mercoledì 30 dicembre 2015

L’acquisto della merce gratuita

cultura6

L'Industria Culturale nel 21° Secolo (3 di 3)
- Sull'attualità della concezione di Adorno ed Horkheimer -
di Robert Kurz

* Dalla critica apparente della borghesia intellettuale al culto postmoderno della superficialità * Critica culturale elitaria o emancipatrice? * Riduzionismo tecnologico * La pubblicità come percezione culturale del mondo e di sé * Il proseguimento con altri mezzi del "lavoro astratto" e della concorrenza * Internet come nuovo mezzo centrale dell'industria culturale * La virtualizzazione del mondo della vita * Interattività del Web 2.0 ed individualizzazione * Una cultura gratuita a caro prezzo * Il limite interno del capitale e la crisi economica dell'industria culturale * Sulla via dell'esaurimento delle riserve culturali * Il mondo non è un accessorio. Perché è impossibile una "rivoluzione culturale" separata *

* Il limite interno del capitale e la crisi economica dell'industria culturale *
Per quanto attuale sia in questo inizio del 21° secolo, la concezione dell'industria culturale presenta un'importante differenza rispetto al 1944. Allora ci si misurava ancora con la grande prosperità del dopoguerra. In quella transizione, dall'epoca delle guerre mondiali alla breve epoca storica della produzione di massa e del consumo di massa del fordismo, Adorno ed Horkheimer non potevano percepire l'industria culturale in formazione dal punto di vista della crisi oggettiva o da quello del limite interno storico del processo di valorizzazione. L'insieme dell'industria culturale, che si rivelava in maniera nebulosa nelle sue dimensioni, doveva apparire loro come una fatalità. come una forma di controllo totale o di autocontrollo e di sottomissione della coscienza alla macchina del fine in sé capitalista.
Oggi, al contrario, l'industria culturale sviluppata si trova sotto il segno di un limite oggettivo già maturo del capitale mondiale. Internet stessa è del tutto parte integrante di una tecnologia della crisi della terza rivoluzione industriale, i cui potenziali di valorizzazione portano allo svuotamento della sostanza del valore. Anche sotto quest'aspetto, non è la tecnologia in quanto tale ad avere autonomamente effetto sulle relazioni, e sarebbe questa la vera ragione del suo rivoluzionamento. La razionalizzazione, che fa sì che il fuoco del "lavoro astratto" si estingua, segue le medesime leggi; la liberazione della forza lavoro superflua costituisce l'altra faccia della sua sussunzione al capitale. Nel senso che il feticismo sociale "autonomo" è soltanto l'automovimento slegato del "soggetto automatico" da cui nasce la tecnologia di crisi in generale, la quale dà espressione all'autocontraddizione interna del sistema. Il capitalismo non va a sbattere contro un limite tecnologico da esso indipendente, ma contro il suo stesso limite (economico) interno. Nel complesso dell'industria culturale, questo limite generale del capitale emerge in una maniera specifica che si riferisce simultaneamente al meccanismo di crisi e alle sue forme di sviluppo.
La virtualizzazione culturalista del mondo della vita corrisponde alla virtualizzazione economica del capitale. I due momenti non rappresentano nessun nuovo grado di sviluppo del modo di produzione e del modo di vita capitalista, ma piuttosto un processo della sua de-virtualizzazione, e pertanto della sua reale autodistruzione. La desustanzializzazione del capitale attraverso la riduzione sproporzionata della forza lavoro regolare - l'unica a produrre valore - ha creato quella famigerata economia globale delle bolle finanziarie nella quale il capitale è passato dall'accumulazione reale ad un'accumulazione meramente simulativa. Questo rappresenta per così dire il suo proprio avatar economico nel mondo apparente del cielo finanziario separato. Ma lo spazio virtuale di Internet non si limita a rispecchiare in senso simbolico-culturale il capitale fittizio che si trova ormai senza la copertura di una qualsivoglia valorizzazione reale, ma appartiene anch'esso a questo impero economico spirituale.
Internet, in quanto complesso ibrido dell'industria culturale, non produce merci reali, ma solamente virtuali. Non produce neppure un volume apprezzabile di prodotti intellettuali o artistici immateriali, che possano partecipare come forma merce della sostanza sociale del valore, ma si limita a divulgare elettronicamente tali contenuti associati a costi oggettivi, mentre i contenuti che emergono in maniera genuina nella Rete, sia oggettivamente che economicamente per lo più senza valore, non contribuiscono alla massa di sostanza reale del valore, né partecipano ad essa, nella misura in cui restano "gratis" in questo modo falso.
Ora, se la pubblicità è determinante per l'industria culturale, non solo come forma di espressione dell'estetica delle merci, ma anche come base finanziaria dell'economia della Rete, allora questa fattualità chiarisce il modo in cui essa si colloca nella riproduzione capitalista. La pubblicità, come settore secondario capitalisticamente improduttivo, che non apporta alcun contributo alla massa della sostanza sociale reale del valore, in quanto rappresenta, al contrario, una detrazione da tale massa, può solamente espandersi in una dimensione che non ha precedenti nella storia del capitalismo sulla base gonfiata dell'economia delle bolle finanziarie e dell'indebitamento iniziato a partire dagli anni 1980. Solo in un simile contesto poteva nascere il complesso tecnologico-culturale di Internet, fino ad arrivare alla sua attuale ampiezza. I servizi, le possibilità di accesso o di presentazione ed i contenuti gratuiti messi a disposizione possono essere descritti in termini capitalisti come supporto pubblicitario. Quanto più l'industria culturale si disloca nello spazio virtuale, tanto più precaria diventa questa dipendenza.
Simultaneamente, questo spazio richiede anche un possente e ben reale aggregato infrastruturale di consumo energetico, di cablaggio, di batterie di server, ecc., che a sua volta si ripercuote come fattore di costo. In gran parte questi equipaggiamenti tecnologici devono essere finanziati anche a partire dalla pubblicità, o richiedono una parte delle loro entrate. Questo vale anche per le reti promosse o messe a disposizione dallo Stato, i cui ricavi sono anch'essi una detrazione dalla massa sociale di valore; anche questa, come tutte le sue altre funzioni, viene finanziata sempre più a credito. Qualunque sia la mediazione, il complesso dell'industria culturale virtualizzata è essenzialmente una creatura del capitale fittizio e delle sue varie forme, le quali nel loro insieme rappresentano un anticipo sempre più irreale della futura creazione di valore, sempre più rinviata. Il limite interno di tutta l'organizzazione si rende manifesto nella stessa misura in cui collassa il sistema di credito troppo esteso, si rompono le catene di credito, e viene alla luce l'infinanziabilità sociale della cultura del "gratis" virtuale. La completa dislocazone del problema verso il credito statale non cambia niente in tale situazione.
Quindi, quando i presupposti economici nascosti andranno a picco si vedrà che la mentalità del gratis da parte dello "utente" non costituiva in alcun modo un'anticipazione dell'abolizione della forma merce e del denaro. Al contrario, si tratta di una coscienza che da tempo vive soltanto del credito e perfino pensa soltanto in termini di credito. Nello stesso modo in cui una riproduzione non monetaria appare erroneamente come se fosse "senza costi" , perfino dei costi materiali o sociali, in quanto "dematerializzazione" illusoria, così anche la propria esistenza virtualizzata viene vista come gratuita, i cui costi devono ricadere su qualcun altro, soprattutto quando non c'è bisogno di sapere niente a tal proposito. Il postmodernista ecologicamente illuminato è sempre a favore del bene e contro il male, purché abbia corrente elettrica nelle sue prese e gli artisti della vita abbiano di che mangiare ad un livello accettabile di menù, senza porsi seriamente il problema dell'attuazione delle condizioni sociali di un lusso qualitativamente diverso e realmente generalizzato. Il consumo della futura sostanza del valore, la dislocazione altrove dei crediti inesigibili e la scomparsa tecnica del denaro dalla realtà del mondo della vita emergono come una sorta di "mondo senza denaro" che in qualche modo è diventato più conveniente. Non è la rivoluzione contro la "ricchezza astratta", ma ciascuno è ora la sua propria "bad bank". Anche dal punto di vista politico-sociale, al posto dei rivoluzionari, si muovono i cacciatori di occasioni digitali. Meglio non chiedersi come reagirà la coscienza dell'industria culturale al collasso del suo mondo di illusione e di autoillusione.

* Sulla via dell'esaurimento delle riserve culturali *
Le restrizioni e l'impasse economica corrispondono alle restrizioni ed all'impasse culturale. In questo contesto, il tema dell'innovazione nell'industria culturale e nelle sue fonti deve essere accantonato. Anche come settore secondario e perfino improduttivo del capitale, che tuttavia dev'essere economicamente alimentato dalla massa della sostanza sociale del valore, l'industria culturale è altrettanto astratta e di per sé squalificata quanto ai contenuti di quanto lo sia tutta la valorizzazione nel suo insieme. La completa indifferenza riguardo qualsiasi contenuto materiale, dal momento che il suo scopo è il valore astratto, obbliga quindi ad escludere le risorse culturali che non coincidono immediatamente con il fine in sé della "ricchezza astratta"; così come avviene con le risorse naturali, materiali ed umane, le quali anch'esse devono essere reclutate come supporti concreti indifferenti dall'accumulazione astratta.
Nel corso del movimento storico ascendente del capitale verso la determinazione della forma globale e planetaria, sono emerse un'arte genuina ed una cultura borghese che dapprima si sono formate soprattutto in opposizione sul terreno delle relazioni sviluppate solo a metà, in quanto precocemente capitaliste e proto-capitaliste. Similmente alla filosofia illuminista ed alla scienza dello stesso periodo, si trattava di un prodotto capitalista per quel che concerneva la struttura ed il contenuto, ma solamente nei modi di pensare e di rappresentare, come mobilitazione ideologica e anticipazione ideale, e non ancora propriamente come oggetto immediato della valorizzazione; perciò anche come prodotto di lusso per i padroni nelle corti assolutistiche o nei circoli privati, e a tale scopo finanziato. Anche la sfera pubblica borghese, in quanto presupposto per una trasformazione dell'industria culturale, è rimasta in tal misura innanzi tutto un prototipo.
Soltanto in questo "elevato" status intermedio che contraddice la sua stessa logica, anche se solo formalmente, la cultura borghese ha potuto acquisire l'apparenza di contesto di riflessione determinato dai contenuti e dalla capacità di espressione attraverso i suoi celebri "momenti di eccesso", nei quali veniva messo insieme un fondo di vera "oggettività culturale" che era un riflesso dell'oggettività del valore. ma non era ancora tale oggettività, in quanto aveva conquistato solo alcuni dei domini della riproduzione materiale. La coscienza della borghesia culturale sperava di mantenere sempre questo status intermedio e di legarlo all'illusione dell'arte, della scienza, ecc., per così dire "alte", non corrotte dal vile economicismo, sebbene il modo di pensare, le forme di rappresentazione ed i contenuti affermassero già allo stesso tempo quella logica che schernisce la pretesa autonomia dell'arte o della cultura  e che ben presto avrebbe dovuto incontrare la sua espressione simbolica definitiva nel "Quadrato Nero" di Malevich.
Ora è evidente che l'industria culturale - appena nascente nel 20° secolo e solamente nei limiti del capitalismo del 21° aumentata fino alla virtualizzazione del mondo della vita - non abbia potuto nutrirsi dei contenuti a partire da sé stessa, ma lo abbia fatto vampirescamente soprattutto a partire da quel passato di una cultura ed un'arte borghese che non erano ancora possedute dalla sua stessa logica. L'avventura della storia dell'imposizione del capitalismo, le cui narrazioni e creazioni non ancora entrate esse stesse nella valorizzazione (dal classicismo e dal romanticismo borghese, pasando per il realismo, fino alla "modernità classica") avevano creato l'apparenza di un contenuto culturale indipendente, ma si erano esaurite nello spazio di pochi decenni. L'industria culturale non è stata in grado di creare più niente di nuovo a partire da sé stessa. La sua creatività è sempre consistita solamente nell'adattare materiale preesistente.
C'è stata però anche una seconda ondata, a partire dalla quale si è potuta dissetare la sete vampiresca dell'industria culturale. Le controculture e le sottoculture e gli ambiti che si ponevano soggettivamente contro il capitalismo e le sue forme di manifestazione e che davano espressione intellettuale ed artistica ad un'esistenza marginalizzata, a forme di vita non conformiste o alla devianza sociale. Queste culture, o quanto meno sottoculture, di protesta sono state il terreno di riferimento di un'invocata contrapposizione "non commerciale" all'industria culturale. Di fatto, però, erano troppo deboli nel loro potenziale sovversivo per poter diventare un'opposizione seria; ed in realtà soprattutto perché la loro critica continuava a non essere una critica della forma, e rimaneva fenomenologicamente limitata e socialmente particolare, senza riuscire a raggiungere un'universalità sociale. Così come la statalità capitalista è sempre riuscita a catturare, adattare, distorcere e trasformare in proprie risorse politiche le tendenze "politiche" emancipatrici a breve raggio (dal vecchio movimento operaio fino alla "nuova" sinistra del 1968), anche le culture e le sottoculture "non commerciali" di protesta  sono state a breve o a lungo termine trasformate in una risorsa dell'industria culturale.
Ciò che si presentava come sovversione culturale e come controcultura costituiva, in realtà - così come la vecchia cultura borghese in un certo qual modo ancora esterna-, una sorta di riserva naturale per il capitale dell'industria culturale, riserva che veniva periodicamente falciata o potata. Dopo la seconda guerra mondiale, entrambe le risorse persero la loro relativa autonomia; l'alta cultura borghese era semplicemente morta e ormai poteva essere utilizzata solamente come legna da ardere, mentre le sottoculture diventavano sempre più dei vivai capitalisti. Come nella sequenza della rivoluzione tecnologica e della globalizzazione, via via che tutti gli orizzonti si riducevano anche il processo di mutazione dell'industria culturale accelerava, dalle creazioni subcommerciali o protocommerciali alla scomparsa dell'oggetto.
Adorno ed Horkheimer descrivono il vampirismo culturale solo dal punto di vista della decadenza della vecchia cultura borghese alta, e lo fanno anche con delle imprecisioni; ma il problema delle sottoculture, o resta fuori dal loro orizzonte o viene immediatamente sottomesso al concetto di industria culturale. A partire da questo deficit di analisi diviene parzialmente chiaro anche l'errore di giudizio negativo che Adorno dà del jazz, la cui origine e qualità sono state del tutto ignorate. Adorno, in questo passaggio completamente guidato dalle idiosincrasie del "buon gusto" della borghesia culturale classica, non vede il jazz nella sua propria specificità anteriore all'industria culturale, ma solo come prodotto genuino della macchina culturale capitalista. Non si accorge che questa macchina necessita di un materiale ad essa non inerente dal momento che essa riesce solo a distruggere quello che le viene consegnato. Il suo prodotto ha bisogno di materie prime o di semilavorati culturali preesistenti. A metà del 20° secolo queste risorse non erano ancora del tutto esaurite.
Si potrebbe tener conto del fatto che Adorno conoscesse, o considerasse, soltanto il jazz già orientato dall'industria culturale, ad esempio quello delle show bands degli anni 1940. In tal senso, in un certo qual modo, Adorno potrebbe aver ragione, soprattutto per la sua previsione, che tuttavia non può essere riferita specificamente al jazz o alla musica pop. Si tratta di creazioni culturali in generale, quale che sia la specialità o il livello artificiale. Insieme alla terza rivoluzione industriale in quanto tecnologia di crisi universale, e con il processo di crisi globale che ad essa è seguito, anche l'industria culturale ha raggiunto il suo limite storico. Il suo apice, che coincide con la totalizzazione dell'estetica delle merci, coincide anche con l'esaurimento delle sue risorse esterne. In un certo senso, si può parlare di un'analogia con l'esaurimento delle riserve energetiche e con la distruzione delle basi naturali della vita, così come con la crisi delle relazioni fra i sessi. Anche in questo senso il capitalismo distrugge i suoi presupposti. Nella stessa misura in cui l'astrazione del valore segue la propria dinamica interna e completa realmente il programma della sua totalizzazione, dissolve non solo la sua stessa sostanza del lavoro, ma anche i suoi fondamenti naturali, sessuali e culturali, che si trasformano da muti presupposti in contraddizioni assordanti.
Il postmodernismo sottolinea involontariamente il limite culturale quando slega le intenzioni della cultura e della sottocultura di protesta dalle pretese ideologiche del "non commerciale" o dello "anticommerciale" e le disloca direttamente nell'industria culturale, nella misura in cui  amerebbe tenere per sé i momenti pretesamente sovversivi e metterli letteralmente in vendita nei supermercati o renderli disponibili per il download in un'Internet sovvenzionata. Il contenuto di realtà di quest'interpretazione consiste nel fatto che, quanto meno per quel che attiene agli effetti sociali, non si tratta più tanto di creazioni relativamente autunome, quanto piuttosto di prodotti che appartengono soltanto all'industria culturale in quanto oggetti di "autovalorizzazione" e che possono essere possibilmente acquistati. La "sovversione", che ovviamente non c'è più, dev'essere trasferita verso il modus del semplicwe consumo di merci (ovviamente anche nel caso in cui si tratti di una merce "gratuita").
Di pari passo con questa ideologia di un consumo "creativo", o perfino "critico", cammina il completo rifiuto ad assumere come focus della critica la forma merce in quanto tale (cosa con cui il postmodernismo nel suo insieme regredisce al marxismo del movimento operaio, anziché trascenderlo). Il problema non consiste più nel fatto che la forma della merce in quanto male necessario si aggrappi anche ai contenuti della sua critica, di modo da potere in generale articolare e riprodurre i suoi presupposti materiali, ma risiede piuttosto nel fatto che il carattere della merce venga accettato o ignorato e che il contenuto sia positivizzato come contenuto di valorizzazione, anche solo in senso simbolico.
Ma se ormai la "creatività" consiste solo nel tipo e nella combinazione di consumo delle merci, allora questo conduce ad una crisi del valore d'uso, dal momento che non non c'è più alcun nuovo rifornimnento di contenuti. Dopo la morte della vecchia alta cultura borghese anche la sottocultura patisce lo stesso destino. Già esistono solamente delle pseudo-sottoculture, esse stesse orientate dall'industria culturale. Anche la più sciocca delle band scolastiche aspira ormai fin da subito al successo commerciale o quanto meno al capitale culturale per "comparire" nelle hit parade, e conferisce più valore alla "rappresentazione" che al contenuto innovatore che gli manca. Questo vale per tutto il settore culturale, astraendo dalle eccezioni. Così come la sostanza del valore viene solo simulata, dal momento che occorre un riciclaggio a partire dalle bolle finanziarie, anche l'industria culturale vive esclusivamente di riciclaggio dei vecchi contenuti che vengono riadattati, fino a soffocare nella banalità dell'eterna minestra riscaldata. Questa situazione somiglia in maniera sempre più esplicita a quella barbarie culturale di cui parla il capitolo sull'Industria Culturale.

