sabato 29 febbraio 2020

Il non identico

Crisi e Critica della società delle merci
- Editoriale, lettera aperta e richiesta di donazioni -
di Roswitha Scholz

Almeno a partire dal crollo finanziario del 2007/2008, si è potuto assistere a quella che è stata un'inversione delle prospettive politiche: dopo l'era neoliberista in cui aveva si era visto il superamento di ogni frontiera, ecco che la salvezza viene nuovamente vista proprio nella limitazione, nei confini. Assistiamo ad un forte ritorno alla nazione ad al regionalismo. A partire dal «make America great again» e dal «America First», Trump fa di necessità virtù, dal momento che quella potenza mondiale che sono gli Stati Uniti ha ormai da tempo cominciato il suo declino attraverso complessi processi di deterioramento: vengono imposte tariffe doganiere, si combattono guerre commerciali (soprattutto contro la Cina). Nel frattempo, il debito nazionale degli Stati Uniti continua a crescere malgrado l'imposizione di tariffe protettive alla dogana. Si intensificano gli sforzi per impedire l'ingresso di rifugiati provenienti dal Messico, ecc. Evidentemente, anche la Brexit è un'espressione di questo ritorno alle frontiere. Il dibattito su questo argomento mostra chiaramente quali sono le contraddizioni in una situazione che è il prodotto dell'economia e della politica mondiale, e nella quale non è più possibile uscire facilmente dalla globalizzazione. Probabilmente, tutto questo diverrà ancora più evidente dopo l'elezione di Boris Johnson.
Ovunque nel mondo, vengono eletti dei personaggi bizzarri e sconcertanti, e dei partiti di destra che si basano su delle semplici «verità»: Orbán, Kaczynski, Erdogan, Duterte, Trump, Bolsonaro - e la lista continua ad allungarsi sempre più. Nel frattempo, Trump cede la Siria a Putin e getta i curdi in braccio a Erdogan. Il sogno degli antimperialisti, la ritirata e la moderazione degli Stati Uniti, si rivela un incubo. La guerra per procura nello Yemen, tra Iran ed Arabia Saudita, e le sue devastanti conseguenze vengono menzionate dai nostri media solo occasionalmente, con un tono che dimostra la colpevolezza. Numerosi scenari e situazioni di catastrofe sono diventati comuni e fanno notizia solo quando il problema si presenta in forma acuta, come avviene da qualche anno per la disastrosa situazione dei servizi sociali in Grecia. della quale non si è più sentito parlare, sebbene da allora non è che sia migliorata granché. Sullo sfondo rimane la minaccia di un'enorme crisi economico-finanziaria, a proposito della quale ci mette in guardia Nouriel Roubini quando afferma che non potrà più essere gestita politicamente, come fu ancora il caso nel 2008 e negli anni successivi [*1]. Lo sanno tutti. La «letteratura di crisi» si trova perciò in pieno boom. Il libro di Marc Friedrich e Matthias Weik, "Der größte Crash aller Zeiten. Wirtschaft, Politik, Gesellschaft. Wie Sie jetzt noch ihr Geld schützen können", Eichborn, 2019 [N.d.T.: Il più grande collasso di tutti i tempi. Economia, Politica, Società. Come puoi fare a proteggere i tuoi soldi] [*2] si trova al 1° posto nella lista dei bestseller di Spiegel. Allo stesso tempo, a preoccupare i contemporanei, non è solo il problema abitativo degli alloggi, ma anche quello del cambiamento climatico, ed appare evidente che quelle che sono le contromisure a livello nazionale, regionale e locale non sono più sufficienti. Anche gli stessi Verdi non sono altro che una misura palliativa per garantire che nulla possa veramente cambiare, ma che bensì tutto posso essere organizzato in maniera immanente. Le figure come Greta Thunberg sono diventate delle star [*3]. In tutto il mondo, dopo il dibattito su «#me-too»,  il movimento delle donne si ricostituisce ed esprime con forza la sua indignazione attraverso degli scioperi/manifestazioni, ad esempio, in Argentina o in Spagna. In Iran ed in Cile l'agitazione sociale contro le riduzioni dei servizi sociali si fa sentire anche in Argentina. L'aumento dei prezzi della benzina o della metro è l'ultima goccia; in diversi Stati arabi la situazioni si è fatta esplosiva (e la lista potrebbe allungarsi). In questo modo, i disordini sociali si riaccendono sempre più e vengono «affrontati» di conseguenza dalle guardie che manganellano e fucilano (più di 100 morti in Iran) [*4]. Il sistema dei partiti sta diventando sempre più obsoleto e vuoto di qualsiasi contenuto. i «partiti popolari» si sgretolano, I Verdi e l'AfD sono in crescita. Simultaneamente, la situazione economica si deteriora, non solo in Germania, ma anche in tutto il mondo. Così, anche in Germania si levano molte voci che reclamano la fine della politica di austerità, soprattutto per stimolare l'economia, cosa che ovviamente farebbe aumentare il debito pubblico. È dunque perciò necessario continuare a comprendere la società come una struttura contraddittoria, e questo - è il punto decisivo - sullo sfondo del declino del capitalismo. Il «collasso della modernizzazione» (Robert Kurz) si manifesta attraverso delle condizioni anomiche ed imprevedibili. Ciò che osserviamo oggi, come stato di cose e come tendenza, si potrebbe presentare in maniera differente domani. Oltre alle attuali tendenze ad andare verso destra, si fanno sentire anche delle proteste che non possono essere definite reazionarie, come fanno gli anti-deutsch (ampi settori degli anti-deutsch stessi rappresentano altresì delle posizioni assai vicine a     quelle dell'AfD, soprattutto la redazione di "Bahamas"), come testimoniano i movimenti femministi e climatici che trascendono le frontiere nazionali (anche se troviamo in esse delle tendenze ambigue e problematiche.

Una delle principali reazioni della sinistra, rispetto a questa nuova situazione a partire dal 2008, è stata la riattivazione della lotta di classe, che essa considera, a quanto pare, come se fosse una delle sue categorie principali, anche se continua a dire che non si tratta più delle «vecchie» classi. Tutti gli altri problemi (sessismo, razzismo, ecologia, ecc.) vengono perciò inclusi in quelle che sono considerate le contraddizioni secondarie, che pertanto vengano supposte come se fossero non più esistenti. Klaus Dörre auspica, in tutta serietà, un nuovo movimento sociale dietro lo slogan «espropriare Zuckerberg» [*5]. Le classi dovrebbero nuovamente avere la precedenza sull'«identità», ed il razzismo ed il sessismo dovrebbero apparire come secondari. Perfino in ambito femminista, si arriva a costituire quello che dovrebbe essere un manifesto femminista per il 99% (!) [*6]. Si va avanti come se queste forme di discriminazione fossero state seriamente messo in secondo piano e relegate in delle nicchie marginali, poiché negli anni '80 e '90 il discorso egemonico nelle scienze sociali si è concentrato soprattutto sull'ambiente, sulla sottocultura, sullo stile di vita e sull'individualizzazione. Al giorno d'oggi, è di nuovo in corso la ricerca dei colpevoli. Quello che si sta diffondendo, è un marxismo (volgare), della personalizzazione, che vede nei capitalisti, negli speculatori e negli investitori il nemico, cosa che ovviamente implica quello che è un antisemitismo strutturale [*7]. Nel dibattito sulla decrescita, ogni tipo di concetto esistente viene gettato dentro un pentolone e viene mescolato ben bene: democrazia economica, economia solidaria, partecipazione dei salariati all'azienda, ecc. Si tratta chiaramente di una pietanza immangiabile. Ad essere in voga, è nuovo «Green New Deal», come dimostrato dalla pubblicazione di libri come quelli di Jeremy Rifkin e di Naomi Klein. Perfino il presidente della Commissione europea, von der Leyen, è a favore di un «Green Deal». Dopo essersi concentrati su una nuova lettura di Marx, dopo una riflessione sul feticismo [*8] e dopo avere affermato che «il capitalismo è arrivato alla sua fine» [*9], ecco che oggi emerge una focalizzazione sulla «nuova» questione di classe [*10]. A mancare, è una prospettiva critica del feticismo, a partire dalla quale il feticcio includa sia l'operaio sia il capitalista. Oggi, chiunque vede il capitale come se fosse una minaccia esterna, non importa se, all'epoca, si sia trovato d'accordo con Schröder, non importa se, negli anni '90, è diventato un nuovo ricco ed abbia scoperto da sé solo le azioni in borsa e la speculazione. Tutto quanto indica che ogni cosa va risolta all'interno della forma della critica della dissociazione e del valore. Il problema di base della situazione attuale, viene sostanzialmente espresso per mezzo del discorso di Greta Thunberg ai politici: «Come osate?!» - a cui i politici rispondono: «Che le trovi lei, le risposte a tutte questi problemi!» Infatti, tutti sono contro il cambiamento climatico (tranne l'AfD e i loro): gli imprenditori, i politici, la famosa società civile. Pertanto, diventa così evidente una comune impotenza politico-economica a risolvere questo problema in quello che è il quadro feticista di riferimento: la tassa sul CO2, la proibizione del diesel, ecc. non sono altro che delle misure simboliche. Ciò che serve è un cambiamento fondamentale dei modi di produzione e di vita, così come nelle corrispondenti strutture dei bisogni, e questo al di là della logica delle classi operaie e capitaliste. Sostanzialmente, ciò appare chiaro anche ai bambini. Loro lo sanno, ma continuano comunque a fare lo stesso, si potrebbe oggi dire con Žižek, sebbene in maniera del tutto diversa da come la pensa quest'ultimo (si veda, su questo numero della rivista, l'articolo di Roswitha Scholz sul «marxismo lacaniano»).

