martedì 15 dicembre 2015

Lo spazio ed il tempo svincolati dalla vita


La sostanza del capitale (7 di 10)

- Il lavoro astratto come metafisica reale sociale ed il limite interno assoluto della valorizzazione - 

di Robert Kurz

Prima parte: La qualità storico-sociale negativa dell'astrazione "lavoro".
*** L'Assoluto [Absolutheit] e la relatività nella Storia. Per la critica della riduzione fenomenologica della teoria sociale *** Il concetto filosofico di sostanza e la metafisica reale capitalista *** Il concetto negativo di sostanza del lavoro astratto nella critica dell'economia politica di Marx *** Il concetto positivo di lavoro astratto nell'ontologia del lavoro marxista *** Per la critica del concetto di lavoro in Moishe Postone *** Il lavoro astratto ed il valore come a priori sociale *** Che cosa è astratto e che cosa è reale nel lavoro astratto *** Il tempo storico concreto del capitalismo ***

*** Che cosa è astratto e cosa è reale nel lavoro astratto? ***

Evidentemente, i marxisti tradizionali, nella discussione con la critica del valore, hanno percepito che tuttavia in questa c'è qualcosa, ed hanno capito che con la sua concettualità potrebbe essere facilmente dimostrato un limite della critica del capitalismo alla sfera della circolazione, quando invece avevano sempre ritenuto di avere una concezione chiara del capitalismo in quanto "relazione di produzione". Nella loro afflizione, hanno tentato ancora una volta di nascondersi dietro il "Marx marxista del movimento operaio", ossia, il Marx ontologico del lavoro, imbarazzato all'interno di un'aporia. Gallas, ad esempio, cerca di evitare la critica dell'ontologia del lavoro procedendo ad una parafrasi, secondo la quale dichiara che seppure esiste la dimensione trans-storica, "antropologica" del lavoro, tale dimensione non renderebbe affatto ontologicamente positivo il processo di produzione capitalista, diversamente da come avverrebbe invece con la sfera della circolazione. Una tale ipotesi si rivelerebbe "ingiustificata a fronte dell'esistenza di un Marx che nel 'Capitale' pensa - per quanto riguarda il concetto di lavoro - secondo dimensioni che sono insieme sia trans-storiche che storicamente specifiche. Questo Marx distingue fra la 'forma sociale' ed il 'contenuto materiale' - cioè, antropologico - dei fenomeni della convivenza umana. Così egli osserva che 'il lavoro... è una condizione esistenziale dell'Uomo, indipendentemente da tutte le forme di società' per poi metterne in evidenza la sua specificità nel capitalismo: 'L'operaio lavora sotto il controllo del capitalista, al quale il suo lavoro appartiene'. Con questo, Marx dimostra l'integrazione funzionale fra realtà naturali e relazioni dovute ai contesti storici: la produzione nel capitalismo ha anche una funzione antropologica..." (Gallas, ivi).
Secondo Gallas, la critica del valore qui mescolerebbe mele e arance, assumendo che la posizione tradizionale, quella che attribuisce uno statuto antropologico al lavoro, ha "una comprensione dualistica dell'oggetto. Questo, tuttavia, non è compatibile con il succitato concetto del lavoro di Marx. La forma capitalista ed il contenuto antropologico del lavoro, secondo loro, non esistono indipendentemente l'uno dall'altro. In questo caso, però, viene escluso che il lavoro ed il capitale siano percepiti come principi strutturali sociali mutuamente contraddittori" (Gallas, ivi). Ragion per cui sarebbe scorretta l'opinione dei critici del valore, opinione "secondo la quale negli attacchi ad una comprensione dualistica dell'oggetto verrebbero coinvolte tutte quelle forme di critica dell'economia politica il cui concetto di lavoro non corrisponda a quello preconizzato dalla critica del valore" (ivi); in questo avremmo costruito "uno spaventapasseri chiamato 'marxismo tradizionale'..." (ivi).
Pertanto, secondo Gallas, possiamo avere un concetto ontologico e trans-storico, o "antropologico", del lavoro, eppure intendere ancora, insieme a Marx, il "lavoro nel capitalismo" come "storicamente specifico"; gli elementi "antropologico" e storicamente specifico, devono semplicemente essere "pensati insieme" incrociandoli. Eppure questo tuttavia non sarebbe in alcun modo una "comprensione dualistica dell'oggetto", nel senso di un'ontologia della produzione o del lavoro concreto, da un lato, e di una specificità storica della circolazione o del lavoro astratto, dall'altro.
Ora avviene che, in primo luogo, è già stato dimostrato che non solo c'è un marxismo del movimento operaio di provenienza molto grossolana, ad esempio quello socialdemocratico o leninista, che si riferisce ad una tale comprensione "dualistica", ma proprio lo stesso avviene anche con l'esigente marxismo occidentale, e perfino con accademici marxisti attuali come Heinrich, con la sua esplicita teoria della circolazione del lavoro astratto e del valore. In secondo luogo, anche l'argomentazione dello stesso Gallas, con cui tenta di giustificare una comprensione non dualistica dell'ontologia del lavoro, e della specificità storica, rappresenta in gran parte la prova del contrario. Gli è che, se Gallas dice che Marx distingue fra "forma sociale" e "contenuto" "materiale" - cioè, antropologico - dei "fenomeni di convivenza umana", alla fine ci troviamo proprio davanti a questo dualismo, in quanto se il contenuto materiale della produzione e della riproduzione è "antropologico", allora il momento storicamente specifico della "forma sociale" può riferirsi solamente al modo di distribuzione e alla sfera della circolazione.
L'unica cosa che Gallas in riferimento a Marx, di fatto indica come caratteristica storicamente specifica della produzione stessa, è il riferimento al fatto per cui l'operaio deve "lavorare sotto il controllo del capitalista", al quale "il suo lavoro appartiene". Ma proprio con questo egli non indica una qualche logica interna della produzione materiale stessa, ma soltanto una relazione di dominio retta dalla volontà soggettiva e dall'appropriazione giuridica intesa in maniera meramente esteriore. Vale a dire, tutto come al solito; il supposto attraversamento non dualistico dei momenti "antropologici" da parte di altri momenti specificamente storici, nel processo di produzione stesso, si dissolve nell'aria, e quel che rimane è proprio questa comprensione "dualistica" di un dominio di classe capitalista, mediato solo esteriormente e soggettivamente - in questo senso ridotto giuridico e circolatorio, alla "eterna" e valutata positivamente produzione materiale - dal "contenuto materiale". Si tratta quindi di pubblicità ingannevole quando, con una comprensione assai ridotta, si fa conto che tutto questo implichi una critica del lavoro nel senso di una relazione storicamente specifica.
In questo senso, del resto è anche tipico dell'operaismo, che slega del tutto le caratteristiche specificamente capitaliste del lavoro dalla determinazione della forma astratta e dalla feticizzazione, per legarle, in maniera estremamente ridotta, alla pura e semplice relazione di volontà di una pretesa di controllo meramente esteriore da parte della "classe dei capitalisti"; e quest'attitudine arriva fino alla revoca totale della critica dell'economia politica, a beneficio di una relazione di dominio, che si pretende essere solo "politica", sulla produzione (cosa che è soprattutto evidente in Antonio Negri).
Naturalmente, ora si pone la questione circa quale modo di lavoro astratto si manifesti nella pratica come apriori sociale del processo di produzione. Nel processo di scambio è l'astrazione del carattere sensibile e materiale delle merci, il loro trattamento pratico come cose di valore nella compravendita, non come astrazione meramente concettuale, ma come azione sociale pratica che perfeziona l'astrazione reale. Ora, come si presenta questa astrazione reale nel processo di produzione? Alla fine, qui non sembra esistere altro che il lavoro concreto, la trasformazione programmata di sostanze naturali; tuttavia, come già dimostrato, il concetto è paradossale ed è una contraddizione in sé.
In questo contesto materiale e sensibile, Marx parla della "forma" del lavoro come lavoro del falegname o del tessitore. Ma questa forma riferita alla materia, è un'altra cosa rispetto alla forma sociale. Il lavoro concreto come "forma", ad esempio, del lavoro di un falegname, si riferisce alla fabbricazione di  mobili in legno. Ma la forma sociale del lavoro è, in tale contesto, forma astratta, cioè, il lavoro speso nella forma concreta e riferito alla materia, in quanto lavoro del falegname, è socialmente valido soltanto in quanto si tratta di una determinata massa di lavoro astratto, di energia umana in generale (di "nervo, muscolo e cervello"). Questa "validità", però, non si trova solamente nella circolazione, essendo decisiva anche come determinazione globale del processo produttivo stesso; e non si tratta nemmeno di una mera "validità" nel senso di una percezione formale (come avviene nella circolazione), ma di un marchio pratico.
