giovedì 13 aprile 2023

Una specie di storia simultanea, sincronizzata…

Sui situazionisti
- Intervista inedita di Kristin Ross a Henri Lefebvre -

La «critica della vita quotidiana» di Henri Lefebvre, ha ispirato i situazionisti nell'ambito di un rapporto di un'amicizia durato «circa tra i quattro e i cinque anni». In questa intervista inedita - realizzata nel 1983 da Kristin Ross - Henri Lefebvre racconta come si è instaurato e costruito questo rapporto, e intorno a quali tematiche: nuovi modi di camminare la città e di percorrerla, la necessità di trasformare lo spazio urbano, e la Comune di Parigi intesa come festa. Tra Amsterdam, Strasburgo, Navarrenx e Parigi - dal gruppo CoBrA al maggio del '68 - Lefebvre ripercorre quello che è stato il grande affresco del momento «situ», parlando delle sue audacie e dei suoi settarismi. In bilico tra il romanzo di una rottura e una testimonianza benevola, Lefebvre ripensa e ricorda tutta una successione di innovazioni teoriche, artistiche e militanti che hanno stravolto la teoria e la pratica rivoluzionaria. L'intervista ha avuto luogo nel 1983, all'Università della California, a Santa Cruz, quando Lefebvre, invitato da Frederic Jameson, era venuto in visita.


Henri Lefebvre: Ha intenzione di farmi delle domande sui situazionisti? Perché avrei qualcosa di cui vorrei parlare..

Kristin Ross : Bene, proceda pure.

H.L. :  I situazionisti... è un argomento delicato, che mi sta molto a cuore. Per certi versi mi tocca molto da vicino, dal momento che li conoscevo molto bene. Siamo stati amici. L'amicizia è durata dal 1957 al 1961 o al '62, vale a dire per circa cinque anni. Poi abbiamo avuto un litigio che si è aggravato sempre più, e questo è avvenuto in delle condizioni che io stesso non capisco bene, ma che potrei descrivere. In conclusione, si può dire che sia stata una storia d'amore finita male, molto male. Ci sono storie d'amore che iniziano bene e finiscono male. E questa era una di quelle. Ricordo un'intera notte passata a parlare a casa di Guy Debord - che viveva con Michele Bernstein in una specie di studio vicino a dove vivevo io, in rue Saint Martin, in una stanza buia, senza luci, un vero e proprio... - un luogo miserabile, ma allo stesso tempo un luogo dove c'era molta forza e luminosità nel pensiero e nella ricerca.

K.R. : Erano senza soldi?

H.L. : No.

K.R.: Come vivevano?

H.L.: Nessuno riusciva a capire come facessero ad andare avanti. Un giorno uno dei miei amici (uno a cui avevo presentato Debord) gli chiese: «Di cosa vivete?». E Guy Debord rispose molto orgogliosamente: «Vivo del mio ingegno» [Risate]. In realtà, credo che avesse qualche soldo; credo che la sua famiglia non fosse povera. I suoi genitori vivevano sulla Costa Azzurra. In realtà, non credo di conoscere la risposta. Inoltre Michele Bernstein aveva trovato un modo intelligente per fare soldi, o almeno un po' di soldi. O almeno è questo quello che mi ha detto. Mi disse che faceva oroscopi per i cavalli, e che venivano pubblicati sulle riviste di corse. La cosa era estremamente divertente. Determinava quale fosse la data di nascita dei cavalli e ne faceva l'oroscopo, per prevedere l'esito della corsa. E credo che ci fossero riviste di corse che la pubblicavano, e la pagavano.

K.R.:  Quindi lo slogan situazionista "Mai lavorare" non si applicava alle donne?

H.R. : Non proprio, perché questo non era lavoro; cercavano di vivere senza lavorare. In ogni caso penso fosse divertente farlo. No, in realtà non lavoravano. Ma ora vorrei andare più indietro nel tempo, perché tutto quanto è cominciato molto prima. Risale al gruppo CoBrA. È stato quello l'intermediario: un gruppo creato insieme a degli architetti, in particolare Constant [Nieuwenhuys], l'architetto di Amsterdam, poi c'era Asger Jorn, un pittore, e altri, tutta gente di Bruxelles. Era un gruppo nordico, un gruppo che aveva delle ambizioni piuttosto notevoli, che voleva rinnovare l'arte, rinnovare l'azione dell'arte sulla vita. È stato un gruppo estremamente interessante e attivo, formatosi intorno agli anni Cinquanta, e uno dei libri che ha ispirato il gruppo CoBrA è stato il mio libro "Critique de la vie quotidienne". È per questo motivo che ben presto ho avuto un rapporto con loro. A far da cardine è stato Constant Nieuwenhuys, l'architetto utopista, che ben presto elaborò il progetto di una città utopica, "Nuova Babilonia" - una vera e propria provocazione, e questo perché in tutti i circoli protestanti "Babilonia" raffigura il male. Nuova Babilonia avrebbe dovuto essere una raffigurazione del bene, ma aveva preso il nome della città maledetta e l'aveva trasformata nella città del futuro. Il progetto di Nuova Babilonia risale al 1950. Nel 1953, Constant Nieuwenhuys pubblicò e scrisse un testo dal titolo "Pour une architecture de situation". Si tratta di un testo fondamentale, il quale parte dall'idea che sarà l'architettura che permetterà di trasformare la realtà quotidiana. È in questo testo che si viene a collocare la relazione con la Critica della vita quotidiana: creare un'architettura che permetta, da sé sola, di creare delle nuove situazioni. E questo testo diventa il punto di partenza di tutta un'intera ricerca che si sviluppa negli anni successivi. Soprattutto perché Constant era molto popolare ed era uno dei leader del movimento Provo.