I dibattiti a proposito di un'eco-dittatura, che si sentono qui e là, dovrebbero essere controbilanciati dall'analisi di Marcuse circa i falsi bisogni generati sotto il capitalismo e la loro soddisfazione tronca; dal momento che non esiste una società emancipata in grado di generare altri bisogni e strutture di bisogni. Le risposte che vengono attualmente date non rendono in alcun modo giustizia al dramma della disintegrazione dei rapporti capitalisti-patriarcali. Anziché insistere su dei cambiamenti radicali nel senso di questa critica del feticismo, si tengono degli pseudo-discorsi. La sinistra gira in tondo, ed è da decenni che non ha più prodotto niente di nuovo. Le offerte di utopia e le istruzioni per l'azione, sono numerose. Le risposte che sono state date a partire dagli anni '70, sono sostanzialmente sempre le stesse. Realisticamente, non ci si aspetta nessun cambiamento radicale. Tuttavia, si è sviluppato un piccolo discorso sulla critica del lavoro [*11], ma anche questo rimane all'interno del quadro sociale dato, privo di ogni trascendenza reale.
Il grave trauma causato dal crollo del blocco dell'Est, non è stato né affrontato né digerito. E insieme ad esso: la fine della socialdemocrazia, il fallimento del movimento alternativo, del movimento delle donne, del movimento ecologico, ecc. che hanno contribuito a creare il «nuovo spirito del capitalismo» (Boltanski & Chiapello). Senza scordare: la sconfitta dei tentativi di governo di sinistra in America Latina (Venezuela, Bolivia). Al suo posto, stiamo semplicemente assistendo ad un nuovo mantra di quelle che erano tutte le vecchie questioni ed al riemergere delle corrispondenti illusioni (democrazia economica, economia solidale, reddito di base, ecc.), le quali ora vengono presentate come se fossero radicali e trascendenti il sistema. In questo modo, una «malinconia di sinistra» non riconosciuta (Walter Benjamin, Wendy Brown, Enzo Traverso) si rifugia perciò in quelle che sono delle retro-ideologie, in utopie a buon mercato e nell'azionismo , in cui non c'è niente che si opponga realmente alle cattive condizioni e che sono in grado di dimostrarsi inefficaci. Dopo il declino della socialdemocrazia resasi ridicola, la «democrazia ipersociale» si è ora candidata ad essere la soluzione per ogni problema. Rimane nascosto il fatto che la stessa socialdemocrazia non è stata altro che un motore di sviluppo del capitalismo (in particolare, il fordismo), e che oggi  una sua nuova edizione («verde»), sotto l'egida del capitalismo precario dei mercati finanziari, dei processi di razionalizzazione progressiva, della concorrenza internazionale, dell'interdipendenza dei capitali, ecc. (alla quale si oppone oggi anche l'estrema destra) non è più possibile [*12].
Attualmente, la sinistra è nuovamente determinata da un movimentismo di facciata; una teoria che non risponde immediatamente a quello che è il bisogno di agire, e che potrebbe perfino rendere le questioni qui sollevate come un soggetto di discussione, in questo momento ha in mano delle pessime carte. Certo: non è che si deve subire tutto e piegarsi agli imperativi della fattibilità finanziaria (affitti, Hartz IV, ecc.) ed è indispensabile, per esempio, un impegno concreto contro il razzismo, l'antisemitismo, il neofascismo, ecc. Tuttavia, dev'essere evitata ogni ipotesi astratta e va pensato il quadro di riferimento sociale e storico. È necessario tener conto dell'astrazione della dissociazione-valore e guardare a quella che è la famosa totalità, anche per poter vedere fino a che punto certe azioni e certi movimenti stiano lavorando in direzione dell'attuazione della gestione della crisi. Certo, da parte della critica della dissociazione-valore, è necessario vedere dove possono esserci movimenti che comportano dei momenti trascendenti cui possiamo mescolarci in modo da allargare gli orizzonti intellettuali nel senso di una critica della sintesi sociale. A tal proposito, è indispensabile utilizzare gli spazi di azione disponibili al fine di migliorare la situazione attuale. Dopo tutto, non viviamo più nel «mondo amministrato», com'era ai tempi di Adorno, ma in un periodo di «collasso della modernizzazione» (Robert Kurz). Tuttavia, non è che si possa agire correndo dietro i movimenti. Oggi, la distanza critica, l'elaborazione teorica, e il rimettere in discussione la forma sociale sono tutte cose particolarmente importanti, nel momento in cui la sinistra mainstream crede che tutti i problemi complessi possono essere risolti all'interno di questa forma sociale, e le pseudo soluzioni sino all'ordine del giorno. Contrariamente alla Nuova Lettura di Marx, il fine qui non è quello di portare avanti una esegesi analitica e filologica formale di Marx, ma di comprendere i concetti marxiani in quanto astrazioni reali, e metterli in relazione con quelli che sono i cambiamenti reali dell'attuale società globale. Ciò significa anche riconoscere allo stesso tempo che la politica e la soggettività (politica) si trovano da decenni in stato di erosione. Le teorie postmoderne ne sono state l'espressione. E sebbene le relazioni di solidarietà siano molto importanti, soprattutto nel rinascente movimento delle donne, ciò non dovrebbe portarci a proclamare - anacronisticamente e a partire da uno spirito agit-prop - le donne come nuovo soggetto politico (tale questione, dovrà essere studiata in un articolo separato). E questo è proprio un punto di forza della teoria critica della dissociazione-valore: quello che permette la comprensione dei processi e dei movimenti sociali nel contesto di un continuum sociale storico e temporale più ampio, anziché adottare una prospettiva riduzionista, la quale è di attualità in tempi di movimento. Nel giro di qualche anno, alla preoccupazione e all'immediatezza fanno regolarmente seguito i postumi di una sbornia. A quel punto, le esigenze e i contenuti vengono ridotti ad un residuo immanente del sistema (e qui si potrebbe pensare ad un femminismo di Stato). Il desiderio e l'ansia di «dover fare alla fine davvero qualcosa», serve a mascherare il fatto che, nel contesto sociale globale, anche l'elaborazione della stessa teoria è una pratica autonoma, la quale può servire alla prassi sociale solo se viene rivolta a dei processi sociali di cambiamento sociale, solo se non si arrende a quello che è un feticcio di prassi, diventando un tutt'uno con esso [*13]. Questo avviene nel momento in cui si è ostili alla teoria e si punta alla pratica, non volendo sapere niente circa l'indispensabile mutamento sociale, accontentandosi semplicemente dell'immediato e falso status quo, il quale non può essere comunque mantenuto. Mentre negli ultimi trent'anni, si è insistito su una posizione queer e post-coloniale, vale a dire, su una prospettiva di preoccupazione e di punto di vista, sembra che in questo momento ci sia un orientamento di classe da parte del presunto «99%» (non solo femminista) che pretende di sostituire sotto quest'aspetto le teorie e le ideologie postmoderne. A partire da una simile definizione della questione sociale, rinasce anche il bisogno di una «normalità» piccolo-borghese e dell'identificazione con le masse,  tralasciando così gli Altri emarginati e discriminati, per quanto si pretenda di includerli. Oggi, sembra sia stato del tutto dimenticato il fatto che la «questione delle donne» e degli altri siano state considerate come una contraddizione secondaria. Tuttavia, le donne e i migranti sono i più colpiti dalla «questione sociale». La mancanza di capacità pratica, il fatto di essere superflui ed emarginati e di non potersi esprimere è il più grande dei crimini. Le teorie postmoderne dovrebbero essere criticate per la loro interpretazione culturalista di questa discriminazione, e per essere rimaste intrappolate nella «politica dell'identità», anziché contrapporle la «questione sociale» con una forte enfasi «materialista». Le esperienze finite devono essere considerate ed analizzate in quanto tali nel contesto di una totalità storica globale vista nella sua stessa decomposizione, e ciò deve avvenire al di là delle ipotesi postmoderne di ibridazione a buon mercato. Diversamente, verrebbe ignorata ogni possibilità di riuscire a comprendere un sistema feticista autoreferenziale, che è stato costituito proprio dall'uomo e dalla donna. Maliziosamente, potremmo dire che chi fa davvero delle esperienze essenziali non è che si concentri poi così tanto sull'esperienza in quanto tale (la rivista Outside the box nel suo attuale n°7, ha come tema «l'esperienza»). Perfino nei contesti della critica del lavoro, si è fatta sentire la necessità di diventare pratici e di connettersi con delle esperienze dirette. Qui le parole chiave sono state l'economia solidaria, i beni comuni e l'open source [*14]. Nel frattempo, non c'è stato niente che sia diventato più ridicolo dell'ideologia dell'open source. La libertà in rete ha lasciato il posto soprattutto al risentimento, al vomito delle opinioni emotive e demagogiche, alla provocazione e al bullismo. L'ideologia del dono e dell'offerta gratuita è mutata in Uber, ecc..

