domenica 30 aprile 2023

L’inadeguatezza degli accenti …

Se guardiamo le date, la trasformazione della traiettoria di Andrei Makine appare impressionante: arriva in Francia clandestinamente, nel 1987, in condizioni precarie; nel 1990 pubblica il suo primo romanzo, "La Fille d'un héros de l'Union soviétique"; nel 1992 il secondo, "Confessioni di un alfiere decaduto" (entrambi vengono pubblicati, in Francia, come traduzioni dal russo; ma i nomi dei traduttori sono tuttavia delle creazioni dello stesso Makine, vale a dire, sono dei suoi pseudonimi; Makine aveva scritto i suoi romanzi già in lingua francese); poi, nel 1995, Makine pubblica "Il testamento francese", il suo terzo romanzo che verrà premiato con il Goncourt e il Médicis.

È istruttivo - tenendo conto delle osservazioni fatte da Jacques Derrida ne "Il monolinguismo dell'altro", circa il rapporto esistente tra lingua e nazionalità - concentrarsi sull'informazione secondo la quale Makine ha ottenuto la nazionalità francese solo nel 1996; dopo la ratifica (l'autorizzazione?, la certificazione?) concessa dai premi letterari (una nazionalità, che Makine invece aveva richiesto già fin dai primi anni Novanta, e che era sempre stata rifiutata).

È stato Derrida stesso che si è collocato al centro di quella che appare come un'appartenenza inequivocabile: quella della lingua francese (ad esempio, lo fa parlando dell'inadeguatezza degli accenti), e partendo da una tale appartenenza arriva poi a "decostruire" il concetto stessa di appartenenza, postulando la propria inequivocabile inadeguatezza (in quanto ebreo e algerino).

In un certo senso, queste due linee (quella di Makine e quella di Derrida) si incontrano allorché il primo pubblica, nel 2014, il libro "Le pays du lieutenant Schreiber"; una biografia-intervista di/a Jean-Claude Servan-Schreiber, ex membro dell'Assemblea nazionale costituente francese e combattente della Seconda guerra mondiale che proviene da una famiglia ebrea di origine tedesca. Nel libro, ci sono alcuni momenti in cui viene sottilmente rivelato il desiderio di Makine di assorbire - per contagio o per contiguità - tutta la "francesità" di Servan-Schreiber, e lo fa esaltando la sua partecipazione ad alcuni momenti chiave di quella che è stata la storia del paese nel XX secolo; a partire dalla sua fuga dalla Francia occupata dai nazisti. Il fatto di mettersi a confronto con questo francese quasi centenario, sembra consentire a Makine perfino un utilizzo rinnovato della lingua francese, consentendogli l'accesso ad alcuni termini che fino ad allora gli erano proibiti (héroïsme, sacrifice, honneur, patrie).

fonte: Um túnel no fim da luz

sabato 29 aprile 2023

Droghe vecchie e nuove !!

Chi non ha mai sognato di possedere il siero della verità e penetrare nel segreto della mente e del cuore degli altri e di se stesso? Quale giudice non lo vorrebbe, quale potere non lo riterrebbe l’ideale strumento di controllo? Kallocaina è appunto il nome del siero della verità che lo scienziato Leo Kall ha inventato per garantire allo Stato sicurezza e stabilità. Ma la verità sfugge alla strumentalizzazione, i suoi effetti sono sconvolgenti, rivelando la complessità dei rapporti umani e portando il germe della disgregazione nel sistema. Scritto nel 1940, quando era difficile nutrire grandi speranze nell’avvenire, Kallocaina ha in comune con Noi di Zamjatin, Il mondo nuovo di Huxley, 1984 di Orwell l’allucinata visione di una società spersonalizzata, dominata da uno Stato poliziesco che arriva a invadere anche la sfera privata dei cittadini sopprimendo ogni libertà. Benché le distopie appaiano spesso ingenue e superate dalle atrocità del reale, le questioni sollevate dal romanzo suonano di allarmante attualità. La continua violazione dei diritti umani, l’uso strumentale della giustizia, la disinvolta interpretazione delle leggi, la delazione eretta ad atto civico, l’acquiescente conformismo fanno parte del nostro panorama quotidiano. Ma l’originalità di Kallocaina, rara voce di donna in questo genere letterario, sta altrove: nella progressiva presa di coscienza del protagonista che verità e ragione, verità e controllo, verità e potere restano inconciliabili, nel suo lento processo di liberazione dal proprio super-io, fino all’accettazione delle esigenze più profonde che aveva negato e soffocato dentro di sé: quel bisogno di amore, di libertà e di fiducia, senza i quali l’esistenza e la persona umana perdono di valore e di significato.

(Dal risvolto di copertina di: KARIN BOYE, "Kallocaina. Il siero della verità", Traduzione di Barbara Alinei, postfazione di Vincenzo Latronico. IPERBOREA, Pagine 251, €17,5)


La figlioccia di Huxley, la madrina di P.K.Dick
- di VANNI SANTONI -

Siamo in un futuro sinistro, per non dire terrificante: uno Stato-mondo totalitario controlla ogni aspetto della vita dei cittadini, arrivando a separare i bimbi dalle famiglie per crescerli in base all'interesse del corpo sociale collettivo, senza alcuna possibilità di libero arbitrio. Le uniche libertà sono concesse alle forze di polizia, che controllano i cittadini con telecamere e microfoni nascosti ovunque, e hanno la facoltà di applicare a piacimento crudeli punizioni. In questo potere vasto e arbitrario, la polizia ha un solo cruccio: non poter spiare anche nelle menti dei cittadini... Questo finché il chimico Leo Kall non sviluppa una nuova droga, per certi versi simile a un’altra, anticamente celebre ma da tempo proibita, chiamata «alcol», che pareva capace di allentare le lingue di chi la assumeva.

La grande onda di narrativa distopica che ha iniziato a prendere forza a metà degli anni Dieci per raggiungere il suo picco al cambio di decennio — con la ripubblicazione di quasi tutti i classici del genere e l’uscita di una quantità sterminata di nuovi titoli che hanno declinato il sottogenere in tanti di quei modi da farne un genere a ogni effetto, dotato di un suo canone abbastanza ampio da poter essere considerato, letto e studiato anche in modo distinto dal filone-madre della fantascienza — sta perdendo forza per sovrapproduzione. E forse anche perché, tra crisi climatica e tensioni belliche, la vecchia fascinazione del «siamo in una distopia» comincia a stancare: «Dateci un’utopia, per carità, e fatelo rapidamente!». E tuttavia continua a sputare fuori qualche ultima perla, specie nel campo dei recuperi, quelli da veri speleologi editoriali. Lo si nota anche dal fatto che le più recenti e più interessanti distopie presentano temi sì attuali, ma strutturati attorno a dispositivi narrativi retrò. Un buon esempio è Istituto di bella morte di David Ely, recuperato da poco da Cliquot nella traduzione di Daniela Pezzella, e ambientato in un mondo in cui esiste la possibilità di cambiare vita tramite una speciale agenzia che si occupa di tutto, chirurgia estetica e ricollocamento inclusi. Ora, dopo le agenzie di «ricollocamento e chirurgia integrata», riappare una vecchia conoscenza della weird e pulp fiction (ma pure dei più prosaici noir di serie C): il siero della verità. La sua ricomparsa, però, non ha niente a che vedere con la narrativa di consumo: Kallocaina, il libro che lo rimette al centro della scena (o che semplicemente ce lo mette, visto che è del 1940, epoca in cui i governi si gingillavano davvero con l’idea di farmaci per agevolare gl’interrogatori), è un testo raffinatissimo, scritto dalla poetessa svedese Karin Boye, e tanto fino nello stile (ottimamente reso da Barbara Alinei), efficace nella forma, e cupo nelle atmosfere, da stare senza problemi accanto ai classici del genere. Se si proponesse un ideale quadrittico composto da 1984 di George Orwell, Il mondo nuovo di Aldous Huxley, Noi di Evgenij Zamyatin e, appunto, Kallocaina di Karin Boye, contestarlo risulterebbe difficile. Leggere per credere. Anzi, tanto elevato è il livello del lavoro di Boye, e tanto puntuale il suo arrivo (Noi, capostipite del distopico, è del 1921; Il mondo nuovo del 1932; 1984 del 1949, e Kallocaina va a collocarsi tra questi ultimi due uscendo nel 1940) che viene naturale pensare che se oggi non è noto quanto i suoi omologhi, è solo perché fu scritto da una donna, per di più proveniente dal mondo della poesia e non da quello della narrativa.

Certo, Kallocaina deve molto a Huxley (ma è sempre opportuno ricordare che esistono due Huxley, prima e dopo le sue esperienze con la mescalina: il primo ci ha dato il pessimismo psicofarmacologico del Mondo nuovo; il secondo l’ottimismo psichedelico di Isola), così come deve molto a Zamjatyn, ma tutti i romanzi distopici devono molto a Zamjatyn. In realtà, Kallocaina, per quanto l’espediente del «siero della verità» possa fare un po’ sorridere il lettore contemporaneo, non è semplicemente un testo per completisti. È una tra le migliori distopie mai scritte, che se la vede alla pari con colleghi più celebri, anzitutto per la capacità di Boye di dare vita a un mondo oscuro, oppressivo e privo di speranza — l’autrice stessa si sarebbe uccisa poco dopo la scrittura del testo, e si sente —, ma anche di trovare soluzioni narrative inattese. Poiché il «siero della verità» può sì fare confessare crimini compiuti, ma anche la volontà di commetterne in futuro... ecco allora che il gioco si ribalta. Da «figlioccia» di Huxley, Boye diventa «madrina» del Philip K. Dick di Minority Report, e non è poco: non è davvero poco. Se poi la morale di fondo risulterà un po’ risaputa nel suo ammonire contro l’avvento di uno stato di polizia, be’, sarà pur così ma vista la situazione globale non suonerà vana alle orecchie dei lettori del 2023.

- di Vanni Santoni - Pubblicato su La Lettura dell'8/1/2023 -

Metafore ?!!???

In uno dei suoi primi testi - pubblicato nel 1983 sulla rivista Genre - intitolato "Queens of the Night", Avital Ronell parla di AIDS, pandemie e vaccini, commentando anche - strada facendo - alcuni elementi della traiettoria di Nietzsche. Prima di far ciò, Ronell individua nell'opera di Mozart, "Il flauto magico", una delle possibili figure di quella categoria che nel suo "Regine della Notte" propone. «La regina è il grande "anticorpo" di Mozart», scrive Ronell, «l'elemento femminile che consegna il flauto magico in quanto "dono dell'immunità"». La regina di Mozart, aggiunge Ronell, costituisce la «versione maestosa» di Florence Nightingale, dal momento che entrambe appartengono al genere delle «donne redentrici» che sono state esiliate nella notte. Arrivata a questo punto, Ronell torna a Nietzsche, informandoci del fatto che anche lui era un «Infermiere» (termine neutro, in inglese) e che anche lui era un nightingale, un usignolo, il nome dell'uccello cui, nell'enciclopedia della lirica occidentale, corrisponde  il maggior numero di voci.