* Il mondo non è un accessorio. Perché è impossibile una "rivoluzione culturale" separata *
Se torniamo alla complementarità polare fra pseudo-critica culturale pessimista ed elitaria ed affermazione postmoderna della superficialità, ecco che il cerchio della riflessione critica si chiude. La superficie è il mondo dei fenomeni immediati; culturale è il mondo dell'abito, del design, del guardaroba. Se la borghesia culturale denuncia pubblicamente la superficialità, essa si riferisce solamente all'abito che le salta all'occhio, alle forme di rappresentazione e manifestazione impertinenti od estranee. Il rimanente stock della coscienza culturale elevata - anche se ha un quadro di Kandinsky appeso alla parere - sotto quest'aspetto non è poi così diverso da quello del filisteo piccolo-borghese pieno di soldi e di birra che ama esprimere liberamente la sua avversione alla "arte degenerata", alla "musica negra" ed al movimento pop "americano". Qui non si tratta del carattere di superficialità in sé, ma soltanto di abiti e suoni "errati", in quanto metafore di un design sociale rifiutato. Dietro tutto questo si trova la paura dello straniero, degli emarginati, dei devianti o delle "classi pericolose".
Sebbene il culturalismo postmoderno coltivi e romanticizzi proprio quei fenomeni e quelle forme di espressione aborrite dai vecchi filistei culturali - però solo come accessori senza contenuto, ed arbitrariamente - esso appartiene alla medesima struttura di percezione e costituisce una coscienza di classe media, soltanto posizionata in maniera diversa. Su questo terreno i conflitti sono noiosi e gli interventi fin troppo prevedibili nella loro identità. Forse potrebbe essere chic appendere "avanguardisticamente" al muro, con un colpo di scena, la famigerata testa di cervo che bramisce; allora sì che le gallerie d'arte, da New York fino alla provincia di Berlino, si riempirebbero di un simile oggetto! Com'è noto, il riciclaggio di tutte le forme di espressione svolto dall'industria culturale livella anche la differenza fra arte e kitsch. In fondo era tutto cominciato con le rappresentazioni dadaiste di un princisbecco come oggetto d'arte; quello che allora venne considerata un'irrisione, da molto tempo viene trattato con serietà accademica come un problema della storia dell'arte.
Con questo non si intende negare che l'abituale "espressione" debba trovare una sua forma nella società, nell'universo vitale e nella cultura quotidiana. Ogni formazione storica si esprime artisticamente, anche laddove non esiste una sfera isolata dell'arte; le persone decorano lo spazio vitale e si rappresentano nelle loro vesti ecc.. Queste molteplici forme di espressione a livelli diversi non sono mai solo puramente individuali, ma sono piuttosto determinate dalla rispettiva società, dalle sue contraddizioni e dal suo sviluppo. Tuttavia, relativamente al modo di produzione e di vita capitalista bisogna tener presente che era il vuoto e l'indefferenza nei confronti dei contenuti ad essere inerente a tali meccanismi, così come l'esaurimento ed il deserto culturale che sono stati realizzati dalla sua dinamica specifica e che hanno portato al dominio ed all'autonomizzazione grottesca dell'esteriore. Come la forma astratta della merce si autonomizza nei confronti del contenuto concreto e lo abbassa alla sua mera "forma di manifestazione", lo stesso avviene in maniera analoga con l'inversione, di cui si è parlato prima, fra contenuti culturali ed intellettuali, da una parte, e la loro "forma di rappresentazione" esteriore, dall'altra.
Questo si applica anche alla cosiddetta cultura quotidiana, che si è sviluppata fino a quella che già Marx ha indicato come "religione del quotidiano"; tuttavia ben oltre il carattere ideologico del quale parlava Marx. Ormai non si tratta più di mere "opinioni" e interpretazioni ideologiche del mondo, ma piuttosto di modi di espressione e di auto-interpretazione intesi in maniera esistenziale. Il "puro nulla", nelle relazioni con i suoi simili, deve auto-rappresentarsi avvolto da un mantello  e deve curare in maniera permanente il suo abito in senso lato. La così tanto invocata pluralizzazione degli stili di vita è del tutto uniforme per quel che attiene al suo carattere di mezzo per distinguersi, situazione nella quale la pluralità si dissolve di nuovo in un "mainstream", anche quando questo sembra andare in direzioni differenti.
Qui il punto decisivo è che anche gli abiti più semplici, di per sé abbastanza irrilevanti, vengono caricati ed investiti di formalità arbitrarie e di "questioni di gusto" la cui importanza viene esagerata. Il fatto per cui nessuno su questo piano riesca a sottrarsi alle tendenze sociali, se non al prezzo della pura comicità, non ha niente di essenziale. Così da quarant'anni ce ne andiamo in giro con i jeans, e non con la toga; anche se i jeans non sono più gli stessi di prima, in quanto l'usura del materiale ci costringe a perdere tempo per comprarci dei pantaloni. Se i jeans ed i capelli lunghi dei giovani, o la musica rock, sono stati considerati come dei segni di una sorta di protesta giovanile, è ormai da tempo che è stata comprovata la loro innocuità ed il carattere affermativo di tale pseudo-rivolta. Tutto questo è diventato solamente una moda generalizzata per quel che riguarda i pantaloni, cui anche i vecchi hanno dovuto soccombere. E' ovvio che tali fenomeni si ripetano in qualche modo ad ogni generazione che si trovi nella fase della pubertà. La novità consiste nel fatto che assumano una rilevanza sociale generalizzata.
Devo comprarmi dei pantaloni che vanno bene ad un elefante, di modo che nessuno si accorga che ho il culo grosso? Oppure dei pantaloni talmente stretti che mi bloccano la circolazione sanguigna e così tutti potranno vedere che non ho il culo grosso? Simili alternative esistenziali nei tempi postmoderni non sono più solamente un'esclusiva dei giovani al di sotto dei quindici anni, ma rientrano nelle categoria che si avvicina all'idologia politica. Che gli individui sviluppino preferenze riguardo all'abbigliamento, al cibo e alla bevande, al sesso, alla sensibilità del corpo o all'arredamento della casa non costituisce più una questione naturale ed innocente. Se i tatuaggi o il piercing, la dieta vegetariana o vegana ed altre cose di questo tipo diventano una sorta di visione del mondo, per mezzo delle quali le persone si uniscono o si riconoscono in quanto parte di una determinata cerchia, come avveniva con il simbolo del partito, allora questo ne indica il carattere di ideologia in quanto procedimento di sostituzione, con cui si pretende di sostituire il vuoto ideale e sociale.
Tali procedimenti di sostituzione simbolica e di cultura quotidiana acquistano importanza proprio per l'amministrazione di crisi e per le sue ideologie di disciplinamento. Le campagne contro i fumatori che includono misure amministrative ai fini del divieto oppure la denuncia delle abitudini alimentari "malsane" delle classi inferiori non hanno niente a che vedere con la preoccupazione per il benessere. Al contrario, ciò che avviene è che in tal modo si sposta l'attenzione dalle disparità sociali, dalla povertà, dagli abusi sociali e dallo stress da lavoro verso il figurativo, verso la "performance" personale, come se il problema fosse solo quello dei cambiamenti sul piano delle abitudini o degli atteggiamenti culturali quotidiani e non avrebbe niente a che fare con una relazione sociale coercitiva. Una tale ideologia di amministrazione degli esseri umani ha chiaramente come obiettivo le anime affini delle personalità di un'auto-messinscena vuota, le quali pretendono di realizzarsi nel culto della superficialità e che diventano tanto più permeabili ai meccanismi di disciplinamento quanto più questi vengono presentato come offerta di design.
Il culturalismo postmoderno e la sua enfasi sull'apparenza ha un precedente storico dal duplice aspetto. Filosoficamente, si tratta della corrente irrazionalista del pensiero borghese, a partire dalla svolta anti-hegeliana nel 19° secolo, passando per la filosofia vitalista, fino ad arrivare all'esistenzialismo. E' il controprogramma borghese formulato da Nietzsche ed Heidegger contro Marx ed Adorno, dal quale anche la cosiddetta sinistra postmoderna trae i suoi principali riferimenti. In collegamento con questo, troviamo sempre l'atteggiamento o la modalità di percezione nota con il nome di "estetizzazione". L'orrore della guerra e della distruzione, il terrore della normalità, la sofferenza e la miseria divengono "belle immagini", budella e ventri gonfi per la fame o piaghe ulcerate diventano opere d'arte. La "estetica del terrore", definita da Walter Benjamin come fascismo soggettivo, ne costitisce l'antecedente ed è segretamente parte integrante della svolta culturalista postmoderna attuata contro la critica contenutistica, sociale e categoriale del capitalismo.
Anche l'allestimento della "entrata in scena", mostrato da Leni Riefenstahl nell'estetica cinematografica del congresso del partito del Reich, che raffigura parate di massa, appartiene a questo programma. L'individualizzazione postmoderna di questa linea di azione non cambia niente nell'essenza delle cose; ed in qualsiasi momento può sfociare in sorde sommosse collettive, come dimostra il mobbing digitale. L'indifferenza nei confronti del contenuto, nella sua acutizzazione posmoderna dà luogo ad un programma estetizzante ancora più avvolgente di quello dell'inizio del 20° secolo, che non viene nemmeno più percepito come tale in quanto rappresenta un sentimento generale della vita.
Tale estetizzazione militante, che ora ha fatto della forma del design pubblicitario una matrice totalitaria, è un'arma contro la critica radicale molto più efficace dei semplici costrutti del pensiero dell'ideologia. Non è la cosa in sé, bensì lo stile. Al posto dell'analisi critica appaiono trattati del tipo "come diventare poveri con stile". Lo styling non riconosce altro criterio di verità che non sia quello del numero dei "mi piace" sulla Rete. E quello che viene pubblicizzato è ciò che viene apprezzato in quanto "outfit". L'oggettività negativa dev'essere nascosta per mezzo di un "soggettivismo estetico"; al posto della rivoluzione sociale arriva la pseudo-rivoluzione indolore dello "apparire bello" - l'estetizzazione dell'esistenza di tutti e di ciascuno. Viene estetizzata non solo la guerra e le atrocità, ma anche la crisi, la nuova povertà e la catastrofe ambientale. Si tratta, simultaneamente, di un'estetizzazione della verità che corrisponde al paradossale "relativismo assoluto" della postmodernità.
L'ideologia dell'estetizzazione, diventata forma di vita reale, non dev'essere confusa con l'estetica in sé. Il punto non è che ciascun contenuto incontri la sua adeguata forma di espressione o di esposizione, per mezzo della quale possano essere sviluppati dei criteri. Al posto di tutto questo, come si è visto, è la forma estetica che si autonomizza contro il contenuto e lo abbassa alla sua forma di manifestazione accidentale e inessenziale. E' tale rovesciamento, implementato e consumato dalla forma totalitaria della merce nell'arte e nella cultura, a costituire il programma dell'estetizzazione.
Si tratta di un processo storico che dopo la seconda guerra mondiale ha avuto la sua conclusione nell'estetica delle merci e che ora può solo sfociare, in quanto qualità del mercato mondiale della "mancanza barbara", in nuova estetizzazione della politica, essa stessa da tempo già de-realizzata. Ora il terrore è ancora più agghiacciante e lo è in maniera diversa in quanto presenta tutti i tratti dell'assurdità. E' stato proprio il nuovo centro, verde, socialdemocratico e social-ecologico, che non solo ha stretto il laccio emostatico dell'amministrazione sociale della crise ed ha attuato l'Hartz IV, ma simultaneamente ha portato a termine la sua "vendita" democratica come pantomima del design pubblicitario. Non è un caso che siano i quadri e gli autoproclamati "rivoluzionari della cultura" della vecchia nuova sinistra del 1968 a produrre un simile sviluppo. Già allora avevano assunto anticipatamente il postmodernismo di sinistra, e oggi ne mostrano il suo futuro, anche se questo non deve più portare ai ministeri, ma semplicemente a dei mandati per il "partito dei pirati". Questa generazione già invecchiata di figli e nipoti del "nuovo centro" non ha più bisogno di alcun passato radicale di sinistra per il design della sua entrata in scena.
La metamorfosi delle vecchie scenografie che ha ben presto portato i rappresentanti comumali ed i combattenti di strada a maturare in uomini di Stato, dimostra ineluttabilmente che non può esserci alcuna "rivoluzione culturale" autonoma nel senso di un semplice rivoluzionamento di atteggiamenti, di stile, di "modalità del discorso", "modi di pensare" e vita quotidiana, o acconciature, cultura del consumo o anche cibo, ecc.. Se la generazione del 68 cresciuta politicamente si permette una modernizzazione ed una democratizzazione "culturale rivoluzionaria" della Repubblica Federale Tedesca, in quanto ha fallito come generazione rivoluzionaria, in questo modo comprova soltanto che lo pseudo-radicalismo performativo serve soltanto a culture di protesta a buon mercato e superficiali per poter superare la pubertà e serve anche per il "rivoluzionamento" del capitalismo stesso e del suo stile di management. Una bohéme della classe media che si mostra come arte del quotidiano, della sperimentazione sessuale e della ribellione abituale ha sempre svolto questo ruolo. Tuttavia, la "rivoluzione culturale" così limitata della nuova sinistra è stata l'ultima della sua specie anche perché non c'è più niente da rivoluzionare in termini economico-culturali, a causa della mancanza di sostanza reale del valore, ed il treno della sinistra pop e postmoderna è da tempo che è uscito dai binari.
In futuro, si potrà avere una "rivoluzione culturale" solo se essa sarà al tempo stesso espressione di un movimento sociale rivoluzionario che abbia un effettivo potere di intervento, e non una performance meramente simbolica. Un simile movimento attualmente non esiste e pertanto non può essere sviluppata neanche una qualsiasi estetica della critica, ma soltanto una critica dell'estetica dominante in quanto critica dell'industria culturale. Non si può indossare un abito senza che ci sia un corpo per poterlo fare. Il culto postmoderno della superficialità, nel suo atteggiamento di critica apparente cui non credono nemmeno gli stessi protagonisti, è altrettanto senza sostanza della valorizzazione virtualizzata del capitale della postmodernità. La condizione perché avvenga una nuova integrazione del movimento sociale con il movimento culturale rivoluzionario, è che penetri nella coscienza di massa una nuova critica radicale del contesto della forma feticista, cosa di cui la sinistra postmoderna non vuole sapere assolutamente niente.
Quello che attualmente il culturalismo ideologico persegue ancora al servizio del capitale è unicamente ed esclusivamente l'indebolimento interno della stessa critica categoriale. In quanto questa critica ora corre il rischio di trasformarsi in un oggetto puramente estetico proprio a causa della ricezione parziale ed apparente della critica del "lavoro", del valore e della dissociazione sessuale, ossia, rischia di trasformarsi in un accessorio effimero di auto-messinscena che viene presentato senza alcun tipo di impegno. Con la totalizzazione del design pubblicitario cammina di pari passo la sussunzione in generale di tutti i contenuti nella corrente cieca dello spirito del tempo o nella moda.
Non si tratta solo di abiti alla moda, ma anche di delitti alla moda, di malattie alla moda e di ideologie alla moda, perfino di indecenze alla moda. E' proprio la sinistra postmoderna a diffondere dappertutto i suoi motti banali per mezzo del suo pensiero da piccolo paesino di provincia. Per questo le personalità sociali postmoderne sono per principio persone inaffidabili; non ci possiamo aspettare da loro alcuna posizione salda e vincolante, nemmeno in relazione alla critica categoriale, anche quando suppongono di essersene appropriati.
Come il vecchio patriarca verde del 1968, Joschka Fischer, espande periodicamente il perimetro della suo corpo, per poi tornare a restringerlo, come una fisarmonica, trasformandosi da panciuto in maratoneta e viceversa, così anche gli strateghi individualizzati del look trasformano periodicamente il loro comportamento, i loro atteggiamenti e le loro convinzioni, senza alcuna coerenza interna. Si sa già che qualsiasi contenuto cui si mette mano dovrà ben presto essere nuovamente rimosso. Interi periodi della vita appassiscono in un'estate, o possibilmente in una sera soltanto; tutte le relazioni si dissolvono quasi già prima di cominciare. Vale la massima di Berlusconi, il quale ha detto che: "Sono stato spesso sincero". Dato che il puro nulla non può restare unito al nulla, non impara nulla, neanche la propria madrelingua. Il cittadino del mondo postmoderno non sa bene né il tedesco né l'inglese; non sa bene niente, ma ha già provato tutto, una volta o l'altra.
Come antidoto a questa spiacevole situazione si raccomanda in senso emancipatorio un totale rifiuto dell'estetizzazione e della moda, senza alcun compromesso, cosa che implica una critica radicale del culturalismo postmoderno. Il contenuto dev'essere ristabilito nel suo diritto prioritario. Questo vale sia per la critica superficiale della superficialità, fatta da quello che rimane dello stock della coscienza della borghesia culturale, sia che per il contro-polo postmoderno. Il mondo non è un accessorio; il culto della superficialità dev'essere coperto di disprezzo e di maledizioni. L'industria culturale non può essere abolita per mezzo di un'iper-affermazione postmoderna di sinistra, ma solamente attraverso la svalorizzazione militante in ogni senso del mero design. Nelle pubblicazioni della critica radicale a volte va incoraggiata la pubblicazione di testi pesanti e, nel look, la semplicità cosciente.
Non possiamo concludere la discussione del capitolo sull'Industria Culturale della "Dialettica dell'illuminismo" senza qualche rottura, ma la ricezione critica della concezione lì sviluppata rimane indispensabile. Il postmodernismo, che ha ritenuto di essere al di là di tutto questo, non ha più niente da dire al mondo della crisi del 21° secolo. Rimane la speranza che sia pronta a sollevarsi una generazione che dica, in tutta simpatia, agli ideologhi pop appassionati delle loro proprie carriere giovanili che adesso sono loro stessi ad essere i vecchi insopportabilmente noiosi di ieri, e che è arrivato il momento di interrompere le trasmissioni.