Claus Peter Ortlieb, morto il 18 settembre del 2019, e di cui pubblichiamo un necrologio, si è sempre opposto a simili tendenze ed ha preso le distanze dai recenti sviluppi «teorici» di Krisis. A tal riguardo, in un necrologio su Krisis, l'appropriazione e l'elogio del suo testo ,«Una contraddizione tra materia e forma», pubblicato senza imbarazzo alcuno sulla homepage di Krisis del 10/10/2019, appare assai problematica. In quel testo, Ortielb aveva ritenuto importante sottolineare, a proposito della suddetta contraddizione, l'importanza del concetto di plusvalore relativo, che per esempio Trenkle [di Krisis] ignora nella sua discussione con Heinrich, e che tuttora non gioca alcun ruolo decisivo in Krisis. Inoltre, su altre questioni Ortlieb ha pronunciato parole inequivocabili sia contro Krisis che contro Streifzüge [*15]. Quello che chiediamo ai lettori di Exit! è di continuare a sostenere la rivista, insieme al nostro sforzo teorico che non è mai stato guidato da aspirazioni pratiche immediate e non si è mai piegato di fronte alle restrizioni dell'establishment accademico di sinistra, né ad interessi di carriera o agli atteggiamenti e alle certezze a basso costo della sinistra. Oggi, soprattutto, abbiamo bisogno di intellettuali che non corrano nella ruota per criceti accademica, né in termini di contenuto né in termini istituzionali di «metodo» o di «metodologia», e che non si lascino né dettare né viziare il loro pensiero da tutto questo, ma che osservino la totalità sociale (globale) al di fuori da quelli che sono i sentieri battuti. Senza di loro, non potrà mai esserci alcuna critica sociale veramente radicale. Nelle antologie e nei congressi, si vedono, da anni, perfino da decenni, sempre quegli stessi personaggi che erano apparsi con le loro tesi di laurea. Se quella che viene esposta. è un'attività universitaria sempre più debole, ciò avviene perché si sottomettono, o devono sottomettersi sempre più, all'accademia in quanto potenziali padri putativi: «canto la canzone di colui che mi dà del pane», è questa, dopo tutto, la consegna. In passato, la critica del valore (e della dissociazione) ha conosciuto un piccolo boom, ed allo stesso tempo è stata anche ripresa nei testi e nei riferimenti che se ne facevano a sinistra, ma tutto ciò ha subìto una battuta d'arresto quando si è trattato di affrontare il cuore della questione, vale a dire, mettere radicalmente in discussione quella che è la forma capitalistico-patriarcale della socializzazione. Così anche questa fase sembra essere finita, e più spesso si è preferito ritornare ad un marxismo dell'età della pietra, modificato appena un po'. Dopo gli anni del postmodernismo con il suo «sfrenato immobilismo» (Paul Virilio), che ha reso sempre più evidente la forma vuota del valore che si basa sulla dissociazione del femminile, ecco che oggi il bisogno è nuovamente quello di «fissare» ed «identificare», di avere delle immagini chiare del nemico, in modo da poter così designare delle persone e dei gruppi che possano essere visti come i responsabili della miseria, ecc.: seguendo la logica dell'identità, il mondo dovrebbe essere di nuovo chiaramente divisibile in alto e in basso, in amici e nemici, in bene ed in male, ed il non-identico potrà così essere ignorato. In questo modo ci si può preparare mentalmente al Pogrom. Dopo la fine del postmodernismo ludico, si tratta di dare espressione alla "nuova serietà". Gli articoli presenti in questo numero di Exit!, si collocano ancora e sempre più spesso nel contesto di una tale critica. «Un tour gratis nel caos della crisi» [*16], è la riedizione di un testo di Robert Kurz che era stato pubblicato in un'antologia del 1994, ormai fuori stampa. Questo saggio, tratta della follia automobilistica. In esso, Kurz tratteggia quella che è stata l'evoluzione storica dell'installazione del traffico individuale, e mostra come esso sia essenzialmente dovuto all'irrazionalità del modo di produzione capitalistico. Kurz richiama l'attenzione sulle conseguenze distruttive di tale follia. Inoltre, sottolinea come il trasporto individuale, l'«auto», non sia solo una tecnologia, ma come esso sia associato ad un modo di vita specifico. Infine, quello che è il «cane da combattimento verniciato» serve alla «mobilitazione totale» della merce forza lavoro e, in quanto oggetto di consumo, è caricato in maniera simbolica: e tutto questo rende la follia automobilistica anche una follia maschile. Per la pubblicazione del n°18 di Exit!, si prevede anche di pubblicare un commento su questo testo, che servirà ad aggiornare il saggio di Kurz ed esaminerà quelli che sono stati i nuovi sviluppi della follia automobilistica (guida senza conducente, vettura elettrica), in particolare visti nel contesto della catastrofe climatica ormai in atto.
Da tempo, Žižek è uno degli intellettuali di sinistra più influenti. E quando si annuncia che si sta scrivendo qualcosa su Žižek, ecco che si viene a trovare di fronte all'incomprensione. Egli sarebbe confuso, vuoto, polemico, e a volte viene perfino liquidato come se fosse solo un bluff ed un impostore, e sotto questo aspetto , dovrebbe essere perciò assolutamente messo fuori dalla discussione. A questo punto, però, si pone la questione perché allo stesso tempo egli venga considerato degno di rispetto, perché venga invitato così spesso e perché le masse accorrano alle sue conferenze. Perché pubblica con case editrici come Suhrkamp o Fischer e viene considerato come un «filosofo star»?  Nel testo di Roswitha Scholz, «Il capitalismo, la crisi ... il divano - e il declino del patriarcato capitalista. Alcune osservazioni critiche sul marxismo lacaniano di Slavoj Žižek e di Tove Soiland » [*17], si tratta innanzitutto di criticare, dal punto di vista della critica della dissociazione valore, la teoria di Žižek  ed il suo pregiudizio androcentrico, ma anche di dimostrare, quanto mento a livello elementare, il suo ruolo cardine, come figura centrale, in quella che è stata la transizione dal postmodernismo ad un'epoca autoritario-anarchica, che nei suoi scritti si accompagna ad un riferimento semi-ironico a Lenin e a Stalin. E cosa tanto più sorprendente è quella che Tove Soiland, al quale in questo testo si fa anche riferimento, ignori tali caratteristiche dell'opera di Žižek, e cerchi quindi di farne derivare, in maniera acritica, quello che è il suo pensiero «marxista-lacaniano» femminista.
Nel contributo di Thomas Meyer, «Sulla miseria infinita del positivismo: una nota tardiva sul "caso Sokal» [*18], viene analizzato il cosiddetto caso Sokal. Sono passati più di vent'anni da quando il fisico Alan Sokal ha inviato un falso articolo ad una rivista post-strutturalista. L'articolo era stato scritto nel gergo tipico dell'ambiente interessato, in modo che nessuno si accorgesse che non fosse del tutto serio. Nel saggio, Meyer mostra come Sokol rimanga superficiale nella sua critica dell'assurdità postmoderna, e che egli stesso non abbia da offrire altro che un positivismo ordinario. Sokal è ben lungi dal criticare l'«oggettività inconscia» (Claus Peter Ortlieb). Inoltre, Meyes esamina la critica svolta da Sokal nei confronti della critica femminista della scienza, e mostra che l'autore, a causa del suo androcentrismo e della sua incapacità a trascendere i limiti del positivismo, non comprende affatto, o non è disposto a comprendere, degli aspetti essenziali della critica femminista della scienza, e deve perciò rivolgere alle femministe come Evelyn Fox-Keller una paternale più o meno grossolana. La pratica di evidenziare quelli che sono i deficit della scienza accademica, facendo passare dei falsi articoli che vengono accettati da dei presunti idioti, al fine di «provare» che quei rami della scienza non producono altro che delle vere e proprie assurdità, non ha mai cessato fino a i nostri giorni. Come sottolinea Meyer, ciò pone anche dei problemi nel senso che ogni sorta di populista di destra si infastidisce per le presunte assurdità non scientifiche degli studi di genere, ecc. e ne esige l'abolizione o l divieto. In modo che, l'imbroglio messo in atto per mezzo di articoli fraudolenti può venire collegato ad un'agitazione populista di destra o neofascista, come dimostrato dall'abolizione degli studi di genere in Ungheria. Leni Wissen ci dà il suo contributo in «Sulla storia dell'assistenza ai poveri» [*19]. Il «lavoro», in quanto forma centrale di attività sotto il capitalismo, implica una relazione particolare con il non lavoro. La relazione tra il «lavoro» ed il «non lavoro» è cruciale per la strutturazione delle relazioni sociali. Ciò si riflette nel trattamento della povertà, così come lo dimostra la storia dell'assistenza ai poveri. Con l'emergere della società della dissociazione-valore ha cominciato a prevalere la distinzione tra quelli che sono degni, vale a dire i lavoratori, e gli indegni, vale a dire i poveri che non lavorano, cosa che ha avuto un'influenza decisiva sulla concezione del nascente sistema di protezione sociale. La storia dell'assistenza dei poveri è strettamente legata alla storia dell'antiziganismo. Dal momento che l'antiziganismo, la discriminazione sociale e razziale sono indissociabili. Alla luce delle tendenze generali all'anomia, nel quadro della dinamica della crisi postmoderna del capitalismo, quello che è un «antiziganismo strutturale» (Roswitha Scholz) sembra essere il modo ideale per reagire alla crisi, da parte di una classe media in declino, e deve anche essere allo stesso tempo considerato come un rumore di fondo rispetto alla ristrutturazione dello Stato assistenziale nel capitalismo in declino, , cosa che Wissen mostra in maniera esemplare a proposito del «Sistema previdenziale in attivazione» tedesco.
Nel suo contributo, Andreas Urban si concentra sulla storia della case di riposo, in quanto istituzione moderna. Così facendo, egli segue direttamente quella che è la sua tesi, sviluppata in un precedente articolo (in Exit! n°15) in cui dice che nel capitalismo gli anziani costituiscono un «superfluo» (visto come base di un'ostilità strutturale nei confronti della vecchiaia, nelle società moderne): un superfluo che viene materialmente oggettivato in maniera particolarmente impressionante nelle case di riposo. Egli ci mostra come la casa di riposo sia, storicamente e logicamente, un'istituzione di cura per le persone anziane «improduttive» e «superflue». Tale funzione è valida ancora oggi, malgrado i numerosi cambiamenti superficiali subite negli ultimi decenni dalle case di riposo. Questo si è tradotto soprattutto nel fatto che la segregazione spaziale e sociale, ed il confinamento di fatto delle persone anziane e delle persone bisognose di cure, rimangono anche alla base delle case di riposo e di cura più confortevoli ed accoglienti. Inoltre, l'assistenza alle persone anziane è soggetta (soprattutto a livello istituzionale, ma non esclusivamente) a dei calcoli economici dei costi-benefici, così come a delle logiche temporali derivanti dalla struttura capitalistica della dissociazione-valore. In un simile contesto, l'articolo ci fornisce anche una panoramica critica dei fenomeni e delle tendenze che sono attualmente oggetto di discussione nella scienza e da parte dei media, a partire dalle parole chiave di «crisi assistenziale» e di «emergenza assistenziale», quali, per esempio, la progressiva riduzione dei costi, le condizioni di lavoro inaccettabili, la negligenza e la violenza nei confronti degli utenti, ecc., in tali settori.
Anche le chiese sono rimaste coinvolte nel vortice della crisi. La loro crisi si è manifestata sul piano economico attraverso una riduzione prolungata e sostenuta delle risorse finanziarie e, sul piano del contenuto e sul piano simbolico, attraverso una perdita di significato sociale e politico. Così come avviene nei settori «laici», anche le chiese si trovano ad affrontare delle «riforme». Il testo di Herbert Böttcher «Sulla via di una "Chiesa imprenditoriale" dopo la caduta della (post-)modernità» [*20] mostra il modo in cui le chiese vogliano riformarsi secondo quello che è «lo spirito del capitalismo», piuttosto che secondo quello dello «Spirito Santo». Cercano suggerimenti a partire da quelli che sono i concetti di sviluppo organizzativo che funzionano sulla base della teoria dei sistemi. In quanto imprese, le chiese vogliono essere connesse con il loro ambiente ed essere all'altezza dei tempi. Tutto ciò si traduce in un processo di adattamento ad una società (post-)moderna in piena crisi e degrado. Non si tratta solamente di un adattamento organizzativo. Esso può essere utile solo se i prodotti pastorali e religiosi che vengono proposti dalle chiese sono competitivi sui mercati esoterici e spirituali, e se rispondono ai bisogni dei loro clienti. Le persone devono essere raggiunte in quella che è la loro «vita quotidiana» e nei loro «spazi sociali». Senza riflettere sui contesti sociali di mediazione, le persone che sono stressate, e spinte alla depressione a partire dalla pressione delle condizioni di crisi, dovrebbero essere coinvolte e curate in modo tale da sentirsi di nuovo bene, o quanto meno meglio, nelle circostanze attuali. I prodotti esoterici religiosi proposti, non vanno misurati in base alla loro pretesa di verità, ma dalla loro utilità. Allo stesso tempo, la chiesa dovrebbe essere una famiglia per le persone che sono in cerca di senso e di identità di fronte al «relativismo» del postmodernismo. Di fronte a simili problematiche, le chiese si stanno aprendo al pensiero e all'azione identitaria ed autoritaria. Tutto questo non lascia intatto il contenuto della tradizione giudaico-cristiana. Le persone vengono individualizzate ed esoterizzate,e vanno garantite sia sul piano esistenziale che su quello dell'oggettività delle «verità eterne». I contenuti emancipatori della tradizione giudaico-cristiana, i quali si basano su una distinzione tra trascendenza ed immanenza, accentuata da una critica del dominio, vengono lasciati da parte e dimenticati.
Il contributo di Gerd Bedszent «La marcia verso la barbarie, ovvero l'Est come capro espiatorio» [*21] si occupa del battage mediatico intorno al 30° anniversario della caduta del muro di Berlino, ma anche della violenza dell'estrema destra che ha imperversato soprattutto nelle più remote regioni della Germania dell'Est. Bedszent cita diversi vecchi testi di Robert Kurz ed analizza i legami esistenti tra i due avvenimenti. La maggior parte dei siti industriali della Germania dell'Est, che si trovavano già in concorrenza con le economie occidentali più forti e già in declino, dopo il 1990 hanno finalmente ricevuto il colpo finale. Nel corso della deindustrializzazione di regioni intere, diversi milioni di persone hanno perso il loro posto di lavoro; per altri, la «razionalizzazione» delle istituzioni amministrative e la devastazione di gran parte del panorama culturale hanno portato ad una interruzione perdurante della loro carriera. Il fatto che alcune parti della popolazione tedesca dell'Est siano state dipinte dai media come si fossero degli eroi, ma che poi queste stesse persone siano state considerate sovente come economicamente «superflue», fornisce il terreno adatto per numerose teorie cospirazioniste, confuse, e assai spesso antisemite. Tuttavia, come scrive Bedszent riferendosi a Kurz, l'attuale ondata di estremismo di destra ha la sua causa strutturale nella crisi finale del sistema di produzione di merci. Come reazione perversa a questa crisi, i politici della destra più o meno estrema reclamano a gran voce il rafforzamento di quelle stesse istituzioni dello Stato-nazione che in realtà, con il loro programma di politica economica, stanno indebolendo. Sono stati inoltre pubblicati anche i seguenti libri ed antologie: Quelle che erano le due parti de «La sostanza del capitale», di Robert Kurz (pubblicato in: Exit! 1 & 2) sono state tradotte in francese [*22], così come è stata tradotta una raccolta di articoli di Roswitha Scholz. [*23]. Inoltre, è stato proposto al pubblico il primo numero della rivista di lingua francese Jaggernaut [*24], la quale contiene (tra gli altri) dei testi di Robert Kurz e di Roswitha Scholz, in traduzione. Il libro, «Weltordnungskrieg» ["Guerra per l'ordine mondiale"] di Robert Kurz è stato tradotto in portoghese, ma purtroppo ne verranno pubblicati solo alcuni estratti, da Antigona [Lisbona] [*25].
«Ne travailllez jamais. La critique du travail en France de Charles Fourier à Guy Debord», di Alastair Hemmens, è stato pubblicato in inglese [*26] e simultaneamente in francese [*27].
«La Société autophage - capitalisme, démesure et autodestruction» di Anselm Jappe è stato pubblicato in spagnolo [*28] e, dello stesso autore, «Le avventure della merce», in italiano [*29].
In Germania è stata pubblicata una raccolta di testi di Claus Peter Ortlieb [*30]; e sempre in Germania è stato pubblicato anche il libro di Raimund G. Philipp «L'histoire de la Chine comme histoire de rapports fétichistes, critique de la retroprojection de catégories modernes sur la pré-modernité : la fin du néolithique ; les trois dynasties» [*31]. Daniel Späth e Patrice Schlauch si sono dimessi dal comitato di redazione.

