II dottor Faust è il protagonista di numerosi racconti della tradizione popolare e di alcune grandi opere come La tragica storia del dottor Faustus (ultima decade del Cinquecento) di Christopher Marlowe e il Faust di Goethe (1802, 1832). In questo volume Alfonso D'Agostino retrocede di alcuni secoli per rintracciare le radici del topos narrativo del "patto con il diavolo" nella storia della letteratura medievale latina e romanza.
(dal risvolto di copertina di: Alfonso D’Agostino: "Gli antenati di Faust. Il patto col demonio nella letteratura medievale", Mimesis, pagg. 122, euro 10)
Vendesi anima al diavolo
- di Michele Mari -
Ogni volta, il patto con il diavolo è onta, tradimento, incubo: tanti patti invece, ben raccontati e successivamente allineati, studiati e catalogati, formano un “corpus”, sono letteratura, diventano “un tema”. Reso trattabile e allegramente dicibile, l’immodulabile scandalo si presta così a ricognizioni che, aggirando la sostanza della cosa in sé, mirano a modellizzarne i modi e le forme. È quanto ha fatto di recente Alfonso D’Agostino, che coniugando il rigore della filologia romanza con l’eclettismo del lettore onnivoro ha sottoposto ad indagine tassonomica una notevole quantità di testi medievali al fine di individuare i fondamentali tipi di patto ( Gli antenati di Faust. Il patto col demonio nella letteratura medievale, Mimesis, pagg. 122, euro 10 ). Ne risulta una griglia articolata secondo il premio (amore, giovinezza, ricchezza, potere, conoscenza) e secondo il prezzo (anima, azione, vita di un parente), ma anche secondo la presenza o meno di un intermediario, secondo il finale lieto o tragico, secondo la natura loico-intellettuale o bestiale del diavolo, e via dicendo.
«Probabilmente la tipologia proposta in questo libro è un po’ eccessiva», riconosce lo stesso D’Agostino, consapevole che, quanto si guadagna in evidenza semiotica, tanto si perde in analisi letteraria, e infatti il modo migliore per sfruttare queste griglie è considerarle alla stregua della mappa di una città, per orientarsi ma anche per percorrerne liberamente le strade. Chi vuole, anzi, potrà proiettare e verificare lo schema a ritroso nel tempo, magari per scoprire che per perdere l’anima non è necessario venderla, se è vero che Eva non promise nulla in cambio del frutto proibito. Quanto al venditore per eccellenza, Giuda, tutto si può dire di lui tranne che sia stato tentato dal diavolo, a meno che con «diavolo» si intenda una connaturata coazione al tradimento, non molto lontana dalla perfidia di Jago (che, per quanto corrompa e rovini, non compra).
Così il cerchio si chiude, e il diavolo torna ad essere una parte di noi, come nel greco daimon. Ma naturalmente la tipologia può essere estesa in avanti, e arrivare a fare i conti, oltre che con il Doctor Faustus di Marlowe, il Faust di Goethe e il Doktor Faustus di Mann, con Gli elisir del diavolo di Hoffmann, o La pelle di Zigrino di Balzac, o Il ritratto di Dorian Gray di Wilde. E anche qui si scoprirà che sempre più spesso non c’è bisogno del diavolo, questo poliedrico «eroe dai mille volti» (secondo la definizione di Joseph Campbell), e non ce n’è bisogno per il semplice fatto che il diavolo è il nostro stesso (struggente, spasmodico) desiderio: Dorian vuole rimanere giovane e bello, e ipso facto trasferisce la propria mortalità nel dipinto; analogamente Raphael de Valentin, che venuto casualmente in possesso di un potentissimo talismano ne approfitta per tradurre in realtà ogni desiderio lecito e illecito: peccato per lui che a ogni esaudimento la pelle di zigrino che costituisce il talismano rimpicciolisca un pochino, e peccato, soprattutto, che la misura della pelle corrisponda a quella della sua vita... Con questa splendida metafora, Balzac ci dice quanto il piacere, letteralmente, bruci la vita, e quanto le ragioni dell’intensità siano diametralmente opposte a quelle dell’estensione, secondo una spietata alternativa ben presente a Leopardi.
