venerdì 20 giugno 2025

Libri non tradotti in italiano !!

Prefazione a  "The Spectre of Capital. Idea and Reality"
- by Christopher J. Arthur -

Questo lavoro è incentrato sulla spiegazione dell'idea di capitale. La sua particolarità è quella di sostenere che il capitale è esso stesso una “Idea”, e lo è nello stesso senso in cui è stata concepita da Hegel nella sua filosofia. Per lui un'Idea non è un'entità mentale, bensì la piena attualizzazione di un concetto, della sua “verità”, per così dire. Il capitale, in quanto Idea, diventa continuamente presente nella realtà. Questo libro vuole dimostrare che il capitale è il soggetto spettrale della modernità. Il concetto di “spettro del capitale” è stato coniato da me in un articolo del 2001. Esso riecheggia lo “spettro del comunismo” del Manifesto. Ma il comunismo era un movimento reale che mirava ad abolire lo stato di cose esistente, governato dal capitale. Ma quanto è “spettrale” e quanto è “reale” il capitale stesso? Paradossalmente esso è entrambe le cose. Pur avendo una presenza puramente spettrale, è senza dubbio un vero potere sociale, e lo rimane anche di fronte a qualsiasi critica come quella qui presentata. ( Per questo motivo, nella frase del nostro titolo - “Idea e realtà” - la “e” non va presa in modo contrappositivo, ma è indicativa dell'identità). Il metodo seguito nella mia esposizione del capitale, in quanto forma sociale, si basa sulla logica propria del carattere peculiare del suo oggetto. Per una descrizione della logica interna del capitale, sono necessari i parametri della “dialettica di sistema”. Questa presentazione sistematico-dialettica si basa sulla logica filosofica di Hegel. Non si preoccupa di recuperare la grande narrazione della sua filosofia della storia per poi metterla in relazione con il materialismo storico. Si concentra piuttosto sulla sua logica delle categorie. In questo caso, essa viene considerata architettonicamente omologa alle forme sociali del capitale. La dialettica sistematica viene utilizzata per articolare le forme di questo ordine sociale, vale a dire il capitalismo. Il mio metodo di sviluppo logico della forma si fonda sulla constatazione che il movimento dello scambio è analogo al movimento del pensiero, nella misura in cui viene generato un regno di forme pure, le quali si pongono in relazione logica l'una con l'altra, senza alcun contenuto. La presentazione è quindi basata sulla “teoria della forma-valore”. Si tratta di un approccio relativamente nuovo alla critica dell'economia politica. Afferma che le relazioni di valore svolgono un ruolo attivo nel determinare la forma e gli scopi della produzione materiale. La forma sviluppata del valore (merce, denaro, capitale) costituisce la forma sociale caratteristica delle relazioni economiche attuali. Per la teoria della forma-valore, Hegel è un riferimento naturale, dal momento che la sua logica si adatta bene a una teoria delle forme. Inoltre, lo sviluppo del sistema delle categorie di Hegel è diretto ad articolare la struttura di una totalità, mostrando come essa si sostenga negli e attraverso gli interscambi dei suoi momenti interni. Ciò presuppone che la totalità sia strutturata a partire da relazioni interne; e ciò si verifica per definizione nell'ambito di una logica delle categorie. Io sostengo che il capitale sia una totalità di questo tipo. Una teoria della forma sociale attiva, in particolare quella che si riferisce alla forma valore, richiede perciò una presentazione dialettica coerente. L'ambito di questo progetto si limita pertanto alla teoria di una società puramente capitalistica. Di più, esso è limitato alla sua “teoria pura”, ovverosia ai suoi principi, distinti dagli stadi di sviluppo del capitalismo, e sulla base dei quali è possibile condurre lo studio empirico di un capitalismo esistente in modo storicamente fondato. Inoltre, esso è ancora più limitato in quanto tutta la sua attenzione è rivolta al concetto di capitale in sé. Infatti, considero il concetto di capitale talmente ristretto da escludere persino la rendita, poiché la considero un'impurità rispetto al punto di vista teorico, che spiega solo quelle forme che sono necessarie al capitale in quanto concetto o, come farò, all'Idea di capitale. Nonostante un'impostazione così ristretta, viene però dimostrato un risultato importante: la tendenza logica dell'Idea di capitale è quella di completarsi attraverso il suo stesso sviluppo immanente, e di porre quindi in essere tutti i suoi presupposti; esso è auto-fondato, si autodetermina e si autoriproduce. Le riserve necessarie rispetto a questa audace tesi vengono affrontate, in maniera adeguata, nel corso dell'argomentazione stessa, a seconda dei casi. Questo tipo di studio è il necessario prolegomeno per qualsiasi adeguato studio scientifico del capitalismo. Tuttavia, si tratta di un esercizio puramente concettuale, che sviluppa un sistema di categorie che sono in relazione quasi logica. Pertanto, questo libro non è un'opera di economia, ma di filosofia. Per esempio, il “concetto di capitale” qui presentato è ben lontano da un concetto economico correttamente articolato. Lo stesso vale per la “produzione” e per molti altri temi toccati. Ciò è dovuto al fatto che la logica peculiare dell'oggetto ha essa stessa un carattere concettuale. La possibilità stessa di una teoria pura, o di una realtà dell'Idea di capitale, dipende da un'affermazione ontologica relativa al modo in cui il capitale stesso astrae rispetto alle sue basi materiali e costituisce un regno di forme pure. Spero di rivendicare questa importante affermazione anche sviluppando le categorie del capitale all'interno di un quadro sistematico-dialettico. Al contempo, si tratta di una critica delle categorie economiche che esso rappresenta. La critica dell'economia politica viene qui intesa non come una critica dell'apologia borghese del capitale, ma come una critica del sistema del capitale stesso nella misura in cui le sue forme mancano di verità. Nello sviluppo delle mie idee, ho avuto la fortuna di far parte del gruppo di ricerca dell'International Symposium on Marxian Theory, fondato da Fred Moseley nel 1991. Oltre allo stesso Moseley, ringrazio in particolare, per i loro pazienti commenti sul mio lavoro in corso, i membri di lunga data: Riccardo Bellofiore, Martha Campbell, Roberto Fineschi, Patrick Murray, Geert Reuten e Tony Smith. (Questi pensatori sono anche quelli che hanno prodotto in inglese le opere più significative sulla critica dell'economia politica). Per aver commentato il manoscritto originale di questo libro, ringrazio soprattutto Geert Reuten e Tony Smith. Mi hanno salvato da molti errori; ma, naturalmente, non hanno alcuna responsabilità per il libro stesso.