- Robert Kurz - Pubblicato su EXIT! n° 9 del marzo 2012(3 di 3 – Fine) -

fonte: EXIT!

martedì 29 dicembre 2015

Il numero da lei chiamato è inesistente

cultura5

L'Industria Culturale nel 21° Secolo (2 di 3)
- Sull'attualità della concezione di Adorno ed Horkheimer -
di Robert Kurz

* Dalla critica apparente della borghesia intellettuale al culto postmoderno della superficialità * Critica culturale elitaria o emancipatrice? * Riduzionismo tecnologico * La pubblicità come percezione culturale del mondo e di sé * Il proseguimento con altri mezzi del "lavoro astratto" e della concorrenza * Internet come nuovo mezzo centrale dell'industria culturale * La virtualizzazione del mondo della vita * Interattività del Web 2.0 ed individualizzazione * Una cultura gratuita a caro prezzo * Il limite interno del capitale e la crisi economica dell'industria culturale * Sulla via dell'esaurimento delle riserve culturali * Il mondo non è un accessorio. Perché è impossibile una "rivoluzione culturale" separata *

* Internet come nuovo mezzo centrale dell'industria culturale *
E' il momento adesso - come previsto - di affrontare Internet in quanto complesso più avanzato dell'industria culturale. La "Rete" costituisce senza dubbio la perfetta tecnologia postmoderna, la quale non a caso viene paragonata alla scoperta della stampa avvenuta all'inizio della modernità e si ritiene che avrà effetti altrettanto rivoluzionari. Ma, così come la stampa dei libri e le sue conseguenze sociali non possono essere comprese a partire da esse stesse, ma soltanto nel contesto del processo di costituzione storica proto-capitalista, anche Internet non può essere dichiarata un'istituzione tecnologica autonoma con potenziali di cambiamento sociale, ma può essere solo vista come momento socio-tecnologico nei limiti storici del capitalismo.
L'opposizione complementare fin qui tratteggiata fra il pessimismo culturale della borghesia culturale e l'ottimismo culturale postmoderno finisce quasi per non aver ragione di essere in un tale complesso ultramediatico; e questo soprattutto perché l'alta cultura conservatrice dell'antica filologia della borghesia classica è di fatto pronta a capitolare incondizionatamente. Nello specifico contesto tedesco, la corrispondente borghesia culturale è stata sempre, da un lato, una borghesia immaginaria, un gruppo sociale diffuso e variegato, i cui membri pretendevano considerarsi "qualcosa di meglio" proprio sotto l'aspetto culturale. Questa demarcazione si riferiva non solo alle qualifiche (accademiche) superiori, ma anche ad un canone culturale il cui nucleo erano le lingue antiche, la filosofia classica e la poesia dell'idealismo tedesco. La pretesa di una "cultura superiore" a questo associata andava ben oltre i pochi specialisti in materia; avvolgeva tutto lo spazio accademico e sicuramente anche il personale docente e perfino coloro che avevano portato a termine l'istruzione secondaria. Per questo, la demarcazione non era soltanto nei confronti delle "masse incolte", ma anche rispetto alle élite degli altri paesi capitalisti. Immaginaria, questa borghesia lo era certamente anche per la competenza circa il contenuto di quel canone culturale che per la maggioranza di questa classe non si spingeva oltre la superficialità ed andava tranquillamente a braccetto coi fumi delle birrerie e con la brutalità nei rapporti sociali.
Questa vecchia "barbarie colta" della borghesia accademica tedesca si è estinta all'epoca delle guerre mondiali e non c'è da piangerci sopra. Nella democrazia del mercato mondiale, dopo il 1945, è scomparso anche il canone culturale classico, dando luogo in questo modo ad una mera coscienza funzionale di élite. Quello che è rimasto è solo un debole riflesso di quella pretesa, del resto mai realmente soddisfatta, ed un residuo soltanto fantasmagorico della falsa coscienza di essere "qualcosa di meglio". Nell'attuale ideologia di classe media, questo impulso si riduce sempre più al tentativo di difendere la qualifica d'istruzione secondaria della propria prole contro le nuove classe inferiori e contro i migranti, ossia, di sabotare qualsiasi superamento del sistema scolastico diviso in tre gradi, ormai da tempo anacronistico, della Repubblica Federale Tedesca.
Per quel che concerne i contenuti, con la terza rivoluzione industriale l'impero fantasmatico della borghesia culturale è sparito definitivamente. La presunzione elitaria, ormai da tempo, non si riferisce più alla capacità di riuscire a recitare il testo originale di Omero, ma bensì ad una mistura di economia politica e di "competenza multimediale" che costituisce il profilo ideale dell'individuo rigorosamente postmoderno in quanto "dispositivo di successo"; seppure questo rimanga soltanto al livello della nuova fantasia del rispettivo ambito. La coscienza di élite senza fondamento ha cambiato con estrema sofferenza la maschera appiccicata sul proprio volto; ed ora è volgarmente la maschera dell'economia capitalista ed ordinariamente la stessa maschera tecnologica indossata da tutta l'organizzazione democratica. Perfino i professori di latino, gli scienzati letterari ed i cattedratici di filosofia ora fanno apprendistato presso giovani e dinamici imprenditori imbroglioni e si sciolgono in ammirazione davanti a dei tredicenni fanatici che amano essere considerati virtuosi del clic del mouse. La nuova élite è notoriamente senza alcuna pretesa spirituale ed è talmente poco attrezzata per il corso del mercato che le università "di eccellenza" possono essere considerate tutt'al più come un'oggettiva ironia. L'apoteosi dell'insieme dell'industria culturale sta nel fatto che le élite di ogni settore si sono trasformate in veri e propri personaggi da fumetto che sono straordinariamente deliziati dal loro proprio status perché non hanno alcun termine di paragone.
Nel 1945, Adorno ed Horkheimer non potevano sapere né della rivoluzione tecnologica digitale né della sua applicazione allo sviluppo capitalista. Ma si trovavano perfettamente nelle condizioni di pronosticare, riguardo all'industria culturale, la tendenza generale verso la sua integrazione mediatica, così come aveva fatto Marx riguardo alla scientificazione dell'industria capitalista. "La televisione" - scrivevano - "tende ad una sintesi della radio e del cinema" e questo porterà alla "realizzazione ironica del sogno wagneriano dell'opera d'arte totale". Poiché la "armonizzazione fra parola, immagine e musica", dacché non segue alcuna legge culturale propria, è soltanto "il trionfo del capitale investito".
E' facile rendersi conto che Internet si appresta a portare a compimento la sintesi dell'industria culturale su una scala ancora più grande. Le diverse tecnologie di stampa, telefonia, cellulari, radio, cinema e televisione vengono fuse in un unico complesso globale. Tuttavia da questo non emerge di nuovo una rivoluzione tecnologica in quanto tale, ma si tratta della logica del "lavoro astratto" (logica, che penetra geneticamente tutto il sistema), della forma autonomizzata del valore e del controllo sociale che su di essa si regge , che costituisce la matrice, e simultaneamente il movimento, di questa integrazione mediatica. La forza sintetica non deriva da una qualche riflessione cosciente e ormai nemmeno più dalle attività autonome degli individui, ma emana, al contrario, dalla determinazione eteronoma della forma sociale. Per questo, in Internet, come nuovo mezzo centrale, si condensano e si aggravano tutte le contraddizioni ed i deficit che Adorno ed Horkheimer avevano precocemente rilevato nell'industria culturale. In realtà, si tratta solo della prevista "realizzazione ironica del sogno wagneriano dell'opera d'arte totale" in senso ampio. Cosa che può essere osservata in alcuni aspetti essenziali.

* La virtualizzazione del mondo della vita *
Fin dal suo inizio, quel che è inerente all'industria culturale è la tendenza ad invertire la relazione fra oggetto e rappresentazione, fra segno e significato, o a cancellare la differenza fra di essi. Nasce soltanto qui, in una dimensione specifica dell'industria culturale, quel "mondo invertito" generale della relazione di capitale. Horkheimer ed Adorno vedono una tale tendenza all'inversione, già nel mezzo, allora recente, del cinema a colori: "Il mondo intero viene costretto a passare attraverso il filtro dell'industria culturale. La vecchia esperienza dello spettatore cinematografico, che percepisce la strada come un prolungamento del film che ha appena finito di vedere, dal momento che questo stesso film pretende di riprodurre rigorosamente il mondo della percezione quotidiana, diviene lo standard di produzione. Quanto più è maggiore la perfezione con cui le sue tecniche duplicano gli oggetti empirici, tanto più facile diventa oggi ottenere l'illusione che il mondo esterno sia il proseguimento, senza rottura, del mondo che si scopre nel film".
Non è un fine cosciente, ad esempio nel senso di una "manipolazione" deliberata della coscienza (come in seguito sembrano suggerire anche Adorno ed Horkheimer), al contrario, il momento manipolativo risiede nella logica oggettiva delle relazioni e nella loro espressione nell'industria culturale. "La vita non deve più, tendenzialmente, potersi distinguere dal film sonoro". Questa formulazione fatta nel capitolo dell'industria culturale riferisce il "deve" al "soggetto automatico" (Marx) della valorizzazione del capitale. Gli individui in una certa misura manipolano sé stessi proprio perché sono "soggetti" dell'imperativo capitalista. Come si consuma un'inversione in quanto la produzione concreta è socialmente "valida" solo come forma di manifestazione del "lavoro astratto", come la forma delle merci si duplica nella forma del denaro e come la "ricchezza concreta" può essere soltanto forma di rappresentazione e di manifestazione della "ricchezza astratta": così si inverte e si duplica anche la percezione e la rappresentazione cultural-simbolica del mondo e della propria esistenza. L'autonomizzazione, già enunciata dall'effetto tecnico senza contenuto, va ancora più lontano e si aggrega in uno pseudo-mondo, dal momento che gli oggetti concreti, così come gli individui ad essi relazionati, diventano mere forme di manifestazione del suo proprio modo di rappresentazione, e quest'ultimo sviluppa una specie di vita apparente.
A quel che Marx ha definito come "forme oggettive di esistenza", ossia, alla vera vita segnata nel capitalismo dagli imperativi della valorizzazione e dell'auto-valorizzazione, viene sovrapposta una seconda realtà virtuale: una messinscena ed un'auto-messinscena mediatica. Tale concetto è diventato inflazionato come concetto semi-critico o direttamente affermativo. Non è un caso che in tutte le sfere della vita si diffondono, come metafore, espressioni provenienti dal mondo del teatro. Gli individui si considerano sempre più come i loro propri attori nel loro proprio teatro. Questa pseudo-vita virtuale non ha solamente una funzione compensatoria rispetto alla miseria delle relazioni sociali reali, ma viene anche  elevata fantasiosamente ed ideologicamente a "vera" realtà, rispetto alla quale l'esistenza materiale e sociale reale si configura come una mera appendice, ormai quasi irreale.
Le parole di Adorno ed Horkheimer a proposito dell'indistinguibilità, e perfino del rovesciamento mediatico, fra l'essere sociale e l'apparenza prodotta dall'industria culturale, sono profetiche in quanto già indicano nel cinema una tendenza che va ben oltre il cinema stesso. Per la maggioranza dei consumatori dell'industria culturale di allora, il cinema a colori era ancora riconoscibile come prodotto delle fabbriche dei sogni e la sala del cinema veniva identificata come un luogo dove una persona non vive sul serio, ma in cui entra occasionalmente uscendo dal mondo del quotidiano. Al contrario, Internet, non in generale ma per un numero elevato e crescente di persone a vari gradi, è diventata una sorta di residenza spirituale e culturale che, viceversa, si abbandona solo occasionalmente per fare una visita alla realtà sociale e materiale. Quest'inversione fra apparenza mediatica e realtà ha raggiunto, con l'aiuto dello sviluppo tecnologico e con la sintesi dei dispositivi elettronici, quanto meno una nuova dimensione.
Naturalmente non si deve cadere nell'errore di prendere il cliché troppo sul serio. Astraendo dal fatto che la maggior parte dell'umanità non ha accesso - oppure ha un accesso molto limitato - ad Internet e che con il suo espandersi si vanno rivelando limiti di saturazione dovuti alla mancanza di potere di acquisto e/o di infrastrutture, ed anche astraendo dal fatto che per molti utilizzatori abituali la differenza fra mondo reale e virtuale non è assolutamente scomparsa. Il che altresì non è neanche possibile, così come il valore astratto non riesce in nessun modo a far sparire la necessità dei beni di uso materiale per mezzo del loro modo di rappresentazione sotto la forma del denaro. Se il denaro non si può mangiare, assai meno si possono mangiare i download.
Inoltre il fenomeno della virtualità non costituisce solo un semplice problema generazionale, come spesso si vorrebbe far credere. La presunta "Net generation" di "quelli nati col digitale" è più una leggenda da opinionisti interessati. In realtà non esiste un gruppo di età uniformato su una specifica socializzazione digitale. Il consumo a volte più frequente dei mezzi elettronici di comunicazione non va confuso né con una maggior competenza in materia né con un moto di percezione senza difficoltà. Anche fra gli adolescenti si trovano alcuni individui che hanno difficoltà a trattare con un ambiente digitalizzato; non solo fra gli adulti più anziani. Ed il consumo superficiale dei giocattoli della tecnologia dell'informazione dell'industria culturale non mette in atto alcuna "padronanza", e lo fa ancor meno se assume un carattere di vizio. In tutte le generazioni ci sono pochi che posseggono un'effettiva ed ampia competenza digitale; e non sappiamo bene il modo in cui la applicano.
La presunta maggior facilità di adattamento alla virtualizzazione tecnologica del mondo della vita da parte di adolescenti e pre-adoloscenti è parzialmente una mera illusione dei professionisti specializzati in gioventù, ma è in parte anche un'auto-illusione della generazione che ha questi interessi, e della sua propria falsa coscienza. Oppure anche un auto-illusione dei loro genitori e dei loro nonni, con un residuo di socializzazione della borghesia culturale, che vorrebbero consegnare alla propria discendenza speciali opportunità di futuro, in quanto capitale umano in grado di cliccare con il mouse. Il "darwinismo dei media" così tanto spesso evocato può anche tornarsene dov'era. Le giovani competenze mediatiche della vita ridotta di oggi, che ormai non leggono libri, sono i perdenti di domani, perfino dal punto di vista dell'immanenza capitalista.
I propagandisti della tendenza alla virtualizzazione, in ogni caso reale, non coincidono con l'insegnamento delle competenze tecnologiche, né riflettono sulle contraddizioni insolubili relative a questa tendenza o a proposito dell'illusionismo ad essa associato. Al contrario, abbiamo a che fare con una certa parte della produzione di opinioni accademiche e mediatiche che ha ottenuto uno status egemonico in virtù del fatto di aver conferito un'espressione ideologica affermativa allo sviluppo capitalista al principio del 21° secolo. La pressione alla virtualizzazione, nella misura in cui si generalizza secondo una tendenza comunque paralizzante, corrisponde innanzitutto ad un adattarsi in maniera zelante all'ideologia egemonica, e quindi ad uno stadio un cui non si distinguono gli stessi bisogni da un conformismo senza cerimonie. In ogni caso la fuga verso un oltre simulato digitalmente mostra la miseria della realtà capitalistica.
L'abbandono da parte della coscienza postmoderna del vecchio canone culturale borghese non produce assolutamente alcun nuovo contenuto, bensì trasforma in contenuto la propria "forma vuota", perseguendo in tal modo l'illusione oggettiva del capitale che vorrebbe emancipare la "ricchezza astratta" dalla materia e dalla natura. Voler eliminare la relazione referenziale fra rappresentazione ed oggetto, fra modus e contenuto o fra segno e significato, fa parte dell'essenza dell'ideologia postmoderna anti-essenzialista. Se il culturalismo diffonde l'autonomizzazione dei sistemi dei segni e dei modi, soccombe di fronte all'astrazione funzionale del comprare e vendere nella sfera del mercato borghese che non vuole sapere niente della sua sostanza feticista. La sintesi attraverso Internet dei mezzi dell'industria culturale sembra fornire una base tecnologica ad un'illusoria emancipazione dei segni. La scomparsa graduale del mondo che si converte in flussi di dati fissa l'apparenza reale feticista della merce su un piano differente, come campo da gioco universale prodotto meccanicamente, sul quale non solo gli oggetti, ma anche le persone si duplicano, e nella loro virtualizzazione conferiscono a sé stesse una vita apparente che corrisponde alla loro reale nullità e volgarità. Lo spazio virtuale è infestato dagli avatar, come fantasmi di quei morti viventi che nella realtà vegetano nei campi di concentramento della valorizzazione del capitale e dell'amministrazione del lavoro.
La virtualità integrata all'industria culturale ne ha penetrato la tecnologia; ma, ancora una volta, la ragione non è tecnologica in quanto tale ma, al contrario, è quest'ultima che assume il suo carattere a partire dalla forma del soggetto capitalista, il quale procede a tentoni in una dinamica cieca. Anche per questo, non è a caso che la maggioranza delle presenze nel parco giochi virtuale siano maschili. Nella realtà gli uomini e le donne, presi individualmente, non corrispondono alle competenze socio-storiche loro assegnate - come è stato dimostrato dalla teoria della dissociazione sessuale - ma, in generale, non possono liberarsi da tali competenze fino a quando la relazione sociale soggiacente non sarà stata abolita. L'attenzione, connotata come femminile, verso i bambini, gli anziani e gli ammalati bisognosi appare già, nella migliore delle ipotesi, in forma idealizzata, nella letteratura; metterla in scena come "realtà virtuale" è del tutto impossibile in quanto in quest'area non si può dare alcuna simulazione tecnica, senza che venga immediatamente rivelato il suo carattere assurdo. Lo spazio virtuale costituisce l'impero spirituale secondario, un duplicato del "lavoro astratto" anche nel senso del suo divenire storicamente irreale; e gli avatar che lo percorrono sono soprattutto i fantasmi della moderna mascolinità patriarcale.

* Interattività del Web 2.0 ed individualizzazione *
Man mano che i moderni mass media elettronici, e la produzione dell'industria culturale ad essi associati, entravano nella vita, essi venivano anche calibrati formalmente e tecnologicamente sulla passività del loro pubblico. Adorno ed Horkheimer vedono in questo decisamente un marchio strutturale essenziale dell'industria culturale: " Il passaggio dal telefono alla radio ha separato nettamente le parti. Il primo, liberale, permetteva ancora all'utente di svolgere la parte del soggetto. La seconda, democratica, rende tutti del pari ascoltatori, per consegnarli, in modo autoritario, ai programmi fra loro tutti uguali delle varie stazioni. Non si è sviluppato alcun sistema di replica, e le trasmissioni private sono circoscritte alla clandestinità".
L'apologia postmoderna dello "spettacolo" (Debord) dell'industria culturale ritiene di poter intervenire trionfalmente su questo per dimostrare il carattere antiquato del pessimismo culturale della teoria critica. Perché se la mancanza di un "dispositivo di replica" era scontata per i media pre-digitali, e anche per la fase iniziale di Internet, ora - conclude la spiegazione pop postmoderna - la vecchia struttura autoritaria "dell'emittente e del ricevente" sarebbe di fatto superata. La parola chiave è "interattività". La mutazione senza fine di Internet avrebbe portato alla nuova qualità interattiva del Web 2.0, è quello che continua ad essere ripetuto sia nei supplementi culturali che nel mondo accademico. A questo livello qualsiasi "utente" può, sempre e dovunque, connettersi nella maniera più personalizzata possibile ed intervenire con la parola (o con l'immagine).
I passaggi di questa mutazione sono illuminanti. Si va dalla pseudo-partecipazione, in programmi radiofonici che prevedono la partecipazione telefonica degli ascoltatori, che giocano ad essere presenti per mezzo di sciocchi saluti "a tutti quelli che mi conoscono" ecc., passando per l'inflazione di siti web privati, ai blog, alle forme direttamente interattive dei "commenti" nelle mailing list o nelle edizioni elettroniche dei media stampati, alle reti "di amicizia" del Web 2.0 e ai servizi di informazione come "Twitter". Ma tutte queste forme di interazione digitale non sono state in grado di portare ad una qualche emancipazione mediata in maniera puramente tecnologica, allo stesso modo in cui non ne sono state capaci tutte le forme precedenti dell'industria culturale.
Il concetto di mero "dispositivo di replica" forse è stata una scelta infelice da parte di Adorno ed Horkheimer, anche perché non erano in grado di intendere questa funzione in una modalità ridotta a tecnica.Ma si tratta di qualcosa di diverso. La capacità di replica è organizzata soltanto a livello di oggetto e di apparecchiatura, e non a livello sociale. L'espressione "social networking" digitale, che apparentemente contraddice questa valutazione, è solo un eufemismo. Il social si riferisce qui ad un contesto quasi esclusivamente virtuale, meramente simulato; si tratta nella più parte dei casi di amicizie irreali fra avatar. I veri individui rimangono spesso anonimi, oppure indossano una maschera in modo solamente esibizionista, nella distanza mediaticamente mediata che permette apparentemente una vicinanza primitiva secondaria. All'irrealtà corrisponde il non-compromesso; del resto questo riflette qualcosa che è essenziale nell'intima disposizione postmoderna, la quale rifugge qualsiasi compromesso, come il diavolo rifugge la croce. Questa ovvia fenomenologia del Web 2.0 è generalmente nota e viene frequentemente tematizzata; non da ultimo negli stessi supplementi culturali che amano delirare a proposito dell'interattività digitale. Ma a cui piace assai poco riflettere sui suoi presupposti o sulle conseguenze.
Lo sfondo è costituito, fin dal principio, non dalla pura tecnologia bensì - come non poteva non essere - dallo sviluppo sociale corrente logicamente associato alla "interpretazione" tecnologica. Il dispositivo in quanto tale fornisce solamente il termine altrimenti insidioso di "interattività" o "interazione", come se si trattasse di una relazione reciproca fra pianeti, molecole, insetti o componenti meccaniche. Questa disumanizzazione, già insinuata fin dal termine quasi altrettanto neutro di "comunicazione", corrisponde allo status de-realizzato di persone partecipanti che si sono letteralmente trasformate in semplici maschere. Il fatto per cui il "dispositivo di replica" tecnico emerga proprio nel momento in cui i soggetti socialmente ridotti al minimo, e virtualmente disumanizzati e resi irriconoscibili come meri attori, non hanno più niente da dire gli uni agli altri ma, al contrario, possono ora presentarsi gli uni agli altri nelle loro maschere, potrebbe essere vista come un'astuzia negativa della ragione capitalista. Per cui non si parla di "dialogo", di "discussione" né tanto meno di "polemica", non a caso proibita, bensì di una "interattività" vuota e meccanica, alla quale gli individui borghesi si sono ridotti da sé soli.
Già nel 1944, Adorno ed Horkheimer intuivano lo stato di decadenza della soggettività capitalista che Ulrich Beck caratterizzerà, quarant'anni più tardi, come "individualizzazione". Contrariamente alle ipotesi ottimistiche di Beck, essi già sapevano in anticipo che il processo non aveva niente a che vedere con la liberazione degli individui dalla coercizione sociale oggettivata, ma semmai atteneva ad un nuovo livello della sua interiorizzazione, che si esprimeva anche esteriormente come nuova qualità di una "liberazione" meramente nel senso di una situazione universale di fuorilegge [Vogelfreiheit]. L'individuo astratto - fin da principio il tipo logico ideale del soggetto funzionale capitalista, ossia, l'opposto di un individuo concreto che vive coscientemente la propria socialità - dopo un lungo e doloroso processo di sviluppo si raffina nella pura forma postmoderna, in cui appare solo come un punto o come una "unità". Il capitale, il "soggetto automatico" della valorizzazione, è ora l'auto-riferimento immediato, non filtrato, folle e demoniaco del soggetto: ciascuno è il suo proprio capitalista, ciascuno è il suo proprio operaio. L'uomo isolato ormai non ha più alcuna storia ma, come unità astratta, è solo un punto medio delle tendenze del mercato, una macchina di autovalorizzazione o, come si dice in maniera premonitoria nel capitolo sull'industria culturale:"Ciascuno si riduce a ciò per cui può sostituire ogni altro: un esemplare fungibile della specie. Egli stesso, in quanto individuo, è l'assolutamente sostituibile, il puro nulla”.
Ma qui già non c'è più alcuna Dialettica dell'Illuminismo, come Adorno ed Horkheimer pretendevano ancora di vedere, pur con dubbi, ma c'è semmai il compimento della sua promessa. L'Illuminismo non aveva mai promesso altro che la "felicità" di ciascuno nel poter trasformare sé stesso in un "puro niente". Tale contesto è perfettamente chiaro e criticabile. Ma il postmodernismo, in tutte le sue varianti, non vuole questa critica; ciascuna copia si delizia della sua pura nullità che egli immagina come liberazione dalla materialità e da ogni relazione in generale. Gli individui astrattizzati fino al punto di non poter più essere ormai non sono più in grado di farsi coinvolgere in niente, da nessun contenuto, in quanto essi stessi sono diventati un oggetto meramente esteriore e cosificato.
In un certo modo, questo era già vero per l'individualità astratta ancora non maturata che atteneva ai primi dispositivi della tecnologia di "comunicazione" nel 19° secolo; ad esempio ed in primo luogo con il telefono, allora limitato ancora alle classi superiori con la capacità di pagarselo. Quando Adorno ed Horkheimer ironizzano sul fatto che il vecchio "dispositivo di replica" telefonico avesse ancora lasciato "svolgere" "liberalmente" ai partecipanti il ruolo di soggetti e che il dispositivo di controllo democratico dell'industria culturale, al contrario, questo non lo permetteva, un simile punto di vista non viene in alcun modo smentito dal Web 2.0 interattivo. Anche se i due autori si esprimevano probabilmente ancora nel senso di una dialettica positiva, possibile ma non sviluppata, anche così la loro formulazione ironica ci permette di intuire come il carattere "liberale", e simultaneamente di mero dispositivo, del telefono riduca la soggettività a "svolgere un ruolo", perché dietro c'è il potere aprioristico del "soggetto automatico" che ha ridotto il moderno concetto di "soggettività" al concetto di una semplice funzione. L'essenza di tale soggettività "interattiva" precoce si esprime nel migliore dei modi in quelle scene filmiche in cui l'attore visibile che parla al telefono allontana da sé la cornetta per non sentire la verbosità insopportabile del compagno di "interazione", e che poi, da parte sua, parla nel microfono senza che dall'altro lato ci si sia accorti dell'interruzione.
In questa pantomima da cinema muto con ogni probabilità è stato già detto tutto circa la "interattività". La mania del telefono cellulare che impazza da più di un decennio ha spinto questa situazione fino alla sua piena riconoscibilità, nella misura in cui ora le conferisce una mobilità tecnologica e, simultaneamente, uno spazio pubblico di esibizionismo "comunicativo". Quello che prima veniva pietosamente posto al riparo dalla cabina telefonica, ora irrompe come sproloquio nelle strade , nei bar e sui mezzi di trasporto. Sarebbe di fatto preferibile che i partecipanti semplicemente mettessero a nudo le loro parti sessuali, almeno così verrebbe risparmiato agli astanti l'oscenità, assai peggiore, dei loro strumenti vocali in attività. Cos'è mai la patta aperta dei pantaloni del tradizionale esibitore di membro sessuale a confronto della bocca aperta di uno pseudo-soggetto postmoderno?  Nelle "comunicazioni" compulsivamente udite non è più possibile riconoscere alcun contesto umano; e anche le comunicazioni professionali o commerciali mostrano soltanto il motivo per cui l'economia imprenditoriale ci dovrà necessariamente portare alla catastrofe personale e sociale. Il dispositivo telefonico mobile, che nel frattempo si è connesso ad Internet, porta il corrispondente sistema di "replica" ben oltre la pubblicità compulsiva acusticamente limitata delle presuntuose comunicazioni quotidiane.
Il Web 2.0 offre a qualsiasi polemista da bar e a qualsiasi adoloscente piantagrane, quanto meno formalmente, la piattaforma per una pubblicità mondiale immediata. Ma la possibilità tecnologica coincide con la sua irrealtà sociale. Gli individui diventano mediaticamente attivi in termini di generalità sociale proprio sotto quella forma irriflessa ed acriticamente accettata che è stata loro consegnata dal capitalismo: come pseudo-individualità atomizzate, come meri esemplari dello stesso principio trascendentale. Quando un puro niente interagisce con un altro puro niente, si tratta solamente della vecchia e ben nota "figura di interazione" effettuata con altri mezzi, vale a dire, del possessore di merci che ne incontra un altro. Solo in apparenza si tratta di "discussione" di contenuti e di problemi reali, ma di fatto si tratta soprattutto di auto-messinscena narcisistica, che nei vecchi mezzi dell'industria culturale ancora almeno non avveniva "interattivamente", ma rimaneva attribuita ad una situazione amichevolmente "muta", come un'apparecchiatura attiva solo come abitudine o come un'irradiazione acustica unilaterale. Rimane un segreto degli apologeti, il motivo per cui un'irradizione acustica nei due sensi dovrebbe essere meglio. Adorno ed Horkheimer si erano già resi conto del fatto che la "stravaganza ben organizzata" costituisce il vero fine dell'esercizio mediatico, e la cosa rimane, sia che la scena ora si trovi collegata "interattivamente" o meno. Nella misura in cui i partecipanti sono limitati a presentarsi o a collegarsi l'uno con l'altro, è proprio il "dispositivo di replica" che li fa rimanere scollegati: "Il numero da lei chiamato è inesistente".
La "interazione" limitata alla forma e ridotta alla tecnica è ancora più difficile di quella del canale unilaterale poiché suggerisce una struttura dialogica resa anticipatamente impossibile dall'equipaggiamento del soggetto post-moderno, nella misura in cui questo continua ad essere affermato acriticamente . Ciò vale anche per l'auto-soddisfazione antiautoritaria dei piccoli blogger che si sottomettono agli imperativi socio-economici del "soggetto automatico" proprio perché trasformano sé stessi in marchi aziendali. La relazione autoritaria non viene superata per il fatto che smette di essere una relazione esteriore, ma viene dislocata all'interno degli individui come auto-relazione autoritaria. Così come ciascuno è il suo proprio capitalista ed il suo proprio operaio, ciascuno è anche la sua propria star, il suo proprio eroe ed il suo proprio ed unico fan; ed anche il suo proprio fan-club, in quanto personalità multipla tramite la moltiplacazione virtuale. Si potrebbe anche dire, ciascuno è la sua propria industria culturale casalinga per cui anche la maggior parte delle creazioni diventa conseguentemente penosa. Ma non c'è problema, tanto nella comunità dei chiacchieroni nessuno ci fa caso.
Allo stesso modo in cui la virtualizzazione della vita si presenta in maniera differente per gli uomini o per le donne, così avviene anche per la virtualizzazione e per il mezzo "interattivo". Più precisamente: il patriarcato cosificato, la dissociazione sessuale, si riproduce in maniera differente nella "interazione" mediatica individualizzata, similmente a come avviene fin dall'inizio nell'industria culturale. E così come il "lavoro astratto" è strutturalmente connotato come maschile, pur se ormai anche le donne sono da tempo "impiegate" in questa sfera funzionale, la stessa cosa avviene anche nello spazio virtuale dell'auto-messinscena. Qui, anche il sesso può essere cambiato con un clic del mouse, dal momento che ancora una volta sono soprattutto gli uomini che vogliono scoprire anche una femminilità virtuale per poter essere realmente "tutto" nella loro immaginazione. Ragion per cui la quota effettiva di donne fra i registi della Rete dovrebbe essere presumibilmente ancora minore di quanto già appare.
Il "puro nulla" segnalato da Adorno ed Horkheimer è, in quanto riflesso del "lavoro astratto", anch'esso strutturato come maschile e, proprio nella sua nullità, disponibile alla violenza latente. Dacché il puro nulla della soggettività scervellata e virtualizzata è in grado di trascendere il suo status di monade soltanto nella configurazione dell'aggressione e della caccia alle streghe. Naturalmente anche le ragazze partecipano al deplorevole mobbing digitale; ma di regola questo è soprattutto uno sport per giovani maschi. Tutto ciò diventa ancora più chiaro nelle chat-room virtuali hard per adulti. Per il mob digitale che assume periodicamente la forma della "interattività" maschile, del resto, sono le donne brutte l'oggetto favorito. Questo carattere fascista latente da truppa d'assalto nello spazio virtuale può perfettamente irrompere nella realtà sociale e diventare violenza materiale immediata. Specialmente in questo consiste il modo di ottenere consenso e la "capacità di realtà" tecnologicamente "interattiva" delle auto-comparse digitali.

 * Una cultura gratuita a caro prezzo *
L'industria culturale come area di valorizzazione del capitale naturalmente presuppone il carattere di merce dei suoi prodotti, la cui espressione reificata di relazioni umane, com'è noto, venne elaborata da Marx nel suo concetto di feticcio. L'oggettività del valore delle merci culturali dentro una produzione per il puro profitto esige ora una vera e propria ritrasformazione "realizzatrice" e che queste merci si esprimano nella forma di "ricchezza astratta", ossia, nella forma del denaro, attraverso l'atto della vendita. Qui si presenta di nuuovo l'apologia postmoderna dell'industria culturale nel suo complesso, almeno per quel che riguarda Internet. I contenuti di ogni tipo che vengono offerti sulla Rete non costano niente o costano molto poco, sebbene si tenti continuamente di introdurre o di stabilire limiti all'accesso e forme di pagamaneto digitale. Non significherebbe forse questo, almeno per l'industria culturale digitale, che, senza volere, si trova già in parte oltre la forma del denaro e della merce? Questo non andrebbe considerato apertamente come un enorme potenziale di emancipazione, come la nascita di un comunismo del gratuito che va oltre i "beni pagati"?
Non è che il capitolo sull'industria culturale non avesse previsto niente di tutto questo che sta accadendo solo perché nel 1944 Internet non c'era ancora. Di fatto, molte merci dell'industria culturale, come ad esempio riviste, dischi, dovevano essere comprati allora come lo sono oggi, nella buona maniera tradizionale; ed anche il cinema è un servizio culturale che viene offerto per essere comprato, proprio come un biglietto per le montagne russe o per l'ingresso in un cabaret. Ma la radio e la televisione già non potevano rientrare come merci isolate nella valorizzazione e nel campo di realizzo del mercato. Se a tale scopo finora continua ad esserci un'esazione di tasse da parte dello Stato, allora vuol dire che non si tratta di una metamorfosi rispetto alla produzione capitalista di merci, ma si tratta comunque di una determinazione che deriva da quella forma. Lo Stato sovvenziona tali settori socializzati dell'industria culturale in quanto "pubblici", così come fa con altre infrastrutture, e recupera una parte di questi costi sotto forma di imposte. Il carattere di merce di tutta l'organizzazione non è quindi minimamente smentita, anche se i programmi vengono ottenuti a prezzi stracciati o quasi gratis. Questo vale a maggior ragione per le emissioni private nate sulla scia dell'era neoliberista, finanziate esclusivamente dalla pubblicità.
Adorno ed Horkheimer non sono particolarmente interessati ad un'analisi politico-economica del contesto formale dell'industria culturale con le sue metamorfosi del processo sociale di valorizzazione, però riflettono sul carattere quasi gratuito di radio e televisione, ma lo fanno sul piano dei simboli culturali e psicosociali: "“Già oggi le opere d'arte vengono opportunamente arrangiate - come se si trattasse di parole d'ordine politiche - dall'industria culturale, che le infligge a prezzi ribassati a un pubblico recalcitrante e rende il loro uso accessibile al popolo come quello dei parchi delle ville patrizie. Ma la dissoluzione del loro genuino carattere di merce non significa già che esse siano custodite e salvate nella vita di una società libera, ma che è caduta anche l'ultima barriera che si opponeva alla loro riduzione e degradazione a beni culturali”.
Questo implica che il consumo reso più o meno gratuito di una parte crescente della produzione dell'industria culturale non significa in alcun modo che sia stata "superata" con una manovra di sorpasso tutta la società del sistema produttore di merci, ma questo consumo continua ad essere parte integrante di tale società. Proprio come i mezzi di propaganda politica che sono inerenti alla forma merce, anche se sono diffusi gratuitamente fra la popolazione, la stessa cosa vale anche per il consumo mediatico di prodotti culturali. Non sfuggono alla forma del denaro, proprio come non vi sfuggono i "beni pagati", solo che la mediazione con l'insieme del sistema è diversa; ossia, il finanziamento si basa su un'esazione statale di rendimenti capitalisti, nel sistema del credito in connessione con la pubblicità, il cui supporto privilegiato all'industria culturale è altresì ovvio. Nella misura in cui le preferenze degli acquirenti vengono testate (per esempio, in Facebook) ed offrono l'opportunità per ulteriori nuovi annunci pubblicitari, gli utenti collaborano involontariamente, in maniera presumibilmente gratuita, al finanziamento. In questo senso, per i consumatori, si può parlare di "dissoluzione del carattere autentico della merce" di questi prodotti solo sul piano dell'apparenza immediata o della particolarità, in quanto i prodotti rimangono merci sulla base del loro carattere sociale, merci il cui contesto formale viene smantellato solamente nelle istanze di mediazione.
Questo carattere si ripercuote, non solo nel contenuto ma anche sull'aspetto sociale e psicologico, tanto più strettamente legato agli individui consumatori quanto più non si tratta per loro di un atto immediatamente economico come quello dell'acquisto, allo stesso modo in cui Adorno ed Horkheimer osservavano, criticamente, a proposito della pseudo-emancipazione dovuta alla massificazione dei prezzi a buon mercato, o addirittura gratis: " “La soppressione del privilegio culturale che si realizza in tal modo, mediante liquidazione e svendita delle opere, anziché introdurre le masse ai domini che erano loro un tempo accuratamente preclusi, serve solo, nelle condizioni della società esistente, ad accelerare lo sfacelo della cultura e a promuovere l'avvento della mancanza barbarica di ogni rapporto”. In questo modo, Adorno ed Horkheimer dicono involontariamente che il "privilegio della cultura" borghese era solo un'illusione in cui era già insita, come vero e proprio impulso, la tendenza alla "vendita in liquidazione", alla "decadenza" e alla "mancanza barbarica", che diventa manifesto soltanto nell'industria culturale. Quella cultura borghese che continuava a costare ancora qualcosa non era altro che il lusso di un'autoriflessione affermativa salda più di una roccia, di quelle di cui c'era bisogno ai tempi della costituzione capitalista, ma di cui si sono persi quei momenti esagerati nell'identica misura in cui si è immersa nel quotidiano delle masse, come deformazione dell'industria culturale.
Anche qui, ancora una volta bisogna tener conto della logica economica che in Adorno ed Horkheimer rimane più come sfondo, senza essere esplicitamente designata. L'industrializzazione dell'educazione e della cultura rimane sottomessa alla stessa legge della concorrenza degli altri settori del capitale. Sotto quest'aspetto, tuttavia, il determinante è l'imperativo economico, e non quello tecnologico. La lotta per la quota di mercato (anche in un'area secondaria, come quella della pubblicità in quanto settore economico proprio, per il quale il prodotto dell'industria culturale costituisce il piano di appoggio) esige un abbassamento dei prezzi che si può basare solo sulla riduzione dei costi di produzione. Ma se i costi di produzione culturale vengono abbassati in maniera complessiva, la qualità ne soffre ancora di più di quanto avvenga nelle industrie di produzione materiale. Il prodotto allora è sempre "una schifezza", e anche peggio. Dato che che è possibile "razionalizzare" la produzione intellettuale o artistica come si razionalizza la produzione di parafanghi o di alberi motore, al costo del completo svuotamento del loro contenuto. Con l'incorporazione diretta nel sistema del "lavoro astratto" tale produzione perde il suo proprio valore d'uso, come già Adorno ed Horkheimer avevano reso evidente nel caso del rovesciamento, o perfino dell'indistinguibilità, fra contenuto redazionale e pubblicità. E', per esempio, quello che si vede nei giornali pubblicitari gratuiti i cui contenuti redazionali, nella misura in cui sono strettamente incrociati e perfino apertamente mescolati con la pubblicità, mostrano in maniera particolarmente grossolana la "decadenza" della riflessione come espressione culturale e la "mancanza barbara" della cultura capitalista trasmessa gratuitamente.
Internet ha questa natura di una produzione capitalista di contenuti e di cultura che viene pagata monetariamente solo in maniera indiretta, e che proprio per questo perde il suo "valore d'uso", trasformata in un'organizzazione di massa individualizzata. Qui, non si tratta affatto di una liberazione emancipatoria della "creatività", bensì di una sorta di "privatizzazione" neoliberista della produzione di massa standardizzata dell'industria culturale su una scala mai vista. Essere ciascuno la propria industria culturale non deve più essere inteso solamente come una metafora ironica o come una definizione cultural-simbolica, ma dev'essere preso alla lettera insieme a tutte le sue implicazioni. La forma tecnologica che corrisponde all'equipaggiamento del soggetto postmoderno provoca un flusso di esibizioni completamente squalificate che non possono più essere valutate né rifiutate da una qualche istanza redazionale.
Pertanto ciascuno è il suo proprio mezzo, la sua propria rivista, il suo proprio cinema e programma televisivo. Contrariamente alla produzione professionale, qui di fatto non è più necessaria alcuna "razionalizzazione" per abbassare l'oggetto per mezzo della preformazione capitalista fino a renderlo idoneo ad essere gratuito. Le abborracciate creazioni di ogni sorta sono in ogni caso determinate dalla situazione dei loro autori, che non riescono a coinvolgersi con niente e che sono mossi dalla pressione della concorrenza, dalla pressione di un servizio in astratto e da un controllo della quantità di tempo, situazione che esclude qualsiasi concentrazione sui contenuti. Su questo sfondo, chi si "connette" "interattivamente" con strumenti grazie ai quali il gioco non ha alcun costo, né può né vuole averlo, né costi materiali né costi di sforzo intellettuale, allora non c'è alcun bisogno di abbassare i costi. Quello che è stato il risultato della catena di montaggio economica di una vera e propria industria culturale, nel caso delle auto-esibizioni individuali è già un presupposto, e cioè l'indifferenza, la caducità e l'inutilità dell'oggetto. Ciascuno è il suo proprio giornale pubblicitario gratuito.
Il disprezzo per ogni criterio e lo scherno verso ogni contenuto portano la cultura borghese ad essere pienamente riconoscibile proprio dove essa diventa apparentemente "gratis". Nell'anticamera di questa situazione, già Adorno ed Horkheimer interpretarono questo "progresso" come una svalutazione del valore in denaro attuata attraverso una svalorizzazione cinica di ogni contenuto, e non come un'emancipazione dalla forma merce: “Chi, nel secolo scorso, e ancora all'inizio del nostro, spendeva qualcosa per assistere a un dramma o per ascoltare un concerto, era indotto a tributare allo spettacolo almeno altrettanto rispetto di quello che attribuiva al denaro versato”. Nella cultura del gratis di Internet ormai niente e nessuno viene più rispettato. Non si può nemmeno più parlare di rispetto di sé stesso. Chi nel bel mezzo del capitalismo esalta il completo disvalore delle proprie produzioni intellettuali ed artistiche, con questo ammette anche la nullità del loro contenuto. In quanto un puro nulla può produrre solo un puro nulla.
Quando ci si trova nella situazione in cui non solo si è supportati dalla pubblicità, ma si è anche la stessa cosa da pubblicizzare è ovvio che il finanziamento secondario rimanga dentro dei limiti abbastanza ristretti. In quanto proprio giornale pubblicitario gratuito non si guadagna un centesimo da terzi, poiché non si ha altro contenuto, il quale non esiste e dal quale non proviene niente. Così i soggetti del gratuito su Internet sorvegliano reciprocamente il proprio rispettivo disvalore. Soggettività svalorizzata ma non superata - Adorno ed Horkheimer in un certo qual modo hanno previsto anche questo status di un culturalismo deculturalizzato: “L'arte ha ancora contribuito a tenere il borghese entro certi limiti finché è stata cara. Ora tutto ciò è finito. La sua assoluta prossimità, che non è più mediata dal denaro, a quelli che sono esposti alla sua azione, porta a termine l'estraniazione e assimila l'una all'altra (vicinanza ed estraniazione) nel segno della reificazione più totale. Nell'industria culturale viene meno, insieme alla critica, anche il rispetto… Non c’è più nulla di caro per i consumatori, anche se essi, di fronte a questo stato di cose, non possono fare a meno di sospettare che tanto meno si regali loro qualcosa quanto meno essa viene a costare”.
Un vero regalo avrebbe delle spese di costo e perciò sarebbe qualcosa in sé. Renderlo gratuito non solo per il particolare caso personale, ma liberarlo fondamentalmente dalla sua forma feticista del valore, funzionerebbe tuttavia solamente per l'insieme della società, e per tutti i beni, e non avrebbe niente a che vedere con il carattere individuale di un dono ma, al contrario, sarebbe anche una maniera differente di riproduzione sociale. La cultura pseudo-gratis di Internet non è ne l'uno né l'altro. Il soggetto postmoderno dell'auto-messinscena, armato con la tecnologia della "comunicazione", ma socialmente e per quel che riguarda i contenuti generalmente vuoto o indifferente, produce soltanto cripto-merci in gran parte senza spese, proprio perché non gli viene pagata nessuna spesa, e nel capitalismo non ci possono essere spese non pagate.
E proprio perché non esiste alcun modus rivoluzionato di utilizzo delle risorse a livello di tutta la società - che se esistesse sarebbe valido anche per la produzione culturale - che i protagonisti del gratis virtuale, con il loro scambio di pacchetti vuoti, si illudono a proposito di un'economia del dono. Nella misura in cui di fatto sono esistite, nelle formazioni premoderne, strutture sociali di reciprocità, tradotte come "del dono" - strutture che qui vengono solo grossolanamente ideologizzate - esse sono state in ogni caso espressione di una mobilitazione reale di risorse e non avevano niente a che vedere con delle cose apparenti. Il fatto per cui un contenuto intellettuale o culturale possa essere divulgato "senza costi", attraverso un clic del mouse, non significa in alcun modo anche che esso venga prodotto senza l'utilizzo di risorse intellettuali e materiali; così fosse, non si andrebbe oltre un contenuto nullo.
Gli economisti del dono interattivo scambiano fra di loro un puro niente che corrisponde al loro status sociale ed intellettuale, e in realtà lo sanno o quanto meno lo intuiscono, come è già stato constatato da Horkheimer ed Adorno. Quello che accade ai consumatori-produttori digitali non è diverso da quello che accadeva ai precedenti semplici consumatori, il cui comportamento viene così descritto nel capitolo sull'industria culturale: “La duplice diffidenza verso la cultura tradizionale come ideologia si mescola con quella verso la cultura industrializzata come truffa consapevole. Ridotte a semplice omaggio, regalato in soprappiù, le opere d'arte pervertite e degenerate vengono segretamente respinte dai consumatori insieme alle porcherie a cui il mezzo le assimila. Essi possono felicitarsi per il fatto che ci siano tante cose da vedere e da ascoltare”. Essi partecipano all'esternalizzazione indifferenziata di massa, senza alcun costo, indifferente e reciproca, nella quale nessuno prende sul serio né sé stesso né gli altri. Per questo chi ha avuto la sfortuna di attivare costi reali ed esprimere un contenuto effettivo dev'essere livellato senza pietà allo stesso niente mediatico che viene guardato con invidia dai suoi titolari. Qualsiasi sforzo ai fini del contenuto viene "corrotto" ed i risultati vengono resi somiglianti a "cianfrusaglie" a buon mercato, e proprio per questo che i "partecipanti" sanno segretamente che si stanno imbrogliando reciprocamente e per questo ritengono che tutto sia sempre un inganno.
Ma va messo in chiaro che Adorno ed Horkheimer, anche nella critica radicale del cultura del falso gratis, continuano a tenere in mente, come immagine idealizzata ugualmente falsa, i vecchi eroi della cultura piena e superiormente borghese che vendevano ancora realmente contenuti autentici e, simultaneamente, si potevano concedere il lusso di disprezzare questa relazione. Così viene detto, nel capitolo sull'industria culturale, poche pagine dopo: “Beethoven mortalmente ammalato, che getta via un romanzo di Walter Scott esclamando: ‘Questo furfante scrive per denaro’, e nello stesso tempo, ancora nello sfruttamento degli ultimi quartetti, che rappresentano il non plus ultra del rifiuto di ogni concessione al mercato, si rivela un uomo d'affari quanto mai esperto e ostinato, offre l'esempio più eloquente e più grandioso di questa unità degli opposti (mercato e autonomia) nell'arte borghese. Vittime dell'ideologia sono proprio quelli che occultano la contraddizione invece di assumerla, come Beethoven, nella coscienza della propria produzione...”.
Non si può non riconoscere - e questo testimonia che entrambi gli autori mantengono il carattere sociale della vecchia borghesia culturale - che essi pensano che sia esistita la “unità degli opposti (mercato e autonomia) nell'arte borghese” i cui "esempi più grandiosi" potrebbero essere portati proprio nella capacità di rivelarsi “uomo d'affari quanto mai esperto e ostinato”. Se nelle condizioni capitalistiche di riproduzione non si può rinunciare al pagamento monetario delle spese, nella misura in cui queste spese secondo la riserva di tempo e secondo le risorse materiali vanno al di là di una semplice relazione di hobby ed arrivano alla produzione di contenuti, tanto meno si può far viceversa passare l'astuzia dell'uomo d'affari e la bravura della valorizzazione come l'altra faccia della "autonomia" artistica e teorica. Quest'ultima deve stare sempre sul piede di guerra contro la prima; qualsiasi abilità per gli affari è essa stessa una divoratrice di quel tempo e di quelle risorse e costituisce pertanto inevitabilmente una deviazione rispetto alla concentrazione sulla cosa in sé. Una simile qualifica non si riferisce al contenuto che vede come, malgrado tutto, "il peggior rifiuto del mercato", bensì ad un'eteronomia che dev'essere inerente a qualsiasi valorizzazione, anche a quella dei quartetti d'archi.
La nostalgia ideologica di Adorno ed Horkheimer attiene ai resti della ragione illuminista borghese nella quale mercato ed autonomia sono identici, nell'arte e non solo. La critica e la storicizzazione negativa di questa ragione capitalista non vengono portate fino in fondo nella Dialettica dell'Illuminismo, dove gli autori di fatto riconoscono la "opposizione" fra mercato ed autonomia, ma che tuttavia pretendono di fare emergere come "unità" riconciliata, o quanto meno riconciliabile, in un passato idealizzato della borghesia culturale. Nella conservazione esitante della ragione borghese già prima riconosciuta come negativa e distruttiva si compie la quadratura del cerchio; l'apprezzata astuzia negli affari è quella della logica hegeliana nella quale le contraddizioni non portano alla rottura ed all'esplosione, bensì alla falsa riconciliazione positivamente superatrice dell'eterno soggetto della circolazione.
Ma la concezione di Adorno ed Horkheimer, nonostante questo excursus deficitario, formula tuttavia una critica cosciente del problema contro la cultura del gratis delle comunità di "utenti" in gran parte falsa e menzognera, quando fanno notare che a "soccombere all'ideologia" sono proprio quelli che "nascondono la contraddizione, invece di assumerla... nella coscienza della propria produzione". Ovviamente, non si tratta di un'immaginaria unità fra contenuti che si chiudono rispetto alla forma del valore, da un lato, e l'abilità per gli affari monetari della circolazione, dall'altro lato, la cui idealizzazione è proprio ciò che "nasconde la contraddizione", ma si tratta soltanto del fatto che emerge con assoluta chiarezza l'irriconciliabilità della contraddizione e la necessità della rottura storica (al posto del "superamento" positivo) nella "coscienza della propria produzione", la cui forma di merce o di denaro come male necessario in un quadro di condizioni oppressive revoca quell'interpretazione minimizzatrice o addirittura trasfigurante.

