Nel cuore di una fredda notte del 1980, Bobby Western indossa la sua muta da sommozzatore e si tuffa nelle nere profondità della baia del Mississippi. Laggiù scorge il profilo di un aereo con nove corpi in cabina, gli occhi vuoti e le braccia protese verso un gelido abbraccio. Che fine ha fatto il fantomatico decimo passeggero? Quali oscure macchinazioni cela la sua scomparsa? Dolente viandante del mondo da sempre braccato dalla perdita e dalla colpa, ora Bobby deve tornare a fuggire, inseguendo la libertà e il ricordo di una donna per sempre irraggiungibile. Cormac McCarthy ritorna con il suo romanzo più atteso e ci stupisce e conquista con un'opera di disperata bellezza e apicale bravura.
Durante una missione di recupero al largo della costa del Mississippi, Bobby Western vede quel che non avrebbe dovuto vedere: un JetStar apparentemente intatto adagiato sul fondale e, in cabina, chiome fluttuanti, bocche aperte e occhi vuoti, nove corpi senza vita. Da dove viene quell’aereo, che fine ha fatto la scatola nera, e che ne è stato della decima persona sulla lista passeggeri? Queste le domande a cui Bobby, perseguitato da due emissari governativi «con un’aria da missionari mormoni», non sa dare risposta. Capisce allora di dover scomparire. Del resto a fuggire ci è abituato, da tanto tempo è inseguito dai sensi di colpa nei confronti del mondo e di lei, Alicia, l’amore del suo cuore, la rovina della sua anima. Alicia Western, sua sorella. Mente matematica sopraffina ed esperta mondiale di violini cremonesi, donna bellissima e perciò più difficile da perdere, «perché la bellezza ha il potere di suscitare un dolore inaccessibile ad altre tragedie», anche Alicia, come Bobby, ha guardato dove non doveva guardare, nel cuore delle tenebre. Visitata sin da bambina dalle «coorti», un’accozzaglia di allucinazioni da vaudeville capeggiate da un piccolo focomelico scurrile chiamato il Kid, e afflitta da un amore che offende, Alicia ha provato a opporre l’ordine del numero al caos della vita ma non ce l’ha fatta perché «certe cose un numero non ce l’hanno». Ora cosa resta a Bobby, se non la fuga? Via da New Orleans, Knoxville e la baia petrolifera della Florida, da bettole, bagnarole e topaie. Un mondo popolato di reietti, ubriaconi e reduci – dall’amorevole trans Debussy al killer di blatte Borman al dandy dissacrante Sheddan – ma brulicante di vita e inventiva. Via da tutto quel rumore, via dalle oscure macchinazioni del potere e dai peccati ereditati come da quelli bramati, verso una nuda bicocca dall’altra parte dell’oceano, verso un posto senza compagnia né legge né letteratura, dove non c’è altra realtà del ricordo e la fisica si fonde nella metafisica. Perché questo siamo noi: «dieci percento biologia e novanta percento mormorio notturno».
(CORMAC McCARTHY, Il Passeggero, Einaudi Supercoralli pp. 392 € 21,00)
La frontiera di McCarthy è l’inconscio
- di Matteo Persivale -
Luciano Berio, presentando in un'intervista il finale della Turandot lasciata incompiuta da Puccini. spiegò nel 2001 che gli appunti del maestro «sono numerosi e interessanti, e qui e là addirittura sperimentali, con accenno di una serie dodecafonica». Puccini, il compositore delle emozioni forti e delle indimenticabili armonie, in punto di morte stava insomma anticipando Arnold Schönberg. È patrimonio dei più grandi classicisti diventare radicali con il passare del tempo, illuminando la loro vecchiaia artistica con la luce del nuovo. Melville scrive in Moby-Dick che «per produrre un grande libro, bisogna scegliere un grande argomento. Nessuna opera grande e duratura potrà mai venire scritta sulla pulce, benché molti abbiano tentato». È il romanzo preferito di Cormac McCarthy, la sua stella polare. Attraverso dieci romanzi, dal 1965 al 2006, ha sempre scelto grandi argomenti. E nei sedici anni di silenzio passati dall’uscita di La strada (Einaudi) ai sorprendenti due volumi di The Passenger e Stella Maris appena usciti negli Stati Uniti, McCarthy ha aperto — sembra impossibile, alla vigilia dei 90 anni — una nuova fase, un nuovo periodo. Dagli inizi faulkneriani (con una spruzzata dickensiana in Suttree) al capolavoro assoluto, omerico, di Meridiano di sangue, che secondo Harold Bloom è, con Moby-Dick e Mentre morivo, il grande romanzo americano che apre la sua fase melvilliana, un Melville del West che attraverso la «trilogia della frontiera» (Cavalli selvaggi, Oltre il confine, Città della pianura tutti tradotti in Italia da Einaudi) racconta la violenza che scorre, fatalmente, nelle vene dell’America («Non morirò mai» grida, ballando oscenamente nel momento del trionfo Judge Holden, il terribile protagonista di Meridiano di sangue in quel finale che da quattro decenni fa accapponare la pelle ai lettori). Stella Maris è uscito poco più di un mese dopo The Passenger. Stella Maris — «Stella del mare», appellativo della Vergine Maria molto amato dai marinai — è un romanzo ancora meno tradizionale di The Passenger perché alla soglia della sua decima decade McCarthy (incredibile che una generazione come la sua, quella di Philip Roth e Don DeLillo e Richard Ford e Thomas Pynchon sia stata ignorata dai Nobel, i critici del futuro non lo dimenticheranno) non è mai stato così radicale. Nei mezzi e nei fini.