Christopher J. Arthur

giovedì 19 giugno 2025

Definire il … nemico !!!

Dalla metafisica della contingenza alla determinazione del nemico
- di  Patrice Schlauch - 7 dicembre 2023 -

Sul populismo di sinistra di Chantal Mouffe
Allorché, in seguito alla crisi, il marxismo tradizionale ha perso le sue certezze storico-filosofiche, abbiamo visto come i suoi esecutori si siano diligentemente sforzati di rivederne le categorie, usando le teorie postmoderne del discorso, dell'azione e della politica, per le quali è un anatema perfino la critica di una totalità sociale. A partire dall'effettiva ristrettezza mentale del marxismo tradizionale, dalla sua ignoranza delle forme di pensiero e dell'ideologia, dalla sua teorizzazione dello Stato visto come mero fenomeno sovrastrutturale, e dalla sua nobilitazione della classe operaia in quanto soggetto rivoluzionari, insieme al presupposto di un superamento della relazione di capitale visto come conseguenza necessaria dello sviluppo economico, vediamo come anche la critica dell'economia politica in generale cada vittima del verdetto della "grande teoria" e dell’ "economicismo". Il padrino di questa demolizione, è stato ed è Antonio Gramsci, il quale, con i suoi concetti di società civile e di lotta politica per l’egemonia, ha fornito le fondamentali parole chiave al cosiddetto “post-marxismo”. Oggi, nell'ambiente del cosiddetto post-operaismo, e oltre, egli viene considerato come un teorico che avrebbe dimostrato delle prospettive di azione nella sfera politica e culturale, al di là delle determinazioni economiche dell'ortodossia marxista. Tra i suoi seguaci, vediamo la politologa Chantal Mouffe, che nel suo discorso a favore di una rinascita della politica, e di un nuovo populismo di sinistra, fa riferimento non solo al comunista Gramsci, imprigionato e morto sotto il regime fascista, ma anche al costituzionalista nazionalsocialista Carl Schmitt. Ciò che a prima vista potrebbe apparire come un sincretismo selvaggio, ecco che a un esame più attento si rivela come la conseguenza immanente di un modo di pensare che eleva la categoria della contingenza a metafisica politica e che, in ultima analisi, nella modalità del decostruttivismo non riconosce più alcuna forma sociale, ma solo l'immediatezza della decisione politica.

