mercoledì 12 aprile 2023

Paura…

Avrei potuto essere stato io il cecchino nella scuola...
- di Paulo Aranã -

Ciò che mi terrorizza di più di questi attacchi a scuola, è che ricordo ancora la mia adolescenza e so che anch'io avrei potuto essere uno di questi ragazzi. C'è stato un periodo, tra la prima e la seconda media, nel quale la scuola era un luogo estremamente frustrante per me. Avevo pochi amici, le ragazze che mi piacevano non sapevano che esistevo, ogni giorno venivo ridicolizzato da un compagno di classe e venivo preso di mira da un ragazzo più grande in corridoio. Ricordo la rabbia che provavo. Ricordo le cose che scrivevo e i disegni che facevo sul bordo del mio quaderno. Ricordo che fantasticavo di vendicarmi, di fare in modo che tutti mi guardassero, mi riconoscessero e mi rispettassero, anche solo per paura.

Un poliziotto o una guardia di sicurezza a scuola non avrebbero fatto alcuna differenza. Anch'io disprezzavo un po' me stesso, sentivo di non avere nulla da perdere, sentivo che non valeva la pena di rimanere vivo, e tutto ciò che volevo era causare dolore e paura a chiunque pensavo che lo meritasse. Ciò che mi ha salvato è stato l'aver cambiato città e scuola ed essere stato accettato in una classe più grande, con gente assai diversa. È stato grazie ad aver fatto amicizia, a vivere con persone che erano diverse da me, e a iniziare ad avere una vita sociale più attiva e sentirmi così parte di qualcosa. Ciò che mi ha salvato è stato avere dei genitori che mi hanno sempre accettato, ascoltato e che mi hanno anche posto dei limiti, oltre a stimolare sempre il mio senso critico e la mia empatia. Ciò che mi ha salvato è stato l'accesso al mondo, ai libri, ai film, alla musica e ai viaggi, tutte cose che hanno ampliato i miei orizzonti, che mi hanno stimolato a esprimermi e che hanno sempre costituito un rifugio, una distrazione e un luogo sicuro nei momenti peggiori. Ciò che mi ha salvato è stato avere intorno un ambito di accoglienza e di appartenenza, che ha costituito così un supporto e una struttura la quale mi ha permesso di capire e gestire tutta la frustrazione e la rabbia che provavo, indirizzando questa energia verso altri ambiti, altri interessi, altre forme di espressione.

Se non avessi avuto tutta questa struttura, se fossi stata accolto da un altro gruppo di persone, anch'esse frustrate e arrabbiate come me, se fossi entrato in contatto con delle idee che stimolavano l'odio che provavo, a entrare in una scuola per fare del male agli altri avrei potuto essere io. Per quanto in simili momenti tutto ciò che si vorrebbe è allontanarci il più possibile da tutte queste persone, è invece quando riusciamo a riconoscerci in loro che capiamo che si tratta di tutti noi e del mondo in cui viviamo e non solo di chi è stato ucciso ed è morto. Più che di poliziotti, guardie di sicurezza o insegnanti armati, abbiamo bisogno di comunità scolastiche forti, con insegnanti, studenti, genitori e vicini che partecipino e costruiscano un luogo di accoglienza, inclusione e fiducia, invece che di esclusione, repressione e sorveglianza. Molto più che di telecamere, sbarre o metal detector abbiamo bisogno di accesso al tempo libero, allo sport, alle arti, a spazi di convivenza, di incontro con l'altro, con la differenza, a spazi di socializzazione. Molto più che di armi da fuoco nelle mani della popolazione, abbiamo bisogno di una società che pratichi lo sguardo sull'altro, l'empatia, la cura. Una società che non individualizzi tutto e non fugga dalla responsabilità collettiva di mettere le persone al mondo e di ciò che poi accade loro. Gli attacchi alle scuole non sono opera di mostri, tanto meno di debolezze individuali o di fallimenti morali. Gli attacchi alle scuole sono il risultato di un sistema fallito, il quale non mantiene ciò che promette, e non lo mantiene neppure ai suoi figli prediletti. Gli attacchi alle scuole sono sintomi di un terrore molto più grande. Vuoti, frustrati, induriti, soli e insensibili al dolore degli altri, immersi in quelli che sono degli standard irraggiungibili di mascolinità, di eterosessualità, di ricchezza, di amore, di successo e altro ancora... Non che questo giustifichi o tolga la colpa dalle spalle di coloro che scelgono di compiere una simile violenza, ma anche sottrarsi alla nostra responsabilità nei confronti del mondo fingendo che le nostre scelte siano puramente individuali costituisce una colpa.

Certo, occorre adottare tutta una serie di atteggiamenti, dal monitoraggio online e dalle task force investigative alla presenza di psicologi nel corpo docente, dai piani di evacuazione e di emergenza e dalla formazione nelle scuole alle strategie di de-radicalizzazione. Ma oltre a questo, dobbiamo anche costruire la speranza, offrire altre possibilità, altre prospettive, altri mondi e vite possibili, perché quelle che abbiamo oggi non ci bastano, né ci vanno più bene. Il pianeta è malato, la società è malata e il risultato sono gli spasmi sempre più crudeli e violenti di un sistema politico ed economico che si rifiuta di morire, anche se pur di continuare a giustificarsi ed esistere ha bisogno di uccidere molti altri. Il capitalismo è stato costruito sul sangue. Dai progetti coloniali alle guerre imperialiste. Violenza di razza, di classe, di genere, violenza contro le sessualità, contro le identità, violenza nelle scuole. Quando tutto ciò che è stato seminato è morte, non ci si può aspettare di raccogliere vita. Potrei esserci stato io. Dietro il grilletto, davanti alla canna o essere un padre che riceve la notizia della morte di un figlio. Non si può accettare di vivere in un mondo in cui tale possibilità è una realtà. Non ci si può semplicemente abituare alla notizia. È necessario coltivare il nuovo, piantare e raccogliere la vita.

- scritto da Paulo Aranã, sul suo Twitter - fonte: Outras Palavras -

Nessun commento: