«Le metafisiche africane sono serbatoi di immaginazione futuristica»
- In che modo la «ricchezza insondabile» del pensiero animista africano può aiutarci a riflettere sugli sconvolgimenti globali attuali e futuri?
Intervista con lo storico Achille Mbembe, il cui ultimo libro, "La communauté terrestre", è stato appena pubblicato da La Découverte -
E tre! Ultima pietra di una trilogia iniziata con "Politiques de l'inimitié" (2016) e proseguita poi con "Brutalisme" (2020), "La communauté terrestre", di Achille Mbembe, è uscito in libreria il 16 febbraio per "La Découverte". In questo libro denso e stimolante, lo storico camerunense, vincitore nel 2018 del "Premio Ernst Bloch", si propone di mostrare «come il nostro rapporto fondamentale con la Terra non possa che essere altro che quello dell'abitante e del passante», attingendo alla «ricchezza insondabile» del pensiero animista africano. «È in quanto abitanti e passanti, che noi veniamo accolti e ospitati dalla Terra, la quale conserva le tracce del nostro passaggio; quelle tracce che parlano in nostro nome e che ricordano ciò che siamo stati (...) È a questo titolo che essa costituisce l'ultima delle utopie, la pietra angolare di una nuova coscienza planetaria». Così scrive l'uomo che l'anno scorso è diventato direttore della Fondazione dell'Innovazione per la Democrazia. Nel corso della sua recente visita a Parigi, abbiamo avuto modo di rivolgergli delle domande circa quell'«apertura dell'immaginazione» che egli auspica.
Usbek & Rica: Cominciamo dal titolo del suo libro, "La comunità terrestre". Cosa significa per lei questa comunità? Che cosa la rende unica?
Achille Mbembe: La comunità terrestre non è una comunità già esistente, bensì una comunità a venire. Essa, per il momento, non esiste in quanto tale, sebbene qua e là se ne possono vedere le manifestazioni. È una comunità che sarà sempre davanti a noi. Ed è questo che la rende un'utopia; non nel senso di un sogno fantastico, ma nel senso di uno stimolo e di un'esortazione a porci di fronte quelle che sono le nostre responsabilità riguardo al futuro. Un futuro che è oramai planetario, e che coinvolge più che gli uomini; più che gli uomini e gli animali; più che gli uomini, gli animali e le piante; anche gli oggetti e le forze cosmiche con le quali siamo chiamati a risuonare. Questo per quanto riguarda il sogno che faccio qui, oggi. Ma come ho appena detto, ci son delle forze che stanno emergendo quasi ovunque nel mondo da molto tempo, e che si interrogano circa questa possibilità. Lo sforzo fatto in questo libro, è stato quello di raccogliere queste forze sparse, e riunirle intorno a un nome, anche se probabilmente se ne sarebbe potuto trovare benissimo un altro, di nome. Attraverso la scrittura e la critica, ho ritenuto che dovessero essere comunque convocate, per fornire loro strumenti e un orizzonte.
U&R: Perché questo avvenire dovrebbe essere "ormai" globale?
A.M.: In realtà, il nostro futuro è sempre stato planetario. È la consapevolezza della dimensione planetaria del nostro futuro, e che prima non era così acuta come lo è oggi. Adesso appare evidente per almeno tre motivi. In primo luogo, la consapevolezza, spesso spettacolare, che il nostro mondo è limitato, e che le risorse che rendono possibile la vita sulla Terra non sono inesauribili. In secondo luogo, il fatto che stiamo vivendo in un momento di escalation tecnologica senza precedenti nella breve storia dell'umanità sulla Terra. Infine, la comparsa di eventi virali come il Covid-19, o altre pandemie, che mostrano come la nostra condizione biologica sia legata a quella delle altre forze viventi. Tutto ciò ravviva la nostra consapevolezza di appartenere a un pianeta del quale dobbiamo prenderci cura collettivamente.
U&R: Ciò che colpisce, leggendo il suo libro, è il ruolo della tecnologia. Lei prevede che «La tecnologia sarà, sempre più, una delle forze fondamentali del nostro mondo. Gli conferirà una parvenza di unità, ma lo trascinerà anche in un processo di separazione e frammentazione». Perché questo processo è inevitabile?
A.M.: Questo movimento è iniziato molto tempo fa, come mostro nel libro, attingendo in particolare al lavoro dell'etnologo André Leroi-Gourhan. Nella misura in cui esso risale alla nascita stessa dell'umanità, questo sviluppo continuo sembra essere consustanziale alla nostra esistenza e alla nostra evoluzione biologica. Ma il fatto è che ora è stato accelerato da quelle che sono state importanti scoperte recenti. Quelle che ci hanno permesso di penetrare il mistero della materia e di fabbricare strumenti in grado di dominare questa materia. È stato così, ad esempio, all'epoca dell'invenzione della macchina, che ha poi aperto la strada all'evento atomico. Poi, all'indomani dell'invenzione della bomba atomica, il processo di creazione tecnologica si è accelerato e si è concentrato sui processi vitali in quanto tali. Da allora, siamo entrati in un'epoca guidata da quelle che potremmo definire le industrie del silicio [N.d.R.:l'elemento più abbondante nella crosta terrestre dopo l'ossigeno, utilizzato ampiamente soprattutto nel campo dell'elettronica.]. Ossia, tutte quelle industrie che rendono possibile l'avvento dell'era digitale o algoritmica, un'era di astrazione spinta fino alle sue ultime conseguenze. Ed è qui che si inserisce la possibilità della comparsa di un'umanità androide, di cui si parla molto al momento. È questo il new deal che caratterizza il nostro presente: l'ipotesi di un'altra immagine dell'umano, la quale d'ora in poi sarebbe inseparabile dall'oggetto.
U&R: Tra tecnofobia e tecno-soluzione, come si presenta la "terza via" che lei sostiene?
A.M.: Penso che si debba uscire dai due tipi di impasse. Da un lato, dalla convinzione che le grandi questioni relative alla sostenibilità del nostro pianeta e alla sua abitabilità siano esclusivamente di natura tecnica e pertanto soggette solo a soluzioni tecnologiche; il che è un'illusione. Dall'altro, la costruzione di una critica della tecnologia che mira ad abolirla, e per farlo la vuole rendere intrinsecamente malvagia. Una volta eliminati questi due vicoli ciechi, credo che ci sarà spazio per un'appropriazione ragionata della tecnologia. Possiamo ragionevolmente accogliere quelle possibilità che essa apre, e che a volte sono straordinarie. Proprio per questo carattere straordinario, dobbiamo giudicare in modo diverso, cambiare prospettiva e definire in modo nuovo ciò che appartiene alla logica dei mezzi da ciò che appartiene alla logica dei fini. Il rischio è che la logica dei mezzi prevalga su quella dei fini. E che la tecnologia finisca per riprodursi indipendentemente da qualsiasi fine, se non quello della propria continuazione. Ma possiamo convivere con la tecnologia, facendone uno strumento per riparare, per rifare il mondo. Nella tradizione, in particolare, della metafisica africana, che considerava che l'utensile abbia come vocazione fondamentale quella di essere un'estensione del vivente.
U&R: Al di là della questione tecnologica, in che modo queste metafisiche africane da lei evocate potrebbero aiutarci a uscire da quello che chiama "pensiero catastrofista occidentale"?
A.M.: Innanzitutto, alcune precauzioni di principio. Quelle che chiamo metafisiche animistiche africane non sono i resti di un passato esotico, bensì dei serbatoi di un'immaginazione profondamente futuristica. Negli ultimi decenni, queste metafisiche sono state studiate in diverse discipline delle scienze umane e sociali, e sono state viste come creazioni del passato. In realtà, a un attento esame, devo dire che mi ha colpito il loro potenziale attuale e, soprattutto, futuristico. Il romanzo "L'ubriaco nella boscaglia" [N.d.T.: in italiano: La mia vita nel bosco degli spiriti. Il bevitore di vino di palma, Adelphi 1983] dello scrittore nigeriano Amos Tutuola [nel quale un uomo entra nella "Città dei morti", dove scopre un mondo magico di fantasmi, demoni ed esseri soprannaturali, n.d.r.] è un esempio che lo dimostra ampiamente, dal momento che esso porta in sé l'assenza di un'opposizione sistemica tra esseri umani e oggetti. Gli immaginari di questo e di altri romanzi, aprono la strada a delle configurazioni eterogenee e ibride, a innesti inaspettati che sono tipici dell'era digitale che conosciamo oggi. Dimostrano un sorprendente connubio tra materiale e immateriale. Ancora una volta, è importante sottolineare la dimensione profondamente futuristica di queste storie. Se, infatti, come credo, siamo ormai alle soglie di qualcosa di nuovo, ecco che allora diventa essenziale chiedersi dove cercare le risorse che ci permettano di immaginare la continuazione della nostra storia sulla Terra. La metafisica africana, ma anche quella amerindia e altre, possono essere punti di partenza molto ricchi per questa riflessione. A condizione, ovviamente, che si sia disposti ad ascoltarle.
U&R: La categoria di "vivente", così come viene intesa oggi in Occidente, secondo lei tende a escludere il mondo delle cose? Quali conseguenze ha tale esclusione?