La “decostruzione del marxismo”: epistemologia e politicismo postmoderno
Il fatto che una sinistra auto-identificata trovi la propria strada partendo da Antonio Gramsci e arrivando a Carl Schmitt, la radica nella teoria postmoderna della conoscenza e della politica che Mouffe aveva già sviluppato negli anni Ottanta. Nell’opera fondamentale “Egemonia e strategia socialista”, scritta insieme a Ernesto Laclau nel 1985, i due attestano la «palese mancanza di una teoria del politico» nel marxismo, [*1] cosa cui intendono porre rimedio facendo riferimento al concetto di egemonia di Gramsci. In un dettagliato excursus, Mouffe e Laclau dimostrano, in parte correttamente, che il marxismo di origine ortodossa si basa su un riduzionismo economico-teorico.Gli ottimisti teleologi del progresso - Kautsky, Plekhanov e i loro simili - si basavano sulla contraddizione esistente tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione e, ricordando la necessità di uno sviluppo storico-materialista, si aspettavano che una rivoluzione sarebbe avvenuta da sé, per così dire, in un determinato momento. Non appena gli antagonismi di classe diventano sufficientemente acuti, ecco che entra subito in azione l'automatismo storico di quella che sarebbe una dialettica materialista positiva, e così la classe operaia segue la propria predestinazione rivoluzionaria. Com'è noto, la falsità del materialismo storico è stata poi dimostrata dal fatto che il proletariato non ha mai adempiuto alla sua presunta missione, ma ha piuttosto affermato le categorie della società borghese, adattandole alle proprie condizioni e lottando per il riconoscimento e la rilevanza del proprio lavoro, anziché formulare una critica della società del lavoro. L'entusiasmo socialdemocratico per la guerra, nel 1914, la repressione della Rivoluzione di novembre da parte di Friedrich Ebert e Gustav Noske tramite i Freikorps di destra, il crescente autoritarismo nell'Unione Sovietica capitalista di Stato e, infine, l'accettazione del fascismo e del nazionalsocialismo da parte di ampi settori della classe operaia, avevano praticamente confutato l'automatismo marxista della rivoluzione.  Tuttavia, non è questo fallimento storico della classe operaia a spingere Laclau e Mouffe a criticare l' economicismo e il riduzionismo di classe, ma soltanto il quietismo politico dell'ortodossia marxista. Essi vedono nella sua mancanza di impegno politico, nella riluttanza ad agire all’interno della forma politica esistente, e nel preferire una fiducia stoica nella “logica della necessità” [*2] quella che sarebbe un'insufficienza di fondo. Pertanto, appare logico che il giudizio di Mouffe e Laclau, sui sostenitori del revisionismo marxista, sia assai più positivo. Infatti, già a cavallo del secolo era stata affermata la necessità di un'azione politica contro l'ortodossia. L'enfasi, posta da Eduard Bernstein, su alcune categorie soggettive e politiche, quali la "volontà" o la "decisione etica" gli avrebbe valso il giudizio benevolo per aver rotto con il determinismo e affermato così la lotta nell'equilibrio politico del potere, e aver reso così visibile, in politica, la possibilità di una "articolazione aperta". È «l’autonomia del politico, l’aspetto veramente nuovo dell’argomentazione di Bernstein.» [*3] Ancora più favorevolmente di Bernstein, accolgono l’ex sindacalista di sinistra ,e in seguito mente del fascismo, Georges Sorel, il quale, come nessun altro all’epoca, dichiarò che la «volontà» immediata e l’altrettanto immediato «atto» erano i punti di fuga della sua teoria politica. Mouffe e Laclau interpretano il suo omaggio alla violenza, alla guerra e al mito unificante come se fosse una valida obiezione volontaria all'affermazione di una totalità sociale. Qui, la “lotta” figura come l’elemento esistenziale fondamentale di ogni identità politica, la quale si costituisce solo attraverso l’adozione di «chiare linee di demarcazione». «Il punto cruciale è - e questo fa di Sorel il pensatore più profondo e originale della Seconda Internazionale - che l'identità stessa degli attori sociali diventa indeterminata, e che ogni sua fissazione "mitica" dipende da una lotta.» [*4] Con Sorel, i soggetti sociali vengono separati dal loro contesto economico, e collocati nella sfera di una politica indeterminata, concepita solo come immediatamente politica. Questa accoglienza schietta di una teoria politica mirata alla decisione e alla lotta, preannuncia già il successivo adattamento, da parte di Mouffe, del decisionismo di Schmitt. E sebbene Mouffe e Laclau accolgano con favore la svolta politica di Bernstein e di Sorel, tuttavia essi criticano il fatto che, malgrado la loro relativizzazione delle determinazioni economiche, in ultima analisi continuano ancora ad aggrapparsi al rapporto di classe, come a una realtà sociale che precede quella politica. Il proletariato continua a funzionare come un “attore ontologicamente privilegiato”. «Questa risposta» al problema del determinismo marxista «nega ovviamente ogni opacità e densità delle relazioni politiche, come se si trattasse di un palcoscenico vuoto, sul quale delle figure costruite al di là di essa – le classi – combattono la loro battaglia». [*5] In realtà, la concezione marxista dello Stato testimonia una falsa neutralità dello Stato in quanto autorità, la quale  può essere perciò plasmata a piacimento dalla classe dominante, secondo i suoi propri interessi; come un mero mezzo di dominio di classe, il quale avrebbe dovuto essere conquistato subito, senza ulteriori indugi da parte del proletariato rivoluzionario, e utilizzato per i propri scopi. Ma non è questa posizione fondamentalmente filo-statale del marxismo a preoccupare Mouffe e Laclau; anzi, addirittura la condividono. Quello che però trovano discutibile in questa “risposta”, è il presupposto del primato delle forme sociali, le quali, nella sfera politica, vengono semplicemente “rappresentate”. Mentre «L'altra risposta», vale a dire la teoria dell'egemonia democratica da loro sviluppata, «sostituisce il principio di rappresentanza con quello di articolazione. L'unità tra questi attori, perciò non è l'espressione di un'essenza comune di fondo, ma il risultato di una costruzione politica e di una lotta politica». [*6] Pertanto, tali “attori” non devono e non possono esistere prima e oltre la politica; secondo Mouffe e Laclau, si formano esclusivamente nel campo della politica, vale a dire nella modalità della lotta per l’egemonia. Riferendosi a Gramsci, intendono tutto questo come se si trattasse di una lotta politica permanente per l'apparato di potere statale e per il predominio nella società civile. In questa “guerra di posizione”, come la chiama Gramsci, non ci sono classi determinate in maniera primaria dal punto di vista economico, ma si tratta piuttosto di “blocchi storici”, costituiti da diversi gruppi sociali, classi e subalterni, nei quali, «tra intellettuali e popolo-nazione, tra capi e guidati» esiste come una “coesione organica”, oltre alla “passione” che crea un legame affettivo comune. [*7] Per Gramsci, la società si dissolve in quelli che sono dei “rapporti di forza” i quali, sebbene plasmati anch’essi dalla situazione storica, possono, in ultima analisi, essere plasmati e trasformati solamente dalla spontaneità e dall’attività politica della “volontà collettiva”; occasionalmente definita anche “volontà collettiva popolar-nazionale”. La sua critica dell’economicismo, dal momento che scarta anche la critica di una totalità autonoma, si trasforma in un politicismo radicale «ed è» – secondo le sue parole – «anche degno di essere sottolineato il fatto che il fatalismo è solo un travestimento di quella che è una volontà attiva e reale, alla maniera dei deboli». [*8] Al falso oggettivismo di un “marxismo scientifico”, che conosceva solo leggi strutturali economiche, si sostituisce così un’altrettanto falsa autonomizzazione della politica, la quale consiste solo nell’equilibrio di potere tra blocchi concorrenti e volontà collettive, che non conoscono più alcuna contestualizzazione sociale. «La volontà collettiva», secondo Mouffe e Laclau, «è il risultato dell’articolazione politico-ideologica di forze storiche sparse e frammentate». [*9] Mouffe e Laclau, non solo riprendono il politicismo di Gramsci, ma lo radicalizzano ulteriormente.

   Mentre Gramsci ricadde sempre, ripetutamente e piuttosto bruscamente, nel pensiero economico-strutturale, i due invece si battono per la completa dissoluzione della società nel politico. Essi presuppongono che l'intera economia debba in realtà essere intesa come uno “spazio politico”. Lo sviluppo delle forze produttive, ad esempio, non è espressione di una costrizione economica allo sfruttamento e all'accumulazione, a cui i singoli capitalisti devono conformarsi nella concorrenza, e quindi razionalizzare la loro produzione; bensì è il risultato di una disciplina politica di lavoratori potenzialmente resistenti. L’intero sviluppo della tecnologia di produzione, come quello del taylorismo, non serve ad aumentare la produzione di plusvalore relativo, ma deve essere inteso come una “tecnologia di dominio”, così come l’intera produzione di merci si riduce a essere un “meccanismo politico” ai fini della contro-insurrezione preventiva. [*10] La società viene pertanto vista da loro come se fosse solo la somma delle lotte politiche tra quei gruppi in competizione per l’egemonia. Nella teoria post-marxista di Mouffe e Laclau, tali gruppi non hanno più una definizione sociale, o più precisamente, nessuna definizione, ma sono caratterizzati proprio dalla loro esistenza contingente. I collettivi politici sono il «risultato contingente di una lotta egemonica»; trovano la loro identità unicamente nella differenza relazionale con altri attori politici. Intendono il sociale come uno «spazio scucito» costituito da dei frammenti non fissati, e quindi «la dispersione stessa diventa il principio di unità»; un’unità, tuttavia, così fluida e così amorfa, così «incompleta e permeata dalla contingenza» al punto che l’affermazione di una sintesi sociale, per quanto fragile, diventa impossibile. [*11] «Il momento della creazione è radicale – creatio ex nihilo». [*12] Questa metafisica decostruttivista della contingenza, può essere illustrata contrapponendo al concetto di mediazione, che Mouffe e Laclau aborrivano,  quello di articolazione. Per loro, per “articolazione” si intende un’espressione (politica) che emana direttamente dal nulla, che non ha significato né contenuto, e rimane frammentata, instabile e contingente. Solo nel ricordare la differenza immediata allora «emerge una terra di nessuno che rende possibile la pratica articolatoria […]». [*13] Il concetto di articolazione funziona pertanto come cifra centrale della decostruzione di ogni mediazione sociale, per la quale non c’è spazio in un costrutto di pura immediatezza. «O l'organizzazione è contingente, e di conseguenza esterna ai frammenti stessi, oppure sia i frammenti che l'organizzazione sono i momenti necessari di una totalità che li trascende. È chiaro che solo il primo tipo di "organizzazione" può essere inteso come un'articolazione, mentre il secondo è, a rigore, una mediazione.» [*14] Secondo Mouffe e Laclau, è proprio questa differenza a segnare la differenza tra il marxismo e la sua “logica della necessità”, rispetto al loro postulato di una “logica della contingenza”. Non a caso sottolineano che la logica marxista dell'identità, secondo la quale l'intera società deriva da un unico principio o contraddizione – vale a dire quello tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione – risale alla dialettica idealistica di Hegel. Come in Hegel i momenti di mediazione contraddittoria si risolvono sempre in un'identità riconciliata, così anche nel materialismo storico - che secondo Engels, in realtà, capovolse solo Hegel - le forze motrici contrastanti della produzione capitalistica di merci culminano nella loro stessa abolizione, nella transizione al socialismo. L’affermazione secondo cui la mediazione dialettica «si occupa di un sistema di transizioni logiche» [*15] si applica anche al marxismo tradizionale, insieme a Hegel. Il fatto che Marx stesso abbia rotto con la dialettica positiva di Hegel, allorché criticò il rapporto di capitale vedendolo come una contraddizione persistente che andava oltre la trasfigurazione storico-materialista, deve essere frainteso a partire da una teoria, il cui rifiuto della logica dell'identità dialettica avviene solo a favore di un'ipostasi di pura contingenza. Non è la piacevole sublimazione nel socialismo, a costituire il punto di fuga della “Critica dell’economia politica”, bensì la crisi in quanto prodotto di una contraddizione sociale che crea le forme precarie entro le quali può muoversi, ma che allo stesso tempo fa sempre esplodere, queste forme, senza trascenderle. Questa dialettica è negativa perché nel suo stesso concetto non prevede l'abolizione pratica di una sintesi fondata sul capitale, ma intende piuttosto il movimento di contraddizione senza un telos positivo, l'illogicità del capitale, come  base catastrofica della socializzazione moderna, che di per sé non conduce ad altro che alla sua crisi fondamentale.

Excursus: La totalità mediata di Stato e Capitale
Il culto della contingenza, che si rifugia nell’irrazionalismo, non cambia la realtà di questa sintesi sociale, che si espande nella totalità, manifestandosi alle spalle dei soggetti e allo stesso tempo attraverso di loro. Totalità in questo senso non significa – ed è l’unico modo in cui Mouffe e Laclau possono concepirla – che ogni azione individuale sia immediatamente determinata o forzata da vincoli oggettivi, ma che la logica di accumulazione del “soggetto automatico” [16] prescrive la forma all’interno della quale gli individui, nonostante tutti gli impulsi individuali e talvolta contingenti, devono assicurare la loro autoconservazione, e che, inoltre, questa forma non rimane loro esterna, ma, in virtù della socializzazione, modella ancora la parte più intima della loro vita istintuale senza comprenderla pienamente. Questa totalità, che esiste solo perché viene riprodotta quotidianamente dagli individui e che tuttavia sfugge al loro controllo immediato in quanto entità autonoma, è stata descritta da Marx come feticismo, come una condizione di dipendenza da una seconda natura in cui i rapporti tra le persone si invertono in quelli tra le cose. Per "trovare un'analogia" per questa metafisica reale del capitale, secondo Marx, «dobbiamo rifugiarci nella nebulosa regione del mondo religioso. Qui, i prodotti della mente umana appaiono come entità indipendenti, dotate di vita propria, in relazione tra loro e con gli altri. Così sono i prodotti della mano umana nel mondo delle merci». Questa indipendenza è solo “apparenza” nella misura in cui nei beni, nel denaro e nella loro elaborazione cumulativa si sedimenta un rapporto sociale, creato in realtà dalle persone. Questa illusione ha tuttavia una validità reale, poiché manifesta la perversione della società in un tutto rivolto contro coloro che la riproducono. La degradazione degli individui ad appendici della loro stessa forma sociale appare con reale validità come la loro sussunzione sotto le merci che producono. «Il mistero delle merci consiste semplicemente nel fatto che esse riflettono agli uomini le caratteristiche sociali del loro lavoro come caratteristiche oggettive dei prodotti del lavoro stessi, come proprietà sociali naturali di queste cose; quindi anche il rapporto sociale dei produttori con il lavoro complessivo come rapporto sociale di oggetti esistenti al di fuori di essi. Attraverso questo quid pro quo, i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili o sociali.» [17] Il fatto che questa società del lavoro abbia il suo rovescio costitutivo nell'intera riproduzione domestica della forza lavoro, sia in termini materiali che psicologici ed emozionali, che il lavoratore salariato doppiamente libero possa vendere solo la sua pelle perché la sua autoconservazione è delegata al sesso femminile, è stato affermato da alcune femministe degli anni Settanta e in seguito da Roswitha Scholz nella loro teoria della separazione contro Marx e il marxismo, senza abbandonare la critica dell'economia politica. [18] Tuttavia, la consapevolezza di questa ambigua totalità sociale è difficilmente presente nel femminismo odierno perché il post-strutturalismo l'ha minata nella contingenza degli atti linguistici performativi. Anche lo Stato e la forma della politica sono momenti di questa totalità. Essi non sono una mera appendice dell'economia, come vorrebbe il marxismo ortodosso, che vede lo Stato come se fosse  semplicemente uno strumento della borghesia per far valere i propri interessi di classe; né tantomeno si collocano al di là dell'economia in quanto sfera autonoma, come hanno invece immaginato gli approcci politicanteschi a partire da Gramsci in poi. Già nella “Ideologia tedesca”, Marx ed Engels presupponevano che le forze centrifughe di una società basata sulla concorrenza richiedessero un’autorità violenta che si distinguesse da questa concorrenza, e costringesse i singoli capitalisti a forme ordinate di scambio. Dal momento che gli interessi particolari non coincidono con l'interesse generale della logica dell'accumulazione, ecco che allora la relazione di capitale diventa, secondo la sua logica, riferito a uno Stato che non coincide con esso. «Questa instaurazione dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro prodotto in un potere materiale su di noi, che cresce andando al di là del nostro controllo […], è uno dei momenti principali dello sviluppo storico fino ad oggi, ed è proprio da questa contraddizione tra interesse particolare e comune che l’interesse comune, come Stato, assume un carattere indipendente, separato dai reali