Ronell propone una connessione tra Nietzsche e la sua funzione di infermiere e quindi, da lì, lo collega con l'opera mozartiana, attraverso la "regina della notte", vale a dire, per mezzo della figura che porta con sé l'immunizzazione; ed è quello che fa Nietzsche - scrive Ronell - quando nelle sue lettere (in cui parla della sua prestazione come "immunizzatore" - nella guerra franco-prussiana - e anche, allo stesso tempo, come di qualcuno esposto al "contagio") comunica con Wagner. Proprio come fa Ronell a proposito di Derrida, quando nell'introduzione a una raccolta di suoi saggi tradotti in spagnolo ("Reinas de la noche") dice che la sua lingua madre è una via di mezzo tra l'ebraico, il tedesco e il derridiano (una sorta di commento indiretto al monolinguismo derridiano dell'altro). Così facendo Ronell incardina un'argomentazione teorica complessa a un unico significante: in questo caso, l'usignolo, allo stesso tempo uccello, immagine poetica, figura di protesi e trasmissione, personaggio d'opera, cognome di un'infermiera (e tanti altri soggetti) e metafora del "canto filosofico" di Nietzsche.

fonte: Um túnel no fim da luz

venerdì 28 aprile 2023

Teoria della Rivoluzione …

Jacques Ellul e la rivoluzione necessaria
- di José Ardillo -

Nel quadro di quella che rimane un'opera ampia e variegata, appartenente, a seconda dei casi, alla sociologia critica, alla teologia, alla storia del diritto o alla propaganda, senza però sottrarsi alla polemica intellettuale, all'inizio degli anni Settanta, Jacques Ellul si dedica a uno studio esaustivo del concetto di "rivoluzione", attraverso i due libri "Autopsia della rivoluzione" (1969) e "De la révolution aux révoltes" (1972). A questi due libri, nel 1982 se ne aggiunse un terzo, "Changer de révolution", che rispetto alle precedenti posizioni, che aveva sviluppato a partire dagli anni Cinquanta, costituisce un punto di riflessione e di rottura sulla questione della tecnologia. Negli anni Trenta, Ellul, insieme all'amico Bernard Charbonneau, aveva fatto parte del piccolo Movimento Personalista; una corrente intellettuale che all'epoca si opponeva tanto al fascismo e al comunismo quanto alla società liberale. Tuttavia, questi due autori si allontanarono ben presto dal movimento, in parte a causa di disaccordi con Emmanuel Mounier, che ne era il leader (*1). Durante la guerra, Ellul venne escluso dall'insegnamento dal governo Pétain, e per un certo periodo si dedicò all'agricoltura, partecipando alla Resistenza senza però prendere le armi. Dopo la guerra, tornò all'insegnamento e partecipò nuovamente a gruppi di riflessione insieme all'amico Charbonneau. Nel 1962, dopo aver inviato a Guy Debord il suo libro "Propaganda. Come si formano i comportamenti degli uomini", e aver constatato di essere molto apprezzato dai situazionisti, egli propose loro di collaborare. Tuttavia, questa proposta fu rifiutata dal gruppo a causa della sua fede cristiana. Qui, una parentesi è d'obbligo. Qualche anno fa, Jean-Claude Michéa ha accennato a quelli che definiva come i due grandi contributi alla critica sociale, che erano stati apportati negli anni Sessanta dai concetti di "società dello spettacolo" (Debord e i situazionisti) e di "società tecnicista" (Ellul) (*2). È stato un peccato che,  per un motivo così irrisorio, non abbia potuto aver luogo la collaborazione tra Ellul e i situazionisti, dal momento che l'unione di queste due correnti critiche avrebbe potuto produrre un'analisi profonda ed efficace dei processi sociali in atto in quel periodo (*3). I situazionisti svilupparono, molto abilmente, una teoria che denunciava il funzionamento ideologico della società dei consumi ma, riguardo quel che era la comprensione delle basi materiali e tecniche di questa società, non andarono oltre. È quest'ultimo punto a costituire il principale contributo di Ellul e Charbonneau. Questi due autori sono stati in grado di vedere le implicazioni potenzialmente rivoluzionarie di una critica del modo tecnico di organizzazione della società, e della comprensione delle conseguenze che ciò avrebbe nell'elaborazione di un discorso emancipatorio. Il settarismo dei situazionisti e, in generale, quella che era la loro fiducia nell'apparato industriale della società - al cui apparato, secondo loro, sarebbe bastato adattare la gestione dei consigli operai - rese impossibile che in Francia si formasse un fronte di pensiero critico, il quale avrebbe potuto superare sia le insidie dell'avanguardismo che quelle dell'operaismo, e che avrebbe portato in primo piano la questione ecologica. Non pretendiamo che questo sia stato l'unico ostacolo alla formazione di una tale coscienza critica, ma ci sembra sintomatico di un'epoca in cui l'estremismo di sinistra è rimasto cieco di fronte al problema ecologico. In questo senso, il contributo di Murray Bookchin, con tutte le carenze e le contraddizioni che abbiamo sottolineato, ha invece aperto una prospettiva necessaria a un'evoluzione del pensiero emancipatore. (*4) Tra il 1972 e il 1982, Ellul aveva partecipato, insieme a Charbonneau, alla formazione del Comitato per la difesa del litorale aquitano, il cui obiettivo era quello di bloccare il programma statale di sviluppo turistico di quella regione costiera. Nel frattempo, nel 1977, Ellul pubblicò Le Système technicien, forse la sua opera più compiuta riguardo al fenomeno tecnico, nella quale rispondeva a molte delle critiche mosse - risalenti alla pubblicazione del suo primo libro - sull'argomento e dove l'autore delineava la società informatizzata che sarebbe poi, trent'anni dopo, diventata la nostra. A ciò si aggiunga che Ellul e Charbonneau sono diventati dei punti di riferimento per l'ecologia radicale in Francia e, pur non essendo autori "popolari", il loro lavoro e i loro contributi trovano sempre più eco. Ora, ci si potrebbe chiedere il perché di un simile rinnovato interesse per Ellul. Senza dubbio, molti sentono il bisogno di attingere ai suoi scritti perché oggi sembra mancare una riflessione su un certo numero di questioni, rispetto alle quali tali testi forniscono argomenti rilevanti che permetto di portare avanti una critica della società odierna focalizzata sugli stili di vita, sulle credenze, sui pregiudizi e sull'ideologia progressista. Il lavoro di Ellul, insieme a quello di Charbonneau, di Ivan Illich, di Günther Anders, di Karl Polanyi, di Lewis Mumford, di Theodore Roszak, di Paul Goodman e altri potrebbe servire come fonte di ispirazione per un futuro movimento rivoluzionario volto alla trasformazione, che avrebbe come obiettivo primario lo sviluppo della libertà umana vista nel rispetto delle altre specie e della vita del pianeta nel suo complesso. Si può non essere d'accordo con tutto ciò che Ellul pensa, né con il modo in cui lo esprime; questo non impedisce di vedere che egli è grosso modo in grado di identificare, all'interno delle lotte politiche della modernità, le questioni principali e quelle secondarie. La questione della rivoluzione potrebbe sembrare obsoleta, eppure continua a ossessionare tutti coloro che sono impegnati nel dibattito politico, nell'analisi dei sistemi di dominio, nelle lotte concrete, nell'azione diretta, ecc. L'analisi di Ellul sul concetto di rivoluzione arriva proprio in un momento cruciale: la fine degli anni Settanta, una sequenza storica in cui il mondo occidentale viene a essere agitato da una sorta di effervescenza rivoluzionaria.

Autopsia della rivoluzione
In Autopsia della rivoluzione, pubblicato nel 1969 (*5), Ellul tenta di ripercorrere in modo esaustivo lo sviluppo del concetto di "rivoluzione", e lo fa individuando cinque momenti chiave, corrispondenti alle cinque sezioni del libro. Innanzitutto, vengono studiate le differenze tra le rivolte scoppiate prima della Rivoluzione francese: le cosiddette rivolte popolari, le rivolte contadine e le rivolte illuministe. Per lui, si tratta soprattutto di fenomeni sociali che si oppongono al corso della storia e che chiedono un ritorno alle origini, un nuovo inizio. Queste rivolte hanno obiettivi chiari e talvolta anche programmi, ma mai un vero e proprio progetto rivoluzionario. Non esiste una dottrina della rivoluzione in quanto tale. Nella seconda sezione, mostra che il mito della rivoluzione è nato con la Rivoluzione del 1789. Viene pertanto creata, a partire da quella, un'intera religione rivoluzionaria, una dottrina, un modello. La rivoluzione diventa universale e si trasforma in un modello che può essere applicato ad altri momenti storici. Un dettaglio importante: la rivoluzione si colloca all'interno della storia, e non in opposizione ad essa. In questo momento si forma una visione progressiva della storia, nella quale la rivoluzione appare come l'apoteosi della libertà. Ma il trionfo della Rivoluzione francese divenne anche sinonimo del trionfo dello Stato, dell'emergere di una vera e propria religione dello Stato. Mentre in precedenza le rivolte erano sempre state tutte dirette contro il potere, e in generale contro lo Stato, la rivoluzione, da quel momento in poi, perfezionò ed estese all'infinito i poteri dello Stato. Lo Stato divenne così inaspettatamente il garante della libertà. I rivoluzionari si affidarono alle classi popolari e ai gruppi radicali per stabilire, una volta giunti al potere, l'onnipotenza dello Stato razionale. Nella terza sezione, tutto va al suo posto: la razionalizzazione del processo rivoluzionario, e il suo ingresso nella storia come modello, lo trasformano rapidamente in un fenomeno che coincide con la direzione della storia, e che a sua volta è addirittura in grado di creare la storia. La teoria marxista si appropria del concetto di rivoluzione e lo trasforma in un meccanismo automatico della storia, in uno schema scientifico e oggettivo: sarebbe sufficiente prendere in considerazione la combinazione di alcuni fattori oggettivi di una determinata realtà storica, per determinare quando e in che modo essa sfocerà in un processo rivoluzionario. Il marxismo, tuttavia, non è riuscito a inquadrare chiaramente questi fattori. Ad esempio, perché la rivoluzione avvenne in Russia nel 1917, quando era un Paese debolmente industrializzato e con una struttura sociale che conservava le caratteristiche dell'Ancien Régime, e non nei Paesi avanzati, come l'Inghilterra o la Germania? Pertanto, a Lenin e ai suoi compagni parve necessario modificare un po' la teoria in modo che essa potesse continuare a essere uno strumento scientifico di analisi rivoluzionaria. Del resto, Ellul insiste anche sul fatto che la rivoluzione, nel senso della storia, non può che portare al rafforzamento dello Stato, come è avvenuto nel 1917. Allo stesso modo in cui, in Francia, lo Stato divenne il garante delle nuove libertà borghesi, nella Russia bolscevica lo Stato, il partito e il Comitato Centrale divennero i custodi della verità della rivoluzione proletaria, con i risultati che conosciamo. Ellul affronta la quarta sezione parlando della rivoluzione "banalizzata", vale a dire, della rivoluzione nella misura in cui essa è diventata un fenomeno di moda. Alla fine degli anni Sessanta, doveva essere tutto rivoluzionario. Per Ellul, la parola "rivoluzione" si trasforma così in un nuovo idolo delle masse, in un feticcio, e ci propone una succinta analisi di alcuni presunti fenomeni rivoluzionari: l'underground e il cinema di Godard, Castro e la teologia della liberazione, i movimenti sindacali e la contestazione giovanile. Arriva persino a ironizzare sul reale contenuto rivoluzionario del maggio '68. È alla fine, nella quinta parte del libro, che sviluppa il concetto di «rivoluzione necessaria», quello che appare come il contributo più importante del libro, e che a nostro avviso contiene gli elementi di analisi che possono essere utili per noi oggi. Ellul considera il fatto che ci si deve ribellare come se fosse un imperativo morale. Bisogna innanzitutto ribellarsi e opporsi, si deve negare la società attuale nel suo complesso. In sé, la ribellione sembra essere un fatto assurdo, dal momento che essa non ha alcuna garanzia di successo, ma è esattamente proprio questo che la trasforma in un atto di valore. E soprattutto - cosa più importante - la rivoluzione deve agire contro quelle che sono le strutture reali della società, cioè contro la Tecnologia e contro lo Stato, che formano i due pilastri del dominio. La rivoluzione non può basarsi sul concetto di giustizia distributiva, né sul desiderio di porre fine alla povertà, o alla fame o alla guerra - cose queste che, pur essendo tutte questioni serie, non possono essere ricondotte alla radice del problema. Il problema principale risiede nella struttura stessa della società in cui viviamo, nella sua struttura tecnica, nel suo modo di produrre e di consumare, e nell'ideologia dello spettacolo che la protegge. Fare una rivoluzione contro questa società, richiede allora uno sforzo notevole, in quanto combattere anche l'ideologia che essa promuove, e che domina i nostri pensieri: l'edonismo consumistico, l'autonomia intesa nel suo senso individualistico, la ricerca della felicità e del benessere a ogni costo. Ellul sottolinea giustamente come la società moderna sia caratterizzata dalla tendenza a integrarsi sempre più, trasformandosi così in una società globale: grazie alle sue tecniche di informazione, pubblicità, indottrinamento di massa, occupa sempre più spazio nella vita quotidiana e nella coscienza degli individui. Egli sottolinea inoltre che questa è una società in cui la crescita economica costituisca l'unico dogma. Per lui, i rivoluzionari del maggio '68 hanno attaccato soprattutto quelli che erano solo i miraggi del potere, che erano già stati screditati dalla modernità stessa: le strutture reali del sistema sono rimaste intatte. Il tipo di rivolta che Ellul auspica, richiede di conseguenza una messa in discussione radicale dei modi di vita delle società sviluppate. E su questo punto non si fa illusioni, perché sa che in molti casi ciò significherà rinunciare a molte delle cose che i rivoluzionari del suo tempo consideravano invece come delle conquiste inalienabili. Propone pertanto un rafforzamento della coscienza individuale, un'ascesi indispensabile per superare la disciplina imposta alle masse. La rivoluzione necessaria esige la creazione di nuovi valori, poiché tutta la morale è stata spazzata via dall'avanzata della società tecnologica. Secondo Ellul, è indispensabile rompere con la maggior parte di tutto il passato rivoluzionario che abbiamo ereditato, in modo da poter così tornare a un nuovo punto di partenza, dal quale dovrà ricominciare tutto. Nell'affermare che una vera rivoluzione dovrebbe essere diretta contro le strutture centralizzate dello Stato e contro la tecnicizzazione, non nasconde la vera portata della sfida. Tre anni dopo, in "De la révolution aux révoltes" (*6), Ellul completa e approfondisce il suo studio dei fenomeni rivoluzionari del suo tempo, arrivando a delle conclusioni terribilmente cupe, sul futuro e sulla possibilità di una vera rivoluzione:
«Nella misura in cui la rivoluzione necessaria va contro le comodità che sono state concesse all'uomo dal progresso tecnico, nella misura in cui mette in discussione il soddisfacimento di alcuni bisogni che sembrano essere divenuti vitali a causa dell'abitudine e della persuasione, nella misura in cui rifiuta la marcia fin troppo ovvia verso un simile paradiso, essa non ha alcuna possibilità. Il mito del progresso ha ucciso lo spirito rivoluzionario, e la possibilità di prendere coscienza dell'attuale necessità rivoluzionaria. Il peso da sollevare è troppo grande. L'uomo tranquillo, così sicuro che la tecnologia gli fornirà tutto ciò che può desiderare, non vede alcun motivo per cui dovrebbe fare uno sforzo diverso da quello di facilitare questo sviluppo tecnico, e non vede perché mai dovrebbe imbarcarsi in un'avventura incerta e dubbiosa.»
Nel 1982, Ellul pubblica il suo ultimo libro sull'argomento, "Changer de révolution", il cui sottotitolo è "L'inéluctable prolétariat". Questo libro sorprenderà i lettori che hanno familiarità con l'opera di Ellul, poiché il pensatore afferma di vedere la possibilità di utilizzare l'informatizzazione e l'automazione per poter costruire un socialismo decentralizzato e libertario. È vero che le condizioni sociali che questo ri-orientamento sembra richiedere sono fuori dalla portata della nostra società, a meno che non ci sia una trasformazione radicale di tutte le sue strutture. A posteriori, questa proposta rimane un elemento incongruo nella sua opera. Nel suo ultimo libro, " Le Bluff technologique" (1988), è egli stesso ad assumersi il compito di smentire queste fugaci speranze nella tecnologia. Tuttavia, "Changer de révolution" contiene alcune riflessioni e analisi molto interessanti sul futuro del socialismo nella società industriale.

Una valutazione
Un'opera così ampia e ambiziosa, come lo è quella di Ellul, non può non cadere in alcuni eccessi, ingiustizie e contraddizioni. Il suo obiettivo era quello di individuare i principali ostacoli alla libertà umana nella società moderna, e a volte sembra essere caduto in semplificazioni eccessive, o in giudizi troppo categorici. In genere, i suoi ideali cristiani non interferiscono con le opere di sociologia critica che abbiamo citato, ma a volte, come in "Changer de révolution", la loro presenza non aiuta certo a chiarire alcuni punti della sua argomentazione. Nelle ultime pagine di "Autopsie de la révolution", Ellul dà una valutazione elogiativa dell'ultima corrente che egli considerava autenticamente rivoluzionaria: il situazionismo. Tuttavia, questo elogio appare problematico. Era logico che simpatizzasse con l'analisi radicale e intransigente dei situazionisti sull'ideologia alienante della società dei consumi, sul conformismo intellettuale e accademico, sullo stalinismo, sulle pseudo-avanguardie artistiche, ecc. Tutto questo era già presente nelle sue opere degli anni Cinquanta e Sessanta, e in tal senso possiamo riferirci in particolare a "Propagandes" (1962),oppure a "L’Illusion politique" (1965) (*7). In tal senso, "Autopsie de la révolution" contiene tutti gli elementi necessari per criticare molti aspetti della filosofia rivoluzionaria progressista presente nel situazionismo. Infatti, una parte molto importante della teoria situazionista si basava sulla filosofia marxista della storia, e quindi ne condivideva molti errori. Tutta la retorica situazionista sui consigli operai, sulla consapevolezza dell'alienazione da parte della classe operaia, sul «movimento reale che abolisce le condizioni esistenti», ecc. oggi non può che farci ridere. I situazionisti hanno messo le rivolte del maggio-giugno 1968 su un piedistallo perché volevano vederci una nuova epoca di protesta sociale, che può essere accettata solo se si relativizza il quadro e la portata di una simile protesta. Se Ellul mostra un certo disprezzo per la protesta del maggio '68 - nonostante la stima che può avere per la critica situazionista - è proprio perché ne riconosce il carattere banale e limitato. Pur facendo attenzione a non cadere in una visione revisionista della storia contemporanea, è chiaro che le analisi di Ellul, pur facendo parte di una produzione intellettuale scritta, registrata e pubblicata, erano più vicine alla verità di tutte le teorie radicali o sovversive che si potevano sentire all'epoca. La rivoluzione della vita quotidiana annunciata dai situazionisti non teneva conto dei limiti materiali ed ecologici, all'interno dei quali si deve stabilire qualsiasi forma di vita collettiva. E il tempo ha generalmente dato ragione ad autori come Ellul, Illich, Charbonneau e Mumford. Dal maggio '68, la società ha continuato la sua tecnicizzazione, il suo sviluppo produttivista, e si spinge sempre più verso l'alienazione industriale e la distruzione della natura. Ellul riteneva che la rivoluzione - nel senso in cui la intendono molti cosiddetti rivoluzionari - fosse diventata impossibile nell'epoca attuale. Ma questo però non significa che tutte le vie della trasformazione sociale siano bloccate. Si tratta solo di prendere in considerazione ciò che non si può più fare, ciò che non ha più senso, ciò che non è più essenziale (e che non lo era nemmeno quarant'anni fa!). Ellul ha ragione quando dice che la nostra società moderna è una società di integrazione, molto più della società di esclusione che alcuni esponenti della sinistra amano dipingere. Non è nemmeno una società di repressione, ma è soprattutto di adattamento e di consenso. Infine, non è una società della precarietà, ma dell'abbondanza. Certo, nelle società industriali avanzate esistono fenomeni di esclusione, repressione e precarietà obbligatoria; ma non sono problemi centrali, perché derivano da un sistema in cui la Tecnica, lo Stato e la crescita giocano un ruolo fondamentale, e il cui dominio sociale è imposto con strategie molto diverse. In generale, si può dire che l'intera società vive in accordo con il suo sistema politico, e quando molte persone si lamentano e parlano di precarietà ed esclusione, stanno solo chiedendo che il sistema corregga i suoi errori, che migliori, che vada a beneficio di tutti, che tutti possano avere un reddito decente, una buona rete stradale, una buona assistenza sanitaria, spazi verdi per camminare e fare jogging, ecc. La sinistra, sia parlamentare che extraparlamentare, si batte costantemente e intensamente affinché questo sistema diventi meno precario ed escludente, e affinché tutti abbiano accesso all'istruzione e a contratti di lavoro dignitosi. Da un certo punto di vista, ciò è comprensibile, poiché tutti cercano un minimo di sicurezza materiale per poter vivere. Ma d'altra parte è assurdo, perché questa cosiddetta sicurezza materiale non è più pensata in alcun altro modo se non nella forma in cui viene offerta dalla società industriale statalista; vale a dire, senza tener conto del fatto che questa società nasconde e falsifica gli effetti catastrofici che essa produce sulla libertà umana e sulla natura. È per questo motivo, che la consapevolezza critica dei mali della società odierna oggi non può che essere un fenomeno del tutto astratto: deve necessariamente partire da una messa in discussione della totalità di ciò che ci circonda, compito estremamente difficile. Bisogna ammettere che oggi solo dei gruppi molto piccoli osano intraprendere azioni che mettono in discussione la totalità del sistema. I collettivi impegnati nella lotta contro le grandi infrastrutture (treni ad alta velocità, aeroporti, linee ad alta tensione, ecc.), i gruppi che cercano di mettere in pratica l'autogestione contadina o che cercano di vivere in comunità autonome, quelli che si impegnano in reti di mutuo soccorso, scambi di servizi o di conoscenze... dove tutte queste esperienze possono servire come punti di appoggio per un futuro movimento che, man mano che si rafforza, sarà poi in grado di costituire una vera e propria opposizione. Cercando di recuperare il tempo perduto... Perché resta il fatto che se dei libri come "Autopsia della rivoluzione" fossero stati presi in considerazione quarant'anni fa, i movimenti radicali di allora avrebbero evitato molti falsi dibattiti, e avrebbero guadagnato tempo prezioso nella lotta contro il sistema che stiamo affrontando.

- José Ardillo - da "La liberté dans un monde fragile", L’Échappée, 2018 -

NOTE:

(*1) -  Un'antologia dei loro testi: Bernard Charbonneau et Jacques Ellul, "Nous sommes des révolutionnaires malgré nous. Textes pionniers de l’écologie politique", Paris, Seuil, coll. « Anthropocène », 2014.

(*2) -  Jean-Claude Michéa, La Double Pensée. Retour sur la question libérale, Paris, Flammarion, 2008.

(*3) - Tuttavia, il trattamento che i situazionisti riservarono a Murray Bookchin, dimostra che difficilmente potevano aprirsi a qualcosa che non coincidesse con le loro posizioni estremiste (a tal proposito si legga: Miguel Amorós, "Les Situationnistes et l’anarchie", trad. Henri Mora, Villasavary, La Roue, 2012).

(*4) - Infatti, al di là degli aspetti formali, era difficile per i situazionisti riconoscere la serietà delle questioni poste da Ellul e Charbonneau fin dagli anni Trenta (sulla natura, la tecnica, le illusioni politiche, il progressismo, ecc.) A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, la teoria situazionista era entrata in una fase di agitazione politica assai più intensa, e le sue idee assomigliavano a un misto di Marx visto da Lukacs, di consiliarismo e di blanquismo insurrezionale, il tutto condito da un pizzico di ribellione surrealista. Nel 1968, il situazionismo aveva più a che fare con Marcuse - al di là di tutto ciò che poteva separarli - che con Ellul e Charbonneau. E il paradosso è che è proprio a causa della sua vicinanza alle idee di Marcuse, che un testo come "Post Scarcity Anarchism" di Bookchin rimanga più vicino al situazionismo di quanto lo siano i libri che Ellul e Charbonneau pubblicavano all'epoca. Opere come "Le Jardin de Babylone" o "Le Système et le chaos" di Charbonneau, o anche il libro di Ellul qui discusso, sono estranee all'ondata di entusiasmo rivoluzionario progressista che agitava, in modi diversi, ma con innegabili analogie, le menti di Debord, Vaneigem, Marcuse o Bookchin.