Il fantasmatico dell'oggettività del valore, lo si trova già nel processo della sua produzione, come fantasmagoria dello stesso processo di produzione. Così come nella merce finita, la sua oggettività di valore non è ancora "palpabile" in maniera immediata e sensibile, in quanto è una determinazione della forma sociale ed astratta, anche nel processo di produzione come tale la sua funzione di processo di costituzione di valore non è "palpabile" in maniera immediata e sensibile, per lo meno non lo è a prima vista, tanto meno da un individuo socializzato all'interno di questa forma sociale. "Ha" apparentemente solo il lavoro concreto, la trasformazione della materia, determinata in termini materiali e sensibili. Ma questo non è ciò che appare essere, dal momento che è soltanto espressione, o forma di apparenza, di qualcosa di differente. Si tratta qui essenzialmente non di fabbricazione di mobili con la finalità di arredamento, ma di costituzione di valore con la finalità di valorizzazione.
In tal misura, nel processo di produzione, il lavoro non "è valido" come quello che appare essere - nella fattispecie un processo concreto di fabbricazione di mobili - ma come un dispendio di forza lavoro astratto puro e semplice, un processo di dispendio di nervo, muscolo e cervello (per un'ottimizzazione economico-imprenditoriale). Questo è un punto di vista ben pratico, che interessa tutto il modo di organizzazione della produzione e che finisce per dominarla. Ed è anche per questo che i criteri operazionali ed il regolamento economico imprenditoriale sono astratti ed universali, completamente indipendenti dal contenuto concreto della produzione. In nome della determinazione della forma sociale astratta (valore) si astrae anche nella pratica della forma concreta del processo di produzione, nel senso del contenuto materiale (contenuto della produzione di mobili = "lavoro" sotto forma di falegnameria, ecc.). La cosa concreta, la falegnameria, nella pratica vale in quanto "lavoro", in quanto mera espressione del dispendio puro e semplice di energia umana. E quest'astrazione reale tinge sia la trasformazione della materia in termini concreti, sia il suo risultato, e lo fa in maniera distruttiva.
Nel capitale, come già mostrato sopra, la relazione fra l'astratto ed il concreto si ritrova capovolta, con i piedi per aria; il concreto, il mondo reale sensibile, variato, viene ad essere solo una forma di apparenza dell'astratto, nella fattispecie, della determinazione dell'essenza totalitaria ed unica del valore. Di qualunque cosa si tratti, è sempre valore - o è destinato a rivelarsi tale. Agli occhi del soggetto della valorizzazione, l'Uomo e la natura appaiono soltanto come oggetti della valorizzazione, ed è questo che determina l'azione pratica. Il lavoro concreto ed il lavoro astratto sono precisamente il medesimo lavoro, riuniti nell'astrazione "lavoro" in quanto astrazione reale: "Tutto il lavoro è, da una parte, dispendio di forza lavoro umana nel senso fisiologico, e questa qualità del lavoro umano uguale al lavoro umano astratto costituisce il valore della merce. Tutto il lavoro è, d'altra parte, dispendio di forza lavoro umana nella forma specifica della finalità definita, e questa qualità del lavoro utile concreto produce valore d'uso." (Marx). Tuttavia, in primo luogo, "tutto il lavoro" qui si riferisce soltanto al lavoro moderno, che si svolge nei modi del capitalismo, e non a "tutto il lavoro" in senso trans-storico (come risulta chiaramente dal contesto in Marx). E, in secondo luogo, il "da un lato - dall'altro lato" non sono per niente equilibrati. Il lato concreto non solo non può essere separato dal lato astratto, ma gli è subordinato. Detto in altre parole: il valore d'uso è soltanto una forma di rappresentazione, o forma di apparenza, del valore; il lavoro concreto è solamente una forma di rappresentazione, o forma di apparenza, del lavoro astratto. Ciò che è comprensivo è l'astrazione "lavoro" in quanto astrazione reale (e, per sottolinearlo ancora una volta, è soltanto nel contesto di tale relazione reale che l'astrazione nominale concettuale "lavoro" assume in qualche modo senso, in quanto concetto di una generalità sociale).
Il lavoro concreto, per la sua essenza sociale in fondo "è" lavoro astratto, sebbene non sia immediatamente "palpabile" in quanto tale, così come la forma sensibile della merce è autenticamente l'oggettività del valore, anche se, ugualmente, nell'immediato non è "palpabile" in quanto tale. Questo concetto di "non palpabilità", tuttavia, non designa niente più che l'apparenza in quanto apparenza; così alla fine si tratta ancora, e attraverso la sua mediazione, di "registrare" per mezzo dello sforzo dell'analisi, decifrandolo, quello che rimane occulto nel fondo delle cose. Tuttavia, ciò è valido non solo nel senso di una ricostruzione teorica, ma, allo stesso tempo, come denominazione di un fatto realmente vissuto, realizzato in termini pratici, il cui carattere però non si manifesta nell'immediato. La critica come conseguenza dell'analisi non è altro che la determinazione cosciente di chi ha vissuto molto nella realtà ed ha esperito in termini pratici, e che ora attraverso la riflessione si è immerso in una luce rivelatrice, nella quale diventano visibili le sue mediazioni.
Ora, in che cosa consistono le mediazioni pratiche, nelle quali il lavoro concreto può essere decifrato come mera forma di apparenza del lavoro astratto? Si tratta dello spazio in cui si svolge il processo di produzione. Così come nella produzione ci troviamo apparentemente davanti a dei processi perfettamente innocenti di trasformazione della materia, anche nel caso di questo spazio, ad esempio un capannone di una fabbrica, apparentemente ci confrontiamo con un edificio funzionale perfettamente innocente. Ma lo spazio di produzione non è solo materiale nel senso dell'edificio funzionale, ma è uno spazio sociale, il cui carattere è altrettanto poco "palpabile" che l'oggettività del valore.
Lo spazio sociale della produzione capitalista è lo spazio funzionale dell'economia imprenditoriale, un luogo sociale specifico, che non è determinato essenzialmente dalla sua forma materiale, bensì dalla sua funzione sociale, in quanto spazio di valorizzazione del valore (da questo deriva la sua forma materiale, e non il contrario). La determinazione funzionale di questo spazio "astrae" da tutte le altre realizzazioni della vita, e da tutte le altre necessità esteriori, la determinazione economica di essere un locale destinato alla realizzazione del processo di costituzione del valore; ed in questa misura un tale spazio costituisce una parte integrante dell'astrazione reale. Si tratta di uno spazio totalmente "svincolato" [heräusgelost] da ogni processo di vita, più o meno nel senso in cui Karl Polanyi parla, con un termine ben scelto, di una "economia svincolata" (anche se questo viene fatto in parte con un'altra connotazione, e non riferito al problema del lavoro astratto).
Questo "svincolamento" è stato anche un processo storico, strettamente legato alla rivoluzione militare dei primordi della modernizzazione, all'innovazione delle armi da fuoco ed al conseguente "svincolamento" della macchina militare rispetto alla società (eserciti permanenti, assolutismo, Stato burocratico unificato, ecc.), che a sua volta ha portato con sé la fame insaziabile di denaro dei primi regimi dispotici militari basati sulle armi da fuoco, la monetizzazione delle tasse feudali, ed infine, dopo essere passati per vari gradi intermedi (manifatture statali, industrie agrarie basate su manodopera schiava, ecc.), la trasformazione della popolazione in una massa omogenea di materiale della valorizzazione del lavoro astratto (tale "totalità della forza lavoro nazionale" è stata anch'essa ontologizzata e positivizzata dai marxisti, nel contesto della modernizzazione di recupero). La storia del disciplinamento inerente a tutto questo, attraverso le case di lavoro, case di correzione e manicomi, o attraverso dei "campi" - descritto ad esempio da Marx nel capitolo dedicato alla "accumulazione primitiva", oppure negli scritti di Foucault ed Agamben - si inquadra nella costituzione dello spazio funzionale svincolato dall'economia d'impresa.
Quello che dice Marx rispetto al denaro si applica anche alla costituzione di questo spazio svincolato: "Il movimento mediatore sparisce nel suo stesso risultato e non lascia traccia". L'Uomo moderno incontra lo spazio retto dall'economia di impresa come una forma finita, il cui carattere svincolato avverte, ma non sa denominare. E' lo spazio in cui, come dice il giovane Marx, "non è in sé, ma è fuori di sé"; e non nel senso esteriore e giuridico del concetto di proprietà, ma per la funzionalità specifica di questo spazio ai fini del processo di costituzione del valore. La separazione della produzione da tutte le altre aree della vita (per esempio la residenza, la vita coniugale, l'educazione dei figli, il gioco, la cultura, ecc.) non è in alcun modo dovuta al fatto che si tratta di una produzione non destinata al proprio consumo, bensì a quello degli altri, ossia alla produzione sociale. La dissoluzione del contesto di vita inclusa nella produzione non è dovuta alla produzione sociale in quanto tale, ma al passaggio alla valorizzazione del valore. Soltanto l'usurpazione dello spazio sociale, compiuta dall'astrazione del valore e dal valore astratto, ha creato lo spazio funzionale svincolato dell'economia d'impresa come uno spazio sociale fantasmatico, al di là di ogni e qualsiasi socialità.