interessi individuali e collettivi.» [*19] Questo riconoscimento dello Stato, visto come «esistenza speciale accanto e al di fuori della società civile» [*20] costituisce il risultato di una mediazione critica la quale non si limita a sussumere l’uno sotto l’altro. Sebbene Marx ed Engels derivino, logicamente, lo Stato dalla relazione di capitale, non è certo un caso che il loro discorso sul «potere oggettivo su di noi», e sull’indipendenza dello Stato, includa un vocabolario che Marx avrebbe poi utilizzato per descrivere il feticismo della merce. È a causa di questa derivazione, tuttavia, che qui lo Stato rimane, nonostante o proprio a causa della sua indipendenza, semplicemente relegato alla sua funzione di «capitalista totale ideale» [*21] . Il fatto che il monopolio della violenza - al di là di questa funzione - non sia solo subordinato allo scopo proprio del capitale, ma abbia anche una ragion di Stato in cui l'accumulazione capitalista, al contrario, funziona come mezzo per uno scopo statale, viene escluso dalla visione di Marx ed Engels, proprio a partire dal primato dell'economia. Questa natura egoistica dello Stato, diventa particolarmente chiara nel momento in cui ci si allontana da una prospettiva puramente logica, e si considera la genesi storica dello Stato e del Capitale. Mentre Marx, nel suo capitolo sulla “cosiddetta accumulazione primitiva”, affrontava gli inizi della produzione mediata dal mercato, e le violente trasformazioni dei rapporti di proprietà a essa associate, lo Stato, con la sua “legislazione del sangue”, le sue case di lavoro, la sua persecuzione dei vagabondi, dei mendicanti e di tutti coloro che non volevano lavorare, appare come se fosse solo e semplicemente una garanzia per l’ordine emergente del capitale. [*22] E tuttavia, il modo di produzione capitalistico va inteso come il prodotto di una concorrenza costitutiva tra Stati. I primi stati territoriali - emersi dalla disintegrazione delle strutture feudali del tardo Medioevo - distrussero, in un processo durato secoli, il complesso sistema di relazioni di potere e di autorità sfalsate e sovrapposte orizzontalmente e verticalmente, e lo fecero a favore di un unico monopolio della violenza. In questo processo, sia i patrimoni secolari che quelli ecclesiastici vennero consolidati e incorporati nello Stato territoriale, il quale mirava all'unità. In un tale sistema, i poteri legislativo, giudiziario ed esecutivo dovevano essere conferiti unicamente a un principe sovrano; mentre in precedenza erano stati tutti conferiti ad autorità eterogenee, che arrivavano fino alle strutture feudali più basse, ad esempio sotto forma di giurisdizione patrimoniale. «Per sovranità» - come affermò Jean Bodin nella sua fondamentale opera sullo Stato del 1576 - «bisogna intendere il potere assoluto, e temporalmente illimitato, proprio dello Stato». [*23] Questo costituirsi della sovranità statale, internamente, corrispondeva all'impegno esterno di assicurare e, se necessario, espandere il territorio a spese degli Stati vicini. Costituire, difendere ed estendere territorialmente il potere sovrano in guerra, era il fine in sé dello Stato, che a partire da Niccolò Machiavelli è stato descritto con il termine di “ragion di Stato”. Mentre nel Medioevo cristiano l'azione monarchica si basava ancora su dei precetti religiosi, ai quali anche il principe doveva attenersi, la costituzione degli Stati territoriali garantiva una certa secolarizzazione della moralità delle autorità. «Bisogna», diceva Machiavelli, «capire che un governante, e in particolare uno di un impero di recente costituzione, non può tenere conto di tutto ciò che può portare buona reputazione al popolo, ma è spesso costretto a violare la lealtà, la pietà, l’umanità e la religione proprio per mantenere il potere». [*24] La nuova idea politica della ragion di Stato, venne intesa come un «imperativo incondizionato di autoconservazione dello Stato», [*25] e come predominio del benessere dello Stato su tutti gli altri interessi. [*26]
