sabato 22 aprile 2023

Quasi come !!

Ci occupiamo, di seguito, di un frammento di poche pagine di Walter Benjamin, intitolato Kapitalismus als Religion [Capitalismo come religione], scritto intorno al 1921 e pubblicato solo postumo, il quale è stato recentemente rieditato con una serie di commenti aggiornati (Baecker 2009). Questo frammento è innegabilmente utile al dibattito sul carattere del denaro moderno e sulla sua crisi, come intendiamo fare in questo saggio. Scrive Benjamin: «Nel capitalismo si intravede una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente a soddisfare le medesime preoccupazioni, i tormenti e le inquietudini cui un tempo rispondevano le cosiddette religioni» (Benjamin 1985/1921, p. 100). L'equiparazione immediata del capitalismo alla religione non è priva di problemi, in quanto si astrae troppo rispetto alla profonda frattura esistente tra le formazioni costituite in forma religiosa, da un lato, e il moderno feticcio del capitale, dall'altro; la stessa cosa vale anche per quel che attiene ai quelli che vogliono essere dei riferimenti legittimanti, i quali sono completamente diversi tra loro, in termini qualitativi. Tuttavia, questo tentativo di approccio ha una sua giustificazione se consideriamo il fatto che la tematizzazione del reale carattere metafisico del capitale, è stata completamente insabbiata dalla storia delle teorie. E fino a oggi ha fatto pochi progressi! Ora, Benjamin fa riferimento a diverse caratteristiche religiose del feticcio del capitale (che non designa in questo modo): «In primo luogo, il capitalismo è una pura religione di culto, forse la più estrema che sia mai esistita. In essa, tutto ha significato solo in riferimento al culto; non conosce dogmi particolari, né teologia. Da questo punto di vista, l'utilitarismo acquista una colorazione religiosa. A questa concrezione del culto è legata una seconda caratteristica del capitalismo: la durata permanente del culto (...) Non c'è "giorno feriale" in esso, non c'è giorno che non sia un giorno di festa nel senso terrificante dello sviluppo di tutta la pompa sacrale, dello sforzo più estremo di colui che adora. Questo culto è, in terzo luogo, colpevole. Si può ipotizzare che il capitalismo sia il primo caso di una setta che non cerca la remissione, ma il senso di colpa. In questo senso, questo sistema religioso fa parte della caduta di un enorme movimento. Un'enorme coscienza di colpa che non sa come redimersi ricorre al culto, non per espiare questa colpa, ma per renderla universale, per infonderla nella coscienza (...) La trascendenza divina è caduta. Ma Dio non è morto, è integrato nel destino umano (...)» (Benjamin, ivi, pp. 100s.).

Il momento più debole, poiché più povero, dell'argomentazione di Benjamin è il riferimento al carattere cultuale della relazione di capitale. È una mera analogia che si ferma alla superficie dei fenomeni. Certo, le azioni quotidiane del capitalismo - dall'orologio alla cassa del supermercato allo sportello bancario - ricordano, in maniera quasi ridicola, i grotteschi rituali del culto, i quali ormai da tempo sono diventati un luogo comune nella letteratura. A tal proposito Benjamin paragona le «banconote di diversi Stati» alle «effigi dei santi di diverse religioni» (ivi., p. 102). Se ci atteniamo a questa analogia, vediamo che non è vero che il culto capitalista manchi di dogmatica e di teologia; perché allora cos'è l'economia politica se non questo? A tale teologia economica dogmatica corrisponde, come «religione per la vita quotidiana» (Marx), una comune ideologia popolare a uso domestico, proprio allo stesso modo in cui un tempo la devozione popolare corrispondeva alla sottigliezza teologica. Ma sebbene si potrebbe anche ricorrere a un'altra analogia: ovvero, il già citato paragone con una malattia mentale. In questo caso, la razionalità capitalistica dell'Illuminismo finirebbe per essere qualcosa di assai simile al ragionamento interno di un sistema patologico, che può essere formulato anche dai paranoici, sotto forma di una bizzarra "scienza", di cui potremmo trovare tracce negli archivi delle cliniche psichiatriche.

La differenza sarebbe allora solo tra una follia puramente soggettiva e personale, e un'altra oggettiva e collettiva la quale  si è travestita da sistema sociale e da "scienza" riconosciuta. Ora però, si dà il caso che la possibilità di varie analogie (religione, demenza) indichi che, pur essendo di fronte a qualcosa di in qualche modo paragonabile, non si tratta della stessa cosa. Ed è anche vero che la seconda caratteristica menzionata da Benjamin - la durata permanente del culto - è empiricamente corretta, nella misura in cui tutte le manifestazioni della vita nel capitalismo sono permeate, con densità storicamente crescente, dalla logica della "ricchezza astratta", e dai suoi vincoli all'azione. Ma, in fondo, è proprio questo a configurare, come sottolinea lo stesso Benjamin, una differenza rispetto alle formazioni agrarie di costituzione religiosa, dove il quotidiano e il rituale festivo tendevano a essere separati, quanto meno in termini esteriori. Si potrebbe senza dubbio ipotizzare la caratteristica della permanenza del culto anche in riferimento alle relazioni arcaiche, preistoriche, nelle quali è probabile che tutte le azioni, senza eccezione, fossero di carattere rituale e direttamente associate alla relazione sacrificale. A questo punto, si potrebbe già intravedere l'intuizione funesta secondo la quale il feticcio del capitale sia in qualche modo non solo un "progresso" al di là delle costituzioni religiose, ma allo stesso tempo anche il ritorno modificato di qualcosa di arcaico, e che quindi la ragione illuministica del capitalismo si riduca, nel suo nucleo, a una barbarie quasi arcaica.

Ma, per l'appunto, tutto questo continua a essere sempre «quasi»; pertanto non è così che l'identificazione immediata del capitalismo «come» religione può avere più senso. In realtà, il capitalismo deve essere qualcosa di peggio di una religione.

(Robert Kurz - da "Geld ohne Wert " , 2012 )

Nessun commento: