mercoledì 31 maggio 2023

La lingua cancellata…

Tutta la trilogia di Gesù, di J. M. Coetzee, si fonda su un'aspettativa che viene generata dal linguaggio (tema ricorrente nella sua opera, che si basa sul protagonismo, in un libro come Foe, ad esempio): fin dal titolo, nel quale viene annunciato un "Gesù" che non si presenterà mai, che non viene mai neppure menzionato, e che vive come significante - generando nel lettore un'aspettativa - senza completarsi mai nel fattuale o nello storico. La posta in gioco, viene alzata nell'ultimo volume, "La morte di Gesù", dal momento che il titolo opera in quello che, rispetto all'aspettativa, è un registro ambivalente: Gesù continua a esser lì, e continua a non comparire nel romanzo; la morte, tuttavia, serve da complemento e da promessa; una sfaccettatura dell'aspettativa che viene portata a termine, vale a dire che - sotto una qualche forma - viene "onorata" dall'autore.

In un certo qual modo, Coetzee si riallaccia all'idea di Wittgenstein, secondo cui «i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo»; innanzitutto perché egli annulla quella dicotomia che rende possibile l'infrastruttura della nozione di Wittgenstein (secondo cui il linguaggio e il mondo sono differenti, nonostante la con-partecipazione dei limiti); in secondo luogo, perché il linguaggio - nella trilogia di Coetzee - indica un limite ingannevole, un limite che costituisce una sorta di marcatore falso, che induce all'errore (il mondo evocato dalla parola "Gesù" non si trova all'interno dei romanzi che portano questo nome); in terzo luogo, perché, nel mondo creato da Coetzee nella trilogia, il limite del linguaggio è sempre fantasmatico, allucinatorio: tutti i personaggi parlano spagnolo, ma il testo che leggiamo è scritto in inglese.

Julio Fabricante, Las Manos, Maria Prudencia, Las Panteras, Simón, Juan Sebastián Arroyo, Los Gatos, Modas Modernas, Pablo, Bolívar, Joaquín, Damián: questi, sono tutti nomi che indicano una realtà, la quale però non viene corroborata dalla lingua nella quale il romanzo si esprime (allo stesso modo in cui il ragazzo David, lettore ossessivo del Don Quijote, legge in spagnolo ma rielabora in inglese, e ciò sebbene il testo "originale" rimanga sempre invisibile). La lingua inglese è stata abbandonata in un mondo precedente, che nel romanzo non esiste più; eppure è proprio in questa lingua cancellata (tutti parlano in spagnolo nella "Nuova Terra" della trilogia) che il romanzo è stato scritto (la modalità di scrittura del romanzo, pertanto consiste nella cancellazione di quella che è la sua premessa centrale).

fonte: : Um túnel no fim da luz

martedì 30 maggio 2023

La «grande bolla» della politica, esplode !!

« La politica centrata sullo Stato, in quanto istanza sintetizzatrice, sta uscendo dall'orizzonte, non per essere stata colonizzata dall'economia, ma per aver fallito, da molto tempo, in funzione delle sue premesse. Il problema non riguarda solo la condizione esteriore della globalizzazione del capitale, che ha infranto gli spazi dell'economia nazionale. La forza regolatrice dello Stato si estingue soprattutto per il fatto che sostanzialmente non c'è niente che dev'essere regolato. La valorizzazione capitalista - nelle forme del "lavoro astratto" - del denaro ha sempre costituito la premessa dello Stato; una premessa che non può essere elusa.

Quando il capitale si svalorizza a causa del proprio sviluppo della capacità produttiva, lo Stato può reagire solo attraverso un'emissione inflazionistica di denaro da parte della sua banca centrale. Questo non ovvia alla mancanza di sostanza del capitale virtualizzato, ma finisce piuttosto per aggravarla, svalutando quello che è il suo il mezzo - fine a sé stesso - chiamato denaro. Avviene così che l'autorità della banca centrale è oramai puramente formale: il suo stampare moneta può essere solo espressione della produzione sostanziale di valore aggiunto per mezzo del "lavoro astratto", il quale non può essere sostituito.

I limiti del credito statale erano già stati raggiunti alla fine degli anni 1970. È stato quell'epoca, che l'espansione del credito statale, sprovvisto oramai di qualsiasi sostanza, venne castigata dall'ondata inflazionistica. L'illusione del neoliberismo ha consistito nell'attribuire l'inflazione esclusivamente all'attività dello Stato. La de-regolazione neoliberista si è limitata solamente a trasferire sui mercati finanziari il problema del credito statale. Anche il castigo svolto dall'inflazione è stato trasferito - a causa del carattere transnazionale dell'economia - sulle bolle finanziarie, il cui potenziale inflazionistico ha cominciato a manifestarsi, nella situazione deficitaria globale, a partire dal 2008.

In un primo momento, questo processo si era interrotto, a causa del fatto che in quel tempo il capitale virtuale, e con esso la congiuntura mondiale, stava esalando il suo ultimo respiro. Ma se ora lo Stato viene nuovamente invocato come "ultima istanza" e come deus ex machina, ecco che le sue misure di emergenza e di salvezza vanno nuovamente a provocare la svalorizzazione del proprio denaro; solo che questo ora avverrà in una fase di sviluppo più elevata e in una proporzione assai maggiore rispetto a trent'anni fa.

In tale scenario, la speranza della "rinascita della politica" costituisce la più grande di tutte le bolle. I danni causati dalla politica di limitazione del danno saranno ancora più grandi, rispetto a quelli sofferti durante la crisi corrente. Lo Stato sarà solamente capace di regolamentare la morte definitiva del capitalismo.

Sotto questo aspetto, anche la sinistra rimane disorientata nel mentre che non riesce a mettere in discussione le fondamenta stesse del sistema. Nella stessa misura in cui sparisce la presunta "autonomia" dei movimenti sociali particolari e simbolici, a causa del limite interno della valorizzazione, c'è anche da temere che la sinistra soffra di un'ulteriore regressione verso il suo tradizionale statalismo; dal momento che non riesce ormai a pensare a nient'altro. Già ora, la maggior parte di quello che pretende sia critica sociale di sinistra, in pratica non è altro che un pizzico di nostalgia keynesiana. Se la sinistra spera di lanciare le sue "riforme sociali" salendo sul treno dell'amministrazione statalista, finirà per deragliare insieme a quel treno, e una volta passato il carnevale del virtualismo, si convertirà in un maestro di cerimonia delle politiche inflazionistiche.      E c'è da dire che essa merita abbastanza un simile destino! »

- Robert Kurz - Intervista di IHU Online, del 30 marzo 2009 -

lunedì 29 maggio 2023

Alla ricerca del «punto archimedeo» !!

Quello che segue, come suggerito da @Palim Psao, dovrebbe essere il primo intervento (nella IV sezione di "Splendore e miseria dell'anti.autoritarismo. Topiche per una storia ideale e reale della 'Nuova Sinistra'", fatto da Robert Kurz, nel 1988, su un testo situazionista (nella fattispecie, "Della miseria nell'ambiente studentesco", di Mustapha Khayati.

(...) Trovo assolutamente interessanti gli approcci teorici dei situazionisti, i quali non erano molto conosciuti in Germania, ma che di certo hanno giocato un ruolo nella Francia della rivolta del Maggio. Nell'estate del 1968, venne pubblicata la traduzione tedesca di un opuscolo dei situazionisti che in precedenza - oltre che in Francia - era stato diffuso anche in Inghilterra, in Italia e negli Stati Uniti. I pensieri ivi espressi, erano stati assai poco discussi dal movimento tedesco, ma oggi, ai fini di una rivisitazione critica, ci appaiono ancora ben importanti. L'anti-autoritarismo dell'Internazionale Situazionista riproponeva assai poco di quelle che erano le idee di base del vecchio antiautoritarismo anarchico, ma piuttosto faceva un tentativo di mediarle con la critica di Marx riguardo il feticismo della merce, vale a dire, tentava una mediazione proprio con quella dimensione - tenuta nascosta dal marxismo tradizionale - che aveva a che fare con la critica, che Marx svolgeva, della relazione del capitale. Nei suoi ultimi scritti, ispirati dal confronto con la teoria di Marx, già Sartre aveva colto questo problema, mediandolo con la filosofia esistenziale, senza naturalmente riuscire ad andare oltre un primo tentativo (cfr. Sartre, Kritik der dialektischen Vernunft [Critica della ragione dialettica], Reinbek 1967).

I situazionisti intendevano - andando oltre il "marxista" Sartre - attaccare direttamente e superare, per sopprimerla, l'alienazione dell'individuo rispetto alla sua esistenza sociale; alienazione costituita dal feticismo della merce. Uno dei loro slogan pubblici recitava: «Abbasso il mondo dell'immagine e il feticismo della merce». Con «mondo dell'immagine», intendevano l'esistenza di un feticismo della merce, che allora agiva nella cultura capitalistica del consumo di massa dell'epoca fordista; una formulazione questa, che andava ben oltre lo slogan antiautoritario diffuso nella RFT, il quale parlava di «coazione al consumo»; per quanto oggi può sembrare un po' ingenuo che si possa tradurre, direttamente in forma di slogan, un giudizio essenzialmente teorico. Nell'opuscolo dei situazionisti si legge: «Il feticismo dei fatti maschera la categoria essenziale e i particolari fanno dimenticare la totalità. Tutto si dice di questa società, salvo quello che effettivamente essa é: società della merce e dello spettacolo.» (Das Elend der Studenten [Della miseria nell'ambiente studentesco] Berlino, giugno 1968, p. 5).

A partire da questa posizione, e in maniera fondamentale, la sinistra tradizionale potrebbe essere criticata in un senso assolutamente nuovo: «L'apparente lotta che le cosiddette organizzazioni rivoluzionarie stanno conducendo oggi contro il vecchio mondo rimane interamente impigliata in quel vecchio mondo e nelle sue mistificazioni.» (ivi., p. 20). Questa caratterizzazione, per quanto generica, riesce a cogliere l'essenza di tutto il vecchio movimento operaio, e del marxismo che si è fuso con esso; è ovvio che quello che qui si avverte è il tono di una critica quasi "ontologica", dovuta a un approccio a-storico, ancora aggrappato all'esistenzialismo, che, astrattamente, si limita a denunciare il vecchio movimento operaio in quanto "sbagliato", senza analizzare le condizioni delle sue realizzazioni reali. Tuttavia, rimane importante il fatto che i situazionisti non critichino l'immanenza del marxismo tradizionale, facendolo nella solita tradizionale maniera, meramente politico-rivoluzionaria, ma andando ben oltre, avanzino richieste dirette contro la socializzazione del denaro-merce:

«Non basta un voto astratto per il potere dei Consigli Operai; bisogna mostrarne il suo significato concreto: la soppressione della produzione di merci e, di conseguenza, la soppressione del proletariato. La logica della merce è la razionalità prima ed ultima delle società attuali; é essa che sta alla base dell'auto-regolazione totalitaria di queste società (...) Nel mondo della produzione delle merci, il lavoro non si realizza in funzione di un obiettivo determinato liberamente, ma é soggetto a direttive provenienti da forze esterne. E se le leggi economiche danno l'impressione di diventare leggi naturali di un tipo particolare, ciò è solo perché il loro potere si fonda unicamente sull'assenza di coscienza di coloro che vi partecipano. Il principio della produzione di merce è questa: la perdita dell'individuo nella creazione caotica e inconsapevole di un mondo che sfugge totalmente ai suoi produttori.» (ivi. p.23)

L'importanza di questo approccio solitario, svolto da una critica radicale della forma merce in generale, non può essere apprezzata abbastanza, allorché si considera che, a partire dagli anni Venti del XX secolo, la punta estrema del "radicalismo" di sinistra non è mai andata oltre un mero «voto astratto per il potere dei consigli operai»; e questo tanto nella Nuova Sinistra ormai invecchiata, quanto oggi (nella migliore delle ipotesi!) tra gli Autonomi.

Certo, inizialmente queste importanti affermazioni dei situazionisti rimasero astratte, se viste nel contesto del loro nuovo approccio, e a quanto pare, a partire da basi esistenzialiste, non potevano essere ulteriormente sviluppate in direzione di una realizzazione della critica di Marx all'economia politica, all'altezza dei tempi. Analogamente, i situazionisti non riuscirono neppure a superare il cortocircuito della falsa identità tra teoria e prassi immediata; che ha caratterizzato l'attivismo di tutti gli anti-autoritari in generale. Se c'è qualcosa di tutto quello che è il loro approccio, che è riuscito a rimanere impresso nella coscienza dimenticata della sinistra, potrebbe forse allora essere questa frase, che da allora in poi viene spesso citata: «Le rivoluzioni proletarie saranno una festa, o non saranno affatto». Tuttavia, l'associazione a un edonismo astratto e non mediato, che proviene da una simile idea fuori contesto, non rende giustizia ai situazionisti. La loro critica radicale delle merci e del denaro va ben oltre il consueto anti-autoritarismo e ancora oggi rimane quel «punto archimedeo», il solo, a partire dal quale, possono essere rimossi i sistemi sociali esistenti.

E tuttavia, proprio perché questo approccio ha anticipato un futuro del movimento rivoluzionario, che ancora oggi deve essere realizzato, esso non avrebbe potuto essere allora realmente accettato e compreso dalla coscienza del movimento esistente nel 1968; perfino i situazionisti stessi dovettero lamentarsi di come le loro idee fossero state «esaurientemente commentate ed esaurientemente fraintese da tutta la stampa francese di sinistra». A detta di molti, questo è valso anche per il movimento tedesco, il quale perfino risparmiato qualsiasi commento. Al suo interno, ha piuttosto prevalso invece un'interpretazione dell'anti-autoritarismo che rimaneva impigliata nella Teoria critica di Francoforte, con le sue implicazioni rassegnatamente riformiste, incapace di riuscire a tenere il passo con la radicalità dei tentativi "esistenzialisti" francesi di rinnovare la teoria di Marx. (...)

- Robert Kurz – da: "Splendore e miseria dell'anti.autoritarismo. Topiche per una storia ideale e reale della 'Nuova Sinistra'" (1988)

sabato 27 maggio 2023

«Je me souviens» …

Quel che succede ogni giorno, in che modo descriverlo?
Un libricino pieno di semplici genialità, come riesce di norma a Perec, parlando dell’ordinario quotidiano. Ad esempio del quotidiano cibarsi, e fa l’inventario, comico e indigesto nella sua riassuntiva catalogazione, di tutto ciò che ha ingurgitato nel corso di un anno, il 1974: sette galline bollite con riso, settantacinque formaggi, sette zampini di maiale ecc. Poi come scrivere automaticamente duecentoquarantatré cartoline, tutte diverse, di ordinari saluti estivi usando solo cinque frasi elementari in tre varianti. E l’osservazione di una via di Parigi in sei date diverse, i negozi, le insegne, le scritte occasionali, le facciate, un gatto che passa, cioè tutto ciò che è sotto gli occhi, così ovvio che non lo si nota, ma esiste per un attimo poi sarà perduto per sempre. Questi scritti pubblicati tra il 1973 e il 1981 sono stati raccolti in libro nel 1989.

(dal risvolto di copertina di: Georges Perec, L'infra-ordinario. Quodlibet, pp. 120 €13 )

«6 brodo di manzo, 6 scaloppina, 75 formaggi»
- Tutto quello che ha mangiato nel 1974, Perec lo sa -
di Ermanno Cavazzoni

Georges Perec ha scritto alcuni romanzi che chi li legge non lo scorda più: Le cose (1965), storia tremenda di una normale coppia anni '60; Un uomo che dorme (3967), storia di come si può diventare a poco a poco solitari barboni. E poi La vita istruzioni per l'uso (1978), anche questo indimenticabile intreccio di vite diverse che si incrociano in uno stabile parigino, via Simon-Crubellier. E tanti piccoli scritti geniali che Perec aveva il gusto maligno di spargere anche nelle riviste più marginali e sconosciute, in modo da rendere difficile il reperimento. L'infra-ordinario, uscito in Francia nel 1989, sette anni dopo la morte di Georges Perec, raccoglie una piccola serie di questi scritti sparsi degli anni '70, che parlano di ciò che è talmente ordinario e scontato, e sotto gli occhi di tutti, che neppure lo si nota durante la nostra vita corrente, né lo si pensa possibile oggetto di letteratura. È tutto ciò che va perso nel corso del tempo, cioè la vita quotidiana con il relativo arredo. Un esempio è La rue Vilin, una via di Parigi che Perec descrive in sei date diverse a distanza da circa un anno, in ciò che ha di più transitorio, tutto quello che dura un attimo (un passero morto per terra, un passante, un piccione) o un giorno (un foglietto appiccicato di un gatto smarrito, il telefono per traslochi e sgombri, un avviso di chiusura), un mese (un menù esposto, un'impalcatura, , una pubblicità, un manifesto elettorale), un anno (una vetrina, gli orari d'ufficio, le scrostature di un muro o un portone malmesso), dieci o vent'anni (una targa, scritte sbiadite di precedenti negozi, i negozi attuali con le loro insegne, i numeri civici, porte e finestre murate, la segnaletica stradale).

È il transeunte a cui non si presta attenzione, e che però è la veste che si mette il tempo, che poi genera nel ricordo la malinconia. Perec ne era calamitato da ciò che passa ed è già perduto, è una costante di tanti suoi scritti, fermare l'attimo, congelarlo e osservarlo; con le parole si piò essere molto più minuziosi che con una fotografia, che ingiallisce col tempo ed essa pure si perde. Dello stesso genere è quel libretto delizioso e doloroso che si chiama Je me souviens, mi ricordo, fatto di frasi brevi, mi ricordo questo, mi ricordo quello, e sono sempre fatti o notizie o pettegolezzi già svaporati o in via di esserlo per sempre, di area francese o contigua, cose da poco, che vivono per un momento su un rotocalco: un play-boy e la sua conquista, il disco e la cantante di una stagione, un nome che rimbalza in TV e poi svanisce, una moda mi ricordo lo yo-yo, mi ricordo Lumumba, mi ricordo qualcuno dei sette nani, Brontolo, Mammolo, Dotto, mi ricordo la Nouvelle Vague, mi ricordo la fatica per capire cosa volesse dire l'espressione «senza soluzione di continuità», mi ricordo Xavier Cugat, e poi certe filastrocche, certe pubblicità, certe attrici. E poiché sono tutte cose fugaci e il libro è del 1978, la maggior parte non se le ricorda ormai più nessuno. Ognuno di noi potrebbe fare un Je me souviens differente, leggermente differente, a seconda di ciò di cui è stato esposto in una parte trascorsa della sua vita, con finestre temporali e nazionali comuni ai suoi coetanei.

In questo tentativo di cogliere il provvisorio c'è in L'infra-ordinario la descrizione minuziosissima del suo tavolo da lavoro, come fosse una natura morta, Still life è il titolo, con tutti gli oggetti sopra disposti, a loro volta descritti, una gomma con una scritta in nero, un tagliaunghie, una calcolatrice tascabile Casio, un accendino, un pennarello verde, un posacenere con sei mozziconi, una pila di fogli 40x30 ecc. ecc.; il tavolo diventa il luogo dove questi vari oggetti si sono depositati a una data, a un'ora, a quel minuto secondo, come si depositano sul terreno le foglie (Still leaf è il secondo titolo) che al primo soffio di una nuova stagione, al primo mutamento d'umore, volano via, in un cassetto, tra la roba in disuso, se non nel pattume. Ma quel minuto però è già sempre passato, perché sul tavolo c'è anche il foglio su cui sta scrivendo cosa c'è sul tavolo; dovrebbe a rigore anche dirci cosa c'è scritto sul foglio, entrando però in un circuito che non si chiude più e si avvolge su di sé. Sono i paradossi di Perec, che si ritrovano anche in La vita istruzioni per l'uso, il palazzo parigino contiene anche la raffigurazione del palazzo. Questa idea di ritagliare una fetta di tempo c'è anche in un buffo e stomachevole scritto, che è l'elenco dei cibi solidi e liquidi ingeriti durante tutto il 1974; che verosimilmente viene dall'accumulo delle ricevute delle trattorie dove pranzava, col tipico lessico da lista dei piatti; per cui risulta che nel '74 ha mangiato: «nove brodo di manzo, una minestra di cetrioli ghiacciata... un salumi italiani... quattro testina di vitello», e via via sei scaloppina, sei cotoletta alla milanese, sette gallina bollita con riso, settantacinque formaggi, poi frutta, dolci, sorbetti, vini in bottiglia e in calice, liquori, tisane e innumerabili caffè. È solo un elenco, ma a leggerlo fa impressione e fa ridere, per la minuzia, la quantità che si accumula e la terminologia ristorantizia; e l'essere umano in trattoria appare come una cloaca che discioglie negli acidi gastrici questa varietà fugace  e alla fine ridicola dei piatti con le loro singolari denominazioni. Pere è più maniacale negli elenchi, ma ricorda quei pazzeschi bilanci da orco di tutto ciò che un individuo ingurgita nel corso di una vita: 10 maiali, 10 mucche, 11 tonnellate di farina, 1000 polli, 800 litri d'olio e così via.

E poi ci sono le cartoline delle vacanze, con le loro frasi stereotipate: saluti da, tempo bellissimo, mare magnifico; anche questa tutta roba a perdere. Perec ne riporta 243, tutti saluti leggermente diversi, di poche righe, sembrerebbero le classiche frasi buttate giù casualmente; ma a ben guardare il totale equivale a tre elevato alla quinta; le cartoline vengono prodotte con un sistema meccanico, tre varianti di cinque frasi tipiche, sul luogo, il paesaggio, , l'impiego del tempo, lo stato fisico e gli arrivederci finali. Le si potrebbe produrre con una macchinetta automatica. È un gioco combinatorio che contrasta con le espressioni d'affetto e di contentezza estiva. Il meccanismo si potrebbe applicare a tanti campi verbali, anche alle dichiarazioni d'amore, se per caso esistono ancora. In un altro scritto (raccolto in Manger, 1980) Perec aveva applicato lo stesso sistema alle ricette di cucina, ne scrive 81, cioè tre alla quarta, 3 ingredienti su 4 fasi di lavorazione. Sono gli esercizi tipici di quel circolo, fondato da Perec e alcuni altri, che è l'Ouvroire de litérature potentielle, «Oulipo»; dalle cui regole è nato anche il maggior libro di Perec, La vita istruzioni per l'uso, romanzo meraviglioso e anomalo, del quale purtroppo circola in Italia una traduzione fatta nel 1984, prima che si sapessero le regole usate, note solo dopo la morte di Perec, 1982, con la pubblicazione del quaderno preparatorio, il Cahier de charges, 1993, che specifica le parole obbligate da far comparire nel testo. Che perciò andrebbe ritradotto.

- Ermanno Cavazzoni - Pubblicato su Tutto Libri dell'11 febbraio 2023 -

venerdì 26 maggio 2023

La Rivoluzione dei Santi ?!!??

Puritanesimo e rivoluzione: le radici protestanti del radicalismo politico moderno
di Adrien Boniteau

Seguendo Max Weber, si insiste spesso su quelle che sono le radici protestanti dello spirito del capitalismo, e sul ruolo particolare che ha avuto il calvinismo per quel che riguarda la nascita dell'economia moderna. Tuttavia, non andrebbe posto un accento così forte sull'economia, al punto da far dimenticare la politica. Infatti, il protestantesimo, soprattutto nella sua parte puritana, ha contribuito a formare un'altra componente della modernità: la militanza politica e lo spirito rivoluzionario. Oggi, il puritanesimo gode di una cattiva reputazione. Associato al neoconservatorismo americano e a una morale che viene considerata autoritaria e repressiva - in particolare nella sfera sessuale - viene criticato, spesso a ragione, per il suo rigoroso rifiuto di ogni edonismo, fino ad avvicinarsi all'ossessione patologica. Sul piano psicologico, la repressione delle emozioni messa in atto dalla morale puritana, ne farebbe un vettore di frustrazione e nevrosi. Sul piano sociale, la prescrizione di un lavoro intenso, al fine di mortificare una carne incontrollabile, avrebbe invece contribuito alla formazione di quell'ideale borghese del XIX secolo, insieme a tutti i suoi sbagli, ivi compresa la giustificazione del lavoro minorile; cosa che avrebbe favorito il successo di un capitalismo predatorio e schiavizzante. Sul piano ecologico, la diffidenza puritana verso un mondo peccaminoso avrebbe alimentato il desiderio di dominare una natura percepita come corrotta, e avrebbe coinciso con il delirio tecnicista relativo a un eccessivo sfruttamento degli esseri viventi. Neo-liberale e conservatore, moralista sebbene ipocrita, il puritano si configura attualmente come una vera e propria rappresentazione del Male - in particolare in Francia - laddove vediamo l'antiamericanismo popolare, sebbene in netta ritirata, ancora assai diffuso. Ovviamente, il puritanesimo storico è più complesso di questa caricatura. Originariamente, l'insistenza sulla purezza che viene spontaneamente associata al puritanesimo è di carattere ecclesiale, piuttosto che morale. I Puritani erano quei protestanti inglesi del XVI e XVII secolo che volevano riformare la Chiesa del loro Paese, in modo da renderla più conforme al modello biblico, purificandola da alcuni dei suoi riti - quali l'inginocchiarsi davanti all'ostia o l'indossare il paramento ecclesiastico - che venivano volentieri assimilati a un retaggio "papista", vale a dire, cattolico romano. Il significato storico del puritanesimo è piuttosto difficile da valutare. Moderno per molti aspetti, e all'origine di molti cambiamenti sociali in un'epoca in cui la Chiesa strutturava la società, rimaneva comunque caratterizzato da un biblicismo alla lettera, oltre che da un'insistenza sulla comunità, la quale senza dubbio conteneva la crescita e la diffusione dell'individualismo nascente. Se Max Weber ha associato il protestantesimo - in particolare quello di ispirazione puritana - allo spirito del capitalismo e all'emergere dell'imprenditore moderno, è chiaro che l'olismo e la disciplina collettiva del movimento hanno ostacolato l'indipendenza di pensiero e il senso di iniziativa caratteristici dell'individuo moderno. Pertanto, numerose analisi hanno, se non contestato, quanto meno fortemente ridimensionato l'analisi di Weber. Tra queste, quella proposta da Michael Walzer in "La Révolution des Saints. Etica protestante e radicalismo politico" (1965), che è per molti versi illuminante. Per il filosofo americano, il puritanesimo dovrebbe essere associato non tanto ai moderni principi dell'economia, quanto piuttosto a un'altra importante componente della modernità occidentale: la militanza e il radicalismo politico. Secondo Walzer, «l'emergere dell'organizzazione rivoluzionaria e dell'ideologia radicale» deve molto al Puritanesimo. In che modo perciò il puritanesimo storico avrebbe contribuito all'ideale moderno di rivoluzione?

Dal calvinismo al puritanesimo: la riforma militante
Il puritanesimo storico si presenta come se fosse una radicalizzazione del calvinismo. Assai diffuso nell'Inghilterra della fine del XVI secolo, il calvinismo ebbe una forte influenza su diverse generazioni di puritani. Il carattere disciplinare della teologia calviniana, l'insistenza sull'adozione razionale di verità enunciate e il rifiuto di ogni misticismo, fanno del calvinismo «il prodotto di uno sforzo, straordinariamente riuscito, di resistere agli impulsi personali e alle emozioni». Secondo Walzer, Calvino propone uno «stile intellettuale ma non speculativo» che finisce per formare una paradossale «teologia anti-teologica»: le speculazioni di tipo scolastico sulle gerarchie angeliche, sui disegni nascosti di Dio, o sui gradi della coscienza vengono scartate in quanto non scritte, inutili ai fini del comportamento cristiano, se non addirittura pericolose per la salvezza del credente. La teologia calvinista, e dopo di essa quella puritana, è risolutamente pragmatica. Essa cerca soprattutto di orientare l'azione del credente. Da un punto di vista collettivo, mira a determinare quelle organizzazioni sociali che meglio rendono gloria a Dio. Pertanto, essa è allo stesso tempo «pratica e sociale, programmatica e organizzativa». Calvino va perciò visto più come un "ideologo", che come un filosofo o un teologo speculativo. Il calvinismo propone un programma rigoroso e coerente. Il credente deve fare tutto il possibile per costruire una «repubblica cristiana», a immagine della pia e ordinata Ginevra. Si tratta di riformare incessantemente il comportamento morale individuale, la Chiesa e tutte le istituzioni, in modo da renderle più conformi alle Scritture e al piano divino. E nel piano divino, ogni credente ha un suo compito specifico. Dio comanda al magistrato di riformare la Chiesa e di reprimere le eresie. In tal modo, la carica politica diventa così una vocazione religiosa. Al contrario, alla Chiesa viene affidato un compito che si potrebbe facilmente definire come politico. Dio affida ai leader ecclesiastici, sia pastori che laici, il compito di far rispettare la disciplina ecclesiastica in modo da costringere i recalcitranti a riformare il loro comportamento. Analogamente, il padre di famiglia è chiamato a fare della sua casa una «piccola chiesa», ad esempio celebrando quello che appare come un culto domestico quotidiano. Egli viene istituito da Dio come il magistrato e il pastore della sua famiglia. La visione calvinista della società corrisponde a quella di una comunità di santi, uniti dalla medesima fede, e che lavorano per la stessa causa. La coesione del gruppo si trova a essere rafforzata da una disciplina amministrata collegialmente, e relativamente decentrata. È questo ciò che distingue i credenti "rigenerati" dalla grazia divina dal resto del mondo, e tende a fare di ogni santo un «cristiano militante e attivista» (Walzer) che è stato chiamato a lottare per l'espansione del regno di Dio e il progresso della riforma. Sulla linea del calvinismo, i puritani inglesi insistono sul carattere impersonale della causa a cui aderiscono. La loro comunità è composta da tutti i santi nominati da Dio e strappati dalle loro famiglie o dalle relazioni mondane. «Se qualcuno viene a me, ed egli non odia il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e le sorelle e perfino la propria vita, non può essere un mio discepolo», ci dice Gesù (Lc 14,26). Applicando questo passo, il pellegrino protagonista di John Bunyan si tappa le orecchie in modo da non sentire le grida della moglie e dei figli che lo implorano di rinunciare alla ricerca di Dio, e di rimanere legato a loro. Il convertito viene chiamato a rompere con la propria parentela, per trovare fratelli e sorelle nella sua nuova famiglia, la Chiesa. L'organizzazione feudale della società viene così totalmente messa in discussione, a favore di relazioni consensuali. Tutti i legami personali vengono realizzati a partire dall'adesione alla causa divina. L'alleanza diventa il tipo di legame sociale puritano per eccellenza. I santi giurano collettivamente di glorificare Dio e di aiutare i loro fratelli in questo compito. La Chiesa puritana costituiva un'associazione volontaria fondata su un comune ideale e sulla medesima lotta: la riforma di sé stessi e della società. Questo prese la forma di un programma politico. Predicando davanti alla Camera dei Comuni nel 1641, il ministro Thomas Case dichiara che «la Riforma deve essere universale [...]. Riformare tutti i luoghi, tutte le persone e le vocazioni; riformare i tribunali, i magistrati inferiori [...]. Riformare le università, riformare le città, riformare le province, riformare le scuole, riformare il sabato [cioè il riposo domenicale], riformare le leggi e il culto di Dio». Il programma propugnato, sarebbe stato oggi definito rivoluzionario, per la sua portata e radicalità. La riforma totale è in ogni caso un luogo comune relativo al pensiero puritano. Nella sua Areopagitica (1644), il poeta John Milton mostra come «Dio sta organizzando un nuovo e grande periodo nella sua Chiesa, anche per riformare la Riforma stessa». La riforma viene qui presentata come un fine mai raggiunto, come un'impresa che deve ricominciare sempre, di nuovo. Mai nella storia del cristianesimo la Chiesa è stata così militante, impegnata in una costante lotta per estendere il regno di Dio quaggiù. Una militanza religioso-politica vicina a un ethos rivoluzionario, che pertanto costituisce uno dei tratti principali dell'ideologia puritana.

Teologia e psicologia: una disciplina di lotta
La teologia puritana, caratterizzata da un forte calvinismo, è per definizione radicale. La dottrina della caduta e della totale depravazione del mondo, lo attesta. In seguito al peccato di Adamo, Dio decretò che «il suolo sarà maledetto» (Gen 3,17). Secondo il teologo riformatore Lambert Daneau, la caduta corrompe quindi non solo la natura umana, ma anche la natura in generale. Generalmente, le teologie calviniste insistono su questo punto. La comunione dell'Eden viene irrimediabilmente compromessa. Le catastrofi fisiche, le malattie, la lotta per la sopravvivenza degli animali, l'inevitabilità dell'invecchiamento e della morte dimostrano quanto sia assurda ogni ricerca di un'armonia naturale. Solo la restaurazione finale vedrà il lupo mangiare insieme all'agnello, il leone mangiare la paglia come fa il bue, e il bambino giocare con le vipere (Is 11,6-8 e 65,25). Nel frattempo la creazione, essendo oggetto della «schiavitù della corruzione» (Rm 8,21),si trova a essere caratterizzata da disordine e contraddizione. Essa resiste solo sotto l'effetto della grazia divina. L'idea antica e medievale che parla di un cosmo armonioso e ordinato, viene così totalmente scartata. L'unità fragile e relativa che caratterizza l'universo, non è affatto intrinseca: viene imposta dall'alto, dalla Provvidenza. La cosmologia puritana tende a presentare un antagonismo tra una creazione disordinata in rivolta contro Dio e gli interventi occasionali, da parte del Creatore, volti a ripristinare, nella sua grazia, una parvenza di ordine. Quel che vale per la creazione, vale anche per la società. Alla base della corruzione totale di ogni comunità umana, troviamo il peccato dell'uomo. L'ordine sociale, lungi dall'essere naturale, deve essere imposto con la coercizione. Ecco perché il compito dello Stato e della Chiesa, è quello di disciplinare i propri membri. Ogni società è il risultato di una lotta tra le forze sataniche e gli eletti di Dio. Solo la benevolenza di Dio, operante attraverso i suoi santi, garantisce un minimo di unità, soprattutto nella Chiesa. Anche il tradizionale edificio medievale, che modellava le istituzioni umane sull'ordine naturale, o addirittura sulle gerarchie angeliche, viene qui messo radicalmente in discussione. L'ordine sociale, lungi dall'essere il riflesso di un universo armonioso e coerente, è il risultato artificiale e provvidenziale di una lotta senza fine contro la rivolta che è intrinseca alla natura umana. L'appello che viene fatto da Dio al credente, implica in realtà una lotta costante per riuscire a realizzare il suo regno in un mondo in rovina. La grazia divina opera nel cristiano, in  modo da permettergli di superare il proprio peccato. La prova effettiva della giustizia e della salvezza divina, è la santificazione (Eb 12,14). L'autodisciplina è il segno che distingue il credente rigenerato. Il santo viene invitato a svolgere un'introspezione incessante e a una valutazione oggettiva, per confrontare il suo comportamento con le esigenze delle Scritture, secondo quelle che sono le parole dell'apostolo: «Esaminate voi stessi,per sapere se siete nella fede; mettetevi alla prova. Non sapete che Gesù Cristo è in voi? A meno che non siate dei reprobi» (2 Cor 13, 5). I segni della grazia e della salvezza o il marchio della riprovazione e della dannazione, si riconoscono a partire dalla presenza o dall'assenza dei frutti spirituali. Una simile teologia fa dell'attività pia il segno dell'elezione del credente. Il lavoro diventa così un mezzo per autodisciplinare e trattare severamente il proprio corpo, come fa l'apostolo (I Cor 9,27). Per questo motivo, ogni forma di pigrizia, di inattività o di vagabondaggio viene condannata con fermezza. Il teologo William Perkins sottolinea come il vagabondaggio di Caino sulla terra, sia un segno della condanna e della riprovazione di Dio nei suoi confronti (Gen 4,12). Il vero riposo di Dio è stato promesso ai credenti solo al termine della loro missione terrena. In questo mondo, la vita è una lotta che richiede un costante lavoro su sé stessi. In particolar modo, si raccomanda ai credenti di studiare spesso, diligentemente e sistematicamente le Scritture, mortificare la propria carne e lasciarsi disciplinare dalla Parola di Dio che in esse si esprime. L'adozione su larga scala di tale approccio ha finito per portare a una popolarizzazione senza precedenti dei testi teologici, alla diffusione di una cultura biblica popolare e a una rapida cristianizzazione degli atteggiamenti in tutti i settori della vita, compresi quelli più umili. Il pastore puritano Dudley Fenner, scrivendo negli anni '80 del XV secolo, sosteneva che tutti i credenti avrebbero dovuto attingere al campo della teologia. Al limite, la chiesa puritana sarebbe una chiesa di teologi laici. Il puritanesimo proponeva un'etica dell'eccellenza spirituale, unita a un ascetismo intramondano che poneva grande enfasi sul lavoro. Come sottolinea Michael Walzer, «il santo, dubbioso circa la propri salvezza, era pertano portato a un'attività metodica e disciplinata». Il modello di santità attiva proposto dal puritanesimo, offriva una risposta all'ansia di salvezza degli uomini del XVI e XVII secolo. L'autodisciplina e la pietà in azione, danno tranquillità e sicurezza, purché vengano costantemente rinnovate. L'etica puritana era pertanto deliberatamente orientata all'attivismo religioso e al cambiamento sociale.

Trasformazione sociale e guerra santa: verso una rivoluzione cristiana
La fusione tra la cosmologia pessimistica del puritanesimo e la sua etica dell'attivismo, confluiva nella promozione di una guerra spietata contro le forze sataniche che erano all'opera nel mondo. Un predicatore parlamentare, Stephen Marshall, nel 1641 accennò a questa lotta: «Avete da compiere delle grandi opere, dovete seminare nuovi cieli e una nuova terra tra noi. Le grandi opere hanno [sempre] dei grandi nemici». Vista in questa prospettiva, l'Inghilterra appariva come lo scenario di uno scontro tra l'Anticristo, il «governo babilonese» e tutti i resti del «papismo», da un lato, e i soldati di Cristo dall'altro. Tre anni più tardi, Marshall ebbe a dichiarare che «in Inghilterra, l'unica questione ha a che fare col sapere se Cristo, o l'Anticristo, sarà signore e re». Questa visione binaria del mondo esclude ogni neutralità, e rifiuta il compromesso: «Che accordo esiste tra Cristo e Belial? O che rapporto esiste tra il fedele e l'infedele?» (2 Cor 6,15). La guerra spirituale è tanto intensa quanto di lunga durata. L'opera di santificazione assomiglia pertanto a una «guerra permanente». Da un punto di vista individuale, è qualcosa di analogo all'autodisciplina. A livello di chiesa locale, la guerra viene condotta contro l'influenza nociva messa in atto da quei falsi credenti che non sono stati scelti da Dio, creando in tal modo l'immagine di una «comunità in guerra con sé stessa», secondo le parole di Walzer. La disciplina collettiva è simile a un vero e proprio «controllo sociale» che si fonda e si basa sull'associazione volontaria: ogni credente accetta volontariamente di sottomettersi a una disciplina fraterna volta a renderlo sempre più pio, più santo e più devoto. La guerra veniva condotta anche all'esterno della comunità, in modo da estendere così il Regno, e promuovere la causa della riforma. La Chiesa puritana assomiglia a un gruppo di pressione o a un'associazione rivoluzionaria che ha come Statuto la Bibbia. Le azioni dei suoi membri assunsero così quelle che sono le caratteristiche tipiche della militanza: petizioni al Parlamento o al Re finalizzate all'abolizione dei vescovi, campagne a favore di candidati santi nelle elezioni parlamentari, pubblicazione di opuscoli e libelli che chiedevano una riforma radicale della Chiesa, ecc. Tutti questi mezzi di espressione, pressione e persino propaganda contribuiscono alla formazione di una coscienza rivoluzionaria nell'opinione pubblica. Per il Puritano, l'impegno politico è la continuazione della guerra spirituale con altri mezzi. Al contrario, la guerra è la logica estensione della militanza. L'idea della guerra santa permea il puritanesimo. Il Catechismo dei soldati delle armate di Cromwell (1644) chiede «Qual è il tuo mestiere?». La risposta coniugava confessione e professione: «Sono un cristiano e un soldato». La formula riecheggia molti trattati teologici: «un cristiano che si professa tale, è un soldato professionista», sostiene uno di essi. Spesso, ci viene ricordato che il Signore degli eserciti è un «guerriero valoroso» (Es 15,3), è il generale alla testa del suo reggimento di santi. Così come Dio comandò agli israeliti di sradicare ogni traccia di idolatria e di purificare dai cananei la terra promessa, allo stesso modo i soldati di Cristo sono chiamati a combattere una guerra totale contro il peccato e le forze dell'Anticristo. Rivestito dell'armatura di Dio (Ef 6,11-17), il credente impone a sé stesso una disciplina d'acciaio che lo prepara a combattere «la buona battaglia della fede» (I Tim 6,12). «La santa causa» di Cristo è il motivo centrale che giustifica la lotta del credente. Il pastore puritano John Owen, predicando ai parlamentari negli anni Cinquanta del XVI secolo, supplicava il suo pubblico: «Non guardate agli interessi dell'Inghilterra, ma agli interessi di Cristo». Il forte cristocentrismo della teologia puritana si accompagnava a una costante messa in discussione dell'autorità. Il credente, per sua natura peccatore, si salva solo in virtù del sangue di Gesù Cristo che viene versato su di lui. Non può trovare in sé stesso alcuna giustizia che sia suscettibile di essere gradita a Dio. Bisogna che nasca di nuovo (Gv 3,7) sotto l'effetto della grazia divina, e che venga «crocifisso con Cristo», affinché Cristo viva in lui (Gal 2,20). Da quel momento in poi, nella sua vita è all'opera la potenza dello Spirito di Cristo, testimoniando così al mondo, in modo quasi oggettivo, che egli è l'eletto di Dio: è dai suoi frutti che si riconosce l'albero (Mt 7,15-20). Trasposto sul piano politico, questo ragionamento porta a delle conclusioni sorprendentemente radicali. Ogni magistrato che non lavora per il regno di Cristo, è un reprobo di Dio, e quindi può solo partecipare all'impresa di Satana. È perciò necessario combatterlo, dal momento che il compromesso con il diavolo è un abominio agli occhi di Dio. L'obbedienza si basa sullo scopo dell'autorità - la glorificazione di Dio - piuttosto che sulla sua natura. E quindi essa è condizionata. Ciò mina qualsiasi mandato politico. Per alcuni, solo i delegati pii e di riconosciuta santità possono essere obbediti, a condizione che siano quanto meno diligentemente coinvolti nella «causa santa». Per i più radicali, qualsiasi magistratura suprema è empia, poiché essa usurpa necessariamente la sovranità di Dio. Se solo Cristo regna sul credente, ecco che la legittimità del magistrato ne risente. Nel 1649, ad esempio, John Milton mostra come, a differenza degli israeliti, che si ribellarono a Dio chiedendo un re che li governasse (1 Sam 8), Cristo incoraggi invece gli inglesi ad abolire la monarchia, e a fare di Lui il loro unico Re: «Egli ci benedirà e ci darà il favore - a noi che rifiutiamo un re - di fare di Lui il nostro unico capo, il nostro supremo governatore». Teocrazia fa qui rima con anarchia. Infatti, «il Signore è il nostro giudice, il Signore è il nostro legislatore, il Signore è il nostro re. È lui che ci salva» (Is 33,22). I santi possono fare a meno di un magistrato: Dio è alla loro testa. Pertanto, a costituire l'ideale puritano è il «santo coscienzioso, perennemente in guerra». Per Michael Walzer, fu il puritanesimo che «rese accessibile la rivoluzione, come mai prima, alle menti degli inglesi del XVII secolo».Tutto sommato, il puritano è un attivista assai simile al giacobino francese, o al bolscevico russo. Sebbene la sua causa differisca - l'ideale della riforma e del regno di Dio ha ben poco a che fare con la virtù robespierriana o con il comunismo marxista - tuttavia, la dedizione alla causa, la disciplina collettiva e la militanza combattiva danno forma a quello che appare come un medesimo ethos rivoluzionario. Lungi dall'essere un neo-conservatore auto-centrico, ossessionato dalla purezza della propria morale, il puritano storico è un rivoluzionario desideroso di cambiare le istituzioni in modo che esse glorifichino Dio. Ma il Regno non è certo di questo mondo (Gv 18,35). Dopo la Restaurazione del 1660, le correnti dissidenti del puritanesimo, ormai incapaci di trasformare una società che aveva trionfato e che si era imposta su di loro, arrivano a sostenere che il Regno di Cristo debba riguardare la sola sfera privata, e finirono così per propugnare una rigida separazione dal mondo basata sulla distinzione morale. Il moralismo prende il posto della militanza. Al giorno d'oggi, la lotta del puritanesimo storico per l'avanzamento del Regno ci appare estranea e superata. Ma la sua iconoclastia rimane ancora in grado di parlare a una società delle immagini, della pubblicità e della propaganda, nella quale l'idolatria per quelle astrazioni quali lo Stato, il mercato e la tecnologia ha sostituito la pia adorazione? La lotta contro simili mostri freddi e oppressivi, non richiederebbe forse di far rivivere un'etica rivoluzionaria del genere, in grado di assegnare il primato solo a Dio, anziché al prodotto delle nostre mani? È questa la domanda che, a distanza di qualche secolo, la strana e perpetua lotta dei Puritani per la santità continua a porci.

- Adrien Boniteau - Pubblicato il 16/5/2023 su PHILITT. Philosophie, littérature et cinéma -

giovedì 25 maggio 2023

Patrimoni di atrocità !!

In Ucraina, tra il 1918 e il 1921, oltre centomila ebrei furono massacrati da contadini, cittadini e soldati: gente comune che li accusava dei disordini portati dalla Rivoluzione russa. Si registrarono centinaia di singoli episodi in cui gli ebrei furono derubati dai propri vicini; le loro case e attività devastate, le sinagoghe date alle fiamme, i rotoli della Torah distrutti. Le donne violentate, gli uomini uccisi. Oggi di questi pogrom non si ha quasi più memoria, ma a quei tempi conquistarono le prime pagine dei più importanti giornali internazionali. Le testimonianze dei sopravvissuti, emigrati o sfollati, portarono le principali associazioni umanitarie a lanciare un grido d'allarme: sei milioni di ebrei erano a rischio di sterminio. Una profezia che si sarebbe tristemente avverata di lì a vent'anni. Come ricorda l'autore di questo libro: «Gli storici hanno cercato spiegazioni all'Olocausto nell'antigiudaismo teologico cristiano, nelle teorie razziali del XIX secolo, nell'invidia sociale, nel conflitto economico, nelle ideologie totalitarie, nelle politiche governative che stigmatizzavano gli ebrei e nei vuoti di potere creati dal crollo statale. Ma di rado hanno fatto risalire le radici dell'Olocausto alla violenza genocida perpetrata contro gli ebrei nella stessa regione in cui la "soluzione finale" avrebbe avuto inizio di lì a soli due decenni». Recuperando documenti a lungo ignorati negli archivi o portati alla luce solo di recente - tra cui migliaia di testimonianze dirette, verbali di processi e ordini ufficiali - lo storico Jeffrey Veidlinger ricostruisce per la prima volta come quell'ondata di violenza abbia creato le condizioni per l'immane barbarie dell'Olocausto. Attraverso le storie di sopravvissuti e carnefici, funzionari governativi ed esponenti delle associazioni umanitarie, questo saggio ricostruisce uno dei passaggi fondamentali della storia del XX secolo. Un monito a non dimenticare quei pogrom e le loro vittime.

(dal risvolto di copertina di: "L’Olocausto prima di Hitler. 1918-1921 I pogrom in Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei" di Jeffrey Veidlinger. Rizzoli, pagg. 480, € 25)

I Pogrom dimenticati dopo la Grande Guerra
- Massacri antisemiti. L’orrore dell’Olocausto ha rimosso il ricordo delle persecuzioni perpetrate contro gli ebrei tra il 1918 e il 1921 in Polonia e Ucraina: furono annientate centomila persone -
di Jeffrey Veidlinger

Lo sterminio di oltre centomila ebrei all’indomani della Grande Guerra è oggi in larga parte dimenticato, superato dagli orrori dell’Olocausto. È sorprendente che non compaia nei libri di testo, all’interno dei musei e nella memoria collettiva. Tuttavia, i pogrom del 1918-1921 contribuiscono a spiegare in che modo la successiva ondata di violenza antisemita fosse diventata possibile. Gli storici hanno cercato spiegazioni all’Olocausto nell’antigiudaismo teologico cristiano, nelle teorie razziali del XIX secolo, nell’invidia sociale, nel conflitto economico, nelle ideologie totalitarie, nelle politiche governative che stigmatizzavano gli ebrei e nei vuoti di potere creati dal crollo statale. Ma di rado hanno fatto risalire le radici dell’Olocausto alla violenza genocida perpetrata contro gli ebrei nella stessa regione in cui la «soluzione finale» avrebbe avuto inizio di lì a soli due decenni. Il motivo principale di questa omissione è stato un’attenzione particolare alla persecuzione degli ebrei in Germania, dove la violenza antisemita nei decenni precedenti all’ascesa di Hitler al potere era stata un evento particolarmente raro, e ai campi di sterminio nazisti nella Polonia occupata, dove la burocrazia tedesca modernizzò e intensificò i metodi di uccisione. Perfino le fucilazioni sistematiche in Ucraina venivano viste come del tutto diverse dal tipo di esplosioni localizzate di violenza caratteristiche dei pogrom. In breve, i pogrom sembravano cimeli di un’epoca passata. Ma nel corso degli ultimi decenni, gli storici hanno finito per riconoscere che nelle regioni dell’Unione Sovietica occupate dai tedeschi, le uccisioni erano motivate soprattutto dall’ostilità verso il bolscevismo e dalla percepita preminenza degli ebrei in quel movimento, i medesimi fattori che avevano scatenato i pogrom del 1918-1921.

Analisi dettagliate dei massacri avvenuti in Ucraina e Polonia nel 1941 hanno anch’esse rivelato le modalità complesse in cui instabilità politica, stratificazione sociale ed etnica e dinamiche di gruppo sono riuscite a trasformare «uomini comuni» e «vicini di casa» in assassini. Questi studi hanno ampliato la nostra ripartizione delle responsabilità, includendo non solo leader isolati come Hitler, filosofie astratte quali il fascismo e vaste organizzazioni impersonali come il partito nazista, ma anche la gente comune che prendeva decisioni a livello locale. Ci hanno ricordato che circa un terzo delle vittime dell’Olocausto furono uccise a distanza ravvicinata, vicino alle loro case, con la collaborazione di persone che conoscevano, prima ancora che gran parte dei campi di sterminio entrassero in funzione nel 1942. Infatti, i sopravvissuti a questi massacri li definivano «pogrom», collegando la propria esperienza a un modello noto. Al tempo stesso, un’analisi più approfondita dei pogrom del 1918-1921 mostra come non si sia trattato solo di sommosse etniche messe in atto da cittadini e contadini furiosi, ma anche di azioni militari perpetrate da soldati addestrati. Quanto è accaduto agli ebrei in Ucraina durante la Seconda guerra mondiale, dunque, ha radici in ciò che era accaduto agli ebrei nella stessa regione appena due decenni prima. I pogrom legittimarono la violenza contro gli ebrei come reazione accettabile agli eccessi del bolscevismo: la requisizione forzata dei beni di proprietà privata, la guerra alla religione, gli arresti e le esecuzioni degli oppositori politici. L’incessante esposizione agli spargimenti di sangue durante quel periodo bellico di formazione e consolidamento dello Stato aveva assuefatto la popolazione alla barbarie e alla brutalità. Quando arrivarono, carichi di odio antibolscevico e ideologia antisemita, i tedeschi trovarono un terreno di caccia vecchio di decenni, dove l’uccisione di massa di ebrei innocenti era impressa nella memoria collettiva, dove l’inimmaginabile era già diventato realtà.

Come il demografo Jacob Lestschinsky ammonì alla vigilia dell’invasione tedesca dell’Unione Sovietica, il «patrimonio di atrocità» lasciato dagli «orrori ucraini» del 1918-1921 «non si era ancora del tutto rimarginato». La continua presenza di ebrei rappresentava il costante promemoria del trauma di quell’epoca, dei crimini che la gente del posto aveva commesso contro di loro e la loro proprietà, e delle terribili ripercussioni di quelle azioni. Il genocidio nazi-tedesco, con la sua portata senza precedenti e il raccapricciante tributo di vite umane, offriva la prospettiva di una sorta di assoluzione, l’opportunità di eliminare la prova delle atrocità passate e relativizzare i peccati della generazione precedente, di consentire ai pogrom di essere dimenticati in mezzo a una malvagità ancora più grande. Come ha detto il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton in occasione di una visita a Kigali, dove ha ammesso il proprio fallimento nell’impedire il genocidio ruandese del 1994: «Ogni massacro affretta quello successivo, poiché il valore della vita umana è svilito e la violenza diventa tollerata, l’inimmaginabile diventa più ammissibile».

Gran parte dell’Ucraina un tempo rientrava nella Confederazione polacco-lituana, una repubblica multinazionale osannata come «paradiso per gli ebrei». Nel XVII e XVIII secolo, tuttavia, questa confederazione fu smembrata dalle potenze confinanti. Le pianure e le ampie steppe che si estendono dal fiume Zbruch verso est, attraversando il bacino del Dnepr fino al Donets, e dal Mar Nero a sud fino alle paludi del Pripyat a nord, furono accorpate alla Russia zarista, diventando le province di Volinia, Katerynoslav, Kiev, Podolia, Poltava e Chernihiv. L’area a ovest dello Zbruch, comprese le propaggini dei Carpazi, divenne la provincia austriaca della Galizia. All’inizio del XX secolo, in queste terre abitavano quasi tre milioni di ebrei. Circa il dodici per cento della popolazione totale, convivevano con contadini ucraini, burocrati russi e nobiltà polacca sulla base di un rapporto di vantaggio reciproco, per quanto teso. Gli ebrei rappresentavano il  sottoproletariato e si differenziavano dai loro vicini per la pratica religiosa, la lingua, il modo di vestire, i nomi, le occupazioni e per le centinaia di editti discriminatori imposti da una serie di zar nelle terre sotto il dominio russo. Il più famigerato era quello rappresentato dalle leggi di residenza che vincolavano gran parte degli ebrei alla «Zona di residenza» nelle province occidentali dell’impero russo e al regno di Polonia, anch’esso controllato dalla Russia.

- Jeffrey Veidlinger - Pubblicato su La Domenica del 5/2/2023 -

mercoledì 24 maggio 2023

Una «t» in meno !!

“‘Ti prego, dimmi cos’hai in quel sacco!’
Max Schulz esitò. Poi disse lentamente: ‘Denti d’oro’.
‘Denti d’oro’ bisbigliò Frau Holle.
‘Sì’ disse Max Schulz.
‘E cosa ne vuoi fare?’ domandò Frau Holle.
‘Cominciare una nuova vita’ rispose Max Schulz”.

Ecco a voi Max Schulz: poveraccio ariano, occhi da rospo e naso a becco, figlio di padre ignoto. Il suo migliore amico: Itzig Finkelstein, biondo, occhi azzurri, ebreo, figlio di un ricco barbiere.Nel Terzo Reich, Max Schulz fa carriera: SS, brigate nere, specialista sterminatore in Polonia. In Polonia, nel Terzo Reich, Itzig Finkelstein e famiglia vengono sterminati. A guerra finita, Max Schulz dribbla abilmente russi e partigiani e torna a Berlino.Ricercato dal nuovo governo come criminale di guerra, cambia identità. Si fa tatuare un codice di Auschwitz sul polso, si fa circoncidere. D’ora in avanti, sarà Itzig Finkelstein, barbiere ebreo. Campione di giravolte opportunistiche, rivendica persino gli aiuti destinati alle vittime dell’olocausto, e partecipa alla fondazione di Israele.Un capolavoro di provocazioni, terribile e dolce, in grado di scorticare la realtà.

“I primi capitoli fanno male. Più avanti si capisce il perché: non fa malissimo, ciò che in effetti è accaduto? Poi si assiste al miracolo: il romanzo prende il volo, dispiega una poesia sobria e pacata. E se mai ci si dimenticherà di chi si è arricchito vendendo denti d’oro, non si potrà mai scordare Itzig Finkelstein che passeggia in terra d’Israele, nel ‘bosco dei sei milioni’”. Heinrich Böll

(dal risvolto di copertina di: Edgar Hilsenrath, "Il nazista & il barbiere". marcos y marcos, pp.368, € 20)

Che eroe quel nazista
- Torna la farsa di Edgar Hilsenrath, ebreo di Lipsia, che costruì, forse pensando a Chaplin, la folle vicenda di uno sterminatore SS poi scambiato per reduce dal lager -
di Alberto Anile

Nel 1973, quando uscì in Italia da Mondadori, Il nazista & il barbiere aveva in Germania la strada sbarrata. Il suo autore, Edgar Hilsenrath, era un ebreo di Lipsia fuggito nel ’38 con la madre in Romania, e poi internato in un ghetto in Ucraina; liberato dai russi, partecipò al movimento sionista in Palestina per poi stabilirsi negli Stati Uniti; alla fine tornò in Germania, a Berlino, dove i suoi romanzi avevano incontrato più difficoltà a essere pubblicati che in qualsiasi altra parte del mondo. Il nazista & il barbiere, che ora marcos y marcos ripubblica nella collana “Gli alianti”, uscì nella sua lingua originale solo nel 1977, quattro anni dopo l’Italia e sei dopo gli Usa, e grazie a una campagna di stampa a cui parteciparono lo Spiegel e lo Zeit, sostenuti dalla prestigiosa firma di Heinrich Böll. Non scandalizza e non stupisce: le grottesche avventure di uno sterminatore SS riciclatosi come ebreo sopravvissuto ad Auschwitz non erano e in parte ancora oggi non sono di facile digestione in terra alemanna. Non è la classica commedia nera su un opportunista paradossale ma una cupa immersione nelle fogne della Storia, dipinta con i colori accesi di Otto Dix e George Grosz, raccontata in prima persona (inclusa la morte del protagonista narratore), fra realismo estremo e costruzione onirica, con solide basi su eventi cardine del Novecento.

Come suggerisce il titolo, Il nazista & il barbiere si basa su una coppia di individui che si confondono in un’unica identità. Max Schulz e Itzig Finkelstein, il primo arianissimo ma di colorito olivastro e capello scuro, il secondo di famiglia ebrea ma di chioma bionda e occhio ceruleo. Abbrutito da un’infanzia che sarebbe eufemistico chiamare infelice, Max frequenta il coetaneo Itzig, imparando dalla sua famiglia il mestiere di barbiere, ma nella Germania degli anni Trenta diventa subito nazista, fa carriera nelle SS e uccide circa diecimila ebrei; riuscito rocambolescamente a mettersi in salvo e a sopravvivere anche grazie a un sacco di denti d’oro appartenuti ad ebrei dei campi di concentramento, si appropria dell’identità di Itzig, prospera a Berlino con la borsa nera, quindi s’imbarca verso la Palestina diventando un eroe della guerra sionista per la fondazione dello stato di Israele. Quando alla fine proverà a raccontare l’incredibile verità nascosta per decenni, non sarà creduto.

Per Hilsenrath, testimone diretto dello sterminio degli ebrei, l’Olocausto e l’antisemitismo sono naturalmente lo snodo centrale, il peccato originale, la scena primaria, il putrido cuore pulsante del romanzo, come indicato da alcune massime sparse per il libro: «L’antisemita è come una persona che ha un cancro; un male così profondo che non si può estirpare», oppure «Non vogliamo continuare a morire! E se non possiamo morire... allora tanto vale vivere!». Ma il libro di Hilsenrath va oltre la Shoah, toccando nella seconda parte lo spinoso tema del “ritorno” degli ebrei in Palestina, degli sbarchi clandestini di profughi armati, delle azioni “terroristiche” contro le truppe britanniche che vi governavano dal 1920, proseguendo una danza di sangue che pare inarrestabile. In un simile contesto, la parabola di Max/Itzig, contemporaneamente nazista spietato e patriottico barbiere ebreo, travalica gli eventi più sanguinosi del Novecento per farsi riflessione più ampia sui disastri della Storia, il dramma fra responsabilità individuale e condizionamenti del destino, i complessi di colpa e una natura umana intimamente malvagia, e il conseguente giudizio, inevitabilmente umoristico, su tanto agitarsi nei dissesti provocati dai sommovimenti bellici e politici. Max/Itzig non è ovviamente un personaggio positivo, né qualcuno che si possa comprendere o compatire, ma è arduo trovare in questo romanzo personaggi che siano sostanzialmente positivi, a parte forse un paio di figure femminili (una ballerina e una cassiera muta) traumatizzate e traviate dalla violenza; Hilsenrath non risparmia niente e nessuno, mettendo in bocca al protagonista anche una serie di battute icastiche contro la religione cristiana, rese ancora più paradossali dal fatto che a pronunciarle sia un tedesco che finge di essere nato nella sapienza della Torah. Nella storia del nazista scambiato per un ex deportato di Auschwitz c’è probabilmente un’eco del Grande dittatore di Chaplin, dove un barbiere ebreo è sosia perfetto del dittatore Hynkel e salva pure la vita a un ufficiale di nome Schultz (una “t” in più rispetto al personaggio di Hilsenrath). Ma se il contesto storico e i tanti colpi di scena sarebbero adatti a una trasposizione cinematografica, Il nazista & il barbiere è troppo torbido e amaro perché lo Zelig protagonista possa esserlo anche su grande schermo - se non per un film strettamente “d’autore” il cui titolo ideale, all’opposto di quello di Benigni, sarebbe senz’altro La vita è brutta.

- Alberto Anile - Pubblicato su Robinson del 28/1/2023 -

«Totalità interna»

Capitalismo, Stato e Dissociazione: tre dimensioni centrali della società capitalista-patriarcale
-di Jordi Maiso -

L'obiettivo del capitalismo non è quello di soddisfare i bisogni, bensì di valorizzare il capitale:la sua unica finalità è valorizzare il valore, e di conseguenza fare, col denaro, sempre più soldi; era in questo senso, che Marx parlava del capitale come di un «soggetto automatico». Il solo scopo dell'economia capitalista è la massimizzazione del valore - nella sua forma di denaro - in quanto fine in sé: il suo obiettivo non consiste nello sviluppare le forze produttive, in modo che così si possa riuscire a dominare meglio la natura, ma si tratta piuttosto di investire 100 euro per arrivare a ottenerne 120, e poi continuare a ripetere, in un processo senza fine, tale meccanismo di valorizzazione. Di conseguenza, la sua logica è astratta e implacabile: non tiene in nessun conto quale che sia la realtà concreta del mondo sociale ed empirico in cui si svolge un simile processo, e neppure delle condizioni che lo rendono possibile. La riproduzione della realtà materiale e sociale non è affar suo, e il capitalismo non riconosce che ci possa essere alcuna restrizione alla logica della valorizzazione vista come fine in sé. Se potesse farlo, non si impadronirebbe solamente dell'intero pianeta, ma dell'intera galassia e di tutto l'universo. Ed è in tal senso che la logica del capitalismo finisce per essere predatoria e antisociale: rispetto ai processi sociali, esso agisce come un corpo estraneo, il quale ha finito per imporsi in tutte le sfere della vita, vampirizzandole e sottomettendole all'obiettivo astratto della valorizzazione come fine in sé. Tuttavia, per poter funzionare come relazione sociale, il capitalismo non può esistere senza che si diano alcuni presupposti, senza i quali la logica della valorizzazione, da sé sola, non può produrre.

È in tal senso che il capitale è dipendente: esso non è in grado di poter reggersi da solo sulle proprie gambe. La sua logica è assolutamente anti-sociale, eppure, senza alcuni presupposti sociali l'accumulazione del capitale non può aver luogo. Storicamente, le due sfere che hanno garantito queste condizioni, sono servite a formare un quadro in cui, senza di esse, il processo astratto di valorizzazione non può funzionare. Queste due sfere sono quelle della dissociazione del valore e dello Stato. La «dissociazione del valore» fa riferimento a tutte quelle attività, forme di comportamento - pratiche sociali di cura e forme di espressione simbolica e affettiva - che non sono disciplinate dalla logica produttivistica del lavoro astratto, ma che tuttavia rendono possibile, nel capitalismo, la riproduzione della vita sociale. Si tratta di quelle attività sociali necessarie e fondamentali, che ciononostante la logica del capitalismo esclude dalla vita pubblica, svalutandole e relegandole alla vita privata, e assegnandole alle donne: cura, affetti, funzioni riproduttive. Questo non si limita solamente al lavoro domestico, o alla cura e all'assistenza nell'ambito della sfera familiare, bensì si estende a tutte le funzioni che consentono di «lubrificare» e ammorbidire il funzionamento sociale di una logica di valorizzazione del valore, che in sé è distruttiva e indifferente a qualsiasi realtà concreta. In questo, rientrano anche quelle dimensioni affettive ed emotive che il capitalismo contemporaneo ora cerca di rendere funzionali anche dal punto di vista produttivo, attraverso delle attività di management e grazie a nozioni come quella dell'«intelligenza emotiva».

Da parte loro, le sfere dello Stato e della politica hanno reso possibile il funzionamento del capitalismo in quanto relazione sociale. Assai spesso, l'attuale sinistra appare scissa e divisa, tra un'idea di Stato, il quale viene visto come sfera «repressiva», da una parte, e soggetto a una visione più «paternalistica», dall'altra. Dove la prima si riferisce, ad esempio, al fatto che, storicamente, sono sempre state le strutture dello Stato a garantire la sottomissione alle condizioni del lavoro astratto (ad esempio mettendo sotto tutela i «poveri»). La visione "paternalistica", invece, ha più a che fare con quello che, nella retorica auto-esaltatrice del sistema, noi conosciamo come «Stato sociale».  Si tratta di strutture statali che, a partire dalla seconda metà dell'Ottocento (soprattutto per volontà di Otto Bismarck), e in particolare dal 1945 in poi, hanno istituzionalizzato e monetizzato tutta una serie di ambiti della vita sociale, i quali prima erano deputati alla dissociazione del valore (senza però mai superare la gerarchia nelle relazioni di genere) o alla beneficenza. In tal modo è nato lo «Stato sociale», in quanto sistema burocratizzato di ridistribuzione che offriva protezione dal carattere distruttivo e asociale delle relazioni capitalistiche primitive. Tuttavia, nel momento in cui si verifica un caso di crisi, quelle funzioni sociali che mitigano «la brutalità dei processi economici vengono de-statalizzate e demonetizzate, e vengono riconsegnate nuovamente, a un livello micro, alle donne». È questo ciò che sta accadendo oggi: le protezioni statali che dovevano proteggere la popolazione dalla cruda violenza delle leggi di mercato vengono destabilizzate, e ciò cui assistiamo è un abbandono delle funzioni di «ammortizzamento» dello Stato.

Tuttavia, per il capitalismo, la centralità dello Stato, in quanto relazione sociale, non può essere ridotta a questi ruoli repressivi o protettivi: la sua importanza è assai più fondamentale. Il carattere antisociale del capitalismo, il quale persegue la valorizzazione fine a sé stessa in un regime di concorrenza, fa sì che, a livello micro, prevalga la logica particolaristica dell'homo economicus: ciascuno cura soltanto il proprio interesse, cercando di ottenere un saldo positivo in quella che è la bilancia costi/benefici. Tuttavia, il capitalismo, come relazione sociale, ha bisogno di un attore che vada ben oltre, e superi, la lotta degli interessi particolari, adottando il punto di vista della società nel suo complesso; cosa che rende così possibile il livello macroeconomico. Si potrebbe però dire che il matrimonio felice tra vizi privati e virtù pubbliche non è poi così tanto evidente nel capitalismo. Lo Stato è quell'istanza sociale che permette di andare oltre il perseguimento di interessi particolari, in modo da rendere possibile un quadro d'azione. In tal modo, con gli strumenti del diritto e della politica, lo Stato crea il quadro funzionale necessario all'accumulazione del capitale. Innanzitutto, stabilisce le norme giuridiche che regolano i rapporti di proprietà e rendono possibile il gioco economico. Inoltre, lo Stato è responsabile della creazione e del mantenimento delle infrastrutture e dei sistemi di formazione necessari al corretto funzionamento dell'economia, la quale non può essere guidata esclusivamente da una logica orientata al profitto. D'altra parte, esso è anche responsabile della strutturazione delle relazioni monetarie e della garanzia della moneta, che amministra attraverso la banca centrale, stabilendo i tassi di interesse per rifinanziare il sistema bancario, controllando la quantità di moneta fiduciaria creata, regolando l'acquisto e la vendita di moneta in conformità con la politica monetaria, ecc.

In definitiva, lo Stato permette la costruzione della sfera dell'«economia nazionale», il mercato interno a cui la scienza del capitale (che non si presenta come scienza dell'economia mondiale, ma come «economia politica», Volkswirtschaft o, nella famosa formula di Adam Smith, come «la ricchezza delle nazioni») non si riferisce invano. Lo Stato permette quindi a un determinato territorio di agire come se fosse una «totalità interna», all'interno della quale il capitalismo può funzionare come relazione sociale. Ciò che esso garantisce, è una fragile armonia tra gli interessi particolari e quelli generali, tra homo economicus e homo politicus, tra il borghese - l'individuo privato che cerca di realizzare i propri interessi in un regime di concorrenza - e il cittadino - il soggetto astratto del diritto in relazione alla nozione di uguaglianza. Homo economicus e homo politicus sono le due metà dissociate che costituiscono l'essenza schizofrenica del capitalismo, che arriverà a funzionare nel quadro degli Stati, in modo tale che nel XIX secolo assumeranno il significato simbolico-culturale del concetto di nazione. Questa precaria armonia tra cittadino e borghese attraverso lo Stato-nazione, costituisce la sfera fondamentale del rapporto capitalistico. È questa sfera che, attraverso le sue norme giuridiche e i suoi meccanismi di ridistribuzione, filtra gli imperativi del mercato globale, dove la logica dell'homo economicus non ha alcuna forma di generalità per poterla controbilanciare. D'altra parte, queste norme e questi meccanismi permettono al mercato globale di apparire come uno spazio addomesticato: come relazioni di scambio e commercio tra nazioni sovrane distinte, con le loro «totalità interne».
 
- Jordi Maiso,  da «Il nuovo volto del capitale globale. L'analisi del capitalismo globalizzato nella Critica del valore di Robert Kurz», che verrà pubblicato su Jaggernaut n° 6, secondo semestre 2023 -

venerdì 19 maggio 2023

Tusitala

Negli ultimi quattro anni di vita (1890-1894) Robert Louis Stevenson scrisse al proprio editor e miglior amico Sidney Colvin lettere dall’isola di Samoa, dove si era stabilito dopo un’«odissea nei mari del Sud». Egli stesso parla di queste pagine come di una specie di libro, di diario; e Colvin dice che vi si ritrovano l’entusiasmo e il linguaggio di un uomo che rimase nello spirito un ragazzo, fino alla fine; le soddisfazioni e le preoccupazioni di un proprietario di piantagioni che costruisce la propria casa sul suolo vergine di un’isola tropicale; i piaceri di un malato che riprende, dopo anni, la vita all’aperto e gli esercizi fisici; le fatiche e le gioie, i fallimenti e i successi di uno scrittore instancabile e incontentabile; infine, le osservazioni di uno studioso a diretto contatto con la vita e i costumi degli indigeni e le acute osservazioni sulla situazione politica delle isole, in cui lo scrittore si rivelò intelligente mediatore.
     «Caro Colvin, che vita dura, interessante e meravigliosa conduciamo adesso. Il posto dove stiamo è in una profonda spaccatura del monte Vaea, circa seicento piedi sopra il livello del mare, immerso nella foresta, la nemica che ci strangola e che combattiamo con le accette e con i dollari. Io mi ero buttato come un pazzo a lavorare all’aperto e alla fine ho dovuto confinarmi in casa, altrimenti la letteratura andava a farsi friggere. Non c’è niente di più interessante che strappare erbacce, disboscare, tracciare sentieri; sorvegliare i braccianti diventa una malattia; bisogna fare uno sforzo per non trasformarsi in agricoltore, e ti fa sentire così bene. Tornare a casa coperto di fango, zuppo di sudore e di pioggia dopo ore passate nella macchia, cambiarsi, darsi una ripulita e sedersi sulla veranda ti procura il piacere di una coscienza tranquilla. E la cosa strana che noto è questa: se esco di casa e guadagno sei pence, stressando i braccianti e lavorando con vanga e coltellaccio, quell’idiota della mia coscienza mi applaude; se me ne sto seduto in casa e di sterline ne guadagno venti, l’idiota mugugna e mi rimprovera per la mia negligenza e la giornata perduta»

(dal risvolto di copertina di: Robert Louis Stevenson, "Diario degli ultimi anni nei mari del sud". Corsiero editore, pagg. 331 euro 23,50)

Sono Stevenson. Anzi, Robinson.
Le lettere del grande scrittore dalle Samoa, negli ultimi anni della vita, mostrano soprattutto le sue attività manuali da novello Crusoe. E anche le posizioni anticolonialiste per le quali in patria fu considerato un traditore.
di Alberto Manguel

Le nostre nozioni artificiali del tempo, che vengono smentite dall’astrofisica, dove tutti gli eventi sono in qualche modo simultanei, ci impediscono di vedere il capitolo finale del cammin di nostra vita. Quando leggiamo un romanzo, familiarizziamo con ciò che viene raccontato una pagina alla volta, salvo quando decidiamo di barare e andare a guardare la fine. Ma nella vita, e probabilmente è una fortuna, barare in questo modo non è possibile: sappiamo che la fine ci aspetta, ma non sappiamo quando.
La vita di Robert Louis Stevenson è una successione di capitoli della storia che finirà drammaticamente alle Samoa il 3 dicembre del 1894, quando, dopo aver preparato un’insalata per la cena di famiglia, l’autore de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, con un gesto che sarebbe sembrato troppo artefatto in uno dei suoi romanzi, improvvisamente si afferrò la testa e chiese alla moglie: «La mia faccia è cambiata?». Morì nel giro di poche ore per gli effetti di un ictus fulminante, pianto dai lettori di tutto il mondo a cui aveva concesso, con i suoi racconti di terrore e le sue storie di avventura, di provare il piacere vicario di giocare con il diavolo senza essere costretti a barattare la propria anima. Quando morì, i samoani, che lo adoravano, vollero a tutti i costi vegliare il suo corpo durante la notte e il mattino seguente lo portarono in spalla fino alla cima del vicino monte Vaea, per seppellirlo in una tomba affacciata sul mare.

Le lettere raccolte in questo Diario degli ultimi anni nei mari del sud sono indirizzate da Stevenson al suo amico, curatore e critico d’arte Sidney Colvin dal novembre del 1890, quasi un anno dopo l’arrivo alle Samoa, fino all’ottobre del 1894, due mesi prima della sua morte. «L’altro giorno», scriveva Stevenson nel giugno del 1892, «mi è venuto improvvisamente in mente che queste cronache che ti scrivo potrebbero tornare utili quando sarò morto e si potrebbe ricavarne un libro senza troppa fatica». Colvin realizzò il velato desiderio dello scrittore. Il risultato ora è uscito in italiano per la magnifica traduzione di Michele Buzzi, con un’utile introduzione di Andrea Casoli accompagnata da una serie di foto e schizzi dello stesso Stevenson. La corrispondenza è diventata un diario.

Le Samoa (Stevenson forse non lo sapeva, ma probabilmente lo sospettava) sarebbero state l’ultimo capitolo di una vita spesa a fuggire costantemente dalla «Strega della Notte», come chiamava la malattia polmonare che lo perseguitava fin dall’infanzia. Nelle Samoa, Stevenson costruì da zero una casa che chiamò Vailima, “cinque fiumi”, e ci visse con la moglie, il figliastro Lloyd Osbourne (che collaborò ad alcune delle più belle storie di Stevenson), la figliastra con il suo bambino piccolo e la madre di sessant’anni e passa. Per Stevenson fu una fatica vivificante e sfiancante al tempo stesso, che i samoani impararono ad ammirare e rispettare. «Non c’è niente di più interessante che strappare erbacce, disboscare, tracciare sentieri», scrisse a Colvin nella sua primissima lettera. «Tornare a casa coperto di fango, zuppo di sudore e di pioggia dopo ore passate nella macchia, cambiarsi, darsi una ripulita e sedersi sulla veranda ti procura il piacere di una coscienza tranquilla».

Le lettere parlano solo occasionalmente di letteratura. Ci sono accenni ad amici scrittori – Henry James, Kipling – e richieste a Colvin di inviargli libri, thriller da quattro soldi come quelli del francese Xavier de Montépin. Ci sono abbondanti resoconti dei suoi progressi nella stesura de Il relitto, La spiaggia di Falesà, Weir di Hermiston (il suo ultimo capolavoro incompiuto) e vari altri. Ma la parte più sostanziosa dell’epistolario sono le fatiche manuali di Stevenson, il diario di una sorta di Robinson Crusoe che costruisce una casa in mezzo alla natura, oltre ai rapporti del grande romanziere con le vicende politiche locali e i missionari che andavano a caccia di anime. La Gran Bretagna, la Germania e gli Stati Uniti avevano messo gli occhi sulle isole e le navi da guerra di queste tre potenze imperialistiche erano diventate una presenza costante nelle baie samoane. Stevenson era consapevole che una società indigena come quella samoana era drammaticamente impreparata all’assalto di stranieri che sfruttavano le rivalità e le divisioni endemiche e portavano transazioni commerciali inique, oltre a malattie letali. Con il crescere delle pressioni europee sulla società samoana, le tensioni ben presto cominciarono a dividere la popolazione, scatenando guerre intertribali. Le sue proteste e le lettere accusatorie che inviava al Times a Londra lo fecero vedere dagli altri europei come un agitatore e un traditore della sua stessa gente.

«Mio caro amico», scrive a Colvin il 17 aprile 1893, «la politica è cosa abietta e intricata. Un tempo pensavo male degli idraulici, ma come rifulgono, ora, al confronto dei politici!». E nell’ultima lettera a Colvin, datata 6 ottobre 1894, scrisse quanto segue, parole che dovrebbero essere impresse a fuoco sulle porte del Parlamento europeo: «È una dimostrazione di intelligenza, del fatto che non siamo barbari, l’essere capaci di penetrare qualcosa che è al di fuori di noi, qualcosa che non tocca soltanto chi ci sta accanto sull’omnibus». Firmò la lettera “Tusitala”, il nome che gli avevano dato i samoani, che significa “raccontatore di storie”. Stevenson sapeva che uno scrittore è «essenzialmente infedele» e quindi non ha alcun obbligo di seguire le convenzioni dell’ordine cronologico o della mappatura geografica. Sa che il lettore lo seguirà oltre le convenzioni del tempo e dello spazio, poiché scrive al suo amico più giovane parole che Casoli, saggiamente, cita a conclusione della sua prefazione: «Se vuoi raggiungermi: affitta una barca a San Francisco, poi prendi la seconda a sinistra; io sono lì»   

- Alberto Manguel - Pubblicato su Robinson del 28/1/2023 - (Traduzione di Fabio Galimberti) -

giovedì 18 maggio 2023

«Meritocrazia significa avere sempre il pieno di benzina per poter scappare» !!

The Last of Us, Kropotkin e il mutuo appoggio alla fine del mondo
- di Aldo Conway -

Joel Miller aveva già perso la sua umanità prima ancora che sua figlia venisse uccisa, ma il resto del mondo aveva altri piani. La settimana precedente alla prima di "The Last of Us", mio fratello mi ha regalato il saggio dell'anarco-comunista russo Pyotr Kropotkin, "Il mutuo appoggio". La mia idea era quella di leggerlo, e quindi così ho fatto, e ho iniziato a guardare la serie senza che una delle due cose avesse molto a che fare con l'altra.

"Quando sei perso nell'oscurità", il primo episodio, l'ho guardato insieme a un paio di amici e, all'inizio, si scommetteva su quanti cliché e stereotipi dei film di zombie, sarebbero apparsi nella prima mezz'ora. Poco prima di arrivare alla fine del flashback con cui inizia la serie, The Last of Us non sembrava essere granché diverso dagli altri, tranne, ovviamente, per il suo azzeccatissimo inizio: quel televisore anni Settanta a partire dal quale, opportunamente, riescono a suscitare una paura che va al di là della fiction, dal momento che spiegano, fuori e dentro la scena, quanto, in un futuro lontano, sarebbe possibile una catastrofe micotica, dovuta ai funghi. Paura che, dopo una pandemia, non sorprende più di tanto.

L'approccio del primo episodio, veniva scandito da tutto un susseguirsi di archetipi che si dipanavano senza sforzo: la casa che prende fuoco senza motivo, il cane spaventato, la vecchia cannibale - presa di peso, ovviamente, da "Braindead" [Splatters-Gli schizzacervelli]: «tua madre ha mangiato il mio cane» -, fuori campo, la voce del telegiornale che parla di stranissimi eventi avvenuti nel sud-est asiatico, oppure  la stupida vicina di casa che non sa nulla e che viene divorata intorno al venticinquesimo minuto: ce n'è sempre una! Fino a quando non si arriva al momento che costituisce la quintessenza della tradizione yankee per antonomasia: quando si abbandona al proprio destino qualcuno che avrebbe potuto essere aiutato; e lo si fa solo per aumentare la carica drammatica della scena. Una famiglia con una gomma a terra in mezzo alla strada che diventa sempre più piccola nello specchietto retrovisore. Meritocrazia significa avere sempre il pieno di benzina per poter scappare. Una delle lezioni più importanti che cerca di trasmettere "The Walking Dead" - parlo della serie tv, non ho alcuna idea del fumetto - è quella secondo cui gli zombie, per i protagonisti, sono l'ultimo dei problemi: il vero nemico è l'essere umano. Anche se la pandemia ci ha fornito degli indizi su come ci comportiamo di fronte a una catastrofe che ci sfugge di mano, cercare di simulare una società vent'anni dopo che è stata colpita da un flagello come il Cordyceps, è a dir poco difficile. Decine - direi centinaia - di sceneggiatori ci hanno provato, e quasi nessuno si è discostato dallo schema classico.

Gli americani - talmente propensi all'azione al punto da aver eletto presidente un cowboy, e da arrivare a vendere fucili e liquori nella medesima corsia del Walmart (vi rendete conto che se a Madrid chiedete una pistola in una panetteria, non vi danno la stessa cosa che vi darebbero negli Stati Uniti? Agli americani piace di più il pane a fette) – sviluppano sempre le loro apocalissi immaginarie nel quadro di una concorrenza letale e spietata tra gruppi o tra individui. Questa concezione dell'umanità, così americana, talmente «si salvi chi può», è assai vicina agli scritti di Piotr Kropotkin, l'anarco-comunista che ho citato all'inizio e che, sì, sarà molto rilevante in questo articolo. Kropotkin scriveva che ci sono sempre stati degli storici con una visione pessimistica dell'umanità, che si concentrano sulle guerre intestine, sulle crudeltà e sull'oppressione, e che descrivono delle società poco coese e sempre pronte a combattere tra loro. La nozione di pessimismo, è qualcosa che i conservatori hanno sempre definito «realismo» o «buon senso»: essere reazionari è sinonimo di essere pessimisti, in quanto si tende a non voler cambiare nulla; ecco perché ci sono così poche storie distopiche che si allontanano dalla narrazione dell'accumulazione capitalistica, in quanto qualsiasi alternativa viene sempre presentata come peggiore del sistema stesso.

Pertanto, la filosofia libertaria di Kropotkin si scontra con quella di Hobbes, per il quale invece l'umanità avrebbe iniziato a progredire proprio quando i grandi signori e i legislatori hanno portato ordine nella civiltà. Il filosofo inglese ha influenzato diversi pensatori, come Thomas Henry Huxley (1825-1895), che in una conferenza del 1888 arrivò a proporsi di descrivere gli uomini primitivi e gli aborigeni come se fossero una qualche sorta di bestie - tigri o leoni - prive di qualsiasi concezione sociale. Insomma, al di là dei legami familiari, lo stato normale dell'esistenza umana era - ed è, secondo Huxley - la guerra hobbesiana di ciascuno contro tutti gli altri. È dal confronto con questi due riferimenti, che nascono le due fazioni antagoniste di The Last of Us: la FEDRA e le Lucciole. La prima è un'entità governativa, la quale ha preso il controllo del paese dopo l'epidemia e ha instaurato un ferreo governo fascistoide, la cui priorità assoluta è la sicurezza. Le Lucciole, invece, sono dei rivoluzionari che hanno preso posizione contro la legge marziale imposta dall'agenzia federale, e dl primo momento hanno agito come un gruppo terroristico. A prescindere del discutere o meno sul perché, in una correlazione di forze, l'istituzionalismo abbia la potestà di chiamare terrorista l'avversario, senza un diritto di replica; sono i creatori del videogioco a stabilire una tale biforcazione filosofica: da una parte, chi diffida della capacità umana di organizzarsi ed affrontare le sfide della natura, essendo favorevole a un controllo ferreo della società, e dall'altra, invece, chi si oppone alla militarizzazione della vita quotidiana.

Partiamo da un concetto: una catastrofe apocalittica - un virus zombie, un meteorite o uno "Sharknado" - comporta, oltre alla completa distruzione della realtà attuale, anche tutta un'accozzaglia di ucronie, nelle quali ci sono sempre alcuni fortunati che riescono a insediarsi e a disporre di risorse e chi, invece, va a vivere "alla macchia". Kropotkin descrive in maniera assai approfondita lo sterminio dei boscimani, degli ottentotti, degli uomini e delle donne Terra del Fuoco e dei Papuani, o degli Aborigeni australiani da parte dei coloni. La FEDRA rappresenta quella parte della società che, in un modo o nell'altro, è riuscita ad accumulare le risorse necessarie - armi, medicine e cibo, in quest'ordine - in modo da potersi così reinsediare nel nuovo mondo. La loro regressione storica non è stata un salto di oltre cinque secoli. Niente male se la paragoniamo alla precarietà della vita al di fuori delle zone di quarantena: la lontananza blu e selvaggia. Le Lucciole - e, se è per questo, qualsiasi altra cosa diversa dalla FEDRA - potrebbero essere riassunte in qualcosa di assai simile a un modello comunitario (salvo le eccezioni in cui vediamo un pastore evangelico controlla una folla di cannibali disturbati), nel quale sia il processo decisionale che la condivisione delle risorse sono orizzontali. Pertanto, come i Papuani, praticano un comunismo primordiale. Un esperimento. questo, che avrebbe affascinato Marx e terrorizzato Stalin.

Fu un comportamento simile, quello che ebbe a stupire Darwin: lo racconta Robert Shanafelt in "How Charles Darwin got an emotional expression out of South Africa (and the people who helped him)", dove descrive i legami di solidarietà tra gli individui di uno stesso raggruppamento. «Se si dà qualcosa a un ottentotto, lo distribuisce tra i presenti. Non può mangiare da solo. Non importa quanto sia affamato, egli condivide sempre il suo cibo». I popoli primitivi - diceva Kropotkin - non conoscevano l'egoismo che si acquisisce nei sistemi economici. Usanze del genere sopravvivono ancora oggi: l'ospitalità dei popoli berberi del Sahara, che vivono ai margini del resto del mondo, è sempre stata famosa tra gli esploratori e i viaggiatori del Nord Africa. La tesi di Kropotkin si concentra sul mutuo appoggio in quanto motore del progresso delle specie, e su come di solito, tra gli animali, all'interno della specie non ci sia competizione, in modo che essa non venga proiettata sull'individuo, ma sulla sopravvivenza del gruppo/specie più forte. Naturalmente, è ovvio che questo non impedisca - non c'è modo - di prevenire i conflitti tra gruppi della stessa specie; e ciò ha delle implicazioni culturali che si legano al concetto di clan. Una società anarchica non è esente dal poter finire in una scazzottata con un'altra. Infatti, l'anarchia non è né un pogrom con torce e forconi, né un'allegra festa di hippy che picchiano sul tamburo, né l'incarnazione del caos, e neppure quella dell'amicizia eterna. Come direbbe mia nonna, dev'essere qualcosa che sia giusto. La ragione per cui diamo per scontato che la fine del mondo sarà assai più simile a Mad Max che a un'utopia proudhoniana, risiede nel fatto che la visione predominante, assimilata dalla nostra cultura, è quella di Hobbes piuttosto che quella di Kropotkin. Quella piccola frase secondo la quale l'uomo sarebbe un lupo per l'uomo, è l'ultima conquista del tardo capitalismo: lo scontro orizzontale per perpetuare il proprio potere. Durante il lockdown ne abbiamo potuto vedere una chiara manifestazione in quei famosi poliziotti da balcone che hanno trasformato le strade nel panopticon di Bentham.

Col senno di poi - a serie conclusa - possiamo dire che quei primi minuti sono stati gli unici stereotipati di tutta l'intera stagione. Tanto da suscitare pianti e urla su Twitter, Reddit, 4Chan e Forocoches, tra gli altri. Il casus belli non è nuovo: lo stanco dibattito sull'inclusione forzata. Quando Barbarella ha mostrato le tette nello spazio, nessuno ha pensato che fosse una forzatura. Dopo l'uscita di The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese, nel 2013, c'è stata un'ondata di persone - direi tutti uomini - che hanno capito che Jordan Belfort era un genio, che i federali erano i cattivi e che tutti gli altri erano degli idioti. Lungi dalle intenzioni del regista, il truffatore interpretato da Leonardo DiCaprio è diventato l'immagine dell'incipiente alt-right: il cripto-brodo primordiale. Non capirò mai come facciano tanti proletari a credere di essere più vicini, nella piramide economica, al narcotrafficante che al piccolo spacciatore. La controcultura è passata dall'essere nelle mani di punk impasticcati a venire dirottata da dei cocainomani di destra, nonostante il licenziamento, che hanno fatto leva sulla postura etica e sulla politica identitaria della sinistra - dal momento che essere un maschio bianco etero e alcolizzato non è affatto un'identità, ovviamente - e si sono venduti come se fossero loro gli ultimi liberi pensatori del mondo occidentale. Dev'essere un casino che nessuno rida alle tue battute sulle donne frigide, sui neri e sui froci, mentre tu vieni pagato una miseria, della quale, secondo te, il fisco ti deruba, mentre tua figlia ascolta la trap da cartongesso a cartongesso ti tocca vedere tua moglie che sbava per Pedro Pascal, il quale non è nemmeno abbastanza tosto.

Per i più ortodossi, citare la comune del Wyoming dove vive Tommy, il fratello di Joel, e dove si proclamano comunisti, rappresenta, senza alcun dubbio, un altro esempio di quell'inclusione forzata - hashtag woke, hashtag Soros - che ha rovinato tante serie e videogiochi. E anche se, ovviamente, a loro non sembra bello che si menzioni una coppetta mestruale - per loro si tratta solo di uccidere zombie, non di avere il ciclo - o che due ragazzi, a causa di due decenni di solitudine siano diventati tutto l'uno per l'altro. Insomma, Craig Mazin e Neil Druckmann ci mostrano che un'altra fine del mondo è possibile, anche se non ci libereremo tanto facilmente delle pretese dittatoriali di alcuni membri della nostra specie. Ed è per questo che The Last of Us è così, così bello.

- Aldo Conway - Pubblicato su Jot Down - maggio 2023 -