K.R.: Quindi esisteva un rapporto diretto tra Constant e i "Provos" ?

H.L.: Oh certo. Lui veniva riconosciuto da loro come il loro pensatore, il loro leader, come l'uomo che voleva trasformare la vita e la città. Il loro rapporto era diretto, lui era il loro animatore. Bisogna anche capire qual era il contesto dell'epoca. Da un punto di vista politico, il 1956 fu un anno molto importante in quanto rappresentava la fine dello stalinismo. C'era stata la famosa relazione di Kruscev al XX Congresso del Partito Comunista dell'URSS, in cui demolisce la figura di Stalin - una relazione che venne discussa e contestata. In Francia, si sostenne che la relazione fosse un falso, un falso inventato dai servizi segreti americani. In realtà, si trattava assolutamente solo del lavoro di colui che era succeduto a Stalin, dopo alcuni alti e bassi, e che demolì completamente la figura del suo predecessore. Bisogna quindi capire la contestualizzazione, no? Negli anni del dopoguerra, la figura di Stalin è dominante. E il movimento comunista rimane il movimento rivoluzionario. Poi, a partire dal 1956-1957, il movimento rivoluzionario si sposta al di fuori dei partiti organizzati, in particolare con Fidel Castro. Il situazionismo non è affatto isolato. È nato in Olanda, oltre che a Parigi, ed è stato coinvolto in  molti eventi su scala mondiale, in particolare si lega al fatto che Fidel Castro abbia ottenuto una vittoria rivoluzionaria rimanendo completamente al di fuori del movimento comunista e del movimento operaio. E io stesso, nel 1957, bisogna che ricordi qui i miei interventi: ho pubblicato una sorta di manifesto, "Le Romantisme révolutionnaire", il quale è rimasto legato alla vicenda di Castro e a tutti i movimenti che percepivo, un po' ovunque, al di fuori dei partiti. È stato quello il momento in cui ho lasciato il Partito Comunista. In quel momento, ritengo che accadranno molte cose al di fuori dei partiti e dei movimenti organizzati, così come al di fuori dei sindacati. Si assisterà a una spontaneità al di fuori delle organizzazioni e delle istituzioni. È questo il significato del testo del 1957. È stato quel testo a mettermi in contatto con i situazionisti, poiché gli attribuivano una certa importanza, anche se ciò significava attaccarlo. Avevano delle critiche da fare, naturalmente. Non esisteva un accordo completo con loro, ma c'era la base per una certa intesa, la quale è durata per circa quattro o cinque anni, considerato che continuavamo a incontrarci.

KR : Perciò, allora stava già lavorando al secondo volume della Critica della vita quotidiana?

HL : Sì, ci stavo già lavorando. E avevo anche un progetto per un volume sulla Comune di Parigi che era in dirittura di arrivo.

KR : Quindi stava facendo tutto questo contemporaneamente? Entrambi i libri?

HL : Era così, avveniva tutto nello stesso momento, come una grande confusione. È il momento in cui lascio il Partito. Ma ci sono molte altre storie. Era il periodo della guerra d'Algeria. Allora non ero all'università, ma facevo il direttore di ricerca al CNRS e fui quasi licenziato per aver firmato dei manifesti a favore degli algerini, e per aver dato un sostegno - debole, certo, ma pur sempre un certo sostegno - agli algerini. Quindi tutto ciò è stato un momento di effervescenza e di sperimentazione. Perfino in Francia, il sostegno agli algerini non passava attraverso il partito o i sindacati, ma avveniva al di fuori delle istituzioni. Il Partito Comunista - il Partito Socialista aveva combattuto la guerra d'Algeria - ha dato agli algerini solo un sostegno a parole e in apparenza. In realtà, il partito li ha aiutati pochissimo, e perciò gli algerini erano molto arrabbiati con il partito. Di fatto, però, prima l'opposizione all'interno del partito, e poi il movimento al di fuori del partito, hanno sostenuto gli algerini. Inoltre, c'erano dei movimenti d'avanguardia un po' estremisti, come il movimento di Isidore Isou, i Lettristi. Anche loro avevano delle grandi ambizioni su scala internazionale. Ma nella pratica era solo uno scherzo. Questo si traduceva nel fatto che Isidore Isou veniva a declamare delle poesie dadaiste fatte di sillabe e di parole interrotte e prive di significato. Le declamava nei caffè. Si guadagnava da vivere in quel modo. Ricordo molto bene di averlo incontrato diverse volte a Parigi. Ma tutto ciò aveva evidenziato un certo fermento nella vita profonda della Francia, che poi nel 1958 si rifletterà nel ritorno di De Gaulle al potere: una crisi della democrazia dovuta alla guerra d'Algeria, una fibrillazione al di fuori dei partiti. Il Partito Comunista dimostrò profonda incapacità, non capendo lo stalinismo, non facendo nulla per gli algerini e opponendosi solo assai male al ritorno al potere del generale De Gaulle, limitandosi a definire De Gaulle un fascista; e il che non era esatto. De Gaulle voleva risolvere la questione algerina. Era l'unico che poteva risolverla. Ce ne siamo resi conto solo più tardi. Ma in tutto questo c'è stata una grande agitazione, paragonabile a quella del 1936.

KR : La teoria situazionista della costruzione delle situazioni ha un rapporto abbastanza diretto con la sua teoria, che è la teoria dei momenti della vita?

HL : Sì, era quella la base del nostro accordo. Me lo avevano detto, nel corso di discussioni che erano durate tutta la notte: «I "momenti", ciò che tu chiami "i momenti",  corrisponde a  ciò che noi chiamiamo situazioni, ma noi andiamo più lontano di quanto faccia tu. Tu, tu accetti come fossero "momenti" tutto ciò che si è presentato nel corso della storia: l'amore, la poesia, il pensiero. Noi, noi vogliamo creare dei momenti nuovi.»

KR : Ma, precisamente, in che modo realizzare questo passaggio che porti un «momento» a diventare una costruzione cosciente?

HL : L'idea del momento nuovo, l'idea di una nuova situazione si trova già presente nel testo di Constant del 1953, "Pour une architecture de situation". Dal momento che l'architettura della situazione, è un'architettura utopica che richiede una nuova società. Ma l'idea di Constant, era quella secondo cui la società dovesse essere trasformata, non per continuare a vivere in modo noioso, ma per creare qualcosa di assolutamente nuovo, vale a dire, delle situazioni.

KR : Dov'è che si situa la «città» in questa costruzione di nuove situazioni?

HL : Beh, le «nuove situazioni», questo non è mai stato chiaro. Quando ne parlavamo, io facevo sempre come esempio  - però loro non lo volevano il mio esempio - quello dell'amore. Dicevo loro: l'antichità conosceva la passione amorosa, ma non conosceva l'amore individuale, l'amore per un essere individuale. Era una specie di passione cosmica, fisica, fisiologica, quella che descrivevano i poeti antichi. Ma l'amore per un essere individuale è apparso nel Medioevo, in seguito a una miscela di tradizioni musulmane, islamiche e cristiane, soprattutto nel Sud della Francia. L'amore individuale, è già l'amore di Dante per Beatrice. Lo spiega lui stesso in un testo intitolato La Vita nova. È l'amore di Tristano e Yseult [Isotta], l'amore tragico, l'amore cortese nel Sud della Francia. Nel mio paese vicino dalle parti di Navarrenx - forse ve l'ho mostrato - c'è la torre del principe Gaston Phébus, che è stato il primo principe-trovatore a cantare canzoni d'amore individuali: «Quando io canto, non canto per me stesso, ma canto per il mio amico che mi sta vicino», questo è già amore individuale. Ed è un amore più tragico di quello antico, il quale non è mai altro che un melodramma. Ecco, c'è questa tragedia dell'amore individuale che attraversa i secoli, attraverso la Principessa di Cleves, attraverso i romanzi, attraverso le opere teatrali, attraverso la Berenice di Racine, attraverso quella che è tutta una letteratura.

KR : Per i situazionisti, l'idea di costruire delle situazioni dev'essere in rapporto all'urbanistica...

HL : Sì, su questo si era d'accordo. Io ho detto loro: l'amore individuale ha creato delle nuove situazioni. Ma questo non è successo da un giorno all'altro. È dovuto maturare. Pertanto la loro idea era che forse - e questo è anche legato alle esperienze di Constant - potevamo creare nuove situazioni nella città, per esempio mettendo in relazione tra loro delle parti, dei quartieri della città che erano separati dallo spazio. È stato questo il primo significato di «deriva». Ed è stato fatto ad Amsterdam quando la tecnica del walkie-talkie era agli albori. C'era una squadra che andava in una parte della città e poteva comunicare con delle persone che si trovavano in un'altra parte.

KR : E anche i situazionisti si sono serviti di questa tecnica?

HL : Sì, quanto meno la usava Constant. Ma sono state anche fatte delle esperienze situazioniste con l'urbanistica unitaria. L'urbanistica unitaria consisteva nel far comunicare parti della città. Hanno fatto degli esperimenti, ma io non c'ero. Ne ho sentito parlare molto. Hanno usato tutti i tipi di mezzi di comunicazione. Ma il walkie-talkie, non so in quale anno sia stato usato. So che è stato usato negli esperimenti ad Amsterdam e a Strasburgo.

