mercoledì 15 febbraio 2017

Nudo!

agamben

Nota preliminare: questo testo costituisce la versione scritta di una presentazione dal titolo «"Vita senza valore". Il feticcio del capitale e l'economia politica della "nuda vita", svoltasi a Lisbona, il 21 febbraio del 2015, nel corso della giornata sull'argomento "Dalla nuda vita alla potenza destituente: il progetto 'Homo sacer' di Giorgio Agamben", organizzata dalla Unipop. In quest'occasione, con un tempo di esposizione limitato, si è trattato soprattutto di cercare di mostrare la critica dell'economia politica come il fondamentale "punto cieco" di concetti quali "homo sacer" e "nuda vita". In un prossimo saggio, tenterò di sviluppare la critica qui svolta, sottolineando soprattutto i vari aspetti problematici dell'opera di Agamben.

"Vita senza valore"
- Il feticcio del capitale e l'economia politica della "nuda vita" -
di Bruno Lamas

«Il porsi dell'individuo come lavoratore, nella sua forma nuda, è esso stesso un prodotto storico» (Karl Marx, Grundrisse)

Riguardo la recente polemica sul costo, per il sistema sanitario portoghese, del trattamento dell'epatite C, un professore di economia, un certo Mário Amorim Lopes (2015), ha firmato un articolo sul giornale digitale "Observador" dal titolo: «Quanto vale una vita?». Facendo uso della tipica confusione feticista capitalista fra "scarsità di risorse" e "scarsità di denaro", la risposta alla domanda è poco più che un'introduzione cinica all'economia politica dell'eutanasia. «Sentimentalmente» - scrive costui - «diremmo tutti che non ha prezzo. Il problema è che le cure sanitarie hanno un costo. Ed essendo le risorse scarse, si pone il problema economico del costo dell'opportunità: per salvare una vita, quante ne dobbiamo sacrificare? (...) Queste decisioni, che riguardano delle vite, richiedono tuttavia un'analisi economica. E, per farlo, bisogna valutare il valore di una vita. (...) [E] nell'economia sanitaria esistono diversi metodi per tentare una stima [del suo valore]».

Questo approccio economico al "valore della vita" è fondamentalmente complementare all'approccio giuridico svolto quasi un secolo fa dal giurista tedesco Karl Binding in un libro a favore dell'eutanasia intitolato «L'autorizzazione a sopprimere la vita indegna di essere vissuta», un testo, questo, che Giorgio Agamben, nel suo primo libro della serie Homo Sacer, considera giustamente come "la prima articolazione giuridica" della "struttura biopolitica fondamentale della modernità" (Agamben, 1988), e che, a suo avviso, delimita una "nuova categoria giuridica di «vita senza valore» (...) [cosa che] corrisponde esattamente, sebbene in un senso apparentemente differente, alla nuda vita dell'homo sacer" (Agamben, 1998).

A prima vista, nei due approcci, il termine "valore" sembra possedere connotazioni assolutamente distinte: nel primo caso, come "valore economico", e nel secondo come "valore etico" (o politico-giuridico). Infatti, è anche questo che Agamben assume nel suo approccio al testo di Binding. Tuttavia, sfugge ad Agamben il fatto che tutta l'argomentazione di Binding è anch'essa attraversata da criteri economici volti a fornire una giustificazione giuridica dell'eutanasia, soprattutto riguardo ad alcuni malati mentali, che egli definisce "idioti incurabili". Fra le altre cose, Binding parla ad esempio di "forza lavoro (...) ed investimento" applicati inutilmente per mantenere delle vite indegne di essere vissute, o delle vite che sono "fardelli" per le rispettive famiglie e per la società nel suo insieme (Binding parla perciò non solo di vite "senza valore" ma anche di vite con "valore negativo"). Ciò nonostante, nella sua visione segnata dall'orizzonte della filosofia del diritto, Agamben finisce per trascurare l'aspetto cosiddetto "economico" di Binding, e mantiene tutta la discussione sul concetto di "vita senza valore" (così come di "nuda vita" e homo sacer) esclusivamente all'interno della forma giuridica. Questo difetto di riflessione sulla forma economica è, inoltre, un problema che attraverso in un certo qual modo tutta la serie Homo Sacer, nonostante che nel libro "Lo stato di eccezione" sia lo stesso Agamben a confermare storicamente "la tendenza moderna a far coincidere emergenza politico-militare e crisi economica" (Agamben, 2007). Credo che a partire da una prospettiva unilateralmente giuridica la dinamica distruttiva del tutto sociale capitalista - strutturato intorno al "valore" come forma sociale feticista specifica della società moderna e come a priori fondamentale costitutivo sia della forma economica che della forma politico-giuridica - non venga chiarita a sufficienza.

