A circa un secolo di distanza dalla pubblicazione di Una vita, la figura dell'inetto continua a occupare la scena letteraria italiana. Non sempre amato, spesso criticato per la sua debolezza e il suo carattere velleitario, ritorna prepotentemente soprattutto negli anni Ottanta e Novanta del Novecento, tanto da spingere a interrogarsi sul senso da attribuire all'inettitudine. Ma che cosa significa essere "un inetto"? Si tratta davvero solo di un personaggio abulico, che ha rinunciato a vivere? E se invece dietro il suo atteggiamento inerte e passivo si nascondesse un tentativo di ribellione, il desiderio che tutto ciò che lo circonda imploda?
Attraverso l'analisi testuale condotta su alcuni romanzi della fine del Novecento (tra gli altri, Vita standard di un venditore provvisorio di collant, Per dove parte questo treno allegro, Diario di un millennio che fugge, Tutti giù per terra), l'autrice cerca di mettere in luce la polisemia del personaggio e il suo rapporto con la società. Seguendone il percorso ci si accorgerà allora che il carattere inerte dell'inetto riesce a esprimere una lucida e puntuale critica sociale, dando voce al disagio di tutti coloro che non vogliono conformarsi e che cercano di mettere in discussione i modelli dominanti.
(dal risvolto di copertina di: Manuela Spinelli: "Una ribellione mancata. La figura dell'inetto nella letteratura di fine Novecento", ombre corte)
La figura dell’inetto, un combattente contro l’omologazione
- di Fabrizio Scrivano -
Tutti gli inetti a rapporto! Nell’era dell’ipervalutazione e della misura meritocratica non c’è modo di sfuggire all’inettitudine. O ti ci rifugi come ultimo baluardo di diversità o ti ci mettono come materia residuale. Più o meno è sempre andato così il mondo. Soprattutto nel condizionare tramite questa etichetta il senso di libertà degli individui.
OGGI È BENE PENSARE a questo argomento. Tanto più che è forte la tendenza a fare del minimo tergiversare, inteso almeno nel significato del tentennamento a imboccare le strade dell’omologazione se non proprio in quello del girare i tacchi davanti al nemico, viene trattato come una colpa. Anche in Italia, dove sempre di più le persone, i giovani in modo particolare, si ritrovano a fare, anzi a scegliere cose che non vorrebbero, come se le difficoltà legate al mondo dell’economia e del lavoro dipendessero dal malanimo di chi ci si deve misurare, come se non accettare ciò che è fosse una specie di diserzione.
Tuttavia è utile sapere, come racconta Manuela Spinelli in un saggio dedicato alla «figura dell’inetto nella letteratura di fine Novecento», che non si è inetti tutti allo stesso modo.
L’UNICA COSA che i vari personaggi narrativi dedicati a questa scomoda funzione hanno davvero in comune è quella di esprimere goffamente un senso di ribellione: da qui il titolo Una ribellione mancata (Ombre corte / culture, pp. 147, euro 15). Quindi, se si esclude il fatto che inetto è colui che stenta a rischiare in nome della rivendicazione e del piacere della lotta e dell’antagonismo, il non saper fare ha molti gradienti tra le attitudini personali e il contesto sociale in cui capita che debbano essere applicate.
Vari come sono vari, e tra di loro diversi, i protagonisti di alcuni romanzi degli ultimi due decenni del Novecento che la studiosa passa in rassegna. Tanto differenti quanto lo sono profondamente, per stile e per ideologie, anche gli autori di quei romanzi: Busi, Veronesi, Lodoli, Piersanti per gli Ottanta e per i Novanta Culicchia, Starnone, Montesano.
Senza assegnare ogni colpa, allora, si può dire che disperati, ironici o ipocriti che siano i personaggi, le varie inettitudini si manifestano verso il lavoro, il sesso, il padre, la società, il senso di sé.
ANZI, QUESTA TENDENZA a percepirsi e analizzarsi, pur manifestandosi raramente come edonismo bensì più spesso come autoflagellazione, è certamente un altro elemento di invariante. Tanto che tutto il tema dell’inetto, che Spinelli prende rapidamente in considerazione dal momento primonovecentesco del suo apparire con D’Annunzio e Svevo, sembra potersi considerare come un altro modo dell’amor proprio, che tanto caro fu a Giacomo Leopardi.
Non è un caso, infatti, che altro elemento costante e imprescindibile della figura dell’inetto sia questo: che pur nel riconoscimento dei propri limiti e impotenze, ci sia sempre un disarmante tentativo apologetico o autoapologetico (tutto dipende dalla relazione che c’è tra autore e suo personaggio).
Insomma, non c’è inetto senza apologia.
Un’ultima questione, che forse meriterebbe anche un ulteriore approfondimento, è il fatto che la tematica dell’inetto denoti ampiamente il mondo maschile. Questi supposti inabili o poco adattabili, questi semi intransigenti e poco combattivi personaggi, che sono spregiudicatamente consapevoli della loro natura ma sono altrettanto riluttanti ad accettarla come elemento di identità, questi grandi interpreti della contraddizione esistenziale hanno un’ulteriore caratteristica in comune: sono tutti maschi. Tanto da potersi dire che quella dell’inetto è una questione di genere.
ANCHE L’AUTRICE resta col dubbio che il personaggio segnato dall’inettitudine possa davvero costruirsi come un fatto letterario circoscrivibile in una propria tipologia testuale. Ma di certo il tema è pervasivo e se le condizioni ci costringeranno a persistervi, bisognerebbe una buona volta reagire e desistervi, in quanto espressione della logica del merito. Inetti di ogni paese, disperdetevi…
- Fabrizio Scrivano - Pubblicato sul Manifesto del 19 gennaio 2017 -
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