Furono questi primi proto-stati europei moderni che, nel perseguire la loro ragion di stato, si ritrovarono in uno stato di guerra quasi permanente tra loro, e svilupparono pertanto un bisogno di materiale bellico fino a quel momento sconosciuto. A partire dal XIV/XV secolo, e poi nel XVII secolo, si scontrarono sempre più spesso quelli che erano gli eserciti cavallereschi medievali, che potevano essere ancora tuttavia costituiti da strutture feudali sotto forma di feudi; ma anche eserciti mercenari molto più grandi, i quali poi furono sostituiti, solo alla fine del XVII e XVIII, secolo da eserciti permanenti non meno costosi. Lo sviluppo del potere distruttivo provocato dalla guerra, sotto forma di armi da fuoco  - e, di conseguenza, di imponenti fortificazioni e sistemi di difesa - non poteva essere finanziato solo dalle tradizionali imposte feudali, così come non potevano esserlo i nuovi eserciti. La monetizzazione, la standardizzazione e l'inasprimento del regime fiscale - nella forma dei primi sistemi fiscali moderni - aveva lo scopo di soddisfare le necessità materiali di questa fame di guerra. Tuttavia, non era solo il finanziamento della guerra a costituire un problema diffuso per gli Stati, ma lo era anche la costosa produzione dei mezzi di violenza. La produzione di cannoni, la costruzione di fortezze e l'armamento marittimo non potevano essere ottenuti al livello di sviluppo della forza produttiva del tardo Medioevo; motivo per cui l'economia di guerra diretta dallo Stato si espanse in modo significativo. Sia l'aumento dell'onere fiscale monetario, sia l'aumento della produttività imposto dallo Stato, contribuirono all'erosione delle economie di sussistenza feudali, e all'emergere delle prime forme capitalistiche di produzione e distribuzione. All'inizio dell'era moderna, questa prima produzione capitalista, non solo era diretta dallo Stato in ambiti importanti, ma serviva anche e soprattutto all'imperativo della ragion di Stato. Lo Stato aveva il primato sull'economia a esso subordinata. La situazione cambiò quando - a partire dal XVIII secolo - la produzione capitalista raggiunse proporzioni tali da cominciare a condurre una vita propria, al di là di qual era il suo scopo originario. «Il sistema di "economia politica" di un apparato militare e bellico distaccato dalla società, e gestito esclusivamente attraverso il lavoro astratto, si è reso indipendente dal suo scopo originario. La sete di denaro dei primi dispotismi militari moderni, ha dato origine al principio di "valorizzazione del valore", il quale, dall'inizio del XIX secolo, ha poi operato come capitalismo. Il rigido guscio del dirigismo statale-militare, è stato infranto solo per consentire alla macchina monetaria, ormai indipendente, di continuare a funzionare in quanto puro fine in sé stesso di un'economia "staccata" da ogni e qualsiasi legame sociale e culturale, e per dare libero sfogo alla concorrenza anonima.» [*27] Di conseguenza, si è verificato uno spostamento nel rapporto tra Stato e capitale, dove lo Stato ha assunto il ruolo subordinato di “capitalista totale ideale”. Il fatto che la natura egoistica dello Stato, oggi condizionata, non sia stata affatto abolita in modo così semplice, appare evidente, internamente, nella sua politica di sicurezza, che non è solo funzionale al capitale, ma anche rispetto all'irrazionalità delle guerre condotte fino ai giorni nostri; che raramente possono essere ridotte solo a calcoli di interessi economici nazionali. Naturalmente, la politica non è mai stata soltanto una sfera di esecuzione della ragion di Stato e dei vincoli di sfruttamento; ciò soprattutto perché - sia nel contesto delle democrazie di massa che in quello degli Stati autoritari - ci sono forme di ideologia che trovano la loro espressione in politica, e talvolta plasmano in modo significativo l'azione dello Stato. Il discorso sulla sovranità popolare contiene quindi una parte di verità, nella misura in cui le forme ideologiche di elaborazione della negatività sociale ,da parte della popolazione, trovano certamente spazio nell'apparato statale. Sebbene non sia possibile dedurre come queste si esprimano nelle specifiche condizioni storiche - soprattutto in tempi di crisi - esse non sono affatto del tutto contingenti, nel senso di un libero arbitrio slegato dal contesto sociale. Il soggetto borghese non entra nell'arena politica come se fosse quel soggetto autonomo e autodeterminato che crede di essere, ma vi entra come qualcuno che è dominato dalla sua seconda natura, e che è quindi costretto a reprimere la prima, di natura. Compensa l'impotenza che ne deriva, facendolo attraverso la modalità di una rivolta conformista, che proietta il suo disagio nei confronti della natura egoistica della società e delle sue contraddizioni su coloro che il popolo sovrano contrassegna come suoi avversari. «La rabbia è rivolta a chi si distingue senza protezione.» [*28] Ciò che, di conseguenza, si manifesta come ideologia, nello Stato e nella politica - e nel caso estremo del nazionalsocialismo stesso si solidifica in ragion di Stato - è esso stesso, in quanto cattivo modo di affrontare le contraddizioni, un momento della totalità, che poi attacca e difende simultaneamente nei nemici del popolo.