(*5) -  Ripubblicato nel 2008 dalle edizioni de la Table ronde.

(*6) -  Ripubblicato nel 2011 dalle edizioni de la Table ronde.

(*7) - Il primo è stato ripubblicato nel 1990 da Economica, e il secondo nel 2004 dalle edizioni de la Table ronde.


FONTE: Les Amis de Bartleby

giovedì 27 aprile 2023

Sciogliere i nodi ?!??

Oriente e Occidente. «Questo incontro», scrive Ernst Jünger in apertura del suo Nodo di Gordio, non soltanto occupa una posizione di primo piano fra gli avvenimenti mondiali, ma «rivendica di per sé un’importanza capitale. Fornisce il filo conduttore della Storia». Un incontro, tuttavia, che nella storia si è spesso trasformato in scontro: «Con tensione sempre rinnovata i popoli salgono sull’antico palcoscenico e recitano l’antico copione. Il nostro sguardo si fissa soprattutto sul fulgore delle armi che domina la scena ». Sono pagine apparse per la prima volta nel 1953, ma sembrano scritte oggi – mentre divampa più che mai la lotta planetaria tra l’Occidente globale liberaldemocratico e l’Oriente dello Stato totale. Ma per Jünger il nodo Oriente-Occidente è una polarità elementare, archetipica, simbolica, che contrassegna in modo costante l’umanità intera nella sua sostanza, e ogni singolo uomo nella sua anima. È l’opposizione tra mythos ed ethos, potere tellurico e luce, dispotismo e libertà, arbitrio e diritto. Una visione che non poteva trovare perfettamente concorde l’amico Carl Schmitt, che due anni dopo l’uscita del Nodo di Gordio replica con uno scritto in cui a quell’archetipica polarità sostituisce la contrapposizione fra terra e mare: da una parte il mondo continentale dell’Oriente (Russia e Asia, ovvero il nomos), dall’altra il mondo marittimo dell’Occidente (Inghilterra e America, ovvero la techne). Nel mezzo, l’Europa. E i due ritroveranno un’intesa nel prefigurarla quale «centro di gravità», capace di favorire, come Terza Forza, «l’unità del pianeta».

(dal risvolto di copertina di: Ernst Jünger, Carl Schmitt - "Il nodo di Gordio" - Adelphi, €14)

Occidente e Oriente, il nodo da tagliare
- Il dialogo tra Junger e Schmitt pone il problema dell'eterno dualismo tra mondo libera democratico e Stato totale -
di Massimo Cacciari

Il nodo di Gordio - un nodo che soltanto con un colpo di spada può essere sciolto? E dunque non scioglibile, ma "decidibile" soltanto. Oppure un legame tra due elementi dello stesso meccanismo (un carro, in questo caso) che impedisce a questo di funzionare correttamente? Dunque, una correggia che non farebbe propriamente parte dell'impero. Sciolta o tagliata la quale, ecco ricomposta la ben rotonda Sfera, il Globo. Quella Armonia tra Occidente e Oriente cui sembra anelare Alessandro. O invece la spada del Capo (o la sua abilità «tecnica» nel vedere la natura dell'impedimento e nel rimuoverlo) tronca una originaria Armonia e impone una "differenza" che prima proprio quella curreggia poteva celare? Junger e Schmitt non si soffermano sul problema, che è quello dell'ex "Oriente Lux", che è quello della Madre Terra d'Oriente (ancora così vivo nei Persiani di Eschilo). Entrambi vedono nel gesto di Alessandro l'affermarsi di una "polarità" irriducibile. Il nodo, dunque, è destinato a riannodarsi continuamente e noi destinati ogni volta a riaffrontarlo. È un nodo che soffoca? E allora sarà inevitabile cercare di reciderlo, magari pur anche consapevoli della vanità dei nostri sforzi. È un nodo che impedisce un'idea o un sogno di Pace mondiale? Se concepiamo la Pace come annullamento del conflitto e della contraddizione, non potremo considerare quel nodo altro che un ostacolo da rimuovere. O invece nel nodo che si rinnova riannodandosi riusciamo a vedere il simbolo di un possibile colloquio, di una inseparabilità tra distinti, i cui caratteri mutano di epoca in epoca, ma che affonda la propria radice in quella stessa polarità che tiene unito il nostro globo? Il nome di Gordio diviene allora il simbolo della "complessità" della relazione che abbraccia "nel loro stesso contraddirsi" Occidente e Oriente. Ciò che è per sua natura complesso non è astrattamente riducibile all'Uno, richiede di essere riconosciuto in quanto tale. Il nodo deve essere affrontato e la contraddizione sopportata, nel senso latino del "tollere", che significa portare in alto, manifestare nella sua chiarezza, innalzare.

Arduo compito - poiché la contraddizione non è una parvenza, è reale. Il distacco da ogni Auctoritas di cui il nostro pensiero non sappia rendere ragione, questa "libertà" che produce volontà di sapere, scienza e tecnica, ciò decide per Junger l'Occidente dalla grandezza dell'Oriente. Si tratta tuttavia di un distacco che muta forma e sempre revocabile in dubbio. Nei momenti di crisi lo spirito critico che fonda la stessa potenza dell'Occidente vacilla, tende ad atrofizzarsi. La stessa Tecnica può diventare un idolo al cui potere si finisce per credere superstiziosamente. D'altra parte, l'Occidente ha fornito all'Oriente proprio quelle conoscenze sulle quali aveva fondato la propria supremazia tecnico-economica e militare. Progresso tecnico-economico e libertà non presentano dunque alcun rapporto essenziale? E anzi le armi del primo possono oggi rivolgersi contro la seconda? È forse inevitabile che questo avvenga quando libertà venga intesa soltanto come libertà per "progredire", quando si ritenga che il solo fine sia quello del progresso della Tecnica. Tale è la destinazione che la storia del mondo sembra assumere nei discorsi di Junger e di Schmitt. L'Occidente ha messo sotto pressione il globo, l'ha trasformato nella figura del Lavoratore, del Lavoro produttivo sottoposto all'obbligo di indefinitamente progredire. In questo senso il nodo di Gordio potrebbe perciò sembrare risolto. La differenza, che saremmo chiamati a «sopportare», appartiene al passato? "Era" reale e non lo è più? Il nodo che si riannoda non contiene dimensioni essenzialmente distinte, ma concorrenti in quanto obbedienti a un solo Principio, a una "archè" sola? Se tale è il carattere dell'età che viviamo, è più facile che esso predisponga alla «guerra civile» globale piuttosto che all'universale Repubblica. La «concorrenza» non può essere letta se non anche come lotta tra volontà di potenza imperiali. La lotta tra chi vuole essere il rappresentante dell'unico Principe è per necessità lotta politica - è può diventare la più tremenda: quella tra Titani. Junger si aggrappa nel suo saggio a una contraddizione ideologica, che egli rappresenta con molta enfasi e tuttavia oggi, dopo la scomparsa dell'URSS, forse tramontata nella sua efficacia anche propagandistica. Schmitt è attento invece alla specificità delle situazioni storiche, delle "sfide storiche" che a Occidente e Oriente concretamente si presentano. Ma anche la polarità che egli presenta tra Terra e Mare risulta del tutto relativa. È vero che il legame tra idea di libertà e Mare permea l'intera storia dell'Occidente - e da ben prima dell'affermazione della potenza inglese e poi della grande isola americana. Già casa per gli ateniesi era la loro nave. E Roma possedeva il "suo" Mare ben più saldamente delle terre interne dei continenti che la circondano. Né il Mare contrasta in sé con la Terra. Il Mare costituisce - come Schmitt d'altra parte ricorda - il "ponte-pòntos", il cammino privilegiato, che congiunge, per quanto rischioso esso sia, terre diverse. Anzi, il Mare non può essere concepito «disabitato» da terre; come nelle antiche carte viene disegnato, esso è tutt'uno con i suoi "porti" e le sue isole.

Certo, la grande Terra d'Asia ha immagine opposta. Ma l'ha ancora? Ogni potenza ha dovuto trasformarsi anche in potenza marittima, sotto la pressione dell'Occidente. Anzi, in potenza "spaziale". Ormai Terra e Mare sono manifestazioni dello Spazio aperto, dimensioni distinte "avvolte" in esso. Ogni potenza sarebbe drasticamente "limitata" se non si rivolgesse all'illimite, al "a-peiron". Nessuna potrebbe aspirare non solo all'egemonia, ma neppure a conservare una vera autonomia, se non fosse in grado di concorrere con le altre per il dominio dello Spazio. La concreta situazione storica mostra ormai come la contraddizione tra Occidente e Oriente non possa più essere rappresentata secondo quella tra Mare e Terra. Questa rappresentazione poteva valere ancora tra i Titani usciti vincitori dalle Grandi Guerre mondiali. Oggi i confini vanno tutti ridefiniti in base alla disfatta dell'uno e alla crisi del secondo. Quella disfatta avrebbe potuto segnare la rinascita di una potenza europea suicida della prima metà del '900. Junger e Schmitt accennano soltanto a questa prospettiva, secondo una corrente politico-filosofica ben diffusa nella cultura tedesca all'inizio del secolo (la citazione conclusiva di Dostoevskij nel saggio di Junger ne è eloquente testimonianza): l'Europa deve volgersi a Oriente, includere in sé la Grande Terra Russa - ma cosciente che mai, in nessun modo, ciò potrà avvenire "manu militari". Questa possibilità appare oggi naufragata. Da una parte e dall'altra nessuno ha seriamente cercato di renderla un reale progetto politico. Rimane l'altro Titano, ma nell'evidente impotenza di reggere da solo il mondo. Il primato della Tecnica sul Politico, l'universalismo del mercato reggono il mondo. E non possono evitare che si rigenerino guerre. Lungi dall'arrestarle, anzi, ne creano sempre nuove condizioni. La geo-filosofia di cui parlano, con diversi accenti, Junger e Schmitt, appartiene al mondo di ieri. Né libertà-dominio, né Terra-Mare sono i poli oggi della contraddizione. La Cina non esisteva nell'orizzonte dei nostri autori. E la stessa catastrofe dell'URSS avrebbe avuto un significato del tutto diverso se non si fosse accompagnata alla prepotente affermazione dell'impero cinese. Lo sfondamento della porta all'Asia costituita dall'Oriente europeo (iniziatosi con l'annessione alla Nato di quei paesi e concluso con l'invasione russa dell'Ucraina - iniziativa l'una e l'altra non so quanto assunte nella coscienza  delle loro conseguenze) mette l'Occidente, la sua sola grande potenza, gli Stati Uniti, faccia a faccia con l'Oriente, senza più possibili mediazioni né zone cuscinetto. La nuova sfida potrà svolgersi sul piano della concorrenza tecnica, economica, commerciale in ogni angolo del globo senza giungere alla "decisione" ultima? Il nodo sarà sciolto e riannodato ancora, o reciso come soltanto le Grandi Guerre hanno mostrato finora di poter fare? Forse questo soltanto possiamo dire: una Repubblica mondiale, e cioè l'egemonia di "Uno" solo, è certamente possibile, ma questo Uno sarà l'Impero capace di serrare nella sua élite dirigente, con vincoli capaci di resistere anche alla spada di Alessandro, volontà politica, saldezza organizzativa, competenza tecnica. Un Impero in cui rapidità del processo decisionale e strategicità a lungo periodo delle decisioni assunte vanno di pari passo. Tutte «doti» che di per sé nulla hanno a che fare con l'idea di libertà né con quel Mare "nostro" che di tale idea era stato per secoli l'immagine vittoriosa.

- Massimo Cacciari - Pubblicato su Tutto Libri del 7/1/2023 -

mercoledì 26 aprile 2023

Storiella Sindacale !!

