Discussione sulla razza è un confronto fra l’antropologa bianca Margaret Mead e lo scrittore Nero James Baldwin che assume il valore di un’eccezionale testimonianza. Il volume si presenta come una conversazione lunga e approfondita che segue un andamento musicale: dall’adagio al mosso e al movimentato per arrivare allo scontro serrato e intenso. È un dibattito che tocca tutti i temi della scottante attualità politica e culturale, dove protagonista assoluto è il dramma razziale e il suo riverbero sulla tormentata coscienza umana. Il tema del razzismo è però declinato e analizzato in tutte le sue sfumature, tanto da divenire un sistema interpretativo utile a leggere ogni forma di potere in cui si esercita il sopruso e la violenza sugli altri: i bianchi sui Neri, ma anche le società ricche su quelle povere, gli uomini sulle donne, i Paesi avanzati su quelli arretrati. Queste due grandi personalità della scena culturale internazionale non solo di ieri offrono il meglio di sé, mettendo a fuoco in modo inquietante e drammatico la problematica sociale, morale e politica americana: dalla violenza nei ghetti alla contestazione giovanile, dal consumo esasperato di droga all’inquinamento ambientale, dalla radicalizzazione della lotta politica alla questione dell’insicurezza e del logorio delle istituzioni… Mead e Baldwin attingono dalle loro esperienze personali per suggerire come costruire una società migliore retta dall’uguaglianza.
(dal risvolto di copertina di: "Discussione sulla razza. Sciogliere i nodi su storia, culture e razzismi". di James Baldwin, Margaret Mead. Meltemi, pagg. 244, € 18)
Quanto è inutile tirar giù i monumenti
- di Stefano De Matteis -
Tra il 26 e il 27 agosto del 1970 Margaret Mead e James Baldwin discussero per sette ore e mezza. Dalla conversazione nasce A Rap on Race che torna oggi in libreria. Un dialogo ma anche uno scontro tra vite, storie e prospettive molto diverse. Tra l’ottimismo dell’antropologa che sostiene «stiamo ormai per vedere la fine della supremazia bianca, dello sciovinismo maschile e di altre due o tre cose così» e il «realismo» dello scrittore che afferma «I poliziotti non mi chiedono come mi chiamo prima di premere il grilletto». Discussione sulla razza ha cinquant’anni. E purtroppo non li dimostra. Avrei preferito presentare un documento d’archivio o un reperto archeologico, anziché sostenere che gli argomenti che tocca sono ancora attualissimi. La polizia, non solo in America, continua ad ammazzare, soprattutto le persone di colore, e la fine della supremazia bianca, del nazionalismo e delle tante forme di maschilismo più o meno camuffate ancora non si vede. L’idea di metterli assieme fu geniale.
Fin dal suo primo lavoro, L’adolescenza in Samoa, Margaret Mead fu donna di grande successo. Abbracciò numerose crociate «democratiche»: contro l’eugenetica; contro le tesi dell’ereditarietà dei comportamenti che condussero l’America a praticare la castrazione; contro l’idea di una civiltà occidentale superiore alle altre definite «primitive»… Argomenti sicuramente indigesti per la liberale e progressista società americana. Più in generale, la questione della razza era tra gli interessi del «circolo» di Franz Boas alla Columbia University, sebbene nessuno di loro vivesse questo conflitto sulla propria pelle.
All’opposto James Baldwin aveva scoperto ben presto di essere solo un Nero di Harlem e di avere davanti a sé «quella specie di massa monolitica formata dai padroni, dagli usurai e dai poliziotti che ti rompevano le ossa». E fuggì a Parigi, dove scoprì di non essere solo un Nero, ma un americano di colore. Ciò gli permise di capire che lui stesso, con il suo corpo e la sua pelle, era una contraddizione tanto incandescente da poterla considerare una bomba, «perché sono un Nero americano in America»: il suo corpo incarnava l’americano e il suo nemico, la vittima e il carnefice, il servo e il padrone… Tutto questo Baldwin lo utilizzò per farsi esempio e modello, offrendosi come un cristo in croce reale e simbolico sul palcoscenico della letteratura e della storia. Ed è questa linea – che continuamente traduce la traccia del colore in quella della consapevolezza e della responsabilità – uno dei fili che segna l’intero dialogo tra i due accendendosi fino a infiammarsi. Ma trovando anche punti di contatto importanti.
L’antropologa cerca di compensare le posizioni “militanti” dello scrittore con una articolazione di riferimenti: la condizione femminile, le tante forme di sottomissione sociale, casi diversi di sopraffazione politica… per giungere a condividere un argomento centrale, quello del potere, che lei definisce «diseguale»: solo riequilibrando o abbattendo le posizioni di potere deliberato, le varie forme di razzismo possono essere cancellate. Su questo Baldwin è ovviamente d’accordo: «La morale […] è che quello che noi chiamiamo razzismo sembrerebbe essere endemico della natura umana. Quando ci si lagna del razzismo e lo si combatte, la cosa di cui parli è in realtà il potere». Da qui la ricaduta nella nostra attualità. Come rompere quella “disugualità”? Come stabilire una situazione di eguaglianza e omogeneità? Entrambi gli autori sanno bene, ad esempio, che il termine integrazione, oggi discutibile, può rivelarsi pericoloso, perché denuncia essenzialmente una perdita di Sé tramite l’adeguamento all’altro. Il rischio principale è di prendere l’altro a modello, di dimenticare chi e cosa si è, acquisendo modi e forme di comportamento estranee.
Il passo da fare è in tutt’altra direzione: mirare invece al riconoscimento. Innanzitutto perché è un atto reciproco, doppio, che riguarda entrambi i soggetti in causa i quali prima di affrontare l’altro devono misurarsi anzitutto con se stessi. Come osserva Baldwin sulla scorta di Malcom X, «il bianco è uno stato d’animo. Il grande problema, mia cara Margaret, è come si comincia ad attaccare questo stato d’animo»: ciò significa non solo partire dalla presenza immediata e dal contatto, ma implica che venga messa in discussione anche la condizione storica, il passato, che pesa continuamente nelle nostre azioni e nei comportamenti. In Italia, ad esempio, il nostro passato coloniale non è mai stato elaborato collettivamente. Basti pensare che nei libri di scuola non ve n’è traccia. A questo si aggiunge l’assenza di un lavoro culturale diffuso e capillare sulla memoria, del colonialismo come del fascismo in genere, che produce una strana percezione: gli italiani si immaginano indenni dall’aver compiuto azioni colonialiste. Ma, come insegna Ernesto de Martino, sappiamo bene che quando c’è rimosso, non può esserci rimorso.
Inutile imbrattare o tirar giù monumenti, il lavoro culturale resta una delle principali chiavi di lettura per comprendere e mettere in discussione i «nostri» comportamenti verso i migranti in genere o verso le persone di colore in particolare. Quando non ci sono elaborazioni collettive, pratiche condivise e pedagogia diffusa è possibile che tutto si trasformi in facile slogan xenofobo, o che esplodano gesti estremi che ci riportano alla densità e all’attualità delle pagine di questo libro.
- Stefano De Matteis - Pubblicato su Domenica del 27/11/2022 -
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