Cercherò ora di mostrare in che modo alcuni aspetti delle ricerche di Agamben, nonostante i loro limiti, possono essere sviluppati criticamente nel senso di una critica radicale della modernità e del capitalismo, sulla scia di quella che è generalmente conosciuta come "critica del valore" (ma che dev'essere correttamente designata come "critica della dissociazione-valore") e i cui autori più importanti sono Robert Kurz e Roswitha Scholz.

***

In Agamben, è estremamente difficile identificare un concetto abbastanza chiaro di capitalismo, Il termine stesso viene usato assai raramente, sia nella serie di Homo Sacer che nelle opere parallele. Solo nel recente saggio su "Benjamin e il capitalismo" (Agamben, 2013), Agamben si focalizza in maniera esplicita sul tema, sottolineando anche in questo modo quello che è un fenomeno stranamente assente dalla serie Homo Sacer: il denaro. In questo saggio, Agamben rilegge il noto frammento di Benjamin, "Il capitalismo come religione", alla luce della sospensione della convertibilità del dollaro in oro, dichiarata da Richard Nixon nel 1971. Seguendo le teorie nominaliste del denaro, Agamben considera come "tutto il denaro sia solo credito". È dal momento che "credito" deriva etimologicamente da "fede", "il capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i cui adepti vivono sola fide (unicamente di fede)". Da questo punto di vista, "il capitalismo non ha nessun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito, ossia, nel denaro. Quindi il capitalismo è una religione in cui la fede - il credito - occupa il posto di Dio; detto in altri termini, dal momento che la forma pura del credito è il denaro, si tratta di una religione in cui Dio è il denaro". Secondo Agamben, a partire dal 1971, il denaro si è smaterializzato e "si è svuotato di qualsiasi valore che non fosse puramente autoreferenziale", ed è ora "immediatamente e senza residui, sostanza", prendendo, così, la Banca il posto della Chiesa, nel manipolare e nel gestire la fede.
Certamente, la critica di Agamben è benintenzionata e va anche nella giusta direzione nel voler mostrare il carattere irrazionale della modernità, ma la sua concettualizzazione finisce per mistificare ampiamente il capitalismo. In maniera apparente, ci troviamo semplicemente di fronte all'estensione di una delle tesi principali della serie Homo Sacer, quella secondo cui la società moderna è retta da "concetti teologici secolarizzati". Ma per questo, Agamben dovrebbe non solo dimostrare che il denaro è una categoria religiosa delle società premoderne, ma dovrebbe anche chiarire il suo processo di "secolarizzazione" a partire dall'ascesa della modernità (similmente a quel che ha fatto con i concetti di sovranità e di oikonomia). Ma non è questo ciò che fa Agamben. Agamben non ci dice che il denaro è stato un fenomeno religioso premoderno che è stato secolarizzato con la modernità; Agamben tenta di mostrare il capitalismo come la "religione della modernità", come un proseguimento della religione con altri mezzi, in cui "Dio è il denaro". Ma se "la trascendenza di Dio ha collassato" ed ora Dio "è stato incorporato nel destino umano", come dice Benjamin e come ci ricorda Agamben, allora anche il capitalismo non è veramente una religione, in quanto manca del necessario principio trascendente.