Tuta blu, 1978, di Paul Schrader, con Richard Pryor, Harvey Keytel e (soprattutto) Yaphet Kotto

Kotto, Kietel e Pryor sono tre metallurgici di Dertoit - «ramo automobili», presse urlanti, tempi cronometrati - che sgobbano più di quanto siano disposti a tollerare. Amiconi, tipi tosti, dopo il lavoro si appartano in fondo a qualche bar, troppo stanchi anche per tornare a casa, vagheggiando riscatti futuri.
Servono soldi se vogliono perseguire la felicità, e sa dio quanto lo vogliano. Ma dove trovarli?
A Detroit, nel campo dei miracoli del capitalismo evoluto, gli zecchini d'oro crescono soltanto sull'albero dei padroni, come si può leggere nel Capitale, che sta al proletariato rivoluzionario come Pinocchio ai bambini buoni. Alla fine, però, i tre compari un modo d'arricchirsi lo trovano. C'è la cassa dell'ufficio sindacale: basta rapinarla, che ci vuole? Armati di tronchese, torcia elettrica, guanti, maschere, qualche arnese da scasso, penetrano di notte nella sede del sindacato locale.
Sorpresa, però: la cassaforte è praticamente vuota, salvo che per pochi spiccioli, 600 dollari in tutto (meno di duecento dollari a testa, calcolate le spese per la benzina e le maschere da carnevale). Nella cassaforte ci sono però anche parecchi documenti (tombola) che comprovano l'inguacchio tra Unions e Criminalità Organizzata. Kiete, Kotto e Pryor decidono di ricattare il sindacato:i documenti compromettenti in cambio di soldi.

Pessima trovata. Kotto ci lascia la pelle, mentre Kietel e Pryor, abbindolati dai capi del sindacato e dalla polizia, si tradiranno a vicenda. Alla fine, li vediamo in fabbrica mentre brandiscono spranghe d'acciaio e si scagliano l'uno contro l'altro: «maledetto negro», «bastardo di un polacco». Fuori campo, una voce disincarnata tira le somme da brivido della favola proletaria (...):

«Mettono i vecchi contro i ragazzi, gli anziani contro i nuovi, i neri contro i bianchi... qualunque cosa per tenerci alla catena.»

(da: Il grande SLY, di Diego Gabutti)

Il potere e gli intellettuali: «Uccidiamo tutti quelli che portano gli occhiali» !!

Teoria e Pratica del potere
di Alfonso Vila Francés

«Si perde la testa. Si arriva alla conclusione che non si possa fare la rivoluzione senza gli intellettuali (...) Quei piccoli intellettuali, larve del capitale, che pensano di essere i cervelli della nazione. In realtà non sono i cervelli, ma la merda...» (Lettera di Lenin a Gorky, citata da Vitali Chentalinski nel suo libro "De los archivos literarios del KGB", ed. Anaya/ Mario Muchnik, 1994).

Da qui a uccidere chi porta gli occhiali non è che poi ci voglia così tanto, come si potrebbe pensare. Dalla Russia del 1919 alla Cambogia del 1975, le linee generali dei governanti comunisti sono sempre state le stesse: gli intellettuali sono necessari solo se mettono la propria penna al servizio del potere. E solo in momenti assai specifici (come, ad esempio, quando la rivoluzione è in corso, oppure non si è ancora consolidata a sufficienza). Dopo di che, diventano un elemento fastidioso, inutile, pericoloso. Ma nel resto del mondo che succede, qual è il rapporto tra il potere e i gli intellettuali? Ce lo spiega il professor Mario Benedetti: «Il potere dei governanti non si sente mai influenzato dagli intellettuali, o dagli artisti. Da parte dell'estrema destra, vengono generalmente espulsi, torturati e uccisi. Il neoliberismo, diversamente, ritiene invece che gli artisti e gli intellettuali siano oggetti decorativi. Ai politici piace farsi fotografare accanto a un pittore o a uno scrittore, ma tuttavia non attribuiscono loro la benché minima importanza. E anche perfino la stessa sinistra si serve di intellettuali e di artisti. Sul terreno della politica, nessuno dà importanza a quello che pensano. Questo però non vuol dire che non facciamo quel che possono. Possiamo cambiare la mentalità della gente, ma non guideremo mai nessuna trasformazione. Non ho mai sentito dire di una rivoluzione che sia stata fatta grazie un sonetto, a un'opera teatrale. Né si è mai saputo di una qualche dittatura che sia stata rovesciata a partire da un racconto. Gli intellettuali partecipano ai movimenti, ma non possono cambiare la vita. Il potere ha sempre disprezzato l'intellettuale, e lo considera pericoloso.»
«Ma non possono cambiare la vita». Questa frase, quando l'ho letta per la prima volta, mi ha subito ricordato una frase di Haroldo Conti: «Presto o tardi, la vita mi si metterà davanti e io mi butterò sulla strada. Come un leone». E ad Haroldo Conti la vita gli si pose davanti nelle prime ore del mattino del 5 maggio del 1976. E lo inghiottì. Lo inghiottì talmente bene che a tutt'oggi lo si può ancora trovare (e lo sarà, temo, forse per sempre) nell'elenco degli scomparsi della dittatura militare argentina. Lo scrittore vuole mangiarsi la vita. Ma la vita si mangia lo scrittore. Purtroppo, questa è assai più di una metafora, e purtroppo i casi come quello di Conti sono tanti, tantissimi. E in questo sembra che tutte le dittature del mondo facciano a gara tra loro per vedere chi è che, tra esse, che riesce a fare la lista più lunga. E in questo (alla fine è molto logico) non ci sono differenze ideologiche. «Terroristi non è solo chi mette bombe. Chi scrive libri è anche lui un terrorista», lo hanno detto Videla e la sua marmaglia. E Pinochet, nell'appoggiarsi alla sua poltrona, mentre lo sentiva, ha riso di questo. E ha applaudito.

Ma nel mentre che succede tutto questo, l'intellettuale, quella piccola merda, chi si crede di essere? Alla fine, quando Lenin divenne assai scortese, per Gorky l'unica scusa che aveva, e l'unico modo per evitare ulteriori litigi e discussioni fu quella di dire che: «Gli artisti sono dei pazzi». E curiosamente, fu proprio questa la medesima frase grazie alla quale nel 1573 il Veronese si difese dalle accuse dell'Inquisizione. E anche se in quel caso il pittore incluse nel gruppo anche i poeti, suppongo che lo fece perché riteneva che la forza stesse nel numero. Ma torniamo a Gorky; alla fine Lenin, non volendo aggiungere benzina al fuoco, accettò come buona la scusa di Gorky, e dopo un «come hai ragione» furono tutti felici e così passarono ad altro. Ma il fatto che nelle lettere non ci siano più stati litigi e rimproveri, non significò di certo che Lenin fosse disposto a tollerare tutti i capricci e tutte le ambiguità del suo amico. Certo che no! Gorky era - come lui stesso dice - «un cattivo marxista» e Lenin e Stalin (che gli subentrò) lo sapevano benissimo entrambi. E come potevano non saperlo, dal momento che per loro, a ben vedere, non esisteva un solo scrittore che fosse davvero un buon marxista? Bisognava tenerli d'occhio! Bisognava essere pazienti con loro. E bisognava essere duri, quando necessario. Bisognava mostrare loro la strada, e non una sola volta, ma molte molte volte. Gli scrittori, gli intellettuali, erano come tanti bambini sciocchi. Non c'era momento in cui si poteva smettere di star loro addosso. E così, quando nel 1918 il giornale per il quale Gorky lavorava come redattore capo venne chiuso per ordine dello stesso Lenin, questi si precipitò subito a difendere l'amico, dicendo: «No, Gorki non ci abbandonerà. Tutto questo è marginale, temporaneo. Vedrete. Rimarrà necessariamente con noi.» Gorky tornò all'ovile. Ma l'uomo è debole e inciampa sempre sulla stessa pietra. Così, nel 1920, poco dopo la lettera che si può leggere qui, all'inizio, Lenin suggerì gentilmente al suo amico di prendersi un periodo di riposo... in Italia, in Svizzera.... E nel caso non fosse stato chiaro, aggiunse, in modo definitivo: « E se non ci va, lo costringeremo noi a esiliarsi....» (Nel 1920 i comunisti tolleravano ancora l'esilio degli intellettuali e degli altri individui che non erano fedeli al regime. Ma poi, con Stalin le porte della patria sarebbero state chiuse, e tutto l'intero Paese - come ebbe giustamente a dire il filosofo, scienziato e scrittore Pavel Florenskij - sarebbe diventato un'enorme prigione: « Mi trovavo in esilio. Sono venuto a stare in prigione», osò dichiarare Florenskij quando tornò a Mosca dopo un primo esilio. Ovviamente, a questo fece seguito una nuova e definitiva detenzione). Ma Gorky non era Florenskij, e sapeva come fare a tacere, quand'era necessario. E poi, del resto, il Partito lo trattava bene, dandogli incarichi e responsabilità (che poi sapeva come toglierglieli con grande diplomazia). Gorky obbedì, e andò in esilio. Si stabilì in Italia e visse un periodo in silenzio, di relativo oblio. Poi gli venne chiesto di tornare, e lui tornò. E per tutto questo tempo, durante tutti quegli anni - sia all'interno che all'esterno dell'URSS - rimase sempre sotto una stretta ma discreta sorveglianza. La maggior parte dei visitatori che riceveva, la maggior parte delle persone che vivevano in casa o che in qualche modo lavoravano con lui, erano tutti agenti sovietici, o collaboravano con il potere sovietico. Erano informatori che raccontavano tutto ciò che vedevano e sentivano, e avevano una missione molto chiara: tenere Gorky isolato dalla realtà, e allo stesso tempo impedire che gli elementi anti-regime potessero raggiungerlo, o che arrivassero ad avere una qualche influenza su di lui. Vitali Chentalinsky, il primo civile che ha avuto accesso agli archivi riservati del KGB, racconta nel suo libro come per Gorki fossero state stampate delle riviste su misura, in modo che egli non venisse a sapere ciò che i quotidiani avevano pubblicato. E in Urss la stampa quotidiana era una stampa assolutamente controllata e fedele al Partito! Tuttavia, il caso di Gorky, così come quello di Pasternak, o come quello di Bulgakov, sono tutte delle eccezioni. Venivano sorvegliati, a volte venivano persino attaccati, ma non venivano mai arrestati, non venivano messi in cella, non venivano torturati, potevano vivere, e a volte potevano persino scrivere. Un bel lusso per uno scrittore! E così, Francisco Franco  che alla scuola dei dittatori non era entrato propriamente con un ottimo voto, ma solo per un pelo, alla fine è riuscito a imparare da Stalin e da tutti gli altri. Non sappiamo quali appunti abbia preso durante il corso, ma oserei dire che erano qualcosa del genere:

 1) - Ogni dittatura ha bisogno del suo scrittore ufficiale (ad esempio Gorki per i rossi). 2) - Uno scrittore ufficiale è più che sufficiente. (Nota: lo scrittore ufficiale serve anche per lo spettacolo, ma deve farsi notare meno degli altri). 3) - Ogni dittatura ha bisogno di qualche pecora nera (attenzione: le pecore nere devono essere ASSOLUTAMENTE INOFFENSIVE, e servono solo quando i nemici stranieri che si travestono da giornalisti vogliono parlar male di noi. Allora noi mostriamo le pecore nere e diciamo loro: «No. Non esiste! Guardate... Noi tolleriamo le critiche. Siamo molto democratici. Anzi, siamo il popolo più democratico del mondo, non vedete?». 4) - Allora, a quel punto, alla pecora nera viene concesso di parlare. Ma solo un po', per non rovinare tutto...). 5) - Ogni dittatura ha bisogno di qualcuno da incolpare. E gli scrittori, una volta che sono stati eliminati i nemici più pericolosi, sono buoni come tutti gli altri. E renderli pericolosi non costa nulla. Si può renderli pericolosi come e quando si vuole. Uno scrittore può essere accusato di tutto. Ed è lui stesso a fabbricare le prove... con i suoi libri!

Insomma, chi si ricorda di un uomo chiamato José Luis López Aranguren? O di un uomo chiamato Tierno Galván? Controllate le emeroteche e le videoteche. E vedrete come i protagonisti parlano senza giri di parole! Ma anche i despoti parlano. Con azioni o con omissioni. Osano mentire spudoratamente. Come il capo del KGB che dice a un candido scrittore francese in visita in URSS (ovviamente in visita guidata) che nel suo Paese non c'è alcuna censura... O come Stalin che si finge gentile e comprensivo nei confronti di Bulgakov (ma non permette però che in futuro vengano mai più pubblicate altre sue opere), oppure mentre a una cena di scrittori (per essere precisi a casa di Gorky) scherza con un poeta un po' troppo "allegro" (vodka, appunto), e poi lo fa fucilare. Anche se Stalin si permetteva almeno di scherzare, un altro giorno parleremo di Hitler... Ho detto che i despoti manifestano il loro potere con azioni o con omissioni. Concludo con una citazione che ritengo piuttosto illuminante: «D'altra parte, le autorità vedevano la rivoluzione ancora secondo l'approccio narodnikista e terrorista, e non erano affatto dispiaciute della comparsa di questa nuova setta che divideva il movimento rivoluzionario, la quale non sembrava predicare l'azione immediata, e si preoccupava soprattutto di analizzare la crescita del capitalismo russo. Per qualche anno gli scritti dei marxisti, purché si celassero dietro una forma espressiva colta e non usassero apertamente un linguaggio provocatorio, ricevettero l'imprimatur dei censori. Questo fu il periodo che venne definito "marxismo legale".» (Studies in Revolution, Edward Hallett Carr, Alliance Publishing House, 1968). Carr riporta due esempi della Russia zarista che mi permetto di citare. Il caso di "Kolokol" (La Campana), un giornale diretto da «un nobile con la coscienza sporca», il riformista (più che rivoluzionario) Alexander Herzen. Questo giornale veniva pubblicato a Londra; però in russo, e senza alcuna censura. Censura che a quel tempo invece esisteva in Russia. Eppure l'imperatore russo Alessandro II venne a conoscenza del giornale, e per alcuni anni addirittura ne incoraggiò l'arrivo di alcune copie nella stessa Russia, finché il giornale non attaccò direttamente la sua politica. Nel momento in cui Herzen si spinse oltre con le sue critiche, nella prassi il giornale cessò di circolare, dato che in teoria la sua circolazione non era mai stata consentita. Poi c'è il caso del primo libro di Plekhanov pubblicato in Russia, dal titolo appropriato "Contributo al problema dello sviluppo della concezione monista della storia". Quel libro fu letto da un giovane avvocato che cominciava a farsi conoscere nei circoli marxisti, e circolò senza alcun problema. Nel 1894 la rivoluzione comunista era un sogno vago, e ciò che spaventava il governo erano gli omicidi degli anarchici. Qualche anno dopo, lo zar passò dall'omissione all'azione. Censori e doganieri smisero di chiudere gli occhi. I principali teorici e attivisti marxisti furono arrestati o dovettero andare in esilio, compresi Plekhanov e Lenin. Per un po' di tempo il potere tirò un sospiro di sollievo. E qui Benedetti ha ragione. Non fu una favola a scatenare la rivoluzione. Fu la fame del popolo. La politica di pseudo-tolleranza di Alessandro II era fallita. Ma la politica repressiva di Nicola II non era affatto un'opzione migliore.

La miccia e la polvere da sparo
Parigi, 1847. Alexander Herzen, un aristocratico con la coscienza sporca, arriva nella capitale dopo un viaggio di sette settimane. Si è volontariamente esiliato dalla Russia con la famiglia e la servitù (in tutto tredici persone) perché la politica del nuovo zar Alessandro II lo ha profondamente disilluso, e perché spera di trovare a Parigi quell'atmosfera di libertà e di cambiamento che tanto desidera nel suo Paese. Diventerà involontariamente testimone della distruzione di ciò che tanto desidera. E quella distruzione arriverà molto presto, appena un anno dopo il suo arrivo.
Parigi, 1848. La monarchia di Luigi Filippo d'Orléans improvvisamente collassa. Questo re, che succedendo a Carlo V aveva finalmente chiuso con quelli che erano gli ultimi dell'assolutismo francese, si era trasformato, nei suoi diciotto anni di regno, nel più grande protettore dell'alta borghesia e nel nemico naturale del proletariato e della piccola borghesia. Il "re banchiere", come lo chiamano alcuni, ha instaurato un regime parlamentare che favorisce realmente soltanto una minoranza della popolazione. Finché l'economia era andata bene, non c'erano stati problemi, ma nel 1847 era scoppiata una crisi economica, improvvisa come sempre (le cose non erano cambiate di molto), preceduta da un periodo di cattivi raccolti. Gli operai rimangono disoccupati, i contadini soffrono la fame. Ancora una volta ci troviamo sul vecchio terreno di coltura per la rivoluzione. Possibile che nessuno se l'aspettasse? Si. Alcune menti lucide, come Tocqueville, di cui parleremo più avanti. Cosa può accadere a una rivoluzione che è stata vittoriosa senza grossi problemi? Può andare a rotoli. Può andare a rotoli... «All'imbrunire del 26 giugno, a Parigi, dopo la vittoria, si cominciarono a sentire, ogni pochi minuti, dei bombardamenti regolari... Ci guardammo tra noi, e i nostri volti impallidirono... "Sono plotoni di di esecuzione", ci dicemmo, allontanandoci l'uno dall'altro. La fronte incollata alla finestra, sono rimasto in silenzio: questi minuti meritavano dieci anni di odio, e una vita di vendetta.»
Finiva in questo modo la rivoluzione del 1848 in Francia. Una rivoluzione iniziata dagli studenti e dagli operai di Parigi, alleati con la bassa borghesia, e che si è conclusa con la fucilazione in massa degli operai e degli studenti di Parigi. E la bassa borghesia? Beh, la più parte di essa cambia schieramento. La situazione si è troppo radicalizzata. Si serrano le file insieme ai proprio parenti stretti. Be', la famiglia serve proprio  a questo: i cugini poveri vanno con quelli ricchi, e i cugini ricchi aprono loro volentieri le braccia: insieme possono difendere la proprietà privata, che è uno dei pilastri del nuovo sistema. Le vecchie storie della propria lotta comune contro i nobili sono struggenti. Quanto è durata la rivoluzione? Molto, molto poco. Meno di un anno. Cosa hanno ottenuto gli operai: la loro più grande conquista si è rivelata essere la loro rovina. Il suffragio universale, per cominciare. Lo ottengono, e cosa succede? Alle prime elezioni i repubblicani radicali vengono sconfitti. Gli operai di Parigi e delle grandi città votano per loro. Ma i contadini no. E gli operai vengono lasciati soli contro i repubblicani più tiepidi e i monarchici. La struttura del nuovo parlamento riproduce quella del vecchio parlamento. Sono gli stessi settori privilegiati che già detenevano il potere sotto Luigi Filippo d'Orléans. E non si preoccupano nemmeno di cercare di nascondere la cosa. Innanzitutto, bisogna chiudere le Officine Nazionali; quello che è stato il secondo grande trionfo dei lavoratori. E subito dopo bisogna arrestare, con qualsiasi scusa, quei pochi leader socialisti che sono riusciti a entrare in parlamento, o che stanno accumulando troppo potere. È ovvio che queste misure provochino una risposta da parte dei lavoratori, ed evidente che questa risposta venga stroncata con la forza. Ecco come inizia e finisce una rivoluzione. Ed Herzen guarda inorridito tutto questo. E ne prende atto: «La Francia sta esigendo la schiavitù. La libertà è un fardello gravoso.» Abbiamo le sue memorie. Ma ci sono stati anche altri intellettuali che hanno commentato quanto era accaduto. Marx ed Engels furono tra i primi. Ma anche Proudhon, e Bakunin.

Con il 1848, finisce il socialismo utopico. L'esperienza stava dimostrando che era necessario passare a qualcos'altro. Quanti operai morirono la notte del 26 giugno, mentre Herzen vagheggiava vendetta? Si parla di millecinquecento morti e di venticinquemila arrestati. Chi ordinò la repressione? Il re, tornato dall'esilio? I nostalgici dell'Ancien Régime? I borghesi stessi, e i membri del parlamento che era nato dalle prime elezioni a suffragio universale in Francia; quelli che più di tutti avevano beneficiato del Codice Civile napoleonico, quello che sanciva la fine della proprietà feudale, a favore della nuova struttura di classe nata dalla Rivoluzione francese... In una parola, i vecchi rivoluzionari, diventati conservatori e aggrappati al potere, a un potere che dava loro una libertà e una possibilità di arricchimento che i loro antenati non si sarebbero mai potuto sognare. Ho detto libertà? Purtroppo bisogna sempre rinunciare a qualcosa. E, come ha detto qualcuno, se i borghesi devono scegliere tra ordine e libertà, sceglieranno sempre l'ordine. La cosa più terribile di tutte è che la rivoluzione del 1848 porta alla dittatura di Luigi Napoleone Bonaparte (l'imperatore Napoleone III); e tutte le conquiste dei lavoratori, tutto ciò per cui si era lottato nel 1848, dovrà essere riconquistato, e con grande fatica, a partire dal 1870. Quando il futuro imperatore, che non si accontenta di essere solo il presidente della Repubblica, organizza un colpo di Stato nel 1851, non incontra praticamente alcuna opposizione. La borghesia lo accetta come se si trattasse di un male minore. Gli operai vengono tenuti a bada (e guai a loro se tentano di ridurre la giornata lavorativa o di apportare dei miglioramenti che comporterebbero una perdita di potere o di profitto, per quanto teorica, da parte dei padroni). I contadini vanno per la loro strada. E Napoleone III si prepara a governare tranquillamente per il resto della sua vita, e quasi ci riesce, se il trono spagnolo e il pugno di Bismarck... Ma questa è un'altra storia!

Una frase che possa riassumere la rivoluzione del 1848 in Francia? La rivoluzione che nessuno ha visto arrivare, e che nessuno ha visto spegnersi. Almeno così fu per i parlamentari francesi, quelli della monarchia costituzionale di Luigi Filippo d'Orléans e quelli della nuova, brillante e promettente Seconda Repubblica francese. Nessuno se lo aspettava? Abbiamo già detto che c'era uno che se lo aspettava. Un parlamentare della Bretagna. Una persona che sapeva molto sulle rivoluzioni, e su come e perché avvengono: Alexis de Tocqueville. Concluderemo questo articolo parlando di lui... Se volete conoscere la storia della Francia prima della rivoluzione del 1789, non avete altra scelta che leggere "L'Ancien Régime e la Rivoluzione". Si tratta del libro scritto da una persona che ha vissuto la Rivoluzione francese, e che ha impiegato quasi tutta la sua vita per riuscire a sintetizzare in un unico libro tutta la sua conoscenza dell'argomento, e che è ampia a partire dal fatto che Tocqueville fa una cosa che a noi oggi sembra molto logica, ma che all'epoca nessuno faceva: va negli archivi, tutti gli archivi, ma soprattutto gli archivi di Stato, gli archivi amministrativi, e non solo gli archivi della capitale, non solo gli archivi reali, ma anche gli archivi delle province, i piccoli e discreti archivi locali. Tocqueville si addentra nella parte apparentemente noiosa della storia, non cerca gli eroi e le loro battaglie, non parla di masse popolari che cantano la Marsigliese e sgozzano a destra e a manca. Studia semplicemente le leggi, i decreti, le regole, il lavoro quotidiano dei funzionari dell'Ancien Régime, le lamentele dei contadini e della borghesia e - sorpresa, sorpresa - le lamentele dei nobili stessi, le lamentele di coloro che si trovavano al vertice, ai vertici della società. Tocqueville giunge a conclusioni sorprendenti, tanto elementari quanto sconosciute nel 1856, anno di pubblicazione del libro. Non parte da idee preconcette. Lascia che i documenti parlino da soli. Lascia che siano loro a dirgli quanto fosse marcio l'Ancien Régime, quanto fosse inefficace e perverso anche per coloro che ne avevano beneficiato per secoli, per i suoi stessi creatori. Scoprì che la rivoluzione non era inevitabile, perché il sistema si stava già spogliando dall'interno, per istinto di sopravvivenza. Lucidamente, aveva già avvertito pubblicamente il re e i suoi colleghi parlamentari. Nel 1848, poco prima della rivoluzione che avrebbe messo fine a Luigi Filippo d'Orléans, e che avrebbe momentaneamente scosso la pace borghese, disse loro: «Cambiate politica, non vedete che state andando verso l'abisso, non vedete che i vostri vecchi alleati, i lavoratori, non sono più con voi, non vedete che sono CONTRO di voi, fate qualcosa, potete farlo!»