Nel suo essere costituito come spazio funzionale astratto, svincolato, il lavoro astratto presenta anche una connotazione sessuale. La dissociazione [Abspaltung] di tutte le altre aree della vita, e di ogni momento di relazionamento (affetto personale, sentimenti, ecc.), dalla produzione in quanto processo di costituzione del valore e della valorizzazione, connota come "femminile" ogni momento dissociato della natura che dev'essere plasmata [Zurichtung] dall'economia di impresa, cosa che ha portato a definire le attribuzioni e le "competenze" corrispondenti delle donne. L'astrazione reale del lavoro astratto nel processo di produzione si trova pertanto legata alla dissociazione dal femminile, in maniera essenziale, e non accidentale. Ciò corrisponde anche alle radici storiche del lavoro astratto, nella fattispecie all'incrociarsi della "economia svincolata" con la "svincolata" macchina militare basata sulle armi da fuoco, nel processo primordiale di costituzione della modernità.
Il lavoro astratto viene definito come di per sé strutturalmente maschile, anche se fin dall'inizio è esistita un'innegabile partecipazione delle donne al processo di produzione. Il fatto per cui le donne hanno sistematicamente ricevuto salari peggiori, raggiungendo posizioni di comando soltanto in casi estremamente rari, dove viene loro richiesto, per essere riconosciute, di dare molto più "rendimento" di quanto ne diano gli uomini, ecc., tutti questi fatti, che in media si verificano ancora oggi, non possono essere messi sul piano delle manifestazioni storiche ed empiriche, né magari dichiarati mere sopravvivenze delle relazioni premoderne, oppure come un loro ritorno soggettivo e regressivo, ma sono espressione della relazione di dissociazione, come marchio essenziale dello stesso lavoro astratto e del suo spazio funzionale di economia di impresa.
L'opinione contraria, che interpreta erroneamente la relazione fra dissociazione ed asimmetria sessuale nella modernità come mero momento storico ed empirico con tendenza a sparire, in fondo è associata all'interpretazione erronea che vede l'astrazione reale come mera "astrazione di scambio", che tanto per cambiare si presenta immediatamente come una relazione positiva e progressista. Gli è che, in effetti, nella circolazione osservata di per sé non esiste la dissociazione come momento dell'astrazione reale; qui conta soltanto la solvibilità, senza alcun riguardo al sesso, all'età, al colore della pelle, ecc.. La circolazione è perciò, e com'è noto, l'eldorado dell'ideologia borghese del progresso e della libertà, sebbene implichi la concorrenza e la disumanizzazione dei non solvibili. Ma anche la concorrenza di sterminio e la disumanizzazione dei perdenti vengono eseguite secondo la specificità della sfera della circolazione sotto la forma di un universalismo astratto: senza chiasso, senza riguardo per la persona e con un "riconoscimento" educato, nel senso dell'uguaglianza di diritti fra i proprietari di merci. Le persone incapaci di concorrere, o di pagare, per la logica della circolazione nemmeno esistono! E anche qui si misura l'apparente scomparsa della determinazione sessuale.
Ma è evidente che la sfera della circolazione e del diritto non può essere osservata di per sé, ed in tal senso la libertà astratta che qui è in vigore è mera apparenza in senso duplice: in primo luogo, essa ha come base le determinazioni repressive dell'attività riproduttiva, nel metabolismo della società con la natura e con sé stessa; e, in secondo luogo, in tal modo, anche nell'ambito circolatorio, è "libertà" solo in senso orwelliano, espressamente come relazione auto-repressiva, come auto-soggezione formale alla logica del lavoro astratto. Vista in connessione con il lavoro astratto della sfera produttiva, con le sue rispettive determinazioni in materia di sesso e di soggezione, e dal punto di vista della totalità del processo, la sfera della circolazione, con la sua "astrazione dello scambio", è essa stessa qualcosa di completamente diverso di quel che appare quando viene osservata in sé - in modo superficiale ed isolato - in quanto in termini oggettivi è espressamente la sfera della realizzazione del plusvalore e, in termini soggettivi, è la sfera di esecuzione delle relazioni di coazione sul piano formale delle condizioni di relazionamento borghese.
Sotto quest'aspetto si assiste ad un'altra contraddizione palese del marxismo tradizionale: da un lato, tale marxismo riduce la relazione storicamente specifica del capitale alla relazione nella sfera della circolazione (mediazione del mercato), riduce il lavoro astratto ad una mera "astrazione di scambio", la relazione di dominio ad una relazione di distribuzione delle merci e la "relazione di produzione" ad un concetto giuridico esterno della proprietà. Di modo che, pertanto, basterebbe abolire la sfera della circolazione o la "astrazione di scambio" come forma di mediazione specificamente capitalista. Dall'altro lato, invoca, evocando espressamente la "eredità dell'illuminismo", l'idealismo della sfera della circolazione, dal quale nasce il postulato dell'uguaglianza, che dovrà essere in qualche modo (forse per mezzo della "democratizzazione") essere esteso alla produzione. Quest'aporia si trova del resto, in maniera assai marcata, in Adorno, che su questo punto rimane del tutto prigioniero del modo di pensare del marxismo tradizionale.
Ciò che qui fondamentalmente sfugge è il nesso interno all'astrazione reale, in quanto relazione di mediazione del lavoro astratto nel processo di produzione, e la sua realizzazione, o "rappresentazione", come forma del valore, o "astrazione di scambio", nel processo di circolazione, includendo le determinazioni giuridiche concomitanti di una "individualità astratta" apparentemente asessuata. Una cosa condiziona l'altra. Per cui, né può essere abolita la circolazione senza che si abolisca il lavoro astratto come logica di produzione, né, inversamente, l'ideale uguaglianza formale dei soggetti astratti può essere estesa dalla circolazione alla produzione e alla riproduzione, in quanto qui lo stesso processo di astrazione reale si presenta necessariamente in un altro modo, cioè espressamente e con connotazioni sessuali, come comando sulla forza lavoro; e la stessa cosa si applica - estendendosi dalla sfera funzionale dell'economia imprenditoriale "svincolata" a tutte le istituzioni sociali dell'insieme della struttura della socializzazione del valore - fino all'interno del mondo della vita quotidiana.
Tutto è perfettamente simile al caso del soldato come persona civile (il che corrisponde anche alla radice storica della "economia svincolata"): quest'ultima figura è un soggetto del diritto e della circolazione, libero come tutti gli altri; per prima cosa, però, è oggetto del comando, è parte di una macchina, soggetto assassino e, se deve esserlo, carne da cannone. Ed il carattere strutturalmente maschile di tutta l'organizzazione qui è solamente più marcato, con molte meno donne rispetto al processo di produzione, per non parlare delle posizioni di comando (solamente funzionali), ecc. L'esempio, che rimanda alla storia della costituzione, dimostra, allo stesso tempo, il poco senso che avrebbe il rivendicare, ad esempio anche sotto l'aspetto sessuale, l'uguaglianza astratta della sfera della circolazione anche per le altre sfere della riproduzione capitalista (perfino per le forze armate). Una tale intenzione non può avere in sé niente di emancipatorio; prima si deve trattare del superamento della totalità della relazione composta da lavoro astratto, dissociazione sessuale e circolazione.
Il carattere fantasmatico dello spazio svincolato dell'economia imprenditoriale, in quanto sfera funzionale realmente astratta situata al di là del contesto della vita rimanente, è stato spesso avvertito e deplorato; e ripetutamente sono stati intrapresi tentativi, tanto nella storia dei sindacati quanto in quella del movimento sociale-ecologico più recente, di rinnovare il contesto della vita perduta, attraverso la propagazione di un'unità fra "vita e lavoro" o (in senso più stretto) fra "abitazione e produzione", ecc.. Ma tali idee sono rimaste senza concetto riguardo al contesto della forma soggiacente del lavoro astratto e del valore. L'integrazione nel mondo della vita deve avvenire sulla base delle categorie non discusse della socializzazione del valore, ivi inclusa la circolazione; uno sforzo condannato in partenza al fallimento.
Lo stesso vale per i tentativi fatti "dall'alto", attraverso iniziative di politiche aziendali o della burocrazia statale, nel senso di introdurli di soppiatto, per motivi ideologici o disciplinari, oppure accoppiando altri momenti del mondo della vita allo spazio funzionale dell'economia di impresa. Nella storia delle grandi imprese, è nota l'istituzionalizzazione delle "comunità d'impresa", attraverso le quali si tentava, per mezzo di alloggi sociali, giardini d'infanzia, circoli ricreativi interni, ecc., di vincolare in termini di mondo della vita, ed in termini identitari, un corpo privilegiato di operai, in quanto quadri d'impresa, al rispettivo marchio e contribuire così alla loro motivazione. Se lasciamo da parte il carattere funzionalista di questo tipo di misure, nel senso di un orientamento ancora più intenso verso il processo di produzione realmente astratto e verso la corrispondente estorsione  di rendimento, vediamo che tali misure si sono sempre rivelate come marginali e transitorie; istituzioni del genere, in tempo di crisi, hanno sempre sofferto di una decadenza drammatica, ed oggi, nell'ambito della razionalizzazione delle risorse e nell'ambito della globalizzazione, sono destinate alla scomparsa anche in termini strutturali (un caso esemplare a questo proposito è il conglomerato Siemens in Germania).
