra contro i suoi vicini, ma piuttosto la dissoluzione a partire dall'interno[...] Nel momento in cui - in un sondaggio Gallup per il giornale Maariv nel secondo anniversario dell'assassinio di Rabin - è stato chiesto se il paese si trovasse più vicino all'unità o alla guerra civile, ci sono stati più del doppio degli israeliani (il 56 contro il 21%) i quali hanno detto che un omicidio fratricida interno era assai più probabile che la pace all'interno» [*19].

Oggi, tutti quelli che non sono in guerra si preparano ad affrontarla. Forse è il mondo stesso a essere diventato una «polveriera con la miccia accesa», che interessa e coinvolge non solo gli Stati, ma anche la società civile, e persino la stessa opinione pubblica: quando è stata l'ultima volta che abbiamo visto una folla - come quella che all'annuncio di un aereo proveniente da Tel Aviv - prendere d'assalto l'aeroporto di una piccola città russa del Daghestan, aggirare tutti gli ostacoli e occupare la pista alla ricerca degli ebrei? Finita l'era delle «guerre di ordinamento mondiale», nel corso delle quali i conflitti armati avevano assunto le sembianze di gigantesche operazioni di polizia (e viceversa: le operazioni di polizia urbana si sono invece militarizzate, e sono diventate belliche), sembra che - almeno a partire dalla guerra in Ucraina - si stia assistendo al ritorno dei cosiddetti "vecchi conflitti", nel quadro della fine dell'utopia capitalistica "post-nazionale", entrata in vigore a partire dal 1990. Ma oggi, questi vecchi conflitti stanno riacquistando il loro significato, e lo stanno facendo proprio in uno scenario nel quale collassa la logica politica basata sul mondo del lavoro (vale a dire, la lotta di classe), nel mentre che l'attaccamento alle identità nazionali (e ai rispettivi mega-blocchi) guadagna sempre più forza. Per l'odierno "antimperialismo" - il quale è piuttosto un alter-imperialismo - le élite russe e arabe sono degli alleati oggettivi, allo stesso modo in cui i proletari israeliani e americani sono dei nemici naturali. Nel clima di preparazione alla guerra - con i suoi molteplici mezzi mediatici di ingaggio - chiunque difenda il «disfattismo rivoluzionario», come fece Lenin nel 1914, verrà pertanto considerato come un ingenuo, o come un pazzo anacronistico.

Felipe Catalani, 20/11/2023. Pubblicato su Passa Palavra

Felipe Catalani è un filosofo brasiliano. Legato al gruppo laburista di San Paolo (Wk-Brasile), ha appena pubblicato in francese sul n°6 della rivista di teoria critica Jaggernaut: "La barbarie et les barbares. Notes sur le processus social de la crise brésilienne", così come " La décision fascite et le mythe de la régression : le Brésil à la lumière du monde et vice-versa" (dans le Jaggernaut n°2, 2020)

NOTE:

[1] - https://www.nytimes.com/2023/08/18/us/politics/ukraine-russia-war-casualties.html

[2] - https://hamas.ps/ar/p/18188

[3] - https://www.reuters.com/world/middle-east/how-secretive-hamas-commander-masterminded-attack-israel-2023-10-10/

[4] - https://www.reuters.com/article/us-pakistan-protest-cartoons-idUSKBN25V2KJ

[5] Secondo Robert Kurz, il nascente Stato palestinese, ancor prima di essere formato, funzionava già come uno Stato in bancarotta, così come tutti gli altri nella periferia collassata del capitalismo mondiale (una situazione condizionata non solo dalle dinamiche capitalistiche generali, ma aggravata dall'occupazione militare israeliana): «Lo Stato fantasma palestinese è quindi il primo che, ancor prima della sua fondazione ufficiale, è entrato in un processo di decomposizione e decadenza. La formazione di uno Stato, e la sua decomposizione coincidono qui immediatamente, il che è un paradosso storico. Ancor prima che si sviluppasse un apparato statale completo con una propria legittimazione e una propria storia, le strutture dei clan, i signori della guerra e le strutture mafiose presero il loro posto.» in Robert Kurz, "Il Médio Oriente e la sindrome di anti-Semitismo", 4° capitolo de " "La guerra di ordinamento mondiale. La fine della sovranità e le trasformazioni dell'imperialismo nell'era della globalizzazione".