Stella Maris è una raccolta di transcript di sette sessioni della co-protagonista del dittico, Alice Western, una sorta di pièce (Dwight Garner sul «New York Times», sempre acuto, l’ha paragonata al teatro intellettuale di Tom Stoppard) nella quale la ragazza ricoverata in un ospedale psichiatrico racconta la storia della sua vita, delle sue allucinazioni, del suo amore incestuoso per il fratello Bobby protagonista di The Passenger.
Alice (all’anagrafe, ma da ragazzina sceglie di cambiare il nome e diventa Alicia) è un genio. Della filosofia. Della musica. Della matematica. E il suo genio è la sua condanna: il genio è morte e (auto) distruzione nel mondo di McCarthy. E nel «suo» libro l’Alice di McCarthy — che nella prima pagina di The Passenger ci ha rivelato la fine del suo personaggio, la mattina di Natale del 1972 — dà la sua versione dei fatti che nel primo libro ci aveva raccontato Bobby, suo fratello, ex pilota di Formula 2 e poi sub nel Golfo del Messico. A chi credere? McCarthy ci sfida, mantenendo il suo linguaggio inimitabile e come sempre dallo spelling personalissimo, «cormachiano» (per esempio: «Non sono sicuro di afferrare» viene scritto, sic, «Im not sure i understand», senza apostrofo in «I’m», e con la «I» minuscola) al di là o, meglio, al di sopra delle regole della lingua inglese.
Fa lo slalom, come uno sciatore, tra le aspettative del lettore: crea per la prima volta una vera protagonista femminile e attraverso di lei ci racconta quello che Roberto Calasso chiamò «l’innominabile attuale» che è il centro del lavoro più recente di McCarthy da La strada a qui. Alice e Bobby sono figli di uno scienziato del progetto Manhattan, nati a Los Alamos, figli letteralmente della bomba atomica, figli di «Auschwitz e Hiroshima, gli eventi fratelli che hanno segnato per sempre il destino dell’Occidente», la volontà di autodistruzione della civiltà — l’innominabile attuale appunto.
Come si gestisce una seconda parte senza descrizioni, fatta solo di dialoghi tra due personaggi, Alice e il dottor Michael Cohen destinato a essere aggirato, lasciato nella polvere, spiazzato dall’intelligenza spaventosa della sua paziente che riflette su Wittgenstein, sulla «matematica come tautologia», e su un tema che a McCarthy, da un ventennio membro del think tank del Santa Fe Institute, sta molto a cuore: l’inconscio. Riflette Alice: «Gli psichiatri hanno difficoltà a trattare con l’inconscio in modo diretto. Ma l’inconscio è un sistema puramente biologico, non magico... L’inconscio è semplicemente una macchina per manovrare un animale (questa è, parola per parola, una frase di un articolo scientifico pubblicato da McCarthy nel 2016, ndr). Cos’altro potrebbe essere? La maggior parte di ciò che facciamo è inconscio. Affidare le faccende alla mente cosciente è un affare rischioso. Balene e delfini devono sincronizzare il loro respiro con il momento in cui emergono. Quindi, ovviamente, quando sono stati anestetizzati per la prima volta per un intervento chirurgico, sono semplicemente morti. Cosa che avrebbe dovuto essere prevedibile. L’inconscio si evolve insieme alla specie per soddisfare i suoi bisogni e se c’è qualcosa di sinistro in esso è che a volte sembra anticipare quei bisogni. Non può permettersi sorprese. È una delle cose che ha turbato Darwin. Ma i dottori dell’anima non capiscono niente di tutto questo. Sono cartesiani fino all’osso».
Ecco, Alice sfida il souldoctor, tutto attaccato, il dottore dell’anima che forse è soltanto l’ennesima allucinazione del freak show che emerge per l’appunto dal suo inconscio e dalle tenebre della sua schizofrenia (in The Passenger un tetro spacciatore chiede a Bobby come sia possibile amare «un mondo di carta», quello dei libri).
Qui McCarthy tesse una ragnatela finissima che nell’apparenza del transcript da nastro magnetico d’una conversazione medico/paziente si avvale in realtà della teoria di E. M. Forster sulla differenza tra «tempo reale» e «tempo narrativo». Scrive Forster: «Mentre pronuncio questa conferenza, posso udire o non udire il tic-tac di quell’orologio, posso conservare o smarrire il senso del tempo; mentre in un romanzo un orologio c’è sempre. L’autore può anche provare antipatia per il proprio orologio: Emily Brontë, in Cime tempestose, tentò di nasconderlo; Sterne, in Tristram Shandy, lo ha capovolto. Ancora più ingegnoso, Marcel Proust spostava di continuo le lancette».
Invece Cormac McCarthy ci dice a pagina 1 di The Passenger che il tempo, narrativo e reale, di Alice, è limitato. In Stella Maris lascia a lei la parola, con il lettore che sa che la clessidra si sta svuotando rapidamente, e nell’ultima pagina — nell’ultima riga — viene letteralmente preso per mano da Alice.
- Matteo Persivale - Pubblicato su La Lettura del 22/1/2023 -
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