La stessa cosa si applica alle comunità d'impresa del "socialismo reale" che hanno proliferato sotto il manto protettore della burocrazia di Stato, e nelle quali l'integrazione di momenti del mondo della vita è stata essenzialmente più forte e più profondamente radicata; e questo è avvenuto anche guadagnando qualità della vita ed autodeterminazione nei confronti dell'Occidente, sebbene messe in ombra dall'arroganza burocratica. Ma sono stati proprio questi momenti di emancipazione, di breccia nello spazio funzionale astratto dell'economia d'impresa, ad entrare in conflitto con la base reale del lavoro astratto, finendo per portare al fallimento indotto dalla manutenzione della valorizzazione del valore. In fin dei conti, questi momenti di integrazione non erano consapevolmente concepiti come contro-mediazioni per il superamento del lavoro astratto, ma erano al contrario subordinati alla sua affermazione; si trattava, pertanto, di mere forme di nicchia, sotto le condizioni di un sistema volto alla modernizzazione recuperatrice, dove la regolamentazione dei processi di mercato per mezzo della burocrazia statale (che finirà per non essere più praticabile) aprirà involontariamente, in parte, lo spazio funzionale dell'economia di impresa, e gli conferirà in parte la carica ideologica di un territorio del mondo della vita.
Dal fallimento di tutto questo sono derivate conseguenze, non nel senso di chiedere conto della responsabilità del lavoro astratto per trovare una prospettiva che porti al suo superamento, ma al contrario nel senso di rendere compatibile lo spazio funzionale dell'economia di impresa con la sua definizione logica, anche in termini pratici, e di "depurarlo" di tutti i momenti del mondo della vita in tal senso disfunzionali.
Mentre il lavoro astratto costituisce l'apriori della mediazione e della riproduzione sociale, esso può solo stabilire di per sé, sempre di nuovo e con sempre maggior veemenza, lo spazio funzionale dell'economia imprenditoriale come uno spazio "svincolato", separato da tutti gli altri momenti della vita, e realmente astratto. In fondo è questo il problema cui si riferisce Marx alla fine del capitolo IV del I volume del Capitale, quando definisce la relazione tra la sfera della circolazione e la sfera della produzione del capitale in relazione alla merce "forza lavoro": "La sfera della circolazione, o dello scambio di merci, fra i cui obiettivi c'è il processo di compravendita della forza lavoro, è stata di fatto un vero e proprio Eden dei diritti umani innati. Quello che qui prevale è solo la libertà, l'uguaglianza, la proprietà e Bentham. Libertà! Sta nel fatto che il compratore ed il venditore di una merce, per esempio la forza lavoro, sono mossi unicamente dalla loro libera volontà. Contrattano come persone libere, uguali davanti ad essa. Il contratto è il risultato finale in cui le loro volontà si dotano di un'espressione giuridica comune. Uguaglianza! Sta nel fatto che entrambi si riferiscono l'uno all'altro soltanto come proprietari di merci, scambiando equivalente per equivalente. Proprietà! Sta nel fatto che ciascuno dispone soltanto di quel che è suo. Bentham! Sta nel fatto che ciascuno dei due è preoccupato solamente di sé stesso. L'unico potere che li riunisce e li fa entrare in una relazione è quello della loro proprietà, del loro privilegio, dei loro interessi particolari. E' proprio perché così ciascuno si muove per sé, e nessuno per l'altro, tutti insieme contribuiscono, in funzione di un'armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici di una provvidenza sommamente previdente, solo alla costruzione del loro vantaggio reciproco, dell'utilità comune, dell'interesse generale".
Lo stesso si può dire della sfera della circolazione, con il suo idealismo del soggetto del diritto libero ed uguale. Nella continuazione della totalità del processo di riproduzione, però, bisogna congedarsi dalla circolazione. Per questo, Marx prosegue: "Nel prendere congedo da questa sfera della circolazione semplice, o dello scambio delle merci, dove il libero mercante prende a prestito opinioni, concetti e criteri volgari per il suo giudizio sulla società del capitale e del lavoro salariato, le fisionomie delle nostre dramatis personae sembrano trasformarsi in alcuni aspetti. Il vecchio proprietario del denaro viene avanti come capitalista, il possessore di forza lavoro lo segue come suo operaio; uno sorride misteriosamente ed è pieno di zelo imprenditoriale, l'altro, timido, riluttante, come uno che abbia portato al mercato la propria pelle, e che ora non può aspettarsi altro se non - la conciatura."
Dopo quanto detto finora, è possibile che sia diventato chiaro come il marxismo tradizionale deve leggere quest'esposizione, ossia, non proprio come la relazione fra il lavoro astratto in quanto "astrazione di scambio", da un lato, e la logica realmente astratta della produzione, dall'altro lato, ma soltanto come una relazione esteriore e giuridica fra il capitalista (proprietario dei mezzi di produzione) e l'operaio salariato (proprietario della forza lavoro), che non arriva nemmeno al concetto di lavoro astratto in quanto astrazione reale. Questa lettura delle parole di Marx può pure avere una qualche plausibilità, ma anche così viene qui circoscritta alla relazione giuridica nella sfera della circolazione. Quel che ora avviene sotto la forma di "conceria", non è propriamente il mero sfruttamento soggettivo di una persona portatrice di una  volontà giuridica da parte dell'altra, che va intesa come esterna e limitata alla distribuzione, ma è l'ingresso nella sfera funzionale realmente astratta, "svincolata", dello spazio fantasmatico dell'economia imprenditoriale. In un certo senso si applica anche al capitalista stesso, o ai funzionari del comando della valorizzazione (gestione, ecc.).
Una volta che la comprensione tradizionale del "carattere di sfruttamento" del modo di produzione capitalista rimane limitata alla grossolana definizione di appropriazione dei soggetti di volontà giuridica, ad essa sfugge sistematicamente il carattere di spazio funzionale dell'economia imprenditoriale. In questo modo, tuttavia, le sfugge anche la divisione del moderno sistema produttore di merce in sfere di riproduzione e sfere funzionali separate. Gli è che questa divisione viene stabilita solo dal fatto che è stato costituito lo spazio funzionale svincolato dell'economia imprenditoriale della valorizzazione del valore che, in quanto tale, implica il carattere separato in sfere specializzate di tutte le altre aree della vita, ma che allo stesso tempo si converte in centro che domina tutte queste altre "sfere" conferendo ad esse l'apparenza di sfere "derivate". D'altra parte, tutto quello che non rientra nella logica dello spazio funzionale centrale svincolato e delle sue "derivazioni" (soprattutto determinate attività di riproduzione) viene lasciato alla relazione di dissociazione sessuale, e in tal modo socialmente connotato come il "femminile".
Questa connessione si presenta anche come sviluppo storico: "La dissociazione del valore... non è una struttura rigida, come la troviamo ad esempio in alcuni modelli strutturali sociologici, ma è un processo. Per questo non può essere intesa come statica ed invariabilmente uguale a sé stessa" (Roswitha Scholz, Il sesso del capitalismo, p.118). Questo processo sembra culminare nella crisi della terza rivoluzione industriale. Da una parte, nella penuria di crisi dell'accumulazione e nella crisi finanziaria, la logica dello spazio funzionale dell'economia imprenditoriale svincolata si va imponendo a tutte le sfere della riproduzione sociale da essa derivate: la politica, la cultura, la salute, l'educazione, ecc., perdono la loro propria logica e vengono trattate secondo i criteri della funzionalità proprie dell'economia imprenditoriale, ossia, vengono sottomesse direttamente alla logica del lavoro astratto, cosa che fino ad oggi avveniva solo indirettamente e sotto forme derivate.
Dall'altro lato, questa espansione della logica funzionale dell'economia imprenditoriale, al di là del suo spazio proprio e specifico non può sostenere la crisi, e ancor meno può sostituire le attività riproduttive dissociate come "femminili": "Avviene invece un inselvatichimento del patriarcato produttore di merci, in cui questo si sbarazza dei suoi vincoli istituzionali" (Roswitha Scholz, ivi, p.133). La dissoluzione della famiglia tradizionale e lo smantellamento delle strutture dello stato sociale non mettono fine alla dissociazione della connotazione sessuale senza oggetto, ma piuttosto l'aggravano. Nella stessa misura in cui lo spazio realmente astratto, svincolato, del processo di valorizzazione vuole totalizzarsi - ed in questo è necessariamente votato al fallimento - i momenti dissociati connotati con il "femminile" sono soggetti ad una pressione sempre più insopportabile. Il fatto per cui, come risultato, la riproduzione sociale si sgretola completamente è proprio la prova pratica che la logica funzionale dello spazio dell'economia imprenditoriale è del tutto nemica della vita ed è misantropica, ossia, che questo spazio è tutto tranne che un luogo neutro, innocente, trans-storico-ontologico della produzione "concreta" e materiale di beni "utili", solamente deviati da un destino cinico e baro per mezzo di un potere di disposizione giuridica esterno dei soggetti sfruttatori.