A.M.: Nella concezione occidentale del vivente, il mondo delle cose viene generalmente ritenuto come qualcosa di inerziale. Si tratta di forze che l'uomo fa agire: se queste forze sono coinvolte in delle azioni, ciò necessariamente avviene grazie all'intervento dell'uomo. Tutto, in ultima analisi, è riconducibile all'uomo. Ma le metafisiche di cui stiamo parlando, non partono da questo presupposto. Esse ritengono che ciò che chiamiamo vita includa anche il mondo degli oggetti e delle cose. Mettono in risonanza gli esseri umani con la totalità dei loro vicini, e tutti insieme costituiscono gli abitanti della Terra. Al contrario, si sarà notato che la maggior parte delle filosofie di emancipazione e liberazione della tradizione occidentale partono invece proprio dal presupposto che l'uomo non è un oggetto; come, ad esempio, nella tradizione marxista. Ciò implica un confronto ontologico tra queste due entità. Nell'antica metafisica africana, il presupposto appare essere piuttosto quello di una bio-simbiosi, vale a dire, una ridistribuzione generalizzata delle proprietà del vivente tra la molteplicità degli esistenti, dove ognuno dei quali contiene una dimensione o un'altra della vita. Si tratta di una maggior forza di apertura dell'immaginazione, la quale è più appropriata al nostro tempo.
U&R: Per poter uscire da questa situazione di stallo, si arriva a parlare di ecologia "generale". Di che cosa si tratta?
A.M.: Questo concetto si riferisce proprio alla realtà fattuale della molteplicità. Se dovessimo stilare un inventario degli abitanti passati e presenti della Terra (animali, piante, vegetali, liquidi, cose, ecc.), questo sarebbe praticamente infinito. Non saremmo mai in grado di stilare un tale elenco, dal momento che ciò a cui la Terra ha concesso rifugio e ospitalità sarà sempre non-contabile. Tutto ciò sfugge, per definizione, ai nostri strumenti di misurazione e di quantificazione. Da qui deriva il fatto che dovremmo riconoscere, a mio avviso, che c'è una parte della vita, nelle sue varie forme, che è misteriosa, sensibile, onirica. Certo, la ragione calcolatrice ci aiuta a penetrare una parte di questa realtà. Ma da sola non è in grado di svelare tutti i suoi misteri. Questo concetto di ecologia generale lascia spazio alla possibilità di meravigliarsi che ci viene offerta solo dal lato del mistero.
U&R: Ma cosa le fa dire che questa concezione sta diventando dominante? Nel libro, lei assicura ai suoi lettori che il periodo «in cui tutti gli abitanti del pianeta vivevano al ritmo delle certezze eurocentriche (...) è ormai ben lontano». Non è un po' azzardato?
A.M.: Se per "finito" intendiamo la scomparsa totale, allora quel tempo non è finito. Questa convinzione è ancora presente, da qualche parte, tra noi, anche in Africa. Ma è finita nel senso che l'esistenza di questa convinzione e le forme della sua mobilitazione non sembrano più sufficienti. Abbiamo raggiunto la fine del paradigma del calcolo, in quanto base fondamentale della produzione di valore. In questo senso, non potremo più vivere come prima. Questa convinzione non ha più la forza di un tempo, soprattutto nell'epoca del cosiddetto "progresso". È una figura della ragione e della conoscenza che ora è in sciopero, perché non può più garantire lo sviluppo attuale e futuro della vita sulla Terra. È diventato assolutamente chiaro che le condizioni di abitabilità del pianeta non possono più essere articolate unicamente in funzione della ragione ereditata dalle nazioni occidentali.
U&R: "Da qui in poi, le vecchie pulsioni imperialiste possono essere coniugate solo con un passato di nostalgia", scrive così anche lei. La Cina contemporanea non ne è forse un controesempio? Dopotutto, si tratta di una nazione i cui leader continuano a pensare in termini di espansione e di estrattivismo, definendosi al contempo profondamente "lungimiranti"...
A.M.: Uno dei paradossi della Cina consiste nel fatto che che sta aprendo strade che dovrebbero essere "del futuro", ma che in realtà conducono invece al passato. Infatti, il modello produttivista che la Cina ha adottato, e attraverso il quale sta articolando il suo progetto di potenza in ascesa, è un modello profondamente retrogrado. La Cina sta fondamentalmente cercando di fare in modo più efficiente ciò che l'Occidente ha fatto in precedenza. Non propone affatto una via d'uscita dal modello occidentale, ma piuttosto cerca un modo per rendere il modello occidentale più efficace di quanto si sia mai visto nella storia dell'Occidente stesso. Propone di battere l'Occidente al suo stesso gioco. Da questo punto di vista, si potrebbe dire che è un potere senza "idea", nel senso filosofico del termine. È quasi prometeica nel suo progetto, senza però rendersi conto che questa strada porta in un vicolo cieco. Sono convinto che il futuro le darà torto.
Intervista realizzata da Pablo Maille per Usbek & Rica il 23/2/2023 - fonte: Outras Palavras
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