- Roswitha Scholz - per il comitato di redazione di Exit! - Dicembre 2019 -

NOTE:

[*1] - Si veda per esempio: "Wir erleben eine Balkanisierung des Welthandels" [Stiamo vivendo una balcanizzazione del commercio mondiale], su handelszeitung.ch del 2.9.2019.
[*2] - Der größte Crash aller Zeiten. Wirtschaft, Politik, Gesellschaft. Wie Sie jetzt noch ihr Geld schützen können, Eichborn, 2019.
[*3] - È significativo l'enorme odio nei confronti di Greta Thunberg. Si veda ad esempio: Hinz, Enno; Meyer, Lukas Paul, "Gegenwind für die Klimabewegung" [Controcorrente per il clima] su akweb.de del 12.11.2019 o in Analysis & Criticism n° 654.
[*4] - Secondo Amnesty International, il numero delle vittime è di certo molto più alto, come dimostrato da un documentario di France 24 Observers : https://observers.france24.com/en/video/iran'-hidden-slaughter-video-investigation-france-24-observers . La situazione in Iraq è simile. Cfr. Karam Hassawy, "Revolutionärer Herbst im Irak" [Autunno rivoluzionario in Iraq], su jungle world del 23.11.2019
[*5] - Ketterer, Hanna ; Becker, Karina (eds.) : Was stimmt nicht mit der Demokratie? [Cosa c'è che non va con la democrazia?] - Un dibattito con Klaus Dörre, Nancy Fraser, Stephan Lessenich et Hartmut Rosa, Francfort 2019, p. 20.
[*6] - Fraser, Nancy ed altre : «Feminismus für die 99% – Ein Manifest» [Il femminismo per il 99% - Un manifesto], Berlin 2019.
[*7] - Lo dice Paul Mason in un'intervista: FR-online.de a partire dal 28.9.2019.
[*8] - cfr. Scholz, Roswitha;  “Fetisch Alaaf! – Zur Dialektik der Fetischismuskritik im heutigen Prozess des «Kollaps der Modernisierung» – Oder: Wie viel Establishment kann radikale Gesellschaftskritik ertragen?" [Fetish hip hip urrà! Sulla dialettica della critica del feticismo nell'attuale processo di «collasso della modernizzazione»]. Oppure, "Fino a che punto si può affermare la critica radicale nelle università, senza perdere la sua sua radicalità?", in Exit! Krise und Kritik der Warengesellschaft n° 12, Angermünde 2014, 77-117.
[*9] - cfr. L'editoriale di Exit! n°14 .
[*10] - cfr. Meyer, Thomas: "Neue Klassenpolitik? – Kritische Anmerkungen zu aktuellen Diskursen" [Nuova politica di classe? Osservazioni critiche sugli attuali discorsi], 2019 su exit-online.org .
[*11] - Per esempio, nel documentario del 2012 «Frohes Schaffen - Ein Film zur Senkung der Arbeitsverhalten» [Lavoro felice, un film per abbassare il morale al lavoro] di Konstantin Faigle ; e in vari libri, ad esempio in Spät, Patrick:"Und was machst du so? - Fröhliche Streitschrift gegen den Arbeitsfetisch" [E tu, che fai? - Opuscolo felice contro il feticismo del lavoro], Zurich 2014.
[*12] - Cfr.: Kurz, Robert : "Das Weltkapital - Globalisierung und innere Schranken des modernen warenproduzierenden Systems" [Il Capitale globale, la globalizzazione e i limiti interni del moderno sistema di produzione delle merci], Berlino 2005.
[*13] - Si veda anche il testo di Robert Kurz: "Grau ist des Lebens Goldner Baum - das Praxis-Problem als Evergreen verkürzter Kapitalismuskritik e die Geschichte der Linken" [Grigio è l'albero d'oro della vita, e la teoria è verde  - Il problema della prassi, come evergreen di una critica tronca del capitalismo, e la storia delle sinistre] in Exit! - Krise und Kritik der Warengesellschaft No. 4, Bad Honnef 2007, 15-106.
[*14] - Cfr.: Kurz, Robert : «Der Unwert des Unwissens - Verkürzte 'Wertkritik' als Legitimationsideologie eines digitalen Neo-Kleinbürgertums» [Il disvalore dell'ignoranza - "Critica del valore" tronca come ideologia di legittimazione di una nuova piccola borghesia digitale]. in: Exit ! - Krise und Kritik der Warengesellschaft Nr.5, Bad Honnef 2008, 127-194.
[*15] - Si veda a proposito: «Zur Spaltung der Krisis-Gruppe» [Sulla scissione del gruppo Krisis], 11/4/2004; Ortlieb, Claus Peter : «Die Sinnlichkeit des MWW» [La sensibilità del MOB (Maschio, Occidentale, Bianco)], 13/7/2009.
[*16] - «Freie Fahrt ins Krisenchaos»
[*17] - «Der Kapitalismus, die Krise … die Couch […] und der Zerfall des kapitalistischen Patriarchats – Kritische Bemerkungen zu  Slavoj Žižek und Tove Soiland».
[*18] - "Zum ungebrochenen Elend des Positivismus  - ein verspäteter Nachtrag zur «Sokal-Affäre»".
[*19] - «Zur Geschichte der Armenfürsorge».
[*20] - "Auf dem Weg zu einer « unternehmerischen Kirche » im Anschluss an die abstürzende (Post-)Moderne".
[*21] - "Vom Marsch in die Barbarei oder der Osten sls Buhmann".
[*22] - La Substance du capital, l'échappée, Paris 2019.
[*23] - Le Sexe du capitalisme - « Masculinité » et « féminité » comme piliers du patriarcat producteur de marchandises, Crise & critique, Albi 2019.
[*24] - Jaggernaut - Crise et critique de la société capitaliste-patriarcale, Crise et critique, Albi 2019.
[*25] - Il testo integrale, in portoghese, può essere consultato al seguente indirizzo:  https://exit-online.org/pdf/A_Guerra_de_Ordenamento_Mundial-Robert_Kurz.pdf
[*26] - «The Critique of Work in Modern French Thought», Palgrave Macmillan 2019
[*27] - Ne travaillez jamais, Crise & critique, Albi 2019
[*28] - La sociedad autófaga, Logroño 2019.
[*29] - Le Avventure della Merce - Per una Nuova critica del valore, Roma 2019.
[*30] - Zur Kritik des modernen Fetischismus - Die Grenzen bürgerlichen Denkens, Schmetterling-Verlag Stuttgart 2019
[*31] - Die Geschichte Chinas als Geschichte von Fetischverhältnisen - Zur Kritik der Rückprojektion moderner Kategorien auf die Vormodne : ausgehendes Neolithikum, die drei Dynastien, Darmstadt 2019.




venerdì 28 febbraio 2020

Cittadini e no

Il pensiero dell’immunità opposto alla comunità
- di Donatella di Cesare, Mauro Bonazzi e Giuseppe Remuzzi -

Mascherine, quarantene, termoscanner negli aeroporti: l’epidemia del corona virus ci mette davanti a quello che i filosofi della biopolitica dicono già da qualche anno. Il modello che si è imposto nella modernità occidentale è questo: non toccarmi, non contaminarmi, stai fuori... Crescono barriere, si alzano muri. Noi siamo i cittadini, gli altri no...
Termoscanner negli aeroporti, controlli sul territorio, quarantena per i potenziali infettati, e poi mascherine, misure precauzionali, lavaggio frequente delle mani... Basterà? L’angoscia del contatto si mobilita, il timore della contaminazione si fa palpabile insinuandosi nella quotidianità. Meglio sarebbe evitare luoghi pubblici, rinserrarsi nello spazio dell’intimità domestica, dove il temibile virus, che ha un nome così sovrano, difficilmente riuscirà a penetrare. Quella nicchia, sempre rassicurante, costellata qui e là di schermi attraverso cui guardare protetti il mondo, non è mai parsa così indispensabile.
Qualcuno sostiene che siano ataviche le pulsioni che spingono a erigere barriere (nonché muri), che siano naturali sia la paura per l’estraneo, cioè la xenofobia, sia quella per tutto ciò che è fuori, cioè la exofobia (così peculiare alla nostra epoca). Andando avanti di questo passo si finisce per considerare naturale anche il razzismo — una tesi che qui e là circola senza essere fermata da poche, semplici obiezioni. Come se fosse in fondo comprensibile deridere o aggredire un cinese, perché il suo corpo incarna il virus e il suo volto quasi lo impersona. E il razzismo — sì! — è un virus potentissimo. Ma davvero la pulsione securitaria è tutta naturale e la politica non c’entra?

Nei dibattiti, spesso noiosi, sulla democrazia — come difenderla, come riformarla, come migliorarla, ecc. — si dimentica che di «democrazia» si dovrebbe parlare al plurale, perché ormai esistono diversi modelli, persino opposti. Il nostro è sempre più lontano dal modello greco, a cui pure amiamo fare riferimento. Già ai suoi tempi lo aveva visto con chiarezza Fustel de Coulanges nell’opera ormai classica La città antica del 1864. È impossibile ignorare oggi i gravissimi limiti della pólis: l’esclusione delle donne dalla vita pubblica, la disumanizzazione degli schiavi. Tuttavia, per i cittadini greci il modello politico era quello dell’esposizione, del coinvolgimento, della partecipazione.
Al contrario, il modello che si impone nella modernità, a cominciare dalla democrazia americana, per dilagare poi in tutto il modo occidentale (e occidentalizzato), è quello della non-esposizione. Vale a dire: noli me tangere. Non toccarmi. Persone, corpi, opinioni devono poter esistere, muoversi, esprimersi, senza essere «toccati», senza venire inibiti, costretti, interdetti da un’autorità esterna. Finché non sia proprio inevitabile. Questo modello negativo è un sistema d’immunità che oltrepassa la politica e si estende al governo delle vite umane nei loro molteplici aspetti. È un sistema di diritti visti come garanzie e assicurazioni. Anche la libertà viene intesa negativamente, e cioè non nel segno dell’espansione e della creazione, bensì in quello della salvaguardia e della protezione. Se al cittadino greco interessava la condivisione del potere pubblico, al cittadino della democrazia immunitaria interessa anzitutto la propria sicurezza, goduta nella nicchia privata e gentilmente concessa dall’autorità politica. Perciò confonde garanzia e libertà.

Via via che questo modello si è imposto, sono aumentate le esigenze e le richieste di immunità. Il noli me tangere è la tacita parola d’ordine che ispira e guida la battaglia dei diritti, in cui si crede di scorgere il fronte della civiltà e del progresso. Cittadine e cittadini chiedono a gran voce rispetto dell’integrità, assicurazione di immunità. Per capire basti pensare al mutamento di paradigma politico, morale, psichico, già molto discusso, per cui al pater familias, il terribile padre padrone, sempre più screditato, si oppone il corpo intangibile del bambino sovrano, sorvegliato con le telecamere per prevenire ed eventualmente registrare scappellotti e sgridate dei maestri. Messo in pensione il padre, scatenata un’infinita crisi di autorità, che ha ripercussioni locali (famiglia, scuola, ecc.), alla patria potestà si sostituisce la tutela dello Stato. Com’è noto, questo è terreno fertile per reazionari e nostalgici che, con le loro elucubrazioni crepuscolari, immaginano di poter restaurare il paradigma politico della paternità autoritaria. Sennonché lo Stato moderno, questa macchina fredda e impassibile, non ama né odia. Semplicemente — come ha insegnato Michel Foucault — fa vivere e lascia morire. Tutto in modo amministrativo.
Per comprendere la complessità del processo e guardare a tutti gli esiti dell’immunizzazione, bisogna dire che accanto all’intangibile, cioè il corpo del cittadino inscritto nella democrazia liberale, viene ammesso senza problemi l’abbandono di una parte dell’umanità alla propria sorte. Lì, infatti, non arriva il sistema di garanzie e assicurazioni. Sarà meglio, anzi, tenersi a distanza da quegli intoccabili, che potrebbero essere fonte di contaminazione, causa di contagio. Quest’altra umanità (saranno «umani»?) sarà inesorabilmente esposta: a guerre, genocidi, fame, malattie, malnutrizione, sfruttamento sessuale, schiavitù.
Si auspicano «inclusione» o «diritti per tutti». Quel che avviene è, però, l’opposto: una non-inclusione sistematica. Da un canto gli intangibili, dall’altro gli esposti; da un canto i garantiti e preservati, dall’altro gli intoccabili. Immunizzazione degli uni, esposizione degli altri. Così funziona la democrazia immunitaria, secondo questo doppio binario, reso semmai più saldo e collaudato dall’esperienza totalitaria: quanto più si moltiplicano benefici e garanzie per chi è dentro, tanto più cresce l’abbandono dei reietti lì fuori. Ai dispositivi di controllo, protezione e prevenzione nel nostro mondo corrispondono il disordine, la desolazione, l’ininterrotto scatenarsi delle forze naturali nel mondo altro. La vaccinazione infantile avrà sortito effetti nel continente africano, che però sono stati quasi cancellati da nuove incontrollate pandemie. Al corpo intangibile del bambino nella scuola occidentale si oppongono le orde di bambini erranti nelle città e nelle metropoli delle periferie planetarie. Se vanno incontro a infezioni selvagge, non saranno forse loro selvaggi? E i bambini cinesi nelle scuole italiane — cinesi come quelli che hanno il contagio e lo portano qui e là — non saranno da bandire? Ecco insomma, mormora tra sé, il cittadino immunizzato: «Ammettetelo! Il coronavirus ha finalmente messo allo scoperto l’inciviltà dei cinesi, ben lontani dall’essere occidentalizzati».

È sbagliato parlare, come fanno molti, di «indifferenza», perché vuol dire ridurre a una scelta morale del singolo quel che è invece una questione eminentemente politica. Per di più significa depoliticizzare la questione. E non è neppure solo razzismo — anche questa è una semplificazione. Piuttosto è una tetania affettiva con tanto di ragion di Stato.
Non si deve ovviamente credere che l’immunizzazione valga ovunque per tutti. Le dinamiche del potere agiscono dentro la democrazia immunitaria. Il corpo di un barbone fermato in una stazione di polizia è tutt’altro che intangibile. E lo stesso si può dire per quello di una donna che rischia abusi e discriminazioni sul posto di lavoro.
Ma importante è che il processo di immunizzazione fa del corpo (e della mente) di ciascun cittadino una fortezza da proteggere e da isolare. Le forme di avversione si moltiplicano, il movimento del ritrarsi diventa spontaneo, la fobia del contatto è la norma. Ecco, dunque, il nevrotico cittadino, ossessionato da minacce, pronto a seguire ogni regola igienica e sanitaria, che si comporta sempre come se vivesse in tempo di peste, che si consegna a una democrazia medico-pastorale, di cui non ha difficoltà a riconoscersi paziente. Politica e medicina, diritto e sanità, ambiti eterogenei, si sovrappongono e si confondono nella democrazia immunitaria. L’azione politica tende ad assumere modalità medica, mentre la pratica medica si politicizza. Anche qui il nazismo ha fatto scuola — per quanto scandaloso sia ricordarlo nella democrazia attuale.
Il cittadino-paziente, cui è in fondo preclusa l’esperienza dell’altro, è talvolta sopraffatto da un’oscura nostalgia della massa. Vorrebbe quasi tornare a immergersi per emanciparsi da tutta la negatività della fobia del contatto. Lo fa talvolta, in modo, però, sottilmente regolamentato, negli stadi sportivi o nei concerti. Per il resto è abituato a schermi e filtri; con mesta rassegnazione accetta persino i paradossali effetti dell’immunizzazione, tra cui una gran quantità di malattie autoimmuni che colpiscono il corpo iperprotetto.
La democrazia immunitaria ha un potente effetto anestetizzante, quasi narcotico. Questo dicono già da qualche anno i filosofi della biopolitica, alle cui parole — soprattutto nel dibattito italiano — si preferiscono le voci rassicuranti dei democratici, più o meno liberal, come Michael Walzer, che disquisiscono sul modo in cui migliorare la comunità, senza metterne in discussione né le frontiere né, tanto meno, il vincolo che la tiene insieme: la fobia del contagio, la paura dell’altro. Immunitas, ha mostrato Roberto Esposito, è l’opposto di communitas. Dove prevale l’immunizzazione, viene meno la comunità. Non si esagera dicendo che sono queste le due tendenze inconciliabili in cui si dibatte la democrazia.

- Donatella di Cesare, Mauro Bonazzi e Giuseppe Remuzzi - Pubblicato sul Corriere del 16/2/2020 -

giovedì 27 febbraio 2020

Sovrani e non

Disincanto democratico, disaffezione dei cittadini verso i governi, ritenuti colpevoli, assieme a partiti, élites e mercati di averli espropriati del loro potere. Ma il potere del popolo sovrano esiste davvero? In realtà, la democrazia effettiva che noi conosciamo – esito di un percorso storico che dal potere assoluto del re, con aggiustamenti continui, è giunto sino a noi - è un sistema di deleghe a cascata, complesso e faticoso. Se il popolo unico e univoco è un soggetto fittizio, il popolo concreto si rivela eterogeneo, contraddittorio e ingombrante per ogni regime e i movimenti che pretendono di incarnarlo, una volta al governo, non potranno che cercare di contenerne le spinte all’interno di un qualche sistema rappresentativo.

(dal risvolto di copertina di: Yves Mény, "Popolo ma non troppo. Il malinteso democratico". Il Mulino)

A che punto è la notte della democrazia
- Intervista di Antonio Gnoli a Yves Meny -

Le sue origini sono bretoni. Radici contadine piantate più nel cielo della fede che nella terra pagana. Un piccolo mondo che ha avuto nel cattolicesimo una forte guida.

«Andavo a messa a Rennes e il vicario della parrocchia dopo la funzione raccoglieva i soldi dei fedeli. Non era la semplice questua, ma ciò che i contadini avevano messo da parte. Il prete doveva conservare i loro magri risparmi e magari riuscire a farli fruttare. Una banca di mutuo soccorso piccola ed efficiente, che oggi è diventata una realtà economica importante».

Mentre ricorda, Yves Mény sorseggia un bicchiere di vino. C’eravamo conosciuti alcuni anni fa per una innocente e accademica, almeno allora, discussione sul populismo. Mény fu tra i primi ad avvistare il fenomeno: come scienziato della politica ha lavorato in largo anticipo su questi temi, insegnando e dirigendo l’Istituto universitario europeo a Firenze. Dopo la pubblicazione del recente Popolo ma non troppo (edito da il Mulino), Meny ha deciso di occuparsi di miti.

«In Francia abbiamo avuto due grandi studiosi come Jean-Pierre Vernant e Marcel Detienne, il cui lavoro sul mito è ancora fonte per me di arricchimento».

Davvero il ricorso al mito può aiutarci?

«È un’esperienza che sopravvive ai numerosi cambiamenti culturali o che tende a risorgere nei momenti di crisi, quando si è culturalmente più deboli. Da qualche anno si è andato affermando il mito del popolo e, corrispondentemente a questo, in maniera speculare, quello del capo. Coloro che si richiamano al popolo in realtà vogliono solo un potere senza contrappesi. Chiamare democrazia tutto questo è pura demagogia, oltre che un grave errore».

Come è nato l’equivoco?

«Dall’indebolimento del sistema democratico. Venuti meno i corpi intermedi (partiti, sindacati, associazioni, istituzioni civili e perfino ecclesiastiche) la domanda democratica è come impazzita. Quando cadde il Muro e a seguire ci fu il crollo del comunismo sovietico, ci fu chi decretò la fine della storia. Fu una pretesa sciocca, un’illusione pensare che avendo vinto il mercato era finita la storia come conflitto. La crisi dei sistemi di rappresentanza nasce in quel momento, sul finire degli anni ottanta, e si è acuita con l’aggravarsi della situazione economica. Il punto è che non abbiamo trovato con cosa sostituire gli effetti di quella crisi. Salvo ricorrere alla mitologia del popolo».

Il ricorso alla democrazia diretta non è un evento recente.

«Già nell’Atene di Pericle si praticò la democrazia diretta, ma era un fenomeno limitato dal censo. Quando Rousseau teorizza qualcosa di analogo ha sotto gli occhi l’esperienza dei villaggi svizzeri. Nel momento in cui l’idea si generalizza e la si riconduce alla volontà generale del popolo nasce, come dimostra l’esperienza giacobina, il terrore. Forme di democrazia diretta furono anche sperimentate con la Comune di Parigi e poi, per andare ad anni più recenti, con il Sessantotto. Tutte fallimentari, sia quella cruenta del 1870 che quella velleitaria del 1968.»

Lei dov’era e che faceva quell’anno?

«Nell’estate del ’68 venni chiamato al servizio militare che svolsi non lontano da casa, a una trentina di chilometri da Rennes. Fu la sola fortuna, per il resto furono 18 mesi terribili, scanditi da una disciplina ottusa e da un senso di inutilità. Praticamente non facevo nulla e in più c’era la frustrazione che essendo già laureato, sposato e con un figlio, mi sembrava una patente ingiustizia dello Stato nei miei confronti avermi arruolato. Fu così che cominciai a guardare con favore al movimento studentesco».

Quali erano i suoi riferimenti culturali di allora?

«Due intellettuali allora molto in voga erano Jean-Paul Sartre e Louis Althusser. Avevano visioni opposte, a cominciare dal modo di leggere Marx. Per quanto mi riguarda non sono mai stati due maestri politicamente credibili. E poi in Bretagna, dove vivevo, l’eco delle loro imprese arrivava attutito. A quel tempo fu importante per me la lettura de La crisi della coscienza europea di Paul Hazard. Quel libro per la prima volta affrontava con grande acutezza il passaggio dall’età dei doveri a quella dei diritti. E mi chiedo se oggi non occorra una nuova inversione di marcia. Come vede il mio Sessantotto fu flebile anche perché la mia non era una famiglia borghese e neppure operaia».

Quali erano le sue radici?

«I miei genitori erano contadini bretoni. Gente semplice. Mio padre voleva che proseguissi il suo lavoro e per lui fu un dolore vedere la mia ostinazione a voler fare altro. Ero l’unico figlio e capisco – o meglio l’ho capito in seguito – quanto fosse importante che io restassi a casa a occuparmi dei campi e delle bestie. Fu mia madre a difendermi e a ripetergli che un’imposizione del genere sarebbe stata la mia condanna. Fu lei a incitarmi allo studio. Ho studiato in una scuola cattolica trascorrendo sette anni in un collegio».

Li ritiene formativi?

«In un certo senso lo sono stati. E come in tutte le scuole vi erano professori mediocri e altri bravi. Alcuni perfino entusiasti del loro mandato pedagogico.
Ricordo un giovane prete che insegnava civiltà greco-romana. Molte delle cose che ho appreso in seguito su quel mondo le devo a lui, al nitore e alla passione che sapeva infondere alle sue lezioni. In seguito feci l’università a Rennes. Sono diventato professore ordinario a 31 anni
».

Immagino occupandosi di scienza della politica.

«Sì, anche se nella Francia di allora non esisteva, come in Italia, un insegnamento specifico. La scienza della politica era un’emanazione di Giurisprudenza. Furono Georges Vedel e Maurice Duverger ad accompagnare questa trasformazione».

Duverger era famoso in Italia per il suo libro sui partiti politici.

«I suoi scritti sulle strutture partitiche sono stati importanti per la scienza politica. Con Vedel studiarono fin dal dopoguerra la funzione dei sistemi elettorali, privilegiando quello maggioritario. Ricordo Duverger come un uomo brillante e gran barone universitario».

La personalità più rappresentativa degli studi sulla politica è stato Raymond Aron. Lo ha conosciuto?

«Non bene, ma la sua opera è stata importante per me. In particolare i suoi lavori su Tocqueville hanno indirizzato la mia ricerca sulla democrazia. Ma devo aggiungere che la sua attenzione per Marx e Weber, Machiavelli e Clausewitz e per lo stesso Tucidide restituiscono un pensatore realista, un liberale che seppe denunciare le tirannidi novecentesche.»

Gli intellettuali italiani gli preferirono Sartre.

«Ma anche in Francia la sinistra tifava tutta per Sartre. I due furono compagni di università ma ben presto esplose la polemica ideologica e culturale. Anche se alla fine della loro vita si riconciliarono. Chi era meglio?
A differenza di Sartre, Aron appoggiò le proprie analisi sui fatti. Non dava niente per scontato. Anche le migliori intenzioni, disse, possono avere effetti disastrosi. Il suo pluralismo intellettuale ha dovuto fare i conti con il dominio ideologico unilaterale di quegli anni
».

La Francia ha vantato la presenza di numerosi maître à penser. Spariti Sartre, Aron, Foucault, Levy-Strauss, Dumezil, Barthes, cosa resta?

«Ben poco. Ma è così ovunque in Europa. Ci sono periodi in cui la creatività, l’intelligenza, la cultura si esaltano fino a diventare il sugello di un’epoca. Di solito accade quando una società entra in crisi. A quel punto grandi artisti e grandi pensatori sembrano uscire dal nulla e trasformarsi in solidi punti di riferimento.
Picchi culturali e artistici difficilmente superabili. È accaduto con il Rinascimento italiano, con la fase che ha preceduto la Rivoluzione Francese e, sempre riguardo alla Francia, sono convinto che la crisi del suo colonialismo abbia prodotto intelligenze critiche straordinarie. Forgiate tra la disfatta di Dien Bien Phu del 1954 e la battaglia di Algeri del 1960
».

È in quell’arco di tempo che si consolida la coscienza critica dell’intellettuale francese?

«Che Sartre chiamerà engagement».

Quell’impegno filosofico, politico ed esistenziale aveva trovato un sorprendente avvio con Paul Nizan.

«Percepì prima degli altri il disincanto anticoloniale. Aden Arabia – pubblicato nel 1931 – fu un veemente attacco alle convenzioni borghesi, ai luoghi comuni della cultura occidentale, all’idea che la giovinezza fosse un’età felice e, sebbene Nizan avrebbe poi intrapreso la militanza comunista, quel libro fu un’esplosione di feconda anarchia».

Nizan aveva alle spalle Rimbaud.

«C’è sempre qualcuno da cui discendiamo».

Tra i suoi punti di riferimento c’è o c’è stata molta presenza italiana. Parla bene la nostra lingua ha insegnato e insegna ancora nelle nostre università. Come è nata questa relazione?

«La prima volta che venni in Italia fu negli anni Cinquanta. Un prete del collegio dove studiavo ci portò in gita a Torino, poi sul Lago Maggiore e a Venezia. Per me fu come per Paolo sulla via di Damasco. Una folgorazione. Avevo 15 anni e da allora ho sempre cercato di venire nel vostro paese. Poi l’insegnamento: gli anni trascorsi a Firenze nell’Istituto Europeo che ho diretto e Pisa all’Istituto Sant’Anna. Luoghi di straordinaria formazione. Oggi faccio dei corsi alla Luiss».

Cosa vuol dire che le analisi politiche sono quasi sempre di grande o buon livello, mentre la politica come viene praticata è spesso inesorabilmente mediocre.

«Non è che ai tempi di Machiavelli la situazione fosse migliore. C’è sempre stato un fossato tra l’intellettuale o lo studioso che si occupa di politica e il politico che agisce nella società. Oggi quella distanza è molto più evidente, perché più forte è la rottura epocale nella quale ci troviamo. I politici sono come mosche in un bicchiere».

Nel suo ultimo libro “Popolo ma non troppo” lei analizza il tema della rottura. In che modo è cambiata la nostra prospettiva?

«L’ultima grande cesura è stata nel 1989 con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’impero sovietico. La storia ha conosciuto diversi momenti di svolta: 1648 Trattato di Westfalia; 1776 e 1789 le rivoluzioni americana e francese; 1848 rivoluzione sociale in Europa; 1917 rivoluzione bolscevica; il trionfo dei totalitarismi in Europa tra gli anni venti e trenta; l’affermazione bipolare dopo il 1945 di Stati Uniti e Unione Sovietica. Oggi siamo di fronte a una nuova rottura epocale innescata dal capitalismo globalizzato all’interno dei sistemi democratici».

Come è stato possibile?

«La globalizzazione che stiamo vivendo è segnata da rivoluzioni (tecnologiche, economiche, finanziarie, sociali) così potenti da influenzare gli stessi sistemi politici. Da un quarto di secolo le democrazie si sono svuotate proprio quando le si è ritenute insostituibili».

Intende dire che nel momento in cui si assiste al loro trionfo lì è cominciata la loro discesa?

«Quando è venuta meno la minaccia nei suoi confronti sono affiorati i difetti congeniti, la sua debolezza. A quel punto la democrazia si è sottomessa a un partner molto potente che la globalizzazione ha liberato dai suoi vincoli nazionali: il mercato. È da questa considerazione fattuale che occorre ripartire. Sapendo che un nuovo protagonista si è seduto al tavolo e gioca la sua partita».

Chi?

«Internet. Il pifferaio che ha detto a ciascuno di noi: non hai bisogno di intermediari, seguimi e ti renderò ricco e sapiente. Con una potenza di fuoco e una rapidità mai viste sta terremotando il mondo in cui eravamo vissuti. Commercio, giornali, viaggi, saperi tutto è esposto alla sua seduzione, alla sua forza. È come se dicesse a ognuno: la tua opinione – qualunque essa sia brillante, colta, stupida o ignorante, mostruosa o sensata – è uguale a tutte le altre. È questo il panorama desolante in cui è cresciuto il populismo. Paul Hazard studiò magistralmente il passaggio dall’epoca barocca all’illuminismo. La crisi che lui raccontò condusse alla nascita dell’Europa moderna. La nostra crisi non sappiamo ancora dove ci condurrà».

- Intervista di Antonio Gnoli - Pubblicato su Robinson dell'8-02-2020 -

mercoledì 26 febbraio 2020

Pubblicazioni

Gli ultimi scritti economici di Karl Marx

"Glosse marginali al Manuale di economia politica di Adolph Wagner" e "Note sulla riforma del 1861[*] e sullo sviluppo della Russia dopo la riforma" - due degli ultimi lavori economici di Marx – consistono di annotazioni che, per quanto sparse e frammentarie, come tutte le annotazioni, mantengono un loro grande significato ai fini della ricerca, dell'approfondimento e della continuità dell'opera marxiana.
Nel primo testo, Marx polemizza con Adolph Wagner, allora influente professore universitario tedesco. Wagner criticava la teoria del valore di Marx, in quanto essa divide il valore in in valore d'uso e valore di scambio. Per il professore esisterebbe invece solamente una classe di valore - il valore d'uso. Continuava, inoltre, poi a criticare Marx per aver dedotto che è il lavoro la fonte del valore di tutte le merci, e per non aver considerato il guadagno di capitale come suo elemento costitutivo. Prontamente, Marx respinge la confusione che tra queste categorie viene fatta, a partire dal fatto che esse in comune avrebbero solo la parola "valore". Il valore d'uso è il prodotto del lavoro concreto, vale a dire, è il prodotto di quella che è la specialità di ciascun lavoratore, mentre il valore proviene dal lavoro astratto, comune a tutte le attività lavorative. La forma sociale concreta del prodotto del lavoro, la merce, è, da un lato, valore d'uso e, dall'altro lato, valore di scambio, dal momento che quest’ultimo è una forma di manifestazione del valore, e non già il suo proprio contenuto. Marx non ha mai neanche considerato il guadagno capitalistico come se fosse un furto ai danni dei lavoratori. Ciò che il capitalista fa, è appropriarsi del plusvalore; appropriarsi del lavoro che non viene pagato ai produttori diretti.
Nel secondo testo, "Note sulla riforma del 1861 in Russia", Marx cerca di portare avanti quella che è la riflessione sul capitalismo della sua epoca a partire dalla sistematizzazione di quelli che allora erano i materiali, quantitativi e informi, dei militanti russi. In questo studio, Marx cerca di comprendere quali fossero i cambiamenti che avevano avuto luogo in Russia dopo l'abolizione della servitù, tenendo conto del fatto che un tale processo aveva generato un significativo sviluppo delle forze produttive, fornendo impulso alle esportazioni, ed espandendole, dando così luogo alla costruzione di un sistema creditizio. Marx era assai interessato a quelli che erano gli eventi in Russia, fino al punto di voler imparare il russo, e  a voler raccogliere e studiare montagne di materiale statistico su quel paese. Percepiva e presentiva le avvisaglie di quelle che sarebbero state trasformazioni rivoluzionarie.
In tempi di egemonia neoliberista, riprendere su basi solide quelli che sono i fondamenti della critica dell'economia politica dell'autore de "Il Capitale" è un compito urgente.

NOTA: *
Nel 1861 entra in vigore la riforma liberale con cui lo Zar Alessandro II abolisce la servitù della gleba; cosa che, per le modalità con cui venne attuata, significò però la privatizzazione - a favore dei grandi latifondisti delle antiche proprietà comuni - delle terre di cui i contadini potevano disporre, e la loro proletarizzazione. Fu in sostanza la premessa allo sviluppo capitalistico della Russia.

martedì 25 febbraio 2020

Nuove edizioni

Eddie Coffin, filosofo allo sbando. Hubert, ex galeotto, dispensatore di saggezza ad ampio raggio. Rapinano banche senza colpo ferire. La loro strategia è filosofica: cambia di banca in banca: si fanno chiamare la Gang del pensiero. Imprendibili, spettacolari, flemmatici, sono l’incubo della polizia. Eddie ama tutte le parole che cominciano per zeta, la Blanche de Garonne, il sole e la filosofia più antica della Grecia. Ha gestito un bordello ad Amsterdam, ha guardato negli occhi il pilota di un elicottero sovietico d’assalto in Afghanistan. Hubert ha un solo occhio, un solo braccio e una sola gamba, ma è un artista della vendetta e di tutte le armi; inguaribile romantico, rintraccia una compagna di orfanotrofio dopo aver riconosciuto il suo sguardo in una rivista pornografica. Quando anche le rapine rischiano di diventare routine, per chiudere in bellezza, progettano la rapina del secolo. La rapina preannunciata, metafisica: in gioco è la morte, o l’immortalità.

(dal risvolto di copertina di: "La gang del pensiero", di Tibor Fischer. Marcos y Marcos)

Studiare i presocratici serve (a rapinare una banca e a farla franca)
- di Bruno Gambarotta -

«Scusi, prof, ma a cosa serve la filosofia?». Generazioni di studenti hanno posto questa domanda. Ora abbiamo la risposta: la filosofia serve a rapinare una banca e a farla franca. Il come ce lo illustra il professor Eddie Coffin, protagonista del romanzo di Tibor Fischer La gang del pensiero (uscito da Garzanti nel 1988 torna ora per Marco y Marcos) che parla in prima persona con un inesauribile scintillio di autoironia, di trovate, di giochi di parole. A iniziare dal cognome: coffin in inglese è la bara, in francese è il cofanetto (delle ceneri?). È nato il 5 maggio 1945, perciò nel 1994, l'anno in cui sono collocate le sue disavventure e della pubblicazione del romanzo, ha 49 anni. Si descrive grassottello e calvo come una palla da bigliardo, dotato di una «energica pigrizia». Lo incontriamo mentre sta fuggendo dalla Gran Bretagna «un paese con quattro stagioni ma con quattro inverni». Vuole mettersi al riparo dai rigori della legge. Dopo una solenne sbornia (è la prima ma non l'ultima in un romanzo non adatto agli astemi) presa in un pub di Londra, viene trovato dalla polizia steso sul pavimento di un appartamento pieno di materiale pedopornografico, senza sapere come ci sia finito. Nei 20 anni di insegnamento a Cambridge ha avuto l'accortezza di specializzarsi nei filosofi ionici, una famiglia dei presocratici (Talete, Anassagora, Eraclito) che ha tramandato ai posteri solo pazienti tali che la loro intera opera omnia si legge in una mattina.
Coffin sta viaggiando verso Montpellier quando lo scoppio di una gomma fa rovesciare in un fosso la sua auto presa a noleggio. Lui è illeso ma un incendio distrugge tutti i suoi averi, tranne il passaporto e quattro franchi. Facendo l'autostop difendendosi come può dalle avance di un rude camionista gay, trova una stanza in un infimo albergo presso la stazione e qui riceve la visita di Hubert, un rapinatore che non si capacita che un turista abbia in tasca solo degli spiccioli. I due fanno conoscenza e Hubert, dotato di una mano e di una gamba artificiali (e un occhio di vetro) racconta la sua storia: quella mattina è uscito dal reclusorio dopo aver scontato dieci anni per una rapina a una banca andata liscia quando all'uscita ha scoperto che l'auto rubata per fuggire e lasciata con la portiera aperta e la chiave di avviamento, gli era stata a sua volta rubata. Scappa correndo, lo acchiappano, la pistola gli cade a terra, parte un colpo che ferisce un poliziotto. I due, diventati amici, dividono la stanza e la mattina dopo si decidono alla rapina in una banca che stavolta riesce benissimo perché grazie al filosofo è cambiato il paradigma. Se, una volta usciti dalla banca con il malloppo, i due, anziché scappare, s'infilano nel vicino ristorante di lusso, nessuno sarebbe indotto a pensare che quei due signori che pasteggiano a champagne siano gli autori del colpo. Hubert è folgorato: è la filosofia la chiave del successo, tanto più che Jocelyne, la bella cassiera, ha infilato insieme alle banconote, un biglietto con il suo numero di telefono, dal quale nascerà il succoso filone sessuale che lasciamo scoprire al lettore. Da quel momento Hubert diventa uno studente di filosofia, il più assetato di sapere che il professore abbia mai avuto. Non trovando in una libreria un testo di Diogene Laerzio, spara a raffica contro la pila di libri sulle diete. È lui che si inventa, in un'intervista, il marchio «La Gang del Pensiero». La loro carriera prosegue di rapina in rapina, sempre più spavalda e spettacolare. Alla cronaca puntuale si alternano i flashback altrettanto esilaranti sugli anni trascorsi da Coffin a Cambridge. Il lettore si imbatte in parole misteriose inizianti con la lettera Z; un glossario ne elenca 62 ma altrettante sono sparse qua e là. Nonostante la mia leggendaria perspicacia non riuscivo a comprenderne il motivo fino a quando non ho trovato nell'ultima pagina una spiegazione. Mi resta il desiderio di conoscere cosa ha combinato Eddie Coffin, che ora ha 75 anni, nei 26 trascorsi da allora.