- Robert Kurz - Pubblicato su EXIT! n° 9 del marzo 2012( 2 di 3 – continua…) -

fonte: EXIT!

lunedì 28 dicembre 2015

Il pessimismo ed il divertimento

cultura1

L'Industria Culturale nel 21° Secolo (1 di 3)
- Sull'attualità della concezione di Adorno ed Horkheimer -
di Robert Kurz

* Dalla critica apparente della borghesia intellettuale al culto postmoderno della superficialità * Critica culturale elitaria o emancipatrice? * Riduzionismo tecnologico * La pubblicità come percezione culturale del mondo e di sé * Il proseguimento con altri mezzi del "lavoro astratto" e della concorrenza * Internet come nuovo mezzo centrale dell'industria culturale * La virtualizzazione del mondo della vita * Interattività del Web 2.0 ed individualizzazione * Una cultura gratuita a caro prezzo * Il limite interno del capitale e la crisi economica dell'industria culturale * Sulla via dell'esaurimento delle riserve culturali * Il mondo non è un accessorio. Perché è impossibile una "rivoluzione culturale" separata *

Nota preliminare: questo saggio è la versione scritta ed ampliata di una comunicazione presentata il 21 novembre 2010 presso l'Alliance Française a San Paulo nell'ambito di una serie di conferenza sul tema "L'Industria Culturale nel 21° Secolo".

Ci sono testi che sono diventati vecchi già nel momento stesso in cui vedono la luce. E vi sono testi che pur avendo cento anni di età appaiono freschi ed emozionanti. Il libro "La dialettica dell'Illuminismo" di Adorno ed Horkheimer, che include il celebre capitolo sull'industria culturale, ebbe la sua prima edizione nel 1944. Dopo tanto tempo si può ancora parlare di attualutà delle idee in esso formulate?
Per il pensiero postmoderno in senso lato, la risposta è chiaramente no. Un tale punto di vista diventato dominante negli ultimi decenni ama accusare il concetto di industria culturale di essere portatore di un "pessimismo culturale" conservatore. Che male può esserci nell'industrializzazione della cultura? Non si trova forse lì quel potenziale di libertà e progresso che può essere utilizzato per tutti gli esseri umani? La sinistra culturale e pop postmoderna, nella sua esperienza mediatica, per non dire snobismo mediatico, ritiene di essere oltre il pensiero "fuori moda" della teoria critica. In questo modo, però, ha dimostrato solamente il suo stesso carattere di semplice fenomeno di moda. Comunque l'impresa pop postmoderna ormai si trova ad essere avanti negli anni ed i suoi vecchi protagonisti hanno un'aura di nonni. All'improvviso, essi stessi corrono il rischio di diventare conservatori in relazione al loro stesso mestiere di gioventù culturale professionale. Ed è proprio in questa situazione che diventa interessante tornare a guardare con altri occhi al concetto critico di industria culturale ed alle accuse postmoderne contro tale concetto lanciate.