Lo spazio funzionale "svincolato" dell'economia imprenditoriale, realmente astrattificato (separato dalle necessità della vita e del mondo della vita), corrisponde ad un tempo ugualmente "svincolato" e astrattificato, per così dire, al tempo funzionale specifico del lavoro astratto. Si tratta qui di una forma di tempo - o definizione storicamente specifica di tempo - che ha luogo solamente nel moderno sistema produttore di merci. Questa forma di tempo o definizione di tempo, è il tempo continuo [Fliesszeit] astronomico astratto dell'universo meccanico di Newton, in analogia con gli identici componenti atomici fisicamente riduzionisti di tale universo.
In termini sociali, è la forma del tempo della sconsideratezza, cioè, un tempo illimitato, indefinito, legato a niente (la dimensione astronomica serve solo come misura esterna ed arbitraria); un tempo continuo infinito, che serve soltanto alla pretesa smisurata del "soggetto automatico", di un'incorporazione infinita di energia umana astratta, spesa nella misura di unità di tempo altrettanto astratte (secondi, minuti, ore di "lavoro" svincolate da qualsiasi contenuto), vale a dire, la trasformazione di tutto il tempo di vita in tempo di lavoro. Così, il tempo astronomico continuo è la misura paradossale della sconsideratezza, un tempo insaziabile, non più legato ad una qualche necessità (sempre finita, condizionata); la misura del tempo di un fine in sé irrazionale, che non prende più in considerazione un movimento limitato nel tempo volto ad un determinato fine o processo, ma che funziona come un forma di tempo del movimento infinito della valorizzazione del valore riferito a sé stesso. Il "lavoro concreto" del processo di produzione capitalista non avviene soltanto nello spazio funzionale "svincolato" dell'economia d'impresa; avviene anche in termini reali secondo la misura smisurata del tempo continuo astratto "svincolato", e non secondo la misura di una trasformazione della materia definita temporalmente (e per sua essenza limitata).
Moishe Postone si è interessato meno al carattere specifico dello spazio "svincolato", e più al carattere specifico della forma del tempo capitalista, ed anche in quest'ambito è arrivato ad avere una conoscenza pionieristica. In tutta la storia della modernizzazione, il lugubre carattere del "tempo astratto" è stato ripetutamente tematizzato, esplicitamente ed implicitamente, ma non è mai stato riferito al lavoro astratto ed alle forme di mediazione categoriali della socializzazione del valore. Postone, appoggiandosi a storici sociali come Thompson, Gurjevich, Needham, ecc., è stato il primo a distinguere il "tempo concreto", che è stato determinante in termini di qualità del tempo nelle società premoderne (e che dovrà essere, in un'altra maniera, determinante per una società postcapitalista), dal "tempo astratto" della moderna produzione di merci: "Come 'concreti' designerei i diversi tipi di tempo che dipendono dagli accadimenti: questi si riferiscono ai cicli naturali e alle periodicità della storia umana, così come ai compiti o ai processi specifici (ad esempio, il tempo necessario a cuocere il riso o a dire un padrenostro) e vengono intesi di per sé... Prima dell'avvento e dello sviluppo della società capitalista moderna in Europa occidentale, ci sono state varie forme di tempo concreto a segnare le concezioni prevalenti di tempo. Il tempo non era una categoria autonoma, indipendente dagli accadimenti, e perciò gli venivano date delle definizioni qualitative, come buono o cattivo, come sacro o profano... Il tempo concreto è una categoria più ampia del tempo ciclico, dal momento che esistono concezioni lineari del tempo, che nella loro essenza sono concrete... Il tempo concreto è meno caratterizzato dalla sua direzione, piuttosto che dalla circostanza di essere una variabile dipendente" (Postone).
La concezione usuale del tempo premoderno, come meramente ciclico (legato alle stagioni, ritmi di vita, ecc.), apparentemente limitato alla forma di riproduzione agraria e alle relative forme di feticcio, in gran parte dà solo un contributo in senso reazionario alla critica della modernità produttrice di merci; al contrario, la concezione più ampia che ha Postone del tempo concreto, è del tutto differente, come "concezione del tempo orientato a dei compiti", dipendente dagli accadimenti, non separato da quelli che sono i processi finiti nel tempo (sia ciclico che lineare). A questa, si oppone l'altra qualità del tempo, negativa, della modernità, cioè, lo spazio funzionale svincolato dell'economia d'impresa: "..., il 'tempo astratto', però, che io intendo come un tempo uniforme, continuo, omogeneo, 'vuoto', è indipendente dagli avvenimenti. La concezione di tempo astratto, che si andata progressivamente imponendo in Europa occidentale, fra il 14° ed il 17° secolo, ha trovato la sua espressione più pregnante nella formulazione di Newton, di 'tempo assoluto, vero e matematico (che) scorre in maniera perfettamente uniforme senza alcuna relazione con qualcosa di esterno' (Isaac Newton). Il tempo astratto è una variabile indipendente. Esso costituisce un inquadramento indipendente, nel quale avvengono movimenti, accadimenti e azioni. Questo tempo può essere suddiviso in unità uguali, costanti e non qualitative" (Postone).
"L'inquadramento indipendente" di questo tempo, di cui parla Postone, può tuttavia essere inteso anche come uno "spazio indipendente", o più precisamente come lo spazio funzionale "svincolato" dell'economia imprenditoriale. Il tempo continuo astronomico ed astratto del processo di valorizzazione costituisce questo spazio fantasmatico, così come, inversamente, è costituito a sua volta da questo spazio come tempo fantasmatico. Postone richiama l'attenzione sul fatto che "questa forma di alienazione temporale significa una trasformazione del carattere del tempo stesso. Non solo il tempo del lavoro socialmente necessario è costituito come norma temporale "oggettiva", la quale esercita una coazione esterna sui produttori, ma anche il tempo stesso viene costituito come tempo assoluto ed astratto. Il quantum del tempo che determina la dimensione del valore di una merce individuale è una variabile dipendente. Il tempo stesso, però, si rende indipendente dall'attività - sia che questa venga determinata individualmente, che socialmente, o dalla natura.  Diventa una variabile indipendente - misurata in unità costanti, continue, comparabili e permutabili, stabilite per convenzioni (ore, minuti, secondi) - che serve da riferimento assoluto del movimento e del lavoro in quanto dispendio. Gli accadimenti e le azioni in generale, così come il lavoro e la produzione in particolare, ora avvengono in seno al tempo e sono da esso determinati - un tempo che è diventato astratto, assoluto ed omogeneo.
Tuttavia, il tempo ha cominciato a diventare astratto, indipendente ed assoluto soltanto in un determinato spazio sociale, che è appunto lo spazio funzionale svincolato dell'economia imprenditoriale, dove quello che è in questione non è il tempo "di qualcosa", ma il tempo semplicemente nel senso del "lavoro", o semplicemente della combustione di energia umana. Lo spazio svincolato ed il tempo che nel suo seno diventa assoluto, costituiscono insieme uno spazio-tempo [Raumzeit] specificamente sociale, un continuum di spazio-tempo al di là di tutte le necessità umane e di tutto il mondo della vita sociale. Nel processo della storia dell'imposizione del capitalismo, questa determinazione spazio-temporale colora le sfere derivate, e perfino il mondo stesso della vita quotidiana; è l'intervento usurpatore spazio-temporale del "dio straniero" (Marx), del "soggetto automatico" (Marx), pertanto di quella pretesa totalitaria della valorizzazione, che è provenuta dalla forma denaro dell'economia delle armi da fuoco e della rivoluzione militare dei primordi della modernità, e che è evoluta in una macchina sociale.
L'origine ed il centro, tuttavia, è e continua ad essere lo spazio-tempo specifico del processo di valorizzazione dell'economia imprenditoriale, del lavoro astratto, che può essere esteso a tutto il processo di vita soltanto al prezzo della completa autodistruzione della società; il processo di crisi contemporaneo della terza rivoluzione industriale si avvicina a questo stato di dissoluzione in maniera sempre più chiara.
Una volta evidenziato il carattere di spazio-tempo sociale astratto dell'economia d'impresa, diventa chiaro quanto sia grossolana la concezione per cui tutta questa relazione potrebbe essere ridotta dal potere di disposizione giuridica di meri soggetti della volontà di sfruttamento. Perciò, quello che avviene non è che "la proprietà privata dei mezzi di produzione" costituisce il sistema di lavoro astratto e la costituzione spazio-temporale dello stesso, ma esattamente il contrario: è il modo di produzione del lavoro astratto, il fine in sé del "soggetto automatico", che costituisce la forma giuridica della proprietà privata dei mezzi di produzione (così come costituisce il movimento di auto-mediazione del lavoro astratto/valore per mezzo della sfera della circolazione). Quindi, la mera collocazione della "questione della proprietà" (giuridica) è tutt'altro che radicale, e mette piuttosto il carro davanti ai buoi: non intacca il carattere spazio-temporale del processo di riproduzione sociale, né la forma soggetto dei suoi portatori. Quando, per esempio, i soggetti del lavoro astratto, ossia, i soggetti dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale (e quindi della concorrenza nella mediazione svolta attraverso la sfera della circolazione) "votano democraticamente" sulle questioni della riproduzione, essi possono soltanto riprodurre, esprimere e vivere le contraddizioni del loro modo astratto di esistenza, ossia, della relazione di feticcio che questo modo continua ad avere come base.
L'intervento emancipatore deve andare più a fondo, per rompere e distruggere lo spazio-tempo del lavoro astratto stesso, in quanto l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbe solo una conseguenza logica di questa rivoluzione, ma non la rivoluzione vera e propria. L'opinione contraria del marxismo tradizionale può solo e sempre condurre a che la forma giuridica della proprietà privata, che non è legata in alcun modo agli individui o alle famiglie, si riproduca sotto una qualche forma istituzionale (burocrazia statale, dittatura di partito, istanze di democrazia imprenditoriale, istituzioni cooperative, ecc.). La proprietà privata dei mezzi di produzione (così come quella della forza lavoro in quanto merce) non è un "potere di disporre" soggettivo o addirittura arbitrario, nel senso di un mero "arricchimento", ma è solo la forma giuridica del sistema di lavoro astratto e del suo specifico spazio-tempo astratto. Per meglio dire: è la forma giuridica necessaria dei soggetti funzionali di questo spazio-tempo, e non il fondamento sociale di tutta l'organizzazione.
Nello spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale avviene, in maniera paradossale, un processo di astrazione triplo, reale e pratico. Sebbene siano essi stessi quelli che "lavorano", i soggetti funzionali devono cominciare ad astrarre da sé stessi, in un certo qual modo devono essere appagati come essere umani, per obbedire agli imperativi del lavoro astratto. Questo non deriva soltanto dal carattere in fondo oggettivo - ad esempio - della produzione (sociale) per gli altri anziché per il proprio consumo, ma da quella cosa fondamentalmente "estranea" che è il fine-in-sé capitalista, la valorizzazione del valore. Non si tratta di produrre oggetti d'uso per sé o per altri, ma si tratta essenzialmente di produrre valore e plusvalore, ossia, di bruciare all'interno dello spazio funzionale dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale il massimo della propria energia umana astratta, si tratta di trasformarsi, in quanto essere umano, in una macchina a combustione sociale.
Pertanto, i soggetti del lavoro astratto in quanto funzionari del "soggetto automatico" (inclusa la gestione) non hanno alcuna influenza sul contenuto concreto della produzione (che è dettato dal fine-in-sé della valorizzazione), il cui significato o mancanza di senso non deriva dalla sua competenza, né essi possono organizzare l'evoluzione del processo di produzione, o il suo ambiente, secondo i propri desideri e necessità. Lo spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale non permette che una persona metta "la volontà" nell'attività; non si tratta del suo proprio tempo di vita nè del suo proprio spazio vitale, in cui una persona si installa, ma di uno spazio-tempo straniero - "straniero" non nel senso di proprietà privata estranea, di un altro soggetto di volontà (del capitalista), ma "estraneo" nel senso della logica funzionale del lavoro astratto in quanto tale. Il tempo continuo astratto dev'essere interrotto il meno possibile, proprio perché quello che è in questione è il dispendio massimo di energia umana per unità di tempo, e non gli oggetti necessari, né le necessità dei produttori e delle produttrici; i regolamenti che disciplinano gli intervalli, ad esempio, non obbediscono al criterio dei produttori e tendono a minimizzarlo (fino alla questione se sia ancora lecito far pipì).
Analogamente, i mezzi di produzione, gli utensili, ecc., non devono essere utilizzati in parallelo dai produttori per fini personali, ma un regolamento rigido li mantiene riservati al fine della valorizzazione. Anche qui il riferimento alla proprietà privata giuridica è lungi dal costituire una spiegazione soddisfacente, una volta che la mancanza di potere di disposizione da parte dei produttori, anche sotto quest'aspetto, non deriva da una relazione di volontà esterna, fra persone, ma dalla logica interna dello spazio-tempo stesso dell'economia imprenditoriale. Laddove questa logica viene infranta, per esempio dal carattere lacunoso e per il "lassismo" del regime dell'economia imprenditoriale come appare nelle burocrazie socialiste di Stato, tale comportamento viene invariabilmente punito dalla perdita di funzionalità sistemica. Mentre la logica stessa del lavoro astratto e del suo spazio-tempo specifico non viene abolita consapevolmente, l'affermazione dei produttori nell'ambito del proprio processo di produzione come esseri con necessità può portare soltanto a difetti e a guasti funzionali.
In secondo luogo, i soggetti funzionali del lavoro astratto devono anche astrarsi gli uni dagli altri nella pratica, sebbene allo stesso tempo tentino di cooperare gli uni con gli altri nel processo concreto di produzione. Tuttavia, come lo ha descritto Marx molte volte, questa cooperazione non appartiene loro, non è personale, e ancora una volta non obbedisce meramente al comando esterno del proprietario privato/capitalista come soggetto di volontà, ma è strutturata dallo spazio-tempo astratto del processo di valorizzazione. Quel che i produttori non possono, in quanto individui, non lo possono neppure nella loro cooperazione, in particolare non possono determinare il contenuto e l'evoluzione del processo di produzione. Anche nel cooperare, essi rimangono unità reciprocamente isolate di dispendio di energia umana astratta, dal momento che - anche se la cooperazione obbedisce di fatto alle necessità di trasformazione concreta e materiale delle materie naturali - questa trasformazione è soltanto la "espressione" di qualcosa di diverso, vale a dire del processo di valorizzazione, cui il "lavoro concreto" rimane subordinato. Il lato cooperativo sul piano del lavoro concreto, pertanto non è essenziale; quel che è essenziale è il lato non cooperativo di un dispendio quasi autistico di energia umana astratta sul piano del lavoro astratto.
In questo senso, i produttori sono determinati come concorrenti monadici perfino nello stesso processo di produzione, e non solo nella circolazione nel mercato del lavoro in quanto venditori concorrenti della merce forza lavoro. Lo spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale riduce il momento cooperativo allo stretto carattere strumentale dei processi tecnici, mentre qualsiasi cooperazione sociale si presenta come sistemicamente disfunzionale e "pericolosa". La logica fondamentale del lavoro astratto tende all'eliminazione di qualsiasi momento di cooperazione non funzionale; anche i mini-intervalli informali per il caffè e la conversazione si presentano sempre più come "fastidi" e vengono estirpati. In questo consiste anche il tallone di Achille di quegli slogan tanto invocati relativi al "lavoro di squadra" ed alla "competenza sociale", che nella loro riduzione funzionalista possono ridursi solamente all'assurdo. E' lo stesso spazio-tempo dell'economia imprenditoriale, in cui i produttori rimangono separati gli uni dagli altri, come da pareti di vetro che paralizzino qualsiasi comunicazione orizzontale, e che automaticamente torna a riprodurre sempre strutture di comando verticali. Anche qui il riferimento alla "autorità" personale dei proprietari privati giuridici è lungi dal costituire una spiegazione soddisfacente e rimane fondamentalmente a lato del carattere del problema.
La stessa cosa si applica alla struttura architettonica degli edifici funzionali del lavoro astratto, le divisioni spaziali e la loro organizzazione. L'astrazione degli individui che "lavoravano" e della loro cooperazione, qui diventa ancora più palpabile. Il funzionalismo de-estetizzato, ed offensivo per la vista e per la sensibilità spaziale degli edifici funzionali, delle zone industriali e commerciali (che da tempo ha marchiato anche il mondo della vita e le costruzioni abitative e culturali), deriva talmente poco da una necessità oggettiva del "lavoro concreto" - così come tutti gli altri momenti dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale - da risultare unicamente dal carattere del processo di produzione in quanto processo di valorizzazione. I produttori devono astrarre da sé stessi come esseri umani, di modo che lo spazio funzionale dell'economia imprenditoriale non sia il loro loro spazio vitale e che il tempo funzionale dell'economia d'impresa non sia il loro tempo di vita. Tutto questo si riflette anche sull'ambiente della loro attività, che obbedisce altrettanto poco alla loro auto-determinazione per quel che attiene il senso, l'obiettivo e l'evoluzione della loro produzione.
In terzo luogo, infine, i produttori, sotto l'egida dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale, in un certo qual modo devono astrarre anche dagli oggetti concreti, dai materiali della loro attività, anche se sono questi ad essere modellati, in senso tecnico, dal lavoro concreto. Tuttavia, nello stesso processo di produzione, la loro attività concreta appare ai produttori solo come una combustione astratta, ed indifferente alla loro energia. Conseguentemente, la "materia" da lavorare, così come la sua trasformazione concreta, rimane loro essenzialmente indifferente ed estranea, e non possono identificarsi con essa nello spazio-tempo dell'economia d'impresa, alla maniera in cui l'artigiano premoderno poteva ancora identificarsi con il suo oggetto. L'identificazione con l'attività può solo dipendere da punti di vista secondari, nella maggior parte dei casi socialmente concorrenti, slegati dall'oggetto; ad esempio, dalla posizione nella gerarchia "militare d'impresa", dal comando sugli altri, o dal successo delle vendite, dall'orgoglio per il rendimento astratto in unità di tempo/quantità di pezzi, dalla qualifica nel Know-how puramente funzionalista, estranea alla materia, e dal rispettivo riconoscimento, dalla "aura" del nome dell'impresa, ecc.. Solo in aree recondite, come ad esempio l'arte, che non sono dominate profondamente dallo spazio-tempo dell'economia imprenditoriale, si incontrano ancora, nonostante la mediazione del denaro e dell'astrazione reale circolatoria, elementi di identificazione con la materia e con la sua trasformazione qualitativa; ma anche in quest'area avanza sempre più l'indifferenza del lavoro astratto nel processo di commercializzazione.
La "astrazione reale produttiva" negli oggetti del lavoro apparentemente solo concreto, non è dovuta in alcun modo alla considerevole indifferenza soggettiva dei produttori, in termini individuali, rispetto alla materia della loro attività, che nello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale si presenta loro essenzialmente come un processo astratto di combustione della loro energia. E' assai più il processo stesso di produzione, nella sua logica intrinseca in quanto lavoro realmente astratto, che stabilisce tale indifferenza come un apriori. Quindi è l'oggettività sociale ad imporre al contenuto il carattere dei soggetti indifferenti, in quanto portatori di processi astratti di combustione di energia umana, e non il contrario (ed ancor meno una qualche "avidità di lucro" dei proprietari).
Questa oggettività sociale dell'indifferenza nei confronti della materia e del contenuto deriva dal carattere essenziale del processo di produzione come processo di valorizzazione. Ha luogo qui un'inversione peculiare nella relazione fra l'astrazione del valore ed il cosiddetto valore d'uso; per meglio dire, il famigerato valore d'uso si rivela essere, come già accennato, una mera determinazione della forma della stessa oggettività del valore e della sua realizzazione come valore di scambio.
L'inversione, in cui il valore d'uso si presenta immediatamente come funzione della costituzione del valore, e del valore di scambio, è da subito determinata dal carattere specifico della merce forza lavoro. E' soltanto il carattere di merce della forza lavoro che rende del tutto possibile la generalizzazione della produzione di merci nella forma della riproduzione sociale del capitalismo. Nel caso di questa merce, tanto costitutiva quanto specifica, però, le determinazioni della forma di merce finiscono per trovarsi, per così dire, con i piedi per aria. Per quel che riguarda tutte le altre merci, il cosiddetto valore d'uso consiste, almeno a prima vista, nella sua utilità materiale. Non è questo che avviene con la merce forza lavoro. Il suo valore d'uso per il processo di produzione capitalista non consiste affatto nella sua capacità di produrre determinati beni destinati a soddisfare necessità materiali o immateriali. Piuttosto il contrario: "Per estrarre valore dal consumo d'una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe esser tanto fortunato da scoprire, all'interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d'uso stesso possedesse la peculiare qualità d'esser fonte di valore; tale dunque che il suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro..." (Marx). Pertanto, quel che è decisivo, è "il valore d'uso specifico di questa merce, che consiste nell'essere fonte di valore, e di un valore maggiore di quello che essa stessa possiede" (Marx).
Nella produzione e nel suo risultato, non si tratta di valore d'uso (materiale) apparente dei prodotti, ma di questo valore d'uso specifico della merce forza lavoro, che consiste unicamente nell'imposizione di valore e di plusvalore. Il valore d'uso della merce forza lavoro, però, costituisce puramente e semplicemente il concetto di valore d'uso nel contesto della forma del modo capitalista di produzione generalizzata delle merci. Ciò detto, lo stesso Marx smentisce la sua definizione ontologica ed antropologica di una trans-storica "produzione di valore d'uso", in cui anche l'astrazione "lavoro" deve continuare a perpetuarsi. Così come il valore d'uso della merce forza lavoro consiste socialmente nel produrre valore che oltrepassa i costi della riproduzione, anche il valore d'uso sociale dei prodotti consiste nel "rappresentare" questo plusvalore in quanto fine-in-sé processante, per poi "realizzarlo" nella vendita. Entrambi gli aspetti sono indissociabili. Quindi il valore d'uso sociale in questo senso si dissocia dall'utilità concreta, materiale o immateriale.
Il fatto che quest'utilità, nel senso concreto palpabile di un'oggettività della necessità, costituisca anche, per la produzione capitalista, per così dire un male necessario ed una sorta di condizione residuale, non le conferisce ancora, così, un carattere in sé trans-storico-ontologico, neppure in questa dissociazione del valore d'uso sociale. Al contrario, la determinazione qualitativa astratta, distruttiva e negativa del valore d'uso come fine-in-sé sociale della valorizzazione del valore incide anche sull'oggettività della necessità dissociata e sulla sua stessa produzione.
Quanto detto riguarda innanzitutto il "che cosa" della produzione, il contenuto oggettivo. Com'è noto, per motivi che hanno a che fare con le relazioni di concorrenza e con la costrizione alla redditività, sia i proprietari di capitale, sia la gestione e perfino  gli operai salariati devono essere indifferenti a quello che producono, che si tratti di mele o di componenti per ordigni nucleari; quello che interessa è che si produca e si realizzi il valore d'uso sociale negativo della ricchezza astratta, del plusvalore come fine-in-sé. Non esiste una qualche istanza sociale che possa determinare coscientemente il contenuto oggettivo della produzione secondo criteri di sensibilità per le necessità. Il riferimento al preteso "potere dei consumatori" è pura ideologia. Nella realtà, l'apriori del lavoro astratto e del valore determina anche le strutture delle necessità sociali e sottomette alla coazione della sua specifica logica di valore d'uso astratto di produzione di plusvalore.
Sotto il dettato di questa produzione e realizzazione di ricchezza astratta, ogni giorno cessano, per mancanza di redditività e solvibilità, produzioni destinate anche alle necessità elementari, in quanto la produzione di merci distruttive per necessità distruttive (non solo per mezzo dell'industria degli armamenti) viene ulteriormente rafforzata. Ma non è solo in tal senso che l'astrazione del contenuto delle necessità si afferma massicciamente nel processo di produzione. Anche i contenuti della produzione in sé apparentemente non distruttivi, sono modellati distruttivamente, nel senso del lavoro astratto. Se vengono creati pomodori senza cura per il sapore ed in funzione di norme di confezionamento per le reti di distribuzione su scala continentale, se le mele vengono trattate con la radioattività per prolungare la loro durata, o se gli alimenti in generale vengono snaturati nell'esclusivo interesse dell'obiettivo della valorizzazione, e tutta la ricchezza storicamente accumulata di una molteplicità di piante e di animali si perde a favore di una "povertà di varietà", ridotta nel nome della semplificazione economico-imprenditoriale, se nella costruzione delle case, fatta sotto il dettato della riduzione dei costi imposto dall'economia imprenditoriale, vengono utilizzati materiali nocivi per la salute, o appare una divisione disfunzionale dello spazio che è un insulto all'estetica: è il contenuto materiale che viene guidato dalla determinazione della valorizzazione, e non il contrario; e con il crescente sviluppo capitalista, questo avviene in misura storicamente crescente.
Il "soggetto automatico" della valorizzazione del valore crea, per così dire, a sua immagine un materiale umano per il lavoro astratto, anche nel senso di una modellazione delle necessità. La logica della produzione e la logica del consumo si intrecciano sotto il dettato dell'apriori sociale del lavoro astratto. Mentre da un lato necessità elementari (perfino quelle che in un certo qual modo potrebbero essere definite come trans-storiche, quali ad esempio la necessità di acqua potabile pulita, di una spazio abitativo sufficiente, ecc.) vengono brutalmente trascurate, l'astrazione reale risveglia, perfino nel quotidiano, necessità distruttive, puramente compensatorie, aggressive, oppure semplicemente assurde ed infantili. Il sistema del lavoro astratto inverte in tal modo la relazione fra le necessità e la produzione: non sono le necessità a generare una produzione in quanto fine, ma il fine-in-sé di una produzione svincolata genera, come suo semplice mezzo, sempre più necessità negative. Anche nei paesi capitalisti più ricchi, sempre più gente si vede condannata a patire la fame, mentre allo stesso tempo si pretende di creare la "necessità" - difficile da concepire - di guardare un film su uno schermo dalle dimensioni di un francobollo.