KR: E lei conosceva le persone a Strasburgo in quel periodo?

HL : Erano dei miei studenti. Ma anche i rapporti con loro sono stati estremamente difficili. Quando nel 1958 o 1959 arrivai a Strasburgo, si era nel bel mezzo della guerra d'Algeria, ed ero a Strasburgo da circa tre settimane o un mese, quando vidi arrivare un gruppo di ragazzi. Si trattava dei futuri situazionisti di Strasburgo - o forse erano già un po' situazionisti. Mi dissero: «Signore, abbiamo bisogno del suo aiuto. Faremo un maquis nei Vosgi. Poi creeremo una base militare nei Vosgi, e da lì ci espanderemo in tutto il Paese. Faremo deragliare i treni.» Io, dissi loro: «Ma sapete che l'esercito e la gendarmeria... l'appoggio della popolazione, voi non siete sicuri... State andando incontro a un disastro». Allora, ecco che hanno cominciato a insultarmi, a dire che ero un traditore. E poi, dopo un po', dopo qualche settimana, tornarono a trovarmi di nuovo e mi dissero: «Sì, lei ha ragione: non è possibile. Non è possibile creare un maquis nei Vosgi, nella foresta; faremo un altro progetto». Così, da allora mi trovai bene con loro, e fu in seguito che quello stesso gruppo divenne situazionista. Ma come lei sa, i rapporti con loro erano molto difficili [...] perché si arrabbiavano per niente. Mustafa Khayati, l'autore del famoso pamphlet "De la misère en milieu étudiant", faceva parte di questo gruppo.

KR : Qual è stato l'effetto di quel pamphlet, e della sua distribuzione? Quante copie ne vennero stampate?

HL : Quell'opuscolo ebbe molto successo. Ma all'inizio, venne diffuso solo a Strasburgo, poi Guy Debord e gli altri lo distribuirono a Parigi. Tra gli studenti, è stato diffuso in decine di migliaia di copie, non c'è dubbio. È un ottimo opuscolo, molto ben fatto. L'autore, Mustafa Khayati, è tunisino. C'erano diversi tunisini in quel gruppo, molti stranieri di cui in seguito si è parlato meno. E anche Mustafa Khayati non si è esposto molto, perché avrebbe potuto avere dei problemi a causa della sua nazionalità. Non aveva la doppia nazionalità, era rimasto tunisino. A Parigi, a partire dal 1957-1958, li ho incontrati spesso e ho incontrato Constant ad Amsterdam. Fu in quel periodo che si sviluppò il movimento dei Provos, che divenne molto potente ad Amsterdam, e partiva dall'idea di mantenere intatta la vita urbana, di evitare che la città venisse sventrata dalle autostrade, e che fosse aperta alle automobili. Volevano che la città fosse preservata e trasformata, invece di essere consegnata alle automobili; volevano anche le droghe; sembravano affidarsi alle droghe per creare nuove situazioni. L'immaginazione è stata seminata grazie all'LSD. Era l'LSD a quel tempo. [...]

KR : Torniamo all'urbanistica unitaria. Si tratta di un modo di collegare i quartieri che non è omogeneo: ogni quartiere mantiene distinti i suoi aspetti, giusto?

HL : Sì, è vero, non si sono fusi, sono già un insieme, ma questo insieme è ancora frammentato, per così dire, e lo è solamente in uno stato virtuale. L'idea è quella di rendere la città un insieme, ma un insieme in movimento, un insieme in trasformazione. I disegni dei progetti di New Babylon sono stati esposti al Museo Nazionale dell'Aia. Erano nello studio di Constant, che si trovava in un edificio di mattoni semidemolito. La cosa più impressionante che ricordo dello studio di Constant, è che in un'enorme gabbia di vetro c'era un'iguana.

KR : Allora, ecco una situazione nuova! Il progetto di Constant ipotizzava la fine del lavoro?

HL : Sì, in un certo senso era questo il punto di partenza: la completa meccanizzazione, la completa automazione del lavoro produttivo, e da qui la disponibilità. Lui è stato uno di quelli che hanno posto il problema.

KR : E anche i situazionisti?

HL : Sì.

KR : Quindi, lei situa il suo lavoro in questo filone? Che andrebbe da Lafargue a...?

HL : In questo filone, sì, ma non da Lafargue. Credo che il punto di partenza sia stato un romanzo di fantascienza intitolato "City. Anni senza fine". È un romanzo americano di Clifford Simak in cui tutto il lavoro viene svolto dai robot. Gli esseri umani non riescono a far fronte a questa situazione. Muoiono perché sono troppo abituati a lavorare. Muoiono e i cani approfittano della situazione. I robot lavorano per loro, li nutrono e così via. E i cani sono perfettamente felici, e questo perché non sono stati danneggiati dall'abitudine al lavoro. Ricordo come questo romanzo abbia svolto un ruolo nelle discussioni. Non so quando il libro sia stato pubblicato in America. Ho l'impressione che sia stato uno dei primi romanzi di fantascienza ad avere un certo impatto e un'influenza, ma forse è stato solo in quegli anni. In ogni caso, era questo il punto di partenza di Constant: una società liberata dal lavoro. E questo era sulla falsariga del "Diritto all'ozio" di Lafargue, ma rinnovato dalla prospettiva dell'automazione che aveva inizio proprio in quegli anni. Pertanto: intense discussioni e un cambiamento totale del movimento rivoluzionario, il quale, allora intorno al 1956-57, abbandonava le organizzazioni classiche. Del resto, ad acquistare influenza è la voce dei piccoli gruppi.