- Bruno Gambarotta - Pubblicato sulla Stampa del 22/2/2020 -

lunedì 24 febbraio 2020

Rancori

« Una cosa che mi piacerebbe cercare di fare, sarebbe quella di riappropriarmi del concetto di “risentimento, di quella che potrebbe essere un'azione vittimistica basata su uno contro uno. La bizzarra pace sociale di una Londra brasilificata - un luogo dove il crimine dei poveri contro i poveri si esercita a poca distanza dalle enclavi in cui vivono i super-ricchi - si basa sul declino di quella che è una particolare forma di risentimento: anziché disprezzare, resistere o odiare direttamente i ricchi che vivono in mezzo a loro, ci si rende invisibili oppure si aspira ad essere come loro. Il risentimento è la forza che si rifiuta di far guarire le ferite, la forza che ricorda le vecchie sconfitte in modo che prima o poi ci si possa vendicare. In termini popolari, si tratta della delirante lotta di classe della canzone dei "Pulp", «I Spy» [NOTA del Traduttore*]; in termini politici, si tratta della nuova rivoluzione vista come un fantasmagorico ritorno di quella antica.» (Owen Hatherley)

Viva il Risentimento
- di Mark Fisher -

In un recente post sul suo Blog, il giornalista Owen Hatherley si è dichiarato a favore del risentimento [*1]. In maniera parallela, in uno dei momenti più salienti delle conferenze tenute da Zizek al Birkbeck Institute for the Humanities dell'Università di  Londra, si è verificato il coraggioso tentativo di fare la stessa cosa da parte sua; si è trattato di uno degli sforzi più coraggiosi di rovesciare quelli che sono i principi ortodossi di sinistra (e forse anche dei principi del post-strutturalismo). Rivendicare una certo tipo di risentimento non deve per forza essere una manovra anti-nietzschiana. Dopo tutto, non è che Nietzsche denunciasse il risentimento di per sé, quanto piuttosto il risentimento negato. La colpa dello schiavo consiste nella cattiva sublimazione di tale risentimento; anziché ammettere di desiderare il potere e la forza del suo padrone, lo schiavo pretende (per sé stesso) che sia meglio essere assoggettato, condannato. Un risentimento che inducesse lo schiavo a sollevarsi e ad eliminare il padrone non apparterrebbe più alla morale schiava. Il risentimento è un sentimento molto più marxista della gelosia o dell'invidia. La differenza tra provare risentimento nei confronti della classe dominante e invidiarla, consiste nel fatto che quest'ultima cosa implica un desiderio di diventare la classe dominante, mentre invece il risentimento suggerisce una collera nei confronti del possesso di risorse e di privilegi. Un risentimento che dovesse portare solo ad una lamentosa inazione, corrisponde di certo alla definizione stessa di ciò che è una passione inutile. Proprio per questo motivo, però, il risentimento non deve risolversi nell'impotenza. In effetti, quella che è stata la mia esperienza nei sindacati degli insegnanti mi suggerisce che è assai più facile motivare i lavoratori facendo appello ai loro sentimenti di risentimento, piuttosto che fare direttamente appello a qualsiasi senso innato di autostima. Il risentimento nei confronti del privilegio e dell'ingiustizia è - nella maggior parte dei casi - il primo passo per poter arrivare a confrontarsi con il senso di inferiorità introiettato e dato per scontato. «Sì... Perché mai dovrebbero prendere più di noi?» In varie occasioni ho citato le importanti osservazioni fatte da Jameson a proposito della classe e dell'esperienza dell'inferiorità. Non mi scuso del voler ripetere questo frammento: «La coscienza di classe», ha scritto, «ruota intorno alla subalternità, vale a dire che ruota intorno all'esperienza dell'inferiorità. Questo significa che le "classi inferiori" hanno in testa delle idee inconsce a proposito della superiorità di quelli che sono i valori e le espressioni delle classi dirigenti o egemoniche, e che allo stesso tempo trasgrediscono e ripudiano in maniera ritualistica (e socialmente e politicamente inefficace)» [*2].

A meno che il risentimento non venga affrontato, qualsiasi dichiarazione corre il rischio di diventare un'affermazione inconscia della propria posizione inferiore e subordinata. La dichiarazione finirà per essere esattamente una «trasgressione rituale, socialmente e politicamente inefficace», come se si trattasse di una messinscena che lasciasse intatta la struttura di classe. La volontà di diventare di più («Non sono niente e dovrei essere tutto») si trasforma in una difesa di ciò che si è già. «Le mie difese/diventano recinti ...». Nell'esperire la propria inferiorità, il risentimento non riconosciuto rimane il motore libidico dominante, e non c'è niente che esprima questo fenomeno meglio di quanto lo faccia l'hip-hop: il realismo capitalista come lotteria sociale e spettacolo caricaturale, con i maschi solitari nei loro lussuosi appartamenti, impegnati in una sorta di rancore nei confronti del risentimento: «Perché non ci lasciano godere in pace la nostra ricchezza?». Trovo appropriato che Owen faccia riferimento a Tricky nell'affrontare questo tema. Il suo disco, "Pre-Millennium Tension", con tutto il suo armamentario di quello che è il successo pop, rientra nella lunga tradizione della delusione della classe operaia. Le strofe di "Christiansands", citate da Owen - «I’ll master your language» ["dominerò il tuo linguaggio"], subito seguite da «and in the meantime I’ll create my own» ["e nel frattempo creerò il mio"] - riecheggia nella voce di chiunque voglia uscire dalla classe subordinata, insieme alla voce di chiunque desideri scappare da tale subordinazione.  La terza traccia del disco, «Tricky Kid», racconta cosa è successo quando Tricky ha raggiunto quello che era il suo obiettivo; si tratta  della sua versione dell'uomo che si vantaI live the life they wish they did… Now they call me superstar» ["Vivo la vita che loro vorrebbero vivere... Ora mi chiamano superstar"]) ed è la cronaca della sua repulsione per quello che vede in cima («coke in ya nose»["cocaina su per il tuo naso"]). La repulsione nei confronti del godimento della classe dominante si manifesta come auto-repulsione, ed entrambe scivolano verso la mania religiosa; la dislocazione di classe non è mai apparsa come se fosse così psicotica. Purtroppo, Tricky non ha potuto risolvere le contraddizioni prodotte dal suo successo; e come avrebbe potuto? Come avrebbe potuto farlo qualsiasi individuo? È proprio in questa obbligatorietà ad essere affermativi, su cui la cultura contemporanea insiste, che possiamo trovare il lato dannoso del risentimento. Per esempio, prendiamo il "popismo". C'è una dimensione di classe ben definita nel mio rifiuto del "popismo". Il "popismo" sembra implicare la rielaborazione di tutto un insieme di complessi della classe dominante: una signora dell'alta società che si permette di godere di quelli che per lei sono piaceri proibiti. «Dovremmo gustarci la musica classica, però noi adoriamo il pop!» Per quelli di noi che non sono cresciuti nella cultura alta, l'invito che ci rivolge il "pop" - ad essere sempre entusiasti della cultura di massa - è abbastanza simile a quello che ci sentiamo dire (da nostri superiori di classe, naturalmente) e che parla di accontentarci della nostra sorte. A partire da questa rielaborazione dei propri risentimenti, ciò che il "popismo" ci toglie non è altro se non il diritto delle classi subordinate a provare risentimento.  In contrasto con questo, si pone l'importanza di qualcuno come Dennis Potter [*3], o di qualcosa come il post-punk, il quale ha dato accesso a degli aspetti della cultura alta in uno spazio che delegittimava l'esclusività ed il privilegio della cultura alta. Lo spazio utopico che hanno aperto, era uno spazio in cui l'ambizione non doveva risolversi nell'assimilazione, e dove la cultura di massa poteva appropriarsi di tutta la raffinatezza e di tutta l'intelligenza della cultura alta: uno spazio che mirava a porre fine all'attuale struttura di classe, e non a ribaltarla. Owen ha ragione. Il risentimento è una risposta appropriata a quella degradante e degradata versione della cultura popolare di cui oggi si servono le élite di Oxford e Cambridge. Risentimento in contrapposizione a disprezzo e condiscendenza. Risentimento e malcontento: l'inizio della resistenza contro la positività obbligatoria del realismo capitalista.

- Mark Fisher - dall'edizione spagnola di "Spettri della mia vita" -

NOTE:

[*1] - Owen Hatherley, «Reclairning Resentment», disponible su: nastybrutalistandshort.blogspot.com .
[*2] - Fredric Jameson, «La carta robada de Marx», ic Michael Sprinker (a cura di), Demarcaciones espectrales: en torno a Espectros de Marx, de Jacques Derrida, Madrid, Akal, 2002.
[*3] - Dennis Potter (1935-1994) è stato uno dei primi scrittori europei che - a metà circa degli anni '60, quando la maggior parte dei suoi colleghi considerava la televisione come un'infima arte al servizio dell'evasione - vide in quel mezzo un potentissimo strumento per poter raggiungere il grande pubblico ed un giocattolo tecnologico con cui realizzare il vecchio sogno dell'«arte totale»: teatro, romanzo, cinema e musica visto come se fosse un tutto compatto ed inseparabile. Di estrazione umilissima, figlio di un minatore, Potter riuscì a studiare ad Oxford grazie ad una borsa di studio, lavorò come documentarista nella BBC e come critico nel Daily Herald, e nelle elezioni del 1964 fu candidato laburista al collegio elettorale dell'Hertfordshire East.

[N.d.T*] - Senza nulla togliere ad Owen Hatherley (e a Mark Fisher), credo che, in canzone, l'idea del risentimento possa essere resa assai meglio da "Tutti Morimmo a stento" (La Ballata degli Impiccati), di Fabrizio de André.. Ad ogni modo, a seguire il testo, in inglese, della canzone dei Pulp, "I Spy":

"I spy a boy
I spy a girl
I spy the worst place
In the world
In the whole wide world
Oh, you didn't do bad
You made it out
I'm still stuck here
Oh, but I'll get out
Oh, yeah, I'll get out
Can't you see the giant that walks around you seeing through your petty lives?
Do you think I do these things for real, I do these things just so I survive
And you know I will survive
It may look to the untrained eye
I'm sitting on my ass all day
I'm biding time until I take you all on
My Lords and Ladies, I will prevail
I cannot fail 'cause I spy
Oh I've got your numbers, taken notes
I know the ways your minds work, I've studied
And your minds are just the same as mine
Except that you are clever swines
You never let mask slip, you never admit to it, you're never hurried
Oh, no, no, no
And every night I hone my plan
How I will get my satisfaction
How I will blow your paradise away away, away
'Cause I spy
And it's just like in the old days
I used to compose my own critical notices in my head
"The crowd gasp at Cocker's masterful control of the bicycle
Skilfully avoiding the dog turd next to the corner shop"
Imagining a blue plaque
Above the place I first ever touched a girl's chest
But hold on
You've got to wait for the best
You see, you should take me seriously
Very seriously indeed.
Cause I've been sleeping with your wife for the past sixteen weeks
Smoking your cigarettes
Drinking your brandy
Messing up the bed that you chose together
And in all that time I just wanted you to come home unexpectedly one afternoon
And catch us at it in the front room
You see I spy for a living
And I specialize in revenge
On taking the things I know will cause you pain
I can't help it
I was dragged up
My favorite parks are car parks
Grass is something you smoke
Birds are something you shag
Take your "Year in Provence" and shove it up your ass
Your Ladbroke Grove looks turn me on, yeah
With roach burns in designer dresses
Skin stretched tight over high cheek-bones
And thousands of tiny dryness lines beating a path to the corners of your eyes
And every night I hatch my plan, It's not a case of woman v man
It's more a case of haves against haven'ts
And I just happen to have got what you need
Just exactly what you need, yeah
La-la-la-la-la-la-la-la-la-la
In the midnight hour.
La-la-la-la-la-la-la-la-la-la
I will come to you
I will come to you
I will take you from this sickness
Dinner parties and champagne
I'll hold your body and make it sing again
Come on sing again, Let's sing again, oh yeah, 'cause I spy
Yes, I spy
I spy a boy
And I spy a girl
I spy the chance
To change the world
To change your world"

fonte: Comunizar