* Dalla critica apparente della borghesia intellettuale al culto postmoderno della superficialità *
Per cominciare si rende necessario chiarire cosa si deve intendere per "pessimismo culturale". Nella modalità dell'espressione postmoderna, che preferisce procedere sempre in maniera associativa, la semplice classificazione denunciatoria appare come pronunciata di per sé, senza ulteriori spiegazioni. Nell'argomentazione dispregiativa, che rimane ugualmente associativa ed indeterminata, si infiltra in qualche modo il riferimento peggiorativo all'atteggiamento di "borghesia culturale". In realtà la "borghesia culturale", cui corrisponde la rigorosa differenza fra cultura di intrattenimento e cultura seria, è un fenomeno specificamente tedesco. La letteratura, la musica ecc. "serie" o di "alto livello culturale" non devono essere macchiate da un "intrattenimento" inteso come fondamentalmente basso, allo stesso modo in cui l'insegnamento e la ricerca accademica non devono essere macchiate da una "scienza popolare" che si misura sulla comprensione comune.
Se la borghesia culturale classica, soprattutto in Germania, storce il naso riguardo alla superficialità della moderna cultura commerciale, questo rimane un gesto vuoto. Dal momento che tale critica rimane essa stessa superficiale, in quanto la sua preoccupazione è tutta rivolta ai modi esteriori di esposizione, mentre il contenuto sociale ed il nucleo politico-economico di tali produzioni devono essere occultati e rimangono ampiamente irriflessi. Questa sorta di "pessimismo culturale" è una forma di reazione puramente intracapitalista. Quanto più si invoca astrattamente una "essenza interna" indeterminata e mistificata dell'alta cultura illuminista borghese, tanto più si presenta come irrilevante la crociata della borghesia culturale contro l'industria culturale. Dietro tutto questo si nasconde un pietoso stato di cose. L'intrattenimento frivolo e la semplificazione popolare sono solo il rovescio della medaglia del carattere, ideologicamente caricato ad alto grado, delle stesse scienze ed arti borghesi "serie" che in questo modo vengono rese riconoscibili. Il fatto che queste non vengano comprate solo perché sono già state comprate dallo Stato ai fini della rappresentazione, dimostra l'origine comune per cui il denaro si valida nello Stato e lo Stato si valida nel denaro. E' proprio l'involontaria rivelazione di questo contesto a non piacere ai critici della cultura appartenenti alla borghesia culturale, quando criticano l'industrializzazione della cultura, in quanto è la loro vita stessa ad esserne coinvolta. Viene completamente annullata la distanza rispetto alla superficialità culturale per quelli che sono i resti miserabili, e precari dal punto di vista capitalista, dei tirapiedi borghesi dell'alta cultura, ragion per cui il loro atteggiamento può essere considerato solamente come una satira reale.
E' senz'altro vero che Adorno ed Horkheimer non possono essere assolti dall'accusa di patriottismo riguardo all'ambiente della "borghesia culturale". Questo, tuttavia, ha più a che fare con le modalità di esposizione che con il contenuto critico. Se la postmoderna "critica della critica" insiste soprattutto sul primo aspetto, allora essa ancora una volta parla più di sé stessa di quanto dica dell'oggetto che affronta. Di fatto per il culturalismo postmoderno sono sempre più importanti gli stracci, gli accessori, lo "styling" e l'atteggiamento, rispetto a quello che in tutto questo si esprime. La critica non vera, ed essa stessa superficiale, che la borghesia culturale rivolge alla superficialità diventa un culto postmoderno affermativo della superficialità. L'apparenza immediata viene emancipata dalla sua essenza. Il che corrisponde al modo positivista di pensare che sottomette i contenuti ad un metodo formale vuoto e li condanna all'indifferenza.
La scelta esplicita dell'esteriorità, rispetto alla quale la critica culturale conservatrice, e la nebulosa invocazione di una "interiorità", costituisce una mera inversione, naturalmente non costituisce niente di nuovo. Ritorna periodicamente, anche se nella postmodernità  è stata sperimentata, per così dire, la sua apoteosi nel capitalismo tardivo e nel capitalismo di crisi. Heinrich Heine, nel suo saggio critico su La Scuola Romantica (1833), ha in mente in un certo qual modo un atteggiamento ed un modo di procedere simile, al fine di caratterizzare il processo di autodissoluzione del romanticismo: "Fra gli imitatori di Foqué così come fra gli imitatori di Walter Scott si è tristemente presa l'abitudine di descrivere soltanto la manifestazione esteriore e l'abbigliamento anziché la natura interiore delle persone e delle cose. Questo genere insinuante e leggero ha preso piede attualmente sia in Germania che in Inghilterra ed in Francia. Anche se le descrizioni non esaltano più i tempi della cavalleria, ma ci parlano della nostra condizione moderna, pure così permane il vecchio stile del vedere solo il lato accidentale del fenomeno invece della sua essenza. I nosti nuovi romanzieri, anziché la conoscenza delle persone esprimono soltanto la conoscenza dell'abbigliamento, forse basandosi sul motto per cui: è l'abito che fa il monaco."
E' stato detto molte volte, e non solo dal lato conservatore, che la riduzione degli oggetti alla loro fenomenologia, e decisamente alla loro facciata, così come il formalismo sia estetico che epistemico, costituiscono segnali ineludibili della decomposizione culturale e sociale e del processo di dissoluzione; sia di una formazione sociale, di un'epoca, di un modello culturale o di una determinata scuola. Per quel che riguarda il nostro oggeto, si tratta non solo del modello giunto al termine della postmodernità, ma del fatto che questa ha già costituito come tale e nel suo insieme il modello giunto al termine della modernità capitalista sotto tutti i punti di vista. Il ballo postmoderno delle maschere non rappresenta altro che una festa della classe media al tempo della peste, neanche particolarmente frivola, ma piuttosto noiosa. Una metafora, del resto, con cui già negli anni novanta Roswitha Scholz ha caratterizzato il carnevale storico della postmodernità vista come fuga, condannata al fallimento, verso il palazzo di cristallo del capitalismo da casinò. Fino ad oggi, questo ha cambiato ben poco nella coscienza ideologica del carattere sociale postmoderno nonostante gli scoppi violenti della crisi. Quanto più si invoca la "creatività", tanto più ha luogo ininterrottamente la rappresentazione dell'accidentale e dell'esteriore. Non è la creazione di qualcosa di nuovo che si esprime con emozione contro la determinazione dell'essenza, ma è semmai la fuga di fronte all'essenza negativa e del tutto miserabile della realtà della propria esistenza.
L'ipotesi di uno strato esteriore culturale e metodologico nasconde proprio la causa centrale dell'indifferenziazione, ossia, la forma sociale generale e sovrapposta come contenuto sostanziale, cui anche l'industria culturale appartiene da sempre. Ciò che è "borghese" in senso proprio nella sfera culturale dominante, non è un movimento conservatore della "cultura" tipo associazione di filologi, ma è piuttosto il carattere di merce dei suoi prodotti, che integra questi prodotti nel regno del "lavoro astratto" e degrada sé stessa ad elemento astratto nella metamorfosi del capitale, come un mobile da design o un cibo da design. In questa situazione, i protagonisti possono reciprocamente ignorare il carattere di intrattenimento o la serietà.
Ironicamente, la borghesia culturale classica e le sue attuali figure decadenti non si illudono in maniera diversa da come si illude il postmodernismo che cavalca l'onda dei media per quel che riguarda l'essenza negativa della cultura capitalista. Entrambi riflettono solo differenti stadi dello sviluppo capitalista nel medesimo modo affermativo. Il pessimismo culturale è conservatore e la formazione positiva postmoderna dell'industria culturale è soltanto pseudo-"progressista" nello stesso continuum capitalista che non viene trasceso da nessuno dei due lati. Per questo la differenza attiene solo alle confezioni o alle acconciature, mentre l'identica determinazione categoriale rimane nascosta e non avverte il comune ridicolo. Quando uno ride dell'altro, egli ride solamente di sé stesso.

* Critica culturale elitaria o emancipatrice? *
Il pessimismo culturale conservatore è elitario fino all'osso e solo a partire da questo punto di vista è pseudo-critico della produzione intellettuale in serie. La cultura, presumibilmente, deve morire insieme all'Occidente affinché non sia più riservata alle classi superiori "colte" ma assuma il carattere di una cultura di massa. La critica della frivolezza, della superficialità e della volgarità dell'industria culturale in questo modo rimanda direttamente al fatto di essere prodotta per la grande maggioranza, ivi inclusi gli strati sociali inferiori considerati come "per natura" intellettualmente minori. Si deve loro concedere, con gusto, una sorta di divertimento ingenuo, in modo da rendere inoffensivo il loro piacere ed evitare cattivi pensieri, cosicché la cultura elitaria mantenga il suo catattere esclusivo e la cosa rimanga fra noi.
L'industria culturale, al contrario, viene percepita come una minaccia che può livellare le pretese, superare le frontiere sociali e smascherare come una sciocchezza l'aura di ardore culturale della vecchia borghesia, dal momento che essa ha perso da tempo la sua base storica che nel presente permane solo ideologicamente. Non è per caso che Adorno ed Horkheimr prendono in giro gli "amici dell'educazione" che "idealizzano come organico il passato pre-capitalista" patriarcale in maniera imponente. Per questo la cultura di massa industriale e commercializzata non è soggetta al verdetto conservatore di essere "l'Illuminismo come mistificazione di massa" (come recita il sottotitolo del capitolo sull'industria culturale), ma piuttosto perché rende riconoscibile la falsità reazionaria dell'auto-incensamento bucolico ed imitatore dei classici della coscienza del professore di ruolo che amerebbe rinfrescare la propria stupidità sociale nella canonizzata "nobile semplicità e silenziosa grandezza" (Winckelmann) di eredità culturali irreali.
Viceversa, i profeti pop postmoderni esultano proprio per quella stessa massificazione industriale, come se essa fosse di per sé preziosamente emancipatrice. La cultura di massa sarebbe sempre buona, indipendentemente dal contenuto e dalla forma, e sarebbe un cultura autonoma delle masse stesse o una cultura che obbedisce ad imperativi eteronomi e perfettamente indipendenti destinati alla coscienza alterata delle masse. Un'affermazione più o meno dello stesso genere di quella fatta dall'ideologia di movimento di sinistra (del resto completamente segnata in termini postmoderni) per cui qualsiasi movimento di massa dev'essere in sé essenzialmente "autentico", a prescindere da quale sia il senso in cui si movimenta. L'industria culturale, indipendentemente dalla sua forma di merce e di capitale, in quanto accessibilità generale ed affermazione delle masse, viene considerata come momento di liberazione di fatto nel capitalismo che non è stato molto tematizzato. Quest'atteggiamento indica tuttavia solo il brutale interesse di una determinata figura per la commercializzazione, segnatamente come designer accademico e pubblicista. E' questa la vera ragione per cui si vorrebbe appiccicare alla teoria critica, come qualità determinante, il pessimismo culturale elitario e conservatore.
Ora, il concetto negativo di industria culturale in Adorno ed Horkheimer vuol dire esattamente il contrario: non è l'accessibilità per tutti ad essere oggetto della critica, ma il fatto che l'industria culturale, come essi dicono, "rappresenta il più delicato strumento di controllo sociale".
Si tratta quindi del contenuto strutturalmente alienato ed oggettivamente autoritario della cultura capitalista di massa e non del suo superamento dell'élite. Questo contenuto secondo Adorno ed Horkheimer è "barbarie estetica" poiché elabora la "morale degradata dei libri per bambini di ieri" al fine di rendere disponibili alla sottomissione sociale gli individui sempre più infantilizzati.
L'antitesi dell'industria culturale sarebbe una cultura per tutti che si oppone alla coercizione della mera ripetizione ed interiorizzazione del principio dominante; pertanto né una cultura per pochi, che rimane come semplice ornamento di questo principio dominante, né una cultura compensatoria della terapia occupzionale democratica, che rimane un meccanismo ibrido di controllo. E' proprio questo carattere essenziale dell'industria culturale della sua forma di merce che gli ideologhi pop postmoderni non vogliono riconoscere, al contrario, ubriacandosene. La critica, se c'è ancora, si riduce ad una mera differenziazione interna che conferisce arbitrariamente uno statuto di culto pseudo-emacipatorio a determinate tendenze di massa dell'industria culturale, quali l'acquisto ed il consumo di prodotti che contraddicono il controllo sociale in maniera puramente immanente, mentre altre produzioni vengono respinte su una base altrettanto superficiale.

* Riduzionismo tecnologico *
Un altro aspetto della critica culturale genuinamente conservatrice consiste nel suo riduzionismo tecnologico, che corrisponde all'attitudine elitaria della borghesia culturale. Anche la cultura sarebbe condannata alla decadenza, presumibilmente perché la sua massificazione esigerebbe simultaneamente una meccanizzazione tecnologica. E' proprio contro questa interpretazione che protestano Adorno ed Horkheimer all'inizio del capitolo sull'industria culturale. Dove si dice: "I soggetti interessati adorano spiegare l'industria culturale in termini tecnologici. La partecipazione di milioni ad una tale industria imporrebbe metodi di riproduzione che, a loro volta, fanno sì che inevitabilmente, in numerosi luoghi, necessità uguali vengano soddisfarre per mezzo di prodotti standardizzati... Ora questo non dev'essere attribuito ad una legge di sviluppo della tecnica in quanto tale, ma piuttosto alla sua funzione nell'economia contemporanea".
Per i due autori questa funzione è duplice: il controllo sociale è efficace come effetto collaterale proprio perché la cultura è stata trasformata in un oggetto immediato della produzione per il puro profitto. Ovvero, espresso in termini di filosofia sociale nelle parole di Adorno ed Horkheimer: "Tutto ha valore solo nella misura in cui può essere scambiato, non nella misura in cui è qualcosa in sé". Sotto il totalitarismo dell'economia questo è valido tanto per il più semplice oggetto d'uso materiale quanto per i beni della produzione culturale capitalizzata. Così come socialmente un cappotto non è un cappotto ed il latte non è latte, ma entrambi appaiono ugualmente come oggettivazione di "lavor astratto" e pertanto come quantità astratta di prezzo, così anche la qualità sensibile ed estetica dei beni culturali musicali o letterari e teorici è degradata per mezzo della sua forma astratta del valore, ed in un certo qual modo morta, in quanto solo questa misura nel prodotto l'accesso alla "validità" e la partecipazione alla massa della sostanza sociale del valore, mentre il contenuto specifico rimane di per sé indifferente. In ogni caso rispetto alla formulazione di Adorno ed Horkheimer si può osservare che qui non si tratta di un mero "scambio". Poiché la circolazione rappresenta solo la sfera della "realizzazione" della "ricchezza astratta" come fine in sé (Marx), ossia, il ritorno della sostanza del valore, rappresentata nel corpo delle merci, alla forma denaro che le è "propria".
E' innanzitutto da quest'oggettività economica feticistica, con la sua mutazione permanente dela forma interna, rispetto alla quale l'oggetto reale rimane esterno, che deriva la standardizzazione meccanica ed il livellamento dei contenuti, e non da un'esigenza puramente tecnologica. La critica culturale conservatrice insiste sul processo tecnologico di produzione di massa proprio perché vorrebbe far restare fuori dalla linea di fuoco l'essenza negativa della forma sociale della merce. Il postmodernismo acuisce tale ignoranza, dal momento che non solo rifiuta la critica della determinazione sociale della forma, ma la dichiara da subito impossibile epistemicamente e logicamente. L'opposizione alla retorica della decadenza da parte dei conservatori consiste quindi di nuovo in una mera inversione della sua riduzione tecnologica. Sarebbe proprio la tecnologia come tale a sviluppare effetti benefici indipendentemente dalla sua forma capitalista (o perfino a renderli gentilmente possibili grazie ad essa). La credenza postmoderna invertita nella liberazione culturale attraverso la tecnologia soccombe al medesimo malinteso. Pessimismo culturale conservatore e ottimismo culturale postmoderno costituiscono nella loro limitazione tecnologica le due facce della stessa medaglia. Entrambi nascondono ugualmente il dominio della "ricchezza astratta" capitalista sui contenuti e sulle forme di esposizione dei beni culturali.
In ogni caso la tecnologia dell'industria culturale non rimane immune dalla forma economica del feticcio del capitale né alla funzione di controllo sociale ad essa associata. Essa non è in alcun modo neutra, nella sua forma di manifestazione concreta, similmente ai mezzi tecnici di produzione nelle altre industrie capitaliste. Ma non si deve confondere causa ed effetto. E' la forma e la struttura della tecnologia ad obbedire agli imperativi della relazione sociale e non il contrario. I dispositivi sono geneticamente impregnati dalla forma sociale. Lo sviluppo delle forze produttive nel capitalismo è sempre simultaneamente uno sviluppo di forze distruttive. Ciò è valido non solo in un senso superficiale e particolare, ad esempio per l'industria di guerra, con la bomba atomica come punto culminante della tecnica ed ultima ratio dei progressi democratici. Anche la catena di montaggio non rappresenta un puro e neutro aumento della produttività. ma al contrario, nella sua determinazione concreta appartiene ugualmente alla miseria del lavoro astratto cui sono soggiogati i produttori. L'industria culturale non fa eccezione in quest'identità fra produttività astratta e distruzione.
Il momento distruttivo del fine in sé economico feticista raggiunge, modella e violenta in molteplici modi, oltre il corrispondente orientamento delle tecniche di produzione, anche i contenuti culturali. Come avviene nel caso delle merci destinate alle necessità quotidiane, non si tratta del contenuto della necessità, ma piuttosto del suo adattamento, anche tecnico, al contenuto della valorizzazione. L'inversione capitalista fra mezzo e fine, fra concreto ed astratto, nella produzione culturale si presenta in maniera specifica. Di fatto, può essere intesa anche come inversione fra tecnica di produzione e contenuto o fra innovazione tecnica e contenuto; non si tratta di un (nuovo) contenuto che è in cerca di una tecnica adeguata, ma al contrario, qualsiasi contenuto viene adattato ad una tecnica redditizia e la "creatività" si riduce esattamente a questo. Ma anche questa relazione non deriva da una qualche relazione indipendente fra la tecnica ed il contenuto, ma dal fatto che entrambi vengono costretti nel letto di Procuste dell'imperativo del valore. Adorno ed Horkheimer scrivono a tal proposito: "L'industria culturale si è sviluppata insieme al primato degli effetti... dei dettagli tecnici sull'opera che un tempo era la portatrice dell'idea ed è stata liquidata insieme con essa".
Si inverte, in questo modo, il rapporto fra contenuto e modalità di rappresentazione. Nell'industria culturale quest'ultimo sembra rendersi autonomo, come viene illustrato in seguito: "Il fatto che le sue innovazioni non sono altro che perfezionamenti della produzione di massa, non è esterno al sistema. E' a ragione che l'interesse di numerosi consumatori si concentra sulla tecnica, e non sui contenuti ostinatamente ripetuti, vuoti e per la più parte abbandonati". Così come nella produzione quello che è in causa è soltanto l'aumento delle vendite, anche nel consumo di conseguenza quello che è in causa è soltanto la funzione tecnica del giocattolo, ugualmente indifferente al contenuto. Ma se i "dettagli tecnici" non sono più espressione dell'idea di contenuto, dominando, al contrario, sul contenuto e "liquidando" l'idea, questa tendenza irresistibile è essa stessa dovuta alla forma generale della merce, sia dentro il mezzo di produzione che dentro i prodotti. La formulazione indica proprio il fatto che la tecnica dei meri effetti non esiste per caso, ma che essa è espressione di quel totalitarismo economico che nei tempi postmoderni si è enormemente aggravato rispetto alla media del secolo passato.