Nessuno lo ascolta. Nessuno prende sul serio la sua minaccia. Tocqueville era ancora ossessionato dalle rivoluzioni. La rivoluzione del '48 è ancora molto recente. Comincia a studiare la prima di tutte, la madre di tutte le rivoluzioni. Come nasce una rivoluzione, come viene concepita, qual è il suo periodo di gestazione, può essere abortita, poteva essere evitata? Tutte le domande trovano risposta una per una. E la risposta cade sotto il proprio peso... E così il suo libro diventa, involontariamente, un manuale per rivoluzionari, un libro fondamentale su ciò che i governanti dispotici, assoluti, dittatoriali devono e non devono fare se vogliono mantenere il potere. E la cosa più curiosa è che letto ora, dopo tante rivoluzioni, il libro è ancora attuale come allora. Così lucido. Così tetro... È difficile citare un paragrafo di questo libro... Ce ne sono così tanti da scegliere! Ma se devo riassumere in poche righe i pensieri e le scoperte di Tocqueville, ecco due esempi:
«Bisogna studiare fin nei suoi dettagli la storia amministrativa e finanziaria dell'Ancien Régime, per capire a quali pratiche violente o disoneste può condurre un governo benigno, ma che non ha né visibilità né controllo, a partire dal fatto che il tempo ha consacrato il suo potere e lo ha liberato dalla paura delle rivoluzioni, ultima salvaguardia dei popoli.»
«Vigilare continuamente affinché le classi rimangano separate l'una dall'altra, fare in modo che non possano avvicinarsi e comprendersi nella resistenza comune, e far sì che il governo non debba mai includere, in una sola volta, più di un piccolissimo numero di uomini separati da tutti gli altri (...), ecco in cosa consiste la real politik

Raccogliere, separare, disunire, sorvegliare in maniera permanente, mancanza di trasparenza e di controllo... Ne volete di più? Leggete il libro. Capirete perché a volte le persone sono costrette a ricorrere a questa ultima salvaguardia della propria dignità, della loro stessa esistenza. I giornali non sono come gli uomini: non si vergognano di mostrare le loro miserie.

- Alfonso Vila Francés - Pubblicato il 18/10/2013 su Jot Down Cultural Magazine -

martedì 25 aprile 2023

«La Mitragliatrice QWERTY»

Il demone di Maxwell è un mistero, la cui soluzione è accessibile solo rompendo le pareti della logica, ma è anche un visionario romanzo-mondo che racconta il potere della scrittura di costruire ponti tra le persone. Il protagonista di questa storia, Thomas Quinn, è uno scrittore fallito, figlio di un affermato romanziere con il quale ha avuto per tutta la vita un rapporto di rancore e distanza. I suoi libri non hanno mai trovato fortuna e a lui è rimasta solo l’invidia per Andrew Black, il protetto del padre, che anni prima aveva esordito con un’opera sconvolgente divenuta subito un best seller, per poi scomparire misteriosamente nel nulla. Ora, a distanza di tempo, il defunto padre e il suo ex pupillo sembrano essere tornati a infestare la vita di Thomas attraverso inquietanti lettere e messaggi in segreteria. Una serie di avvenimenti apparentemente inspiegabili, che costringeranno Thomas a mettersi sulle tracce di Black e del suo leggendario secondo romanzo, recuperando il quale spera di riscattare i propri fallimenti. Sarà l’inizio di una indagine surreale tra piani temporali che si intersecano ed enigmi che ne contengono altri: un inseguimento all’interno di un labirinto in cui tutto sembra sfuggire al senso.

(dal risvolto di copertina di: STEVEN HALL. "Il demone di Maxwell". Traduzione di Luca Fusari. IL SAGGIATORE Pagine 340, €23)

Cos’è più demoniaca: la prosa o la fisica?
- L’intreccio di Steven Hall mette insieme le frustrazioni di uno scrittore fallito, l’ombra di un padre autore di bestseller, ulteriori inquietudini, la teoria estrema del matematico James Clerk Maxwell, uno stile dall’esattezza scientifica. Funziona. -
di ORAZIO LABBATE

"Il demone di Maxwell" di Steven Hall è una sorta di thriller metafisico scritto con una lingua svelta e fulminante che alimenta, una specie di spaesamento spirituale. Sembra scritto da Donnie Darko, il protagonista del film cult di Richard Kelly. È come se il ragazzino della pellicola avesse finalmente deciso di pubblicare le teorie sui viaggi del tempo ricavate dal saggio di finzione "La filosofia dei viaggi nel tempo" di Roberta Sparrow. Tutto ciò solo dopo aver preventivamente studiato altri notevoli volumi, stavolta reali, come "La quarta dimensione" di Rudy Rucker e "Flatlandia" di Edwin Abbott Abbott.

Il personaggio principale del romanzo di Hall è Thomas Quinn, scrittore fallito di 33 anni. Il suo esordio, La mitragliatrice qwerty, è l’unico, tra le poche pubblicazioni, ad aver avuto un irrisorio successo. Così, ormai arreso, si guadagna da vivere scrivendo sceneggiature e racconti. Ha perso da giovanissimo i genitori ed è figlio di un grande autore, Stanley Quinn, «un fantasma analogico dentro un cavo analogico», scomparso da sette anni. L’unica rimembranza sensibile sui genitori è un volume, L’enciclopedia Broten delle piante e degli alberi britannici, che ancora accoglie, tra le pagine, petali di rosa. Sono ormai i fantasmi rinsecchiti di un fiore che Thomas ha dal giorno della morte della madre. Il libro, però, che alimenta in Thomas l’invidia e i segreti sulla figura del padre, è Il motore di Cupido, il primo romanzo di Andrew Black, best seller di mille pagine. Un marchingegno narrativo strepitoso e perfetto. Black era stato l’assistente del padre di Thomas ed è uno scrittore enigmatico su cui si raccontano le più assurde e misteriose teorie. È stato infinitamente adorato da Stanley, ricambiato, fino al suggellarsi, tra di due titani della scrittura, un’autentica stima. Senonché, d’un tratto, sulla segreteria del giovane Quinn — mentre si rifugia a casa, a Londra, per rileggere l’esordio di Black e la moglie Imogen è fuori per lavoro — viene lasciato un messaggio dal padre. Che, dunque, sembra essere ancora vivo. A tutta prima la logica suggerisce a Thomas l’ipotesi dell’accavallamento tra le linee e i cavi analogici.

Le cosiddette pseudo-telefonate in cui si sentono parlare sconosciuti durante una comune conversazione giornaliera con un parente. Si aggiunge però, a quest’assurdità quasi paranormale, una busta proprio di Andrew Black, di recente arrivata all’indirizzo di Thomas. Contiene una Polaroid e un bigliettino. La foto è quella di una non catalogabile sfera e il bigliettino stimola il figlio di Stanley a un indovinello, come se l’immagine fosse un’esca. Un tranello della stessa natura del romanzo di Black, che non si può abbandonare dopo averlo letto. Allo stesso modo, Thomas non riesce a dimenticare la persona tenebrosa che Black da sempre incarna, nonché una teoria la quale, forse, spiega la sfera. Si tratta della teoria formulata dal fisico e matematico scozzese James Clerk Maxwell, conosciuta come «Demone ordinatore di Maxwell». Indica la possibilità dell’inversione degli effetti dell’entropia; può cioè invertirsi, a tutti gli effetti, la direzione del tempo.

Sulla scorta di quest’intreccio tra i principi della fisica e la pura narratività, sul Demone di Maxwell si è espresso — e non è un caso — lo scrittore di Casa di foglie, Mark Z. Danielewski: ne evidenzia la forza attrattiva, l’insopprimibile collante, la capacità di ingabbiare la mente del lettore. E in effetti il romanzo di Hall, con frasi che funzionano come impeccabili equazioni matematiche in successione, riesce a mischiare i piani della finzione letteraria con gli studi sul tempo, facendo anche ricorso a grafici che accompagnano la trama. «La parola è l’atomo della mente», dice lo stesso Black, dunque le lettere di un romanzo, va da sé, possiedono un peso non sottovalutabile quando sono vicine, fino ad attrarre o respingere inevitabilmente il lettore, fino a incoronarlo attribuendogli un ruolo più nobile rispetto a quello di un semplice spettatore da divertire. La posizione, in conclusione, di un giocatore di scacchi, di un ermeneuta filosofico, di un professore di matematica narrativa. Per il piacere, ma soprattutto per il dolore della mente:

«In un romanzo pochissime cose sono esattamente come appaiono, e se ci pensate, in realtà non appare quasi niente. Chi legge Il signore degli Anelli non vede Frodo, non sente Gandalf parlare. Ne è convinto, ma è un trucco. In realtà non vede altro che file di simboli scuri su una superficie chiara, in realtà non sente nulla. In un romanzo si ha anche la sensazione dello scorrere del tempo. Questo è un altro trucco».

- di Orazio Labbate - Pubblicato su La Lettura del 2/1/2023 -

lunedì 24 aprile 2023

Achille Mbembe e l'Africa come futuro

«Le metafisiche africane sono serbatoi di immaginazione futuristica»
- In che modo la «ricchezza insondabile» del pensiero animista africano può aiutarci a riflettere sugli sconvolgimenti globali attuali e futuri?
Intervista con lo storico Achille Mbembe, il cui ultimo libro, "La communauté terrestre", è stato appena pubblicato da La Découverte -

E tre! Ultima pietra di una trilogia iniziata con "Politiques de l'inimitié" (2016) e proseguita poi con "Brutalisme" (2020), "La communauté terrestre", di Achille Mbembe, è uscito in libreria il 16 febbraio per "La Découverte". In questo libro denso e stimolante, lo storico camerunense, vincitore nel 2018 del "Premio Ernst Bloch", si propone di mostrare «come il nostro rapporto fondamentale con la Terra non possa che essere altro che quello dell'abitante e del passante», attingendo alla «ricchezza insondabile» del pensiero animista africano. «È in quanto abitanti e passanti, che noi veniamo accolti e ospitati dalla Terra, la quale conserva le tracce del nostro passaggio; quelle tracce che parlano in nostro nome e che ricordano ciò che siamo stati (...) È a questo titolo che essa costituisce l'ultima delle utopie, la pietra angolare di una nuova coscienza planetaria». Così scrive l'uomo che l'anno scorso è diventato direttore della Fondazione dell'Innovazione per la Democrazia. Nel corso della sua recente visita a Parigi, abbiamo avuto modo di rivolgergli delle domande circa quell'«apertura dell'immaginazione» che egli auspica.

Usbek & Rica: Cominciamo dal titolo del suo libro, "La comunità terrestre". Cosa significa per lei questa comunità? Che cosa la rende unica?

Achille Mbembe: La comunità terrestre non è una comunità già esistente, bensì una comunità a venire. Essa, per il momento, non esiste in quanto tale, sebbene qua e là se ne possono vedere le manifestazioni. È una comunità che sarà sempre davanti a noi. Ed è questo che la rende un'utopia; non nel senso di un sogno fantastico, ma nel senso di uno stimolo e di un'esortazione a porci di fronte quelle che sono le nostre responsabilità riguardo al futuro. Un futuro che è oramai planetario, e che coinvolge più che gli uomini; più che gli uomini e gli animali; più che gli uomini, gli animali e le piante; anche gli oggetti e le forze cosmiche con le quali siamo chiamati a risuonare. Questo per quanto riguarda il sogno che faccio qui, oggi. Ma come ho appena detto, ci son delle forze che stanno emergendo quasi ovunque nel mondo da molto tempo, e che si interrogano circa questa possibilità. Lo sforzo fatto in questo libro, è stato quello di raccogliere queste forze sparse, e riunirle intorno a un nome, anche se probabilmente se ne sarebbe potuto trovare benissimo un altro, di nome. Attraverso la scrittura e la critica, ho ritenuto che dovessero essere comunque convocate, per fornire loro strumenti e un orizzonte.

U&R: Perché questo avvenire dovrebbe essere "ormai" globale?

A.M.: In realtà, il nostro futuro è sempre stato planetario. È la consapevolezza della dimensione planetaria del nostro futuro, e che prima non era così acuta come lo è oggi. Adesso appare evidente per almeno tre motivi. In primo luogo, la consapevolezza, spesso spettacolare, che il nostro mondo è limitato, e che le risorse che rendono possibile la vita sulla Terra non sono inesauribili. In secondo luogo, il fatto che stiamo vivendo in un momento di escalation tecnologica senza precedenti nella breve storia dell'umanità sulla Terra. Infine, la comparsa di eventi virali come il Covid-19, o altre pandemie, che mostrano come la nostra condizione biologica sia legata a quella delle altre forze viventi. Tutto ciò ravviva la nostra consapevolezza di appartenere a un pianeta del quale dobbiamo prenderci cura collettivamente.

U&R: Ciò che colpisce, leggendo il suo libro, è il ruolo della tecnologia. Lei prevede che «La tecnologia sarà, sempre più, una delle forze fondamentali del nostro mondo. Gli conferirà una parvenza di unità, ma lo trascinerà anche in un processo di separazione e frammentazione». Perché questo processo è inevitabile?

A.M.: Questo movimento è iniziato molto tempo fa, come mostro nel libro, attingendo in particolare al lavoro dell'etnologo André Leroi-Gourhan. Nella misura in cui esso risale alla nascita stessa dell'umanità, questo sviluppo continuo sembra essere consustanziale alla nostra esistenza e alla nostra evoluzione biologica. Ma il fatto è che ora è stato accelerato da quelle che sono state importanti scoperte recenti. Quelle che ci hanno permesso di penetrare il mistero della materia e di fabbricare strumenti in grado di dominare questa materia. È stato così, ad esempio, all'epoca dell'invenzione della macchina, che ha poi aperto la strada all'evento atomico. Poi, all'indomani dell'invenzione della bomba atomica, il processo di creazione tecnologica si è accelerato e si è concentrato sui processi vitali in quanto tali. Da allora, siamo entrati in un'epoca guidata da quelle che potremmo definire le industrie del silicio [N.d.R.:l'elemento più abbondante nella crosta terrestre dopo l'ossigeno, utilizzato ampiamente soprattutto nel campo dell'elettronica.]. Ossia, tutte quelle industrie che rendono possibile l'avvento dell'era digitale o algoritmica, un'era di astrazione spinta fino alle sue ultime conseguenze. Ed è qui che si inserisce la possibilità della comparsa di un'umanità androide, di cui si parla molto al momento. È questo il new deal che caratterizza il nostro presente: l'ipotesi di un'altra immagine dell'umano, la quale d'ora in poi sarebbe inseparabile dall'oggetto.

U&R: Tra tecnofobia e tecno-soluzione, come si presenta la "terza via" che lei sostiene?

A.M.: Penso che si debba uscire dai due tipi di impasse. Da un lato, dalla convinzione che le grandi questioni relative alla sostenibilità del nostro pianeta e alla sua abitabilità siano esclusivamente di natura tecnica e pertanto soggette solo a soluzioni tecnologiche; il che è un'illusione. Dall'altro, la costruzione di una critica della tecnologia che mira ad abolirla, e per farlo la vuole rendere intrinsecamente malvagia. Una volta eliminati questi due vicoli ciechi, credo che ci sarà spazio per un'appropriazione ragionata della tecnologia. Possiamo ragionevolmente accogliere quelle possibilità che essa apre, e che a volte sono straordinarie. Proprio per questo carattere straordinario, dobbiamo giudicare in modo diverso, cambiare prospettiva e definire in modo nuovo ciò che appartiene alla logica dei mezzi da ciò che appartiene alla logica dei fini. Il rischio è che la logica dei mezzi prevalga su quella dei fini. E che la tecnologia finisca per riprodursi indipendentemente da qualsiasi fine, se non quello della propria continuazione. Ma possiamo convivere con la tecnologia, facendone uno strumento per riparare, per rifare il mondo. Nella tradizione, in particolare, della metafisica africana, che considerava che l'utensile abbia come vocazione fondamentale quella di essere un'estensione del vivente.

U&R: Al di là della questione tecnologica, in che modo queste metafisiche africane da lei evocate potrebbero aiutarci a uscire da quello che chiama "pensiero catastrofista occidentale"?

A.M.: Innanzitutto, alcune precauzioni di principio. Quelle che chiamo metafisiche animistiche africane non sono i resti di un passato esotico, bensì dei serbatoi di un'immaginazione profondamente futuristica. Negli ultimi decenni, queste metafisiche sono state studiate in diverse discipline delle scienze umane e sociali, e sono state viste come creazioni del passato. In realtà, a un attento esame, devo dire che mi ha colpito il loro potenziale attuale e, soprattutto, futuristico. Il romanzo "L'ubriaco nella boscaglia" [N.d.T.: in italiano: La mia vita nel bosco degli spiriti. Il bevitore di vino di palma, Adelphi 1983] dello scrittore nigeriano Amos Tutuola [nel quale un uomo entra nella "Città dei morti", dove scopre un mondo magico di fantasmi, demoni ed esseri soprannaturali, n.d.r.] è un esempio che lo dimostra ampiamente, dal momento che esso porta in sé l'assenza di un'opposizione sistemica tra esseri umani e oggetti. Gli immaginari di questo e di altri romanzi, aprono la strada a delle configurazioni eterogenee e ibride, a innesti inaspettati che sono tipici dell'era digitale che conosciamo oggi. Dimostrano un sorprendente connubio tra materiale e immateriale. Ancora una volta, è importante sottolineare la dimensione profondamente futuristica di queste storie. Se, infatti, come credo, siamo ormai alle soglie di qualcosa di nuovo, ecco che allora diventa essenziale chiedersi dove cercare le risorse che ci permettano di immaginare la continuazione della nostra storia sulla Terra. La metafisica africana, ma anche quella amerindia e altre, possono essere punti di partenza molto ricchi per questa riflessione. A condizione, ovviamente, che si sia disposti ad ascoltarle.

U&R: La categoria di "vivente", così come viene intesa oggi in Occidente, secondo lei tende a escludere il mondo delle cose? Quali conseguenze ha tale esclusione?

A.M.: Nella concezione occidentale del vivente, il mondo delle cose viene generalmente ritenuto come qualcosa di inerziale. Si tratta di forze che l'uomo fa agire: se queste forze sono coinvolte in delle azioni, ciò necessariamente avviene grazie all'intervento dell'uomo. Tutto, in ultima analisi, è riconducibile all'uomo. Ma le metafisiche di cui stiamo parlando, non partono da questo presupposto. Esse ritengono che ciò che chiamiamo vita includa anche il mondo degli oggetti e delle cose. Mettono in risonanza gli esseri umani con la totalità dei loro vicini, e tutti insieme costituiscono gli abitanti della Terra. Al contrario, si sarà notato che la maggior parte delle filosofie di emancipazione e liberazione della tradizione occidentale partono invece proprio dal presupposto che l'uomo non è un oggetto; come, ad esempio, nella tradizione marxista. Ciò implica un confronto ontologico tra queste due entità. Nell'antica metafisica africana, il presupposto appare essere piuttosto quello di una bio-simbiosi, vale a dire, una ridistribuzione generalizzata delle proprietà del vivente tra la molteplicità degli esistenti, dove ognuno dei quali contiene una dimensione o un'altra della vita. Si tratta di una maggior forza di apertura dell'immaginazione, la quale è più appropriata al nostro tempo.

U&R: Per poter uscire da questa situazione di stallo, si arriva a parlare di ecologia "generale". Di che cosa si tratta?

A.M.: Questo concetto si riferisce proprio alla realtà fattuale della molteplicità. Se dovessimo stilare un inventario degli abitanti passati e presenti della Terra (animali, piante, vegetali, liquidi, cose, ecc.), questo sarebbe praticamente infinito. Non saremmo mai in grado di stilare un tale elenco, dal momento che ciò a cui la Terra ha concesso rifugio e ospitalità sarà sempre non-contabile. Tutto ciò sfugge, per definizione, ai nostri strumenti di misurazione e di quantificazione. Da qui deriva il fatto che dovremmo riconoscere, a mio avviso, che c'è una parte della vita, nelle sue varie forme, che è misteriosa, sensibile, onirica. Certo, la ragione calcolatrice ci aiuta a penetrare una parte di questa realtà. Ma da sola non è in grado di svelare tutti i suoi misteri. Questo concetto di ecologia generale lascia spazio alla possibilità di meravigliarsi che ci viene offerta solo dal lato del mistero.

U&R: Ma cosa le fa dire che questa concezione sta diventando dominante? Nel libro, lei assicura ai suoi lettori che il periodo «in cui tutti gli abitanti del pianeta vivevano al ritmo delle certezze eurocentriche (...) è ormai ben lontano». Non è un po' azzardato?

A.M.: Se per "finito" intendiamo la scomparsa totale, allora quel tempo non è finito. Questa convinzione è ancora presente, da qualche parte, tra noi, anche in Africa. Ma è finita nel senso che l'esistenza di questa convinzione e le forme della sua mobilitazione non sembrano più sufficienti. Abbiamo raggiunto la fine del paradigma del calcolo, in quanto base fondamentale della produzione di valore. In questo senso, non potremo più vivere come prima. Questa convinzione non ha più la forza di un tempo, soprattutto nell'epoca del cosiddetto "progresso". È una figura della ragione e della conoscenza che ora è in sciopero, perché non può più garantire lo sviluppo attuale e futuro della vita sulla Terra. È diventato assolutamente chiaro che le condizioni di abitabilità del pianeta non possono più essere articolate unicamente in funzione della ragione ereditata dalle nazioni occidentali.

U&R: "Da qui in poi, le vecchie pulsioni imperialiste possono essere coniugate solo con un passato di nostalgia", scrive così anche lei. La Cina contemporanea non ne è forse un controesempio? Dopotutto, si tratta di una nazione i cui leader continuano a pensare in termini di espansione e di estrattivismo, definendosi al contempo profondamente "lungimiranti"...

A.M.: Uno dei paradossi della Cina consiste nel fatto che che sta aprendo strade che dovrebbero essere "del futuro", ma che in realtà conducono invece al passato. Infatti, il modello produttivista che la Cina ha adottato, e attraverso il quale sta articolando il suo progetto di potenza in ascesa, è un modello profondamente retrogrado. La Cina sta fondamentalmente cercando di fare in modo più efficiente ciò che l'Occidente ha fatto in precedenza. Non propone affatto una via d'uscita dal modello occidentale, ma piuttosto cerca un modo per rendere il modello occidentale più efficace di quanto si sia mai visto nella storia dell'Occidente stesso. Propone di battere l'Occidente al suo stesso gioco. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che è un potere senza "idea", nel senso filosofico del termine. È quasi prometeica nel suo progetto, senza però rendersi conto che questa strada porta in un vicolo cieco. Sono convinto che il futuro le darà torto.

Intervista realizzata da Pablo Maille per Usbek & Rica il 23/2/2023 - fonte: Outras Palavras