Dove lo troviamo allora il diavolo, oltre che a Palestrina (dove, pare, firmò il proprio patto l’Adrian Leverkühn di Mann)? Sicuramente non nella grotta dove sant’Antonio, dopo aver resistito alle tentazioni narrate da Flaubert, ha nascosto le ampolle che il diavolo sconfitto aveva lasciato in giro per sedurre i malcapitati: dissepolta dalla fantasia di Hoffmann, una di queste ampolle innescherà la catena di perdimento e passione di Medardo, il protagonista degli Elisir del diavolo: ma appunto il Grande Tentatore è scomparso, e in sua vece agisce romanzescamente la tentazione, come a dire la vita stessa (l’eros che turbava la mente di Tasso ad esempio, e che prima con la Controriforma poi con il Puritanesimo associò il piacere al peccato).
Se il diavolo è ovunque, allora, per trovarlo come personaggio dovremo cercarlo là dove il capriccio, violando le maglie della tipologia, avrà dettato situazioni non classiche e appunto non tipiche. Che dire ad esempio di un diavolo interessato a comperare non la tua anima ma la tua ombra? Ce lo presenta Adalbert von Chamisso nella Meravigliosa storia di Peter Schlemihl (1814), il cui protagonista accetta la transazione in cambio di un inesauribile borsellino. Ricchissimo, egli scoprirà presto quanto disdicevole sia, in un mondo di filistei, vivere senza ombra: finché, ridotto a dover circolare solo di notte evitando i lampioni, si comporterà in apparenza come un autentico malfattore. Da questa abiezione si riscatterà solo accettandola fino in fondo, cioè con lo sdegnoso rifiuto del patto successivo, l’ombra per l’anima.
Discendente diretto del diavolo di Chamisso, e altrettanto fornito di uno sbalorditivo campionario di esche, è Leland Gaunt, il misterioso rigattiere giunto in una cittadina a vendere la sua paccottiglia, miseri oggetti suscettibili però di essere trasfigurati dal desiderio dei clienti, plagiati come cavie da laboratorio: è la vicenda di Cose preziose, uno dei romanzi più belli di Stephen King, che evitando le fumisterie del “diabolico” ci mette di fronte all’evidenza plastica del nostro stesso desiderio, che determinando il nostro destino si configura, ancora una volta come daimon (non è un caso che nel film tratto nel 1993 Gaunt abbia il nobile volto di Max von Sydow, laddove più spesso il cinema ha dato al Tentatore smorfie e fattezze più istrioniche, come quelle di Jack Nicholson, di Robert De Niro o di Al Pacino).
In ogni caso, si tratti di una leggenda medioevale, di un romanzo moderno o di un film, chi legge o guarda tende a simpatizzare col diavolo: perché? Probabilmente perché la parola è la parola, e bisogna mantenerla indipendentemente dalla natura diabolica dell’interlocutore: sembra ricordarcelo nientemeno che un uomo di chiesa, spietato nel rappresentare le tremende conseguenze dell’infingardaggine di una comunità rurale, che dopo aver promesso il primo nato in cambio dello spostamento di una foresta disattende la parola data: è la storia del Ragno nero di Jeremias Gotthelf (1842), apprezzatissimo da uno che se ne intendeva come Thomas Mann.
AT 756 B: cos’è questa sequenza alfanumerica, una targa automobilistica? No, è la sigla del Patto col Diavolo secondo il sistema escogitato nel 1910 dal finlandese Antti Amatus Aarne per classificare i temi del patrimonio folklorico; perfezionato oltre mezzo secolo dopo dall’americano Stith Thompson, che lo ha corredato di un mostruoso indice analitico, il sistema AT è oggi utilizzato (occasionalmente vi ricorre anche D’Agostino), nonostante Vladimir Propp l’avesse bocciato per la sua astrattezza e la sua fondamentale indifferenza alle modalità letterarie. Alzando le spalle, Borges farebbe notare che anche la pretesa di ridurre la fantasia dell’umanità a un «sistema » è una tentazione diabolica.
- Michele Mari - Pubblicato su Repubblica del 17 gennaio 2017 -
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