Questa problematica può essere chiarita solamente a partire da un approfondimento dell'analisi marxiana del feticcio, che, secondo Agamben, è stata "stupidamente" abbandonata (Agamben, 1993; e 2000) dal marxismo. Per illustrare il concetto di feticcio, Marx ha fatto giustamente ricorso ad un'analogia con la religione, mostrando come entrambi abbiano in comune il fatto che le creazioni ed i prodotti umani si autonomizzano e appaiono "dotati di vita propria" (Marx), convertendosi in presupposti ed in forme sociali a priori del pensiero e dell'azione. Ma, come ha mostrato Robert Kurz nel suo approfondimento di quest'approccio, le relazioni premoderne di feticcio - ancorate in una relazione con Dio e nelle quali troviamo un principio trascendente personificato in esseri umani (re, padri, sacerdoti, ecc.) che gerarchizza e stabilisce tutta una struttura sociale - non possono essere equiparate, o poste in una semplice continuità, alle relazioni moderne di feticcio, costituite dal capitale, nelle quali il principio sociale aprioristico si trova innanzitutto oggettivato nelle merci e nel denaro (nelle parole di Marx: "rappresentazioni fantasmagoriche" di "lavoro astratto") e costituisce un sistema autonomizzato di brutale trasformazione del mondo (Kurz, 2006 e 2014).  In entrambi i casi ci troviamo di fronte a relazioni di feticcio, ma nella relazione di capitale non si tratta più di un semplice principio trascendente (fuori dal mondo) ma piuttosto di un principio trascendente divenuto paradossalmente immanente (di questo mondo), e che Robert Kurz chiama "trascendentale" (dando un nuovo senso al termine kantiano).
Dal momento che nel suo saggio su Benjamin ed il capitalismo, Agamben sembra intendere la religione come una mera credenza opzionale e del tutto soggettiva, che è soltanto la nostra forma moderna di intendimento, egli finisce per annullare la differenza fra la trascendenza delle costituzioni religiose premoderne ed il carattere trascendentale delle relazioni moderne di capitale. E con questa comprensione soggettivista, sparisce del tutto il carattere socialmente oggettivo, globale e sistemico del capitalismo, così come sparisce il lato astrattamente materiale del feticcio del capitale, che può quindi essere considerato un problema meramente psicologico. Ma, dopo tutto, come possono gli individui moderni "vivere unicamente della fede"?
Nel finale del suo saggio, Agamben constata "che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per così dire ipotecare anticipatamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione capitalista (...) vive di un continuo indebitamento, che non può né deve essere estinto". Ma se il denaro è oggi "immediatamente sostanza", come dice Agamben, per quale motivo è necessario ipotecare lavoro futuro? E per quale motivo le aziende necessitano sempre di più capitale "per poter continuare a produrre"? Qui, Agamben riconosce che l'esistenza di una relazione socialmente oggettiva fra lavoro e denaro, che nella realtà smentisce il suo concetto di denaro come pura fede o credito. In sostanza, si confonde il fatto per cui le merci ed il denaro rappresentano sempre meno lavoro, nell'attuale contesto della Terza Rivoluzione Industriale, con l'idea che il denaro non avrebbe nemmeno più bisogno di rappresentare lavoro, e che il capitalismo potrebbe continuare all'infinito sotto questa dorma "desustanzializzata". In realtà, contrariamente a quanto afferma Agamben, oggi il capitalismo vive "di un continuo indebitamento che non può" più essere estinto. E in larga misura è prprio in questa contraddizione che risiede il suo potenziale barbarico.

Ora possiamo delineare una ricostruzione della storia del capitalismo sulla scia della critica della dissociazione-valore, ed in tal modo mostrare alcuni dei concetti presentati da Agamben sotto un'altra luce [*1]. Quel che, in termini categoriali, è in causa nella costituzione del capitalismo è il processo storico di "trasformazione di denaro in capitale" (Marx), qualcosa che in termini reali è stato un lungo e sanguinoso processo che Marx ha chiamato di "accumulazione originale del capitale". Ma non si è trattato semplicemente di concentrazione e di aumento quantitativo di capitale come "una cosa" precedentemente esistente, ma innanzitutto del processo stesso della sua costituzione come qualcosa di storicamente nuovo, in cui il denaro - che nelle società premoderne svolgeva una funzione religiosa o di intermediazione delle relazioni di reciprocità e di obbligazione personale (sacrifici, offerte, doni, contro-doni, ecc.), anch'esse squisitamente religiose fino alla fine del Medioevo - si è autonomizzato come feticcio e come presupposto e finalità di tutta la produzione sociale, vale a dire, capitale, "valore che valorizza sé stesso" (Marx). Realmente decisive per questa trasformazione, sono state le sanguinose esigenze imposte da quella che la storiografia chiama la "rivoluzione militare", ossia, i cambiamenti strutturali associati all'invenzione delle armi da fuoco nel 14° secolo e la formazione delle macchine militari e statali moderne, che nel loro insieme divennero un vero e proprio mostro insaziabile affamato di risorse e che promossero la monetarizzazione brutale di tutta la riproduzione sociale.
È stato in realtà anche attraverso questo processo di dissoluzione delle forme premoderne di riproduzione sociale che sono nati sia il "lavoro" in quanto astrazione sociale di energia umana canalizzata verso la produzione di merci, che lo "Stato" in quanto caposquadra dell'organizzazione del materiale umano e della trasformazione della società in una gigantesca macchina da lavoro per alimentare la macchina militare. Lo Stato moderno si consolida proprio dichiarando per la prima volta lo stato di emergenza per milioni di esseri umani, che si sono visti separati violentemente da tutti i loro mezzi di sussistenza, ridotti a quella che Marx ha giustamente definito una "nudità", e costretti ad una enorme diversità di situazioni di lavoro forzato, del quale sono un esempio sia le industrie statali, le prigioni, le case di lavoro ed i manicomi (che in un certo modo fanno parte della preistoria del campo di concentramento in quanto "nomos della modernità"), come, su una scala più grande, le piantagioni schiaviste delle colonie americane.
In tal modo, il processo storico dell'imposizione dell'astrazione "lavoro, in quanto criterio feticista di integrazione/esclusione sociale, ha accompagnato da sempre la storia del capitalismo. Così, nella seconda metà del 15° secolo cominciò  a prodursi una profonda mutazione strutturale nelle istituzioni di assistenza sociale: da un lato, i poveri "degni" (i vecchi, gli orfani, le madri vedove, i malati e i disabili di ogni sorta); dall'altro, i mendicanti validi, coloro che venivano considerati capaci di lavorare ma che per qualche motivo non lo facevano, ed è stata questa la base delle diverse leggi europee contro i vagabondi, soprattutto a partire dal 16° secolo. In questo contesto, venne ben presto riservata ai Rom, ai cosiddetti "zingari", una classificazione speciale. Il loro arrivo in occidente, nel contesto della formazione delle macchine statali moderne, venne ben presto visto con sospetto: spie, apolidi, parassiti, pigri ed indifferenti all'etica del lavoro, ecc.. Vengono perciò promulgate in tutta Europa decine di leggi antizigane dove lo zingaro appare immediatamente come una specie di "vagabondo di razza" (Castel, 1998) destinato, più che ai lavori forzati o alla schiavizzazione, ad ultimatum incondizionati di espulsione o a veri e propri decreti di morte. Etichettato in occidente come avverso al lavoro ed impossibile da schiavizzare, lo "zingaro" viene classificato innanzitutto come l'eterno "fuorilegge", il vero "homo sacer per eccellenza" della Modernità fino ai nostri giorni, come ha mostrato Roswhita Scholz.

Tuttavia, se la coercizione diretta organizzata statalmente è stata sufficiente per l'introduzione del sistema sociale del "lavoro astratto", questo ha potuto generalizzarsi solo con la pretesa universale della forma merce, a partire dal momento in cui anche i suoi produttori hanno assunto in un certo qual modo la medesima forma di merce, in modo che la coercizione della violenza immediata dello stato di emergenza originario cedesse progressivamente il posto alla coercizione mediata dal mercato, ed il lavoro astratto diventasse norma di integrazione sociale. Questa esigenza funzionale della "valorizzazione del valore" ha avuto il suo corrispondente ideologico nella simultanea ascesa del liberalismo e nella prima definizione di "proprietà di sé", fissata da Locke nel 17° secolo: " ogni uomo ha una proprietà sulla propria persona: su questa nessuno ha nessun diritto se non egli stesso. Il lavoro del suo corpo e l’opera delle sue mani, possiamo dire, sono propriamente suoi" (Locke). Contro le disfunzionalità del dispotismo assolutista si faceva perciò valere il civismo del mercato, l'auto-proprietà come "diritto naturale" e la legittimazione della proprietà attraverso il lavoro. Come forma borghese, la proprietà di sé è stata l'espressione ideologica di un'estensione della forma merce agli individui stessi.
In questo contesto, va detto, i lavoratori non sono essi stessi una merce (come lo schiavo) ma sono i proprietari solo di una merce nuova ed astratta che è anche l'unica che crea nuovo valore (il plusvalore): la "forza lavoro", un concetto che oggi associamo immediatamente a Marx, ma che originariamente era stato anticipato, nella sua epoca, dalla teoria della termodinamica a proposito della conservazione dell'energia in tutti i corpi materiali. Tale origine non è casuale. Gli è che, dal punto di vista della relazione di capitale, la merce venduta da un lavoratore non è né il suo corpo né il prodotto del suo lavoro, ma è quello che Marx ha chiamato il "lavoro astratto", il puro "dispendio di cervello, nervi, muscoli, sensazioni ecc. umane" (Marx), cosa che è anche il presupposto e la "sostanza sociale" del valore, una forma di "ricchezza astratta" la cui grandezza viene misurata dal tempo.
Ora, mi sembra che i concetti marxiani di "forza lavoro" e di "lavoro astratto" erano già estremamente fecondi per la critica di ciò che è arrivata ad essere conosciuta come "biopolitica" e per arrivare a comprendere quella che possiamo chiamare la "economia politica della nuda vita". Il capitalismo non divora direttamente il corpo degli esseri umani, bensì la loro energia; è perciò un sistema sociale basato sulla fatica (Rabinbach, 1992), sul puro dispendio di energia umana nella produzione di merci. Un aspetto decisivo è quello per cui non è il corpo umano in sé ad assumere la forma di merce, ma solo la combustione dell'energia astratta in esso contenuta; ; non è pertanto il nudo, ma è la vita di tale nudo. Ma dal momento che il dispendio di energia umana può avvenire solo attraverso un corpo concreto, anche il corrispondente carattere paradossale della merce forza lavoro si rivela una fonte ininterrotta di ambiguità e di equivoci, anche rispetto allo status del corpo nella forma della auto-proprietà (es.: il salariato vende o "affitta" il corpo? ecc.).

Questi problemi non hanno impedito che, nell'auto-comprensione liberale, il mercato apparisse come il "vero Eden dei diritti naturali dell'uomo" (Marx), dove proprietari di merce-denaro e "proprietari di forza lavoro" si relazionano in quanto soggetti di diritto, liberi e giuridicamente uguali. Proviene da qui tutta la metafisica moderna della libertà contrattuale e tutta un'ideologia sull'uguaglianza ed il consenso nello scambio delle merci. La cittadinanza giuridica e politica diventa allora una rivendicazione universalista tacitamente basata sull'auto-proprietà e sul "lavoro astratto". Non sorprende pertanto che l'universalismo dei diritti naturali sia segnato fin dall'inizio da un divario fra l'esistenza fisica di un essere umano ed il suo riconoscimento come tale, divario che nella forma giuridica si gioca intorno al concetto di "persona". Ora, non per caso, "persona" significa originariamente "maschera" (Mauss), cosa che mostra come il riconoscimento di un essere umano è ancora dipendente da una forma metafisica che viene sovrapposta alla sua corporeità e sotto la quale egli deve in realtà agire. Il problema può essere visto anche nello sforzo che ha fatto la filosofia idealista tedesca per dedurre ciascun corpo individuale da un precedente soggetto trascendentale, corpo che, dopo tutto, deve ancora dar prova sistematica della capacità di conservazione e valorizzazione, e non c'è niente in questa epoca che lo riassuma meglio di quel "diritto alla vita" difeso da Fichte: "la possibilità di vivere è condizionata dal lavoro e non esiste un tale diritto laddove questa condizione non è stata soddisfatta" (Fichte). Ad essere determinante per il riconoscimento di un essere umano come "persona", non è per lui immediatamente il suo corpo ma il "lavoro astratto" esercitato dal corpo. La critica di Agamben ai diritti umani forse potrebbe venire arricchita da un'attenzione prolungata su tale questione.