* La pubblicità come percezione culturale del mondo e di sé *
L'effetto tecnologico ha il suo modello nell'onnipresente pubblicità, nell'estetica delle merci del mercato mondiale. L'idea di contenuto qui non possiede alcuna esistenza propria; essa parte già al servizio di una cosa che è esterna e perciò è anche casuale, resa irreale in maniera formale e soffocata dal mero effetto. E' proprio a partire da questa dimensione dell'estetica delle merci che Adorno ed Horkheimer, già nel 1944, nella fase finale della totalizzazione del design pubblicitario nel mondo della vita, scrivono: "La cultura è una merce paradossale. Essa è talmente del tutto assoggettata alla legge dello scambio, da non essere più scambiata. Essa si confonde così ciecamente con l'uso da non poter essere più usata. E' per questo che si fonde con la pubblicità... La pubblicità è il suo elisir di lunga vita. (Il suo) prodotto... finisce per coincidere con la pubblicità di cui ha bisogno per essere infruibile".
Va qui notata, come si è già detto, la famigerata riduzione, che ha luogo in Adorno ed Horkheimer, al cosiddetto "scambio" che rappresenta un troncamento economico, in quanto nel sistema del "lavoro astratto" riassociato a sé stesso non si può parlare di "scambio" in senso proprio. Solo ad un'osservazione superficiale, la forma denaro corrisponde ad una "relazione di scambio" esterna, dal momento che essenzialmente fa parte del fine in sé resosi autonomo della "ricchezza astratta" come auto-relazione interna del capitale. Inoltre, è proprio avendo questo come sfondo che quell'autonomizzazione secondaria della pubblicità diventa possibile e finisce per diventare una necessità  che imprime il suo marchio su tutta la produzione culturale, come si dice nel capitolo sull'industria culturale: "La pubblicità diventa quell'arte pura e semplice che Goebbels aveva fià identificato in maniera premonitrice". In questo modo "un'occhiata veloce non riesce a distinguere testo ed immagini pubblicitarie dalla parte redazionale".
L'attività artistica è altrettanto poco libera di quanto lo era nel Medioevo cristiano in quanto, così come allora qualsiasi rappresentazione deve ripetere sempre la stessa costituzione religiosa, anche ora essa si trasforma sempre nella stessa pubblicità, proprio nella sua apparentemente fortuita "molteplicità" e contingenza, pubblicità che si raccomanda e si apprezza da sé sola per mezzo di immagini di automobili, bevande energetiche, telefoni cellulari o cappelli da baseball. Rappresentare il mondo nella forma autonomizzata della pubblicità significa soltanto riuscire a percepirlo sotto la forma autonomizzata della merce. Questo influenza anche l'auto-percezione e le relazioni sociali degli individui. Anche nell'intimità, che non esiste più, nasce una distanza mediatizzata che ha come presupposto una completa assenza della distanza relativa agli imperativi sociali. Non esiste più alcuno spazio di tranquillità sociale che non sia sovraccaricato con le esigenze del dominio. Il modello di identità mobilitato deve rappresentare sempre e dovunque le sentenze dei "questionari di opinione" nell'eterno carnevale della soggettività, come una marca di birra o di profumo. Il capitale umano ambulante necessita dei prodotti dell'industria culturale in senso lato non solo per l'uso, ma più come soggetto per un'ostinata "auto-rappresentazione" nella quale i portatori di costume sono segretamente convinti della mancanza di valore di tali prodotti. Gli attori, di per sé stessi, non riescono ad abbandonare il loro ruolo neanche quando sono da soli. La maschera di carattere secondaria dell'industria culturale dell'autovenditore precario gli si è incollata alla pelle.
Dà quasi un'impressione di fastidio che anche sotto quest'aspetto si possa percorrere la complementarità polare del pessimismo culturale conservatore e dell'ottimismo culturale postmoderno credente nel progresso. Ancora una volta i sostenitori della riflessione della borghesia culturale si prendono gioco della pubblicità solo perché vorrebbero innalzare una barriera ideologica contro l'infiltrazione della volgarità economica nella sfera elitaria dell'arte. Essi chiudono la strada all'effetto senza contenuto solo per poter fermare la commercializzazione dei presunti "beni più sacri" senza voler minimamente toccare il capitalismo. Così, la pubblicità volgare non deve poter essere riconosciuta come il volto che sorride nello specchio della raffinata arte borghese. Sotto quest'aspetto, così come in qualsiasi altro, la forma sociale della relazione feticista ha divorato il contenuto. Quel che resta anche nell'arte ufficiale  per i circoli superiori, che ormai riesce ad essere elitaria soltanto riguardo al prezzo in denaro, è la comune autovendita da parte di artisti da salotto che sono "avanguardia" al massimo grado quando girano con vergogna i quadri verso la parete e anneriscono i testi.
E ancora una volta il postmodernismo si volge solo alla critica apparente del pessimismo culturale e proclama la pubblicità come liberazione dell'arte dalle grinfie del museo di un classicismo da maestro di scuola. Il carattere auto-repressivo delle monadi dell'auto-rappresentazione modellate dal complesso totalitario dell'industria culturale viene qui altrettanto nascosto di quanto lo sia nel caso della controparte conservatrice. La distanza, ipocritamente assunta dalla coscienza della borghesia culturale, in relazione alla comunità letterale della pubblicità universale e dell'auto-pubblicità, si trasforma tuttavia nel motto postmodernista per cui "stare nel presente è tutto". Non solo la vicinanza formale, ma anche la connessione interna fra propaganda populista e pubblicità, o non devono essere menzionate oppure vengono considerate suscettibili di avere una carica positiva. Il postmodernismo si trova così d'accordo con Goebbels senza voler rendersene conto. Ciascuno è soddisfatto degli effetti senza contenuto per poter così rinnovare la propria maschera di carattere e lasciare da parte ogni critica nei confronti della partita senza oggetto. La coscienza dello stile di vita postmoderno è ormai solo un ideale cappello da baseball collettivo che promuove sé stesso.

* Il proseguimento con altri mezzi del "lavoro astratto" e della concorrenza *
L'apologia postmoderna del predominio dell'effetto e del dettaglio tecnico sul contenuto ama affermare che tutto questo è associato ad un conforto culturale che garantisce il "godere senza remore". Che male ci sarebbe? Una volta che si è dissolto qualsiasi criterio di contenuto e la critica è stata dichiarata impossibile, ora si vorrebbe procedere come se la merce dell'industria culturale cadesse dal cielo come una sorta di manna o come se volasse in bocca come i colombi arrosto del paese della cuccagna. Viceversa, la borghesia culturale conservatrice, nella misura in cui continua ancora ad esistere e non dev'essere considerata estinta, vede l'industria culturale come una sciatta occasione culturale e ritiene che il consumo dei suoi prodotti avvenga senza sforzo solo perché si tratta di pattume senza alcuna pretesa che avvelena la mente e l'anima. In opposizione a tutto questo, vengono indicate le "opere con alta pretesa" che sono stare prodotte, le uniche a dover essere considerate valide tanto dai "veri artisti" quanto dai "veri estimatori dell'arte", visti come una piccola ma raffinata comunità di una "conoscenza" senza prezzo.
Anche riguardo quest'aspetto gli ottimisti postmoderni della cultura ed i pessimisti conservatori della cultura si trovano abbastanza d'accordo: entrambi affermano ugualmente la facilità ed il godimento senza sforzo che attiene al consumo dell'industria culturale, solo che questo godimento presumibilmente comodo viene valutato in maniera opposta. Adorno ed Horkheimer affrontano la questione in modo del tutto diverso. Infatti, in base alla loro origine, non sono immuni da un auto-incensamento che si fonda su una canonizzazione ed una restrizione all'alta cultura borghese piuttosto che sul primato del contenuto. Ma, indipendentemente da questo condizionamento socio-storico, essi non smettono di vedere il contesto della mediazione interna fra industria culturale e pressione all'efficienza nel lavoro capitalistico, fra "lavoro astratto" e "godimento del tempo libero" preteso come senza remore. Qui, non si tratta semplicemente della critica ad un semplice efetto compensatorio, come se una cosa fosse estranea all'altra.
In realtà, la dialettica del consumo pop completamente capitalizzato consiste proprio nel fatto per cui la coercizione sociale e la libertà di scelta dell'oggetto, l'esaurimento perturbato dell'energia del lavoro protestante e l'autocompiacimento in mostra, non solo corrispondono ma si trasformano l'uno nell'altro ed ciascuno si manifesta nell'altro. Il pesante lavoro della miseria non solo è il presupposto indispensabile, che si vorrebbe mantenere riservato, ma è sempre il presupposto cosciente del potere di acquisto. Adorno ed Horkheimer non parlano del pericolo di una fruizione troppo facile per la capacità del lavoro, che tuttavia bisognerebbe esigere, ma mostrano come quel facile conforto sia in sé stesso illusorio. Ciò che viene dato, in quanto tale non solo non può essere separato dal suo opposto nel processo del guadagnare denaro, come mettono in chiaro: "Sotto il capitalismo tardivo il divertimento è il proseguimento del lavoro. Esso viene ricercato da coloro che vogliono sottrarsi al processo del lavoro meccanizzato, di modo che si trovino di nuovo nelle condizioni di poterlo affrontare. Ma, allo stesso tempo, la meccanizzazione ha acquisito talmente tanto potere sull'uomo nel suo tempo libero e sulla sua felicità, determinati interamente dalla fabbricazione di prodotti di divertimento, che egli può solo misurarsi con le copie e con le riproduzioni del processo lavorativo stesso".
Ancora una volta non è l'esigenza della tecnica di riproduzione in sé che realizza questa fatale inversione, ma semmai è il totalitarismo feticista della forma generale della merce che trasforma tendenzialmente in "lavoro astratto" tutte le espressioni vitali, o quanto meno le equipara ad esso; anche quando non sono legate ad alcun processo di valorizzazione reale. Non vi è alcun vero relax nella falsa concentrazione e nella fissazione sul lavoro da parte del soggetto. Anche il lassismo dev'essere organizzato strumentalmente e dev'essere professionalizzato affinché si trasformi nel suo esatto contrario. E'a questo che si riferisce uno dei passaggi più citati del capitolo sull'industria culturale: "Il divertimento (in inglese, nell'originale: Fun) è un bagno ritemprante. L’industria dei divertimenti lo prescrive continuamente."
Nel consumo di merci dell'industria culturale non si riproducono solo la coercizione al lavoro ed il delirio dello sforzo, ma anche la monadologia oggettiva della sfera della circolazione capitalista, o, come osservano Adorno ed Horkheimer, "la durezza della società della concorrenza". Il divertimento diventa un bagno ritemprante anche perché il "godimento" non è né innocente né comodo, e nemmeno intelligente, ma diventa, nonostante la convivialità delle feste, un'ispezione sul design dei corpi, degli abiti e delle personalità, dove ogni simulacro dell'Io può divertirsi solamente contro tutti gli altri e deve far continuamente credere a sé stesso che il piacere consiste in questo. Perfino la maschera del tempo libero forzatamente allegro, come viene detto nella sintesi del capitolo dell'industria culturale "attesta il tentativo di fare di sé stesso un dispositivo efficiente...".  Da nessun'altra parte questo si mostra più chiaramente di come avviene nelle micro-imprese postmoderne dell'Hi-tech e della pubblicità. Il "lavoro astratto" e la concorrenza divrentano un gioco ed una festa solo perché sia la festa che il gioco si sono da tempo trasformate in "lavoro astratto" e concorrenza.
Così l'industria culturale si rivela anche come un'organizzazione con connotazione sessuale. Donne ed uomini si collocano in maniera differente nonostante tutte le modificazioni culturali, proprio perché si tratta di modelli, di simulazioni e forme di riproduzione del "lavoro astratto". In quanto la forma del soggetto così determinata, ivi inclusa la concorrenza universale, ha connotazione strutturalmente maschile - come ha dimostrato Roswitha Scholz nella sua teoria della dissociazione sessuale in cui per la prima volta ha tematizzato la relazione di genere al livello concettuale delle categorie capitaliste fondamentali. Anche se le donne sono sempre più integrate nella sfera del "lavoro astratto" e nella sfera pubblica capitalista, esse continuano ad essere le meno apprezzate perché su di loro continua a ricadere la responsabilità, nel senso più ampio, per la casa (N.d.T: nell'originale, in greco, "oikos"), dissociata da quella sfera nella misura in cui non può essere espressa in denaro (gestione della casa, prendersi cura dei bambini e degli anziani, ecc.). Questa relazione capitalista fra i sessi, profondamente radicata nell'inconscio collettivo, attraversa tutti i settori sociali. E quindi a maggior ragione si riproduce nel "bagno ritemprante" della convulsa impresa del divertimento. Le donne però competono con altri corpi che sono diversi dai corpi sessuali apparentemente autodeterminati che appaiono come "donne" in ogni autonomia individualizzata. In quanto "capaci di fare tutto", e in quanto devono essere ugualmente responsabili sia della famiglia che della professione, esse non perdono la specifica accentuazione sessuale - seppure in forma modificata - e il loro "esser madre" continua a perseguitarle. Questo si ripercuote nella loro auto-immagine co-prodotta dall'industria culturale; di conseguenza non vengono realmente prese sul serio come soggetti del divertimento.

- Robert Kurz - Pubblicato su EXIT! n° 9 del marzo 2012(1 di 3 – continua…)

fonte: EXIT!