KR : È l'esistenza stessa di una microsocietà come quella dei situazionisti che costituisce una nuova situazione?

HL : In una certa qual misura. Ma non bisogna nemmeno esagerare. Quanti erano? Lei sa che l'Internazionale situazionista non ha mai avuto più di dieci membri. C'erano due o tre belgi, due o tre olandesi, come Constant. Ma vennero ben presto estromessi. Guy Debord seguiva l'esempio di André Breton. Si veniva esplusi. Io non ho mai fatto parte del gruppo. Avrei potuto farlo, ma mi sono guardato bene dal farlo, conoscendo il carattere e le maniere di Guy Debord, e il modo in cui imitava André Breton, escludendo tutti in modo da mantenere così un piccolo nucleo duro. Alla fine, i membri dell'Internazionale Situazionista restarono Guy Debord, Raoul Vaneigem e Michelle Bernstein. Esistevano dei corpuscoli più o meno esterni, di cui io facevo parte, e poi c'erano persone come Asger Jorn. Asger Jorn venne espulso, il povero Constant fu espulso. Con quale pretesto? Lui non costruiva. Era un architetto. Ma venne espulso perché un tizio che aveva lavorato con lui costruì una chiesa in Germania: Constant fu espulso perché aveva esercitato un'influenza disastrosa. È una stupidaggine. In realtà lo faceva per mantenersi puro, come un cristallo. Guy Debord seguì l'esempio di Breton: estremamente dogmatico. E tanto più, per un dogmatismo senza dogmi, perché la teoria delle situazioni, della creazione della situazione, scomparve ben presto per lasciare spazio solo alla critica del mondo esistente, ed è lì che del resto ci siamo ritrovati, con la Critica della vita quotidiana.

KR : In che modo il sodalizio con i situazionisti ha cambiato o ispirato il suo pensiero sulla città?

HL : Tutto questo era solo un corollario, in parallelo. La mia riflessione sulla città parte da fonti del tutto diverse. Gli è che, nel mio Paese, ho studiato a lungo le questioni agricole. Un bel giorno sono arrivati dei bulldozer e hanno raso al suolo gli alberi: avevano trovato il petrolio. Nel mio Paese ci sono pozzi di petrolio, e a Lacq-Mourenx c'era una delle più grandi fabbriche d'Europa. Così ho visto costruire una nuova città dove prima c'erano campi di mais e boschi di querce. Mi sono gradualmente lasciato alle spalle le questioni agricole, dicendomi: «Ecco qualcosa di nuovo, e che si espanderà». Ma non mi aspettavo la brutale urbanizzazione che ne è seguita. Questa città nuova, che si chiama Lacq-Mourenx. In seguito, dato che mi occupavo di ricerca scientifica, ho mandato lì delle persone per seguire lo sviluppo. Volevo anche scrivere un libro, che non ho mai scritto - come è successo con molti progetti - intitolato "Naissance d'une cité". È stato quello il punto di partenza. Ma contemporaneamente ho incontrato Guy Debord, ho conosciuto Constant, e sapevo che i Provos di Amsterdam erano interessati alla questione della città. Sono andato ad Amsterdam non so quante volte per vedere cosa stava succedendo, per vedere che forma stava prendendo il movimento, se stava prendendo una forma politica. Allora ci furono dei Provos eletti nel consiglio comunale di Amsterdam. Hanno vinto, non ricordo in quale anno; una grande vittoria alle elezioni comunali. Poi, dopo, la situazione si è degradata, è crollata. Quindi è successo tutto insieme. E poi, dal 1960 in poi, c'è stato il grande movimento di urbanizzazione. Inoltre, del resto, gli altri abbandonarono la teoria dell'urbanistica unitaria, perché la teoria dell'urbanistica unitaria aveva senso solo per una città storica come Amsterdam, che doveva essere rinnovata e trasformata. Ma a partire dal momento in cui la città storica si è frammentata in periferie, in delle "banlieues", come è accaduto a Parigi, e in ogni sorta di luogo, come sta ancora accadendo a San Francisco, e come è accaduto a Los Angeles, la teoria dell'urbanistica unitaria ha perso ogni significato. E  ricordo poi le discussioni molto accese con Guy Debord. Lui diceva: «L'urbanistica diventa un'ideologia». Il che era vero, dal momento in cui, ufficialmente, esisteva una dottrina dell'urbanistica. Il codice urbanistico in Francia risale al 1961, credo. Questo non significava che il problema della città fosse stato risolto. Al contrario. E poi, credo che perfino la «deriva», gli esperimenti di «deriva», siano stati gradualmente abbandonati. Non so bene come sia successo, perché è stato allora che ho litigato con loro.

Oltre tutto questo, c'è il contesto politico e sociale della Francia. Ci sono anche le relazioni personali. Ci sono molte storie estremamente complicate. La storia più complicata è nata dal fatto che sono venuti a casa mia, nei Pirenei. E abbiamo fatto un viaggio meraviglioso. Siamo partiti da Parigi in auto. Ci siamo fermati alle grotte di Lascaux, le quali poi sono state chiuse poco dopo. Siamo stati colpiti dal problema delle grotte di Lascaux. Sono sepolte  profondamente. C'è persino un pozzo quasi inaccessibile. E tutto questo è pieno di dipinti. Come sono stati realizzati questi dipinti e a chi erano destinati, visto che non erano destinati a essere visti? Si tratta dell'idea che la pittura sia nata come critica. Tanto più che tutte le chiese della regione hanno delle cripte, soprattutto a Saint Savin. Siamo andati a Saint Savin, dove ci sono affreschi sulla volta della chiesa, e c'è una cripta piena di dipinti. Una cripta alle cui profondità è molto difficile accedere, dal momento che è piuttosto buia. Perché ci sono dei dipinti che non devono essere visti? E come sono stati realizzati? Questo è stato oggetto di accese discussioni. Alla fine, siamo usciti. A Sarlat abbiamo fatto un banchetto favoloso. Non riuscivo a guidare. Ho preso una multa. Ci hanno quasi arrestati perché ho attraversato un villaggio a 120 km/h. E poi loro sono rimasti diversi giorni a casa mia. Abbiamo redatto un testo programmatico. E questo testo, alla fine della settimana che hanno trascorso da me, se lo sono tenuto loro. Io gli avevo detto: «Scrivetevelo voi»; era scritto a mano. E siccome poi mi sono servito di quel testo, ecco che allora mi hanno accusato di plagio. In realtà, si è trattato di vera e propria malafede. Il testo, che poi sarebbe servito per scrivere il libro sulla Comune, era un'opera comune, tanto loro quanto mia.
E l'idea della Comune vista come una festa, 'avevo lanciata io nei dibattiti, dopo aver consultato un'opera inedita sulla Comune che si trova alla Fondazione Feltrinelli di Milano. Si tratta di un giornale sulla Comune. La persona che ha scritto quel diario, dopo era stata deportata, e qualche anno dopo, intorno al 1880, aveva riscritto il suo diario di deportazione; e lì racconta come il 18 marzo 1871 i soldati di Thiers siano venuti a prendere i cannoni che si trovavano a Montmartre e sulle alture di Belleville; racconta come le donne che si stavano alzando molto presto, sentendo il rumore, siano uscite tutte in strada e abbiano circondato i soldati. Le donne avevano circondato i soldati, scherzando, ridendo, accogliendoli fraternamente, per poi andarono a prendere un po' di caffè per portarglielo, lo offrirono ai soldati, e questi soldati, che erano venuti a prendere i cannoni, vennero portati via dal popolo. Prima le donne, poi gli uomini, uscirono tutti, in un clima di festa popolare. Nel diario, alla fine raccontava che non c'erano stati degli eroi che erano arrivati con le armi contro i soldati venuti a prendere i cannoni. Non è successo niente del genere. Era stata la gente che festeggiava, che usciva in strada. Il tempo era molto bello, era il primo giorno di primavera, il 18 marzo, una giornata piena di sole: le donne uscirono presto di casa, e trovarono i soldati, li abbracciarono, erano in déshabillé, eccetera, i soldati vennero sommersi, e si immersero in essa, nella festa popolare parigina. In seguito, i teorici degli eroi della Comune mi avrebbero detto: «È una testimonianza, non si può scrivere una storia su una testimonianza». E anche i miei giovani amici situazionisti scrissero cose del genere. Io non li avevo letti. Io, ho fatto il mio lavoro. Era avvenuto che ci fossero state delle idee lanciate nel corso di conversazioni comuni, scritte poi in testi comuni. E poi io ho fatto il mio lavoro sulla Comune. Ho passato settimane e mesi a lavorare a Milano, all'Istituto Feltrinelli. Ho trovato della documentazione inedita, l'ho usata, e questo è stato un mio diritto. Non mi interessano queste accuse di plagio. Ci sono sempre stati questo genere di problemi. Ma poi non so cosa abbiano scritto nella loro recensione, non mi sono nemmeno preso la briga di leggerla. So solo che sono stato trascinato nel fango. [...] La cosa mi è rimasta sullo stomaco. Non molto, solo un po'. Lavoravamo insieme a Navarrenx, giorno e notte, andavamo a letto verso le nove del mattino. Era la loro abitudine: andavano a letto la mattina e dormivano tutto il giorno. Non mangiavamo nulla. È stato terribile. Ho sofferto durante quella settimana, non abbiamo mangiato, abbiamo solo bevuto. Abbiamo bevuto almeno cento bottiglie. In pochi giorni. Eravamo in cinque. Si lavorava e si beveva. È stato come una sorta i compendio dottrinale di tutto quello che pensavamo, ivi comprese anche le situazioni, le trasformazioni della vita; non era un testo molto lungo, ma solo di poche pagine, scritto a mano. Lo portarono via, lo batterono a macchina e poi, beh, hanno pensato di avere dei diritti su delle idee.

KR : Ma torniamo all'idea della «deriva». Pensa che abbia portato qualcosa di nuovo alla teoria dello spazio, o alla teoria della città? Visto il modo in cui lei evidenzia i giochi sperimentali, ritiene che la deriva si più produttiva rispetto a una visione puramente teorica della città?

HL : Sì. Per me si è trattato di una pratica, piuttosto che di una teoria. Ha evidenziato la crescente frammentazione della città. Il fatto che essa abbia costituito una potente entità organica nel corso della sua storia. Ma da qualche tempo questa unità organica si sta disfacendo, si sta frammentando; e di questo ne abbiamo preso esempio, se pensa che stavamo già discutendo della piazza laddove sarebbe sorto il nuovo Teatro dell'Opera di Parigi. Place de la Bastille è la fine di una Parigi storica, e oltre a questo è la Parigi dell'industrializzazione, della prima industrializzazione del XIX secolo. La Place des Vosges è ancora una Parigi aristocratica del XVII secolo, già molto estesa, ma che rimane comunque una Parigi storica aristocratica. Quando si arriva alla Bastiglia, inizia un'altra Parigi: è la Parigi della borghesia, la Parigi dell'espansione industriale e commerciale. Mentre la borghesia commerciale e industriale si impadroniva del Marais, il centro di Parigi si estendeva al di là della Bastiglia, in rue de la Roquette, in rue du Faubourg Saint-Antoine, ecc. E la città si stava già frammentando, senza che la sua unità organica venisse tuttavia completamente spezzata. In seguito sarebbe stata delimitata dalle periferie e dai sobborghi. Ma a quel tempo non era ancora delimitata, e pensiamo che la pratica della deriva riveli l'idea della città vista nella sua frammentazione. Ma è stato soprattutto ad Amsterdam che questo è stato sperimentato. L'esperimento consisteva nel rendere simultanei degli aspetti della città, dei frammenti della città che noi vediamo solo successivamente, e anche molto successivamente, tanto che ci sono persone che non hanno mai visto certi quartieri della città.

KR : Mentre la deriva deve assumere la forma di una narrazione...

HL : È così. Si parte a caso e si racconta quello che si vede.

KR : Ma non si può raccontare simultaneamente.

HL : Oh beh, lo puoi fare se hai un walkie-talkie; l'obiettivo era quello di ottenere una certa simultaneità. Era questo l'obiettivo. Non sempre è stato raggiunto.

KR : Quindi una specie di storia sincronizzata?

HL : Sì, esattamente, una storia sincronizzata. È stato questo il senso dell'urbanistica unitaria: unificare tutto ciò che ha una certa unità, ma un'unità perduta, un'unità in perdizione.

KR : Ed è stato nel mentre che conosceva i situazionisti di allora, che l'idea dell'urbanistica unitaria ha perso la sua forza?

HL : È avvenuto nel momento in cui l'urbanizzazione è diventata davvero massiccia, cioè dal 1960 in poi, quando Parigi si è completamente disgregata. È noto che a Parigi c'erano pochissime periferie. Certo, sì c'erano delle periferie, ma erano quasi niente. E poi, tutt'a un tratto, all'improvviso, si è riempita, si è ricoperta di periferie, molto lontane, quasi delle nuove città, Sarcelles. Sarcelles è diventata un mito. Si parlava di una specie di malattia chiamata «sarcellite». E poi l'atteggiamento di Guy Debord cambia, e passa dall'urbanesimo unitario alla tesi dell'ideologia urbanistica. Almeno nella mia memoria.

KR : In cosa consiste esattamente questa transizione?