Ma l'universalismo basato sull'auto-proprietà non è solo condizionato ma è anche falso. E credo che la concettualizzazione di Agamben andrebbe completata con l'ammissione del carattere strutturalmente patriarcale e razzista del capitalismo moderno. Si suppone che l'auto-proprietà si applichi a tutti gli esseri umani, ma nella realtà si è sempre dimostrato come un principio strutturale "maschile, bianco e occidentale" (Kurz, 2002). Nel momento in cui si imponeva il capitalismo, le donne venivano escluse dall'auto-proprietà (Pateman, 1988) e veniva rese responsabili di tutte le attività che erano incompatibili con la "valorizzazione del valore" ma che tuttavia rimanevano un tacito presupposto necessari alla riproduzione sociale (allevare bambini, gestire la casa, preparare i pasti, ecc.) e senza le quali il capitalismo non avrebbe potuto svilupparsi; quello che Roswhita Scholz ha chiamato il processo di dissociazione sessuale. In uno status più basso venivano mantenuti anche tutti gli uomini non-bianchi, in particolare i neri, che erano stati classificati come "subumani" dalla maggioranza degli illuministi e che venivano commercializzati come schiavi su scala mondiale. Non è una coincidenza il fatto che il femminismo e l'abolizionismo del 19° secolo avessero basato le loro rivendicazioni sull'esigenza di una "vera" universalità dell'auto-proprietà (vedi ad esempio Stanley, 2007). Rimane inteso che per mezzo di questa lotta vittoriosa sono state innegabilmente migliorate le condizioni di vita delle donne e dei non-bianchi della totalità dei paesi cosiddetti sviluppati, anche se è vero che questi miglioramenti si sono avuti in funzione delle necessità di "valorizzazione del valore" e nella misura in cui le donne e i non-bianchi assumevano le categorie capitalistiche e si mostravano "maschere di carattere" degne di riconoscimento; come è stato affermato da Agamben in un altro contesto (2010): "la lotta per il riconoscimento è (...) lotta per una maschera". Ma questo riconoscimento dell'auto-proprietà delle donne e dei non-bianchi rimane tuttavia lungi dal garantire loro una volta per sempre il riconoscimento, non solo perché la forma giuridica si trova ad essere permanentemente minacciata dal carattere patriarcale e razzista del capitalismo, ma anche perché tale forma si trova ad essere sottomessa alla dinamica della forma economica che le viene in realtà presupposta. L'auto-proprietà è la condizione per entrare nel mercato della concorrenza universale come soggetto, ma non è una garanzia che in tale mercato si sopravviva.

Affinché un auto-proprietario possa mantenersi nel mercato occorre che egli sia solvente, bisogna che egli produca, attraverso la vendita della sua forza lavoro, più valore di quello che consuma. Ma il valore della forza lavoro è variabile ed è relativo all'insieme globale della riproduzione sociale capitalista, e tende storicamente ad abbassarsi in funzione dello sviluppo delle forze produttive e della corrispondente svalorizzazione dei mezzi di sussistenza. Questa svalorizzazione della forza lavoro implica, a livello dell'intera società, anche una produzione sempre minore di nuovo valore (plusvalore) che può essere compensata solo attraverso un assorbimento di un numero sempre maggiore di lavoratori. Questo funziona solo quando lo sviluppo dei macchinari crea più posti di lavoro di quanti ne sopprime. Nel contesto della Terza Rivoluzione Industriale della microelettronica, tale meccanismo di compensazione si esaurisce e cresce in maniera irrimediabile la massa di auto-proprietari superflui, oggettivamente impossibilitati a vendere la propria forza lavoro.

Oggi ci troviamo davanti a ciò che in un altro momento ho chiamato della "insolvenza dei corpi" (Lamas, 2014). La modernità del feticcio del capitale, in realtà, ha recuperato, dando ad esse una nuova forma, le antiche relazioni di sacrificio che Agamben riconosce essere state all'origine delle comunità umane. La relazione di sacrificio si è svincolata dall'antico principio trascendente delle matrici religiose premoderne ed è stata trasposta in un sistema sociale ben terreno ed reso autonomo per mezzo della relazione di capitale (Kurz, 2014), guadagnando in tal modo una forma trascendentale. Qui, gli esseri umani appaiono come auto-proprietari i quali auto-sacrificano la propria energia vitale attraverso il lavoro astratto con l'obiettivo sociale ultimo di valorizzare il valore, di creare denaro per poi tornare a creare ancora più denaro. Quando questa regola comincia a girare a vuoto, a causa della sua stessa contraddizione fondamentale, l'eccezione mostra il carattere mostruoso della regola stessa. È in questo senso che Agamben può dire che oggi "siamo tutti virtualmente homines sacri" (Agamben, 1988). Infatti, per un numero sempre più grande di persone. l'energia vitale sacrificata attraverso il lavoro astratto nella relazione di capitale oramai non crea più il valore necessario al proprio consumo di sacrificio. Per molti, la soluzione è quella di vendere "a pezzi" il corpo, cosa che si vede nella crescente liberalizzazione del commercio degli organi. Altri diventano insacrificabili, esposti alla morte, non semplicemente a causa di un'asserzione politico-giuridica, o della sua assenza, ma per la semplice mancanza di redditività sacrificale.

- Bruno Lamas - 21 febbraio 2015 - Pubblicato su Versus, Contributi per la critica della società del lavoro -

fonte: Versus

NOTE:

[*1] - Da qui in avanti, vengono recuperate le argomentazioni già sviluppate nel saggio "A Insolvência dos corpos" (Lamas, 2014), sottolineando i possibili punti di contatto con alcuni dei concetti di Agamben.

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