L'apriori sociale del lavoro astratto come logica della stessa produzione implica, pertanto, il disprezzo delle necessità elementari, la produzione di beni puramente distruttivi e la riduzione qualitativa di tutti i beni (mancanza di diversità, "rifiuti industriali", produzione di usa e getta, normalizzazione estetica e de-estetizzazione, ecc.), e alla fine la modellazione generale delle necessità in funzione degli imperativi del processo di valorizzazione porta alla riduzione o addirittura alla distruzione della capacità di fruizione.

Modellare la produzione in funzione della logica del lavoro astratto, tuttavia, non ci parla soltanto del "che cosa" - della determinazione dei beni in termini di contenuto, il cui carattere materiale è subordinato ed adeguato alla oggettività fantasmatica del valore - ma anche del "come" - del processo stesso del lavoro, della forma di intervento dell'attività trasformatrice della materia naturale o sui nostri simili (servizi).
Lo spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale richiede un adeguamento del "lavoro concreto" allo spazio astratto ed al tempo astratto di una produzione continua infinita, nel senso di un'ottimizzazione della logica di valorizzazione: "Il tempo è denaro". Ciò significa che nel processo del lavoro concreto, in quanto processo continuo dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale, dev'essere negato ed eliminato tutto ciò che in qualche modo ostruisce questo flusso continuo di una combustione ottimizzata di energia umana, causando perdite per attrito. Tuttavia, il processo di flusso continuo scorre meglio con gli oggetti di materia fisica morta (il che è simbolizzato, ad esempio, nella "classica" catena di montaggio dell'industria automobilistica). In questo modo, lo spazio-tempo dell'economia imprenditoriale implica un riduzionismo specifico, che corrisponde ad un fenomeno assai simile nelle moderne scienze naturali.
Si può parlare di un riduzionismo fisico delle moderne scienze naturali, il quale prevede una spiegazione monistica del mondo a partire dai componenti atomici elementari dell'universo meccanicistico di Newton. Ciò significa necessariamente una fase doppia di riduzione. In una prima fase, il mondo sociale, culturale e storico dell'Uomo dev'essere ridotto a meccanismi funzionali biologici; un topos dell'ideologia borghese a partire dal 17° secolo, L'arco di questo riduzionismo biologico si estende a partire dalla pseudo-naturalezza delle condizioni di produzione e di relazionamento capitaliste, in economia politica a partire da Adam Smith (ampliata nella più recente pseudo-scientificità e "matematizzazione" dell'economia politica), passando per la biologizzazione del sociale (darwinismo sociale), fino alla presunta programmazione e determinazione genetica della "natura umana".
In una seconda fase, il mondo biologico deve poi essere ridotto a meccanismi funzionali chimici e fisici, la materia viva dev'essere ridotta a materia morta. La stravaganza della ricerca di una "formula del mondo" totale, dalla quale si possa far "derivare" monisticamente tutto ciò che esiste, ancora oggi si basa su questo modo riduzionista di pensare, e sull'immagine meccanicistica del mondo, anche se la fisica quantistica sembra di fatto contraddirla.
Tuttavia. il riduzionismo fisico delle moderne scienze naturali, in teoria si presenta nello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale come pratica universale astratta, come trattamento reale del mondo degli oggetti in funzione di tale riduzionismo. E' solo questo modo di procedere che permette tutta una logica di intervento universale ed astratta, indipendente dall'oggetto del processo del lavoro, in quanto processo di valorizzazione. La negazione della logica e del tempo propri di aree oggettive e di vita qualitativamente diverse, può avvenire soltanto per mezzo della riduzione fisica. Gli esseri umani sono trattati come animali e piante, mentre animali e piante sono trattati come pietre e metalli. In questo modo si opera nella pratica dell'economia imprenditoriale una riduzione complessiva della materia sociale e della materia viva in generale, ed un'oggettività fisica morta. L'oggettività fantasmatica del valore della merce si presenta nel processo della sua produzione come la riduzione fisica della sua materialità. Il processo di produzione come processo di valorizzazione è essenzialmente il processo dell'uccisione dei suoi oggetti.
Le estreme conseguenze di questa logica di riduzione sono da tempo diventate visibili, ad esempio nelle agro-industrie monistiche, negli orrendi trasporti su scala continentale di animali da macello, così come nelle pratiche di commercio di servizi sociale e cure personali, ad esempio quando anziani e malati vengono trattati secondo il modello degli autolavaggi, o quando il "lavoro affettivo" con i moribondi è soggetto alla gestione del tempo della razionalizzazione economica-imprenditoriale. In tali pratiche delle fabbriche agrarie, degli ospedali e gulag delle "cure personali" che in tutto il mondo stanno diventando sempre più note, sono tuttavia solo la punta dell'iceberg di una logica di riduzione fisica che domina profondamente tutto lo spazio-tempo dell'economia imprenditoriale fin nei pori del processo di riproduzione sociale.

A tale riduzionismo appartiene anche la distruzione secondaria della biosfera del pianeta per mezzo degli "escrementi (fisici) della produzione" (Marx), del tutto simili alla distruzione secondaria delle condizioni di relazionamento sociale per mezzo degli "escrementi della produzione" per così dire psichici. L'indifferenza riguardo al contenuto qualitativo immediato del "lavoro", implica un'uguale indifferenza riguardo allo "ambiente" del processo di valorizzazione, sia in termini biologici che in termini sociali. Lo spazio-tempo "svincolato" dell'economia imprenditoriale conosce ed ammette soltanto la sua propria logica interna; è insensibile a tutto ciò che è all'esterno del suo campo d'azione è soggetto ad un'altra qualità di spazio o di tempo. E' per questo che falliscono non solo tutti i protocolli sul clima e gli altri sforzi di un ecologismo impotente, nel loro reintrodurre i "costi esternalizzati" nei conti dell'economia imprenditoriale secondo le regole della sua stessa logica, senza rompere tale logica in quanto tale. Ugualmente impotenti rimangono anche tutti gli appelli alla compassione, alla responsabilità sociale, alla "società civile", ecc., che pretendono di rivendicare un comportamento non riduzionista in rapporto alle condizioni sociali, senza mettere fondamentalmente in discussione lo spazio-tempo dell'economia imprenditoriale in quanto centro del riduzionismo.
Così come i popoli totalmente inselvatichiti nelle guerre di sterminio non sono più capaci di integrarsi in una vita "civile", ancor meno gli individui condizionati nello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale ai modi di comportamento riduzionisti possono comportarsi all'esterno in maniera "socio-ecologica"; senza contare che questo "esterno" viene deglutito ed aspirato per mezzo dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale ad una velocità crescente - senza che questo riesca realmente a totalizzare ed incorporare i momenti dissociati; questi, al contrario, "finiscono nell'abbandono". E' soltanto assurdo, quando le istanze ufficiali del capitalismo di crisi globale invocano, da un lato, la "morale" socio-ecologica ed allo stesso tempo propagano, dall'altro lato, l'estensione dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale e della sua logica riduzionista a tutte le aree della vita. I sermoni domenicali collocano senza compromessi la razionalità, vista come rispetto delle logiche proprie alla biosfera ed al relazionamento sociale, nella sfera della responsabilità personale degli individui isolati e, per così dire, nel loro "comportamento del tempo libero", mentre allo stesso tempo la razionalità sociale negativa dello spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale determina il processo reale della riproduzione sociale in tutta la sua ampiezza e profondità, il che perfino rafforza l'intervento riduzionista ad essa associato.
Il risultato è facile da divinare, e consiste nella trasformazione del mondo terreno della biosfera e della cultura sociale umana in un deserto fisico. La letteratura popolare di fantascienza ha da tempo anticipato questo risultato nel topos del mondo dei robot, in cui una "intelligenza" meccanica ed auto-riproduttiva di macchine morte governa un mondo chimicamente e fisicamente ridotto. Forse l'amore per la riduzione fisica teorica e pratica spiega anche perché l'anti-cultura capitalista sia tanto affascinata dal pianeta Marte, che torna ad essere l'obiettivo prediletto delle spedizioni spaziali fatte con motori a combustione e veicoli robotizzati. Marte è precisamente il deserto fisico nel quale il lavoro astratto ed il suo spazio-tempo devono convertire la Terra. Il fatto di andare con dei robot a percorrere quel deserto in cerca della più piccola vita batterica, simbolizza involontariamente la disperata logica autodistruttiva di un'umanità dominata dall'apriori sociale del lavoro astratto.

- Robert Kurz - pubblicato sulla rivista Exit!, 1/2004(7 di 10 – continua…) -

fonte: EXIT!

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