HL : Più che di una transizione, si è trattato dell'abbandono di una posizione per adottarne una completamente opposta. Nel passare dall'idea di elaborare un'urbanistica alla tesi secondo cui tutta l'urbanistica è un'ideologia, ha luogo un cambiamento assai profondo. Infatti, affermando che tutta l'urbanistica è un'ideologia, un'ideologia borghese, si abbandonava quello che era il problema della città. Mentre invece io ho continuato a interessarmene, pensando che la rottura della città storica rappresentasse invece proprio un'occasione per riuscire a trovare una teoria più ampia della città, e non un pretesto per abbandonare l'intero problema. Inoltre, a essere stata abbandonata a poco a poco, è stata proprio la teoria delle situazioni. Ma era la rivista stessa che era divenuta un organo politico. Cominciarono a insultare tutti. La cosa aveva a che fare con l'atteggiamento di Debord, e forse anche con le sue difficoltà: ha litigato con Michelle Bernstein. Non lo so, ma c'è stata ogni sorta di circostanza che forse lo ha reso più polemico, o più amaro, o più violento. Ma vorrei anche dire che in seguito il loro ruolo negli eventi del 1968 è stato enormemente amplificato. Il movimento del 1968 non è nato dai situazionisti. A Nanterre c'era un piccolo, minuscolo gruppo chiamato "Les enragés". Beh, anche loro insultavano tutti, ma sono stati loro che hanno creato il movimento. Il movimento del 22 marzo è stato fatto da degli studenti, tra cui Daniel Cohn-Bendit, i quali non erano situazionisti. Si trattava di un gruppo attivo, il quale si costituiva man mano che gli eventi si svolgevano, senza alcun programma, senza un progetto; si trattava di un gruppo informale, al quale i situazionisti si sono uniti, ma non erano loro a costituirlo. È stato fatto al di fuori di loro. Al movimento del 22 marzo, i situazionisti hanno aderito, ma lo hanno fatto anche gli altri, come i trotzkisti, tutti a poco a poco si sono uniti. La cosa veniva chiamata «saltare sul carro». Pertanto, è possibile che i situazionisti di Nanterre si siano uniti al gruppo fin dall'inizio, ma non sono stati loro gli animatori, i creatori. Nei fatti, il movimento è nato nel grande anfiteatro dove tenevo un corso che era sovraffollato, e dove alcuni studenti che conoscevo bene mi chiesero: «Possiamo nominare dei delegati, in modo che vadano a protestare presso l'amministrazione, contro la lista nera?» Ho risposto loro: «Certo». E fu proprio sul podio su cui mi trovavo che si svolse l'elezione dei delegati degli studenti, che andarono dall'amministrazione per protestare contro la faccenda della lista nera: l'amministrazione stava cercando di stilare una lista nera degli studenti più indisciplinati, al fine di sanzionarli. L'elezione di questi delegati coinvolse ogni genere di persone in tutti i gruppi attivi: trotskisti e situazionisti.

Il gruppo del 22 marzo si è formato a seguito di queste trattative a partire da questa contestazione dell'amministrazione. Poi hanno occupato i locali dell'amministrazione e il cortile. L'elemento stimolante fu la vicenda della «lista nera», e fui io a inventare questa «lista nera». Per essere precisi, l'amministrazione aveva telefonato al mio dipartimento chiedendo i nomi degli studenti più agitati. Io ignorai la richiesta e mi rifiutai. Ed ebbi diverse occasioni per dire al rettore: «Non sono un poliziotto.» La «lista nera« non è mai esistita, nero su bianco. Ma stavano cercando di farla. Così ho detto agli studenti: «Sapete? Vogliono fare una lista nera, e la stanno facendo, difendetevi!» Ho agitato un po' quella che era una miscela esplosiva. Abbiamo le nostre piccole perversioni. Questa storia la racconto sempre. Venerdì sera, il 13 maggio, siamo in Place Denfert-Rochereau. Intorno al leone di Belfort ci sono 70-80.000 studenti (forse di più) e si discute su cosa fare. Ci si divide per linee politiche. I maoisti dicono che bisogna andare nelle Banlieue, che il corteo si deve dirigere verso Ivry, e così via. Gli anarchici e i situs dicono invece che dobbiamo andare a fare casino nei quartieri borghesi. I trotskisti dicono che si deve andare nel quartiere proletario di Parigi, verso l'Undicesimo. Ma sono gli studenti di Nanterre a dire che bisogna andare nel quartiere latino. All'improvviso, tutt'a un tratto c'è stata gente che ha cominciato a gridare: «Nella prigione della Santé, ci sono dei nostri amici, dobbiamo andare a salutarli!» E così, poi, da Place Denfert-Rochereau tutto il corteo si è mosso verso la prigione della Santé. Abbiamo ripreso il Boulevard Aragon. Siamo passati davanti alla prigione della Santé. Si sono viste mani alle inferriate delle finestre. Abbiamo gridato molte frasi. E da lì ci siamo diretti in fretta verso il Quartiere Latino. Una scommessa. O comunque, non proprio una coincidenza. Probabilmente c'era un movimento, una volontà di tornare nel Quartiere Latino, di non allontanarsi dal centro della vita studentesca. Lì c'era, ad aspettarci, la Televisione. Verso mezzanotte la televisione se ne andò via. C'era ancora Europa 1, quindi la Radio. E verso le 3 del mattino avvenne che un ragazzo della radio passò il microfono a Daniel Cohn-Bendit, il quale ebbe un'ispirazione geniale, disse semplicemente: «lo sciopero generale, lo sciopero generale, lo sciopero generale». E fu allora che c'è stata l'azione. È stato questo che ha sorpreso la polizia, che è stata colta di sorpresa. Gli studenti stavano scatenando un putiferio, c'erano degli scontri, qualche ferito, candelotti lacrimogeni, venivano divelte le pietre della pavimentazione stradale, si innalzavano barricate, esplodevano bombe. I figli della borghesia si stavano divertendo. Essì, ma lo sciopero generale, eh, lo sciopero generale... su quello non c'era da scherzarci…

- Henri Lefebvre e Kristin Ross  - Pubblicato su Période il 6 novembre 2014 -

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