[6] Nota del traduttore. Quattro osservazioni sul tema del "suicidio":
a) L'Islam è ostile al suicidio e agli attentati suicidi tanto quanto il Cristianesimo.
b) Gli attentati non sono considerati dai loro autori come dei "suicidi" ma tanto come atti di resistenza nazionale, quanto come "testimonianza" (shahid) per difendere i valori sacri musulmani e la terra dell'Islam.
c) Le motivazioni dello shahid e della shahida sono diverse ma molto più altruistiche del mito di un aldilà popolato da houri langui: infatti, i candidati al "martirio" evocano l'intervento benefico di Dio per i loro cari rimasti sulla terra. Inoltre, la presunta benevolenza di Allah si sposa con la reale benevolenza delle organizzazioni terroristiche islamiche che aiutano le famiglie dei "martiri", un sostegno economico significativo per le persone che spesso sprofondano nella povertà.
d) Infine, la spiegazione di houri non tiene conto delle motivazioni delle donne che partecipano agli attentati suicidi. In Palestina, ad esempio, hanno generalmente un buon livello di istruzione, ma nessuna prospettiva di emancipazione sociale o familiare. Per quanto bizzarro e assurdo possa sembrare, il loro atto ha una dimensione "egualitaria" di fronte a una religione maschilista, poiché esigono uno status uguale a quello dei martiri maschi!

[7] L'uso di droghe da parte dei soldati è ben noto. C'è tutta una psichiatria militare che, nei suoi casi limite, non è poi così diversa dalla nostra psichiatria orientata al lavoro. Alcuni giornali hanno riferito che, per compiere l'attacco, i soldati di Hamas erano anche sotto l'effetto di droghe (captagon, una specie di anfetamina).

[8] Sull'idea del martirio come fondamento ideologico di Hamas, si veda ad esempio questo articolo di Eli Alschech, "Egoistic Martyrdom and Hamas' Success in the 2005 Municipal Elections: A Study of Hamas Martyrs' Ethical Wills, Biographies, and Eulogies", Die Welt des Islams n° 48 (2008), pp. 23-49.

[9] Christoph Reuter, La mia vita è un'arma: una storia moderna degli attentati suicidi, Princeton University Press, 2004, pp. 71-72.

[10] Eli Alschech, op. cit.

[11] Matthew Bolton, "Catastrofe climatica, l'entità sionista" e "Il ragazzo tedesco": un'anatomia della disputa Malm-Jappe":
https://www.academia.edu/108026972/Climate_catastrophe_the_Zionist_Entity_and_The_German_guy_An_anatomy_of_the_Malm_Jappe_dispute

[12] Nel secondo caso, senza il consenso generale del movimento, naturalmente.

[13] A sinistra, pochi sono stati in grado di mantenere lo stesso atteggiamento nobile degli zapatisti, che sono rimasti fedeli all'orizzonte libertario, e hanno saputo criticare l'impulso morboso del tempo. Come ha scritto il subcomandante degli insorti Moisés: "Né Hamas né Netanyahu. Il popolo d'Israele sopravviverà. Il popolo palestinese sopravvivrà": https://enlacezapatista.ezln.org.mx/2023/10/16/de-siembras-y-cosechas/

[14] Anche qui a tema: https://passapalavra.info/2023/10/150356/

[15] Tariq Ali è stato anche uno dei primi a definire il mega-pogrom del 7 ottobre 2023 una "rivolta":  https://newleftreview.org/sidecar/posts/uprising-in-palestine

[16] https://www.foreignaffairs.com/israel/what-palestinians-really-think-hamas

[17] https://www1.folha.uol.com.br/mundo/2023/10/israel-retraumatiza-criancas-sobre-holocausto-e-constroi-figura-do-inimigo-diz-ativista.shtml

[18]  https://jornalggn.com.br/oriente-medio/podera-israel-acordar-do-pesadelo-e-fazer-o-certo-por-eva-illouz/

[19] Karpin, Michael/Friedman, Ina, Der Tod des Jitzhak Rabin. Anatomie einer Verschwörung, Rowohlt, 1998, p. 427, citato in Kurz, op. cit.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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