Antagonismo e definizione - populista di sinistra - di nemico
Tutto ciò che qui è stato solo brevemente delineato, appartiene a una totalità mediata di Stato e capitale, a partire dalla quale Chantal Mouffe ed Ernesto Laclau astraggono secondo quella che è la loro post-strutturalista avversione alla mediazione. Il loro a priori epistemologico - che rifiuta la mediazione intellettuale e concettuale in quanto presunto pensiero identitario - si traduce nella negazione della mediazione oggettiva; vale a dire, nella negazione della vera sintesi sociale, che, nella forma dell'autonomia feticistica, fornisce il quadro dell'azione sociale, senza però determinarla. Per Mouffe e Laclau, la politica si sgretola in quella che è una somma di pratiche prive di contesto e di determinazione, definite solo dalla loro differenza assoluta, dal loro status di aggregati non mediati di contingenza. Queste monadi svuotate, entrerebbero in una relazione tra loro sotto forma di “antagonismo”, laddove il concetto di antagonismo funziona qui come cifra di una differenza senza mediazione. È un «testimone dell’impossibilità di una ricucitura finale», una «impossibilità del reale». [*29] Di conseguenza, questo antagonismo non può essere definito in termini di contenuto; le forze antagoniste sono caratterizzate unicamente dalla loro immediatezza, e dalla mancanza di mediazione. Nel loro confrontarsi, questi attori amorfi formano ciò che nel senso di Mouffe e Laclau è il politico. Egemonia significa: lotta tra articolazioni antagoniste. Chi stia combattendo, per che cosa, e per quali ragioni rimane assolutamente poco chiaro. Oltre alla contingenza, le uniche determinazioni di questo misticismo politico sono la “divisione” e la “separazione”, caratterizzate proprio dalla loro indeterminatezza. [*30] Questa enfasi sull'antagonismo - sviluppata per la prima volta da Mouffe e Laclau nel 1985, a partire  dall'autonomizzazione della politica e dei suoi attori, operata da Gramsci, e abolendo, grazie al determinismo, ogni condizione sociale - trova ora il suo coerente proseguimento nelle opere successive di Mouffe. In particolare, va citato il suo saggio del 2005 “Sul politico”, in cui mantiene sostanzialmente il suo concetto di egemonia, ma lo chiarisce sulla base della teoria politica di Carl Schmitt e sviluppa le implicazioni esposte nel 1985. Il punto di partenza del suo libro è l'osservazione che, dopo il crollo del socialismo reale e la conseguente mancanza di prospettive, la sinistra ha subìto una svolta neoliberista, e si è pienamente integrata in quella che chiama "democrazia consensuale". Ciò indica innanzitutto un'evoluzione reale, a partire dal fatto che il partito laburista britannico, i socialdemocratici tedeschi, la sinistra europea in generale e i partiti verdi hanno tutti aderito ai dogmi neoliberisti della deregolamentazione, della privatizzazione e dello smantellamento delle istituzioni dello stato sociale; partecipando in tal modo alla gestione della crisi politica. Tuttavia, secondo Mouffe, la politica neoliberista non affonda le sue radici in una crisi sociale degli anni Settanta – deindustrializzazione, elevata disoccupazione vista come risultato del crollo assoluto del saggio di profitto dovuto alla terza rivoluzione micro-industriale – ,dal momento che, in ogni caso, lei non riconosce alcuna determinazione sociale della politica, ma unicamente in una falsa comprensione della politica. Dopo la “fine della storia”, l’establishment politico - compresa la sua fazione di sinistra - si convinse che la politica potesse essere praticata solo in quanto processo razionale e tecnocratico di ricerca di soluzioni, che potesse procedere armoniosamente nella modalità della discussione, e al di là delle lotte egemoniche. Mouffe, descrive questa concezione della politica come una «visione antipolitica che rifiuta di riconoscere la dimensione antagonista costitutiva del ‘politico’». Insiste sulla necessità di una “distinzione noi-loro” e considera “reciprocità e ostilità” come “fatti inseparabili” facenti parte della politica. [*31] Mouffe non si concentra, in primo luogo, sulle differenze sostanziali che dovrebbero continuare a essere combattute in politica, ma rivendica piuttosto una differenza pre-sostanziale esistente di per sé.Questo perché non localizza l'antagonismo nella politica, che viene attribuita come “ontica”, ma nella sfera del politico, che viene esplicitamente descritta come “ontologica”. [*32] Dal momento che la democrazia consensuale neoliberista nega a priori questa ontologia dell’antagonismo, Mouffe fa ricorso alla teoria politica del pensatore che, a suo avviso, con la sua “critica provocatoria”, avrebbe attaccato più opportunamente il liberalismo  Nel suo attacco al linguaggio liberale, all'innocuo dibattito sui contenuti politici, attribuisce alla politica il ruolo di «sfera di decisione, e non di libera discussione», seguendo così Carl Schmitt. Ciò che Mouffe scrisse nel 1922, nella sua "Teologia politica", avrebbe potuto benissimo essere scritto dalla penna di Schmitt: «Oggi, non c'è nulla di più moderno della lotta contro la politica. Finanzieri americani, tecnici industriali, socialisti marxisti e rivoluzionari anarcosindacalisti sono tutti uniti nella richiesta che venga eliminato il dominio non oggettivo della politica sull'oggettività della vita economica. Dovrebbero esserci solo compiti tecnico-organizzativi ed economico-sociologici, ma non ci dovrebbero più esserci problemi politici. La forma prevalente di pensiero tecnico-economico non è più in grado di percepire un'idea politica. Lo Stato moderno sembra davvero essere diventato ciò che Max Weber vedeva in esso: una grande impresa». Riferendosi al contro-illuminismo politico del XIX secolo, Schmitt - nello spirito di Mouffe - porta avanti una riflessione sul divisivo, sulla decisione tanto contingente quanto ontologica, sulla «riduzione dello Stato a una decisione pura, non ragionante e non dibattimentale, non giustificante e quindi assoluta, creata dal nulla». [*33] Secondo Schmitt, la prima decisione che costituisce la politica, è quella tra amico e nemico; e che Mouffe affronta. Schmitt, più di chiunque altro comprese che in politica si devono sempre creare delle “identità collettive”, costituite ex negativo attraverso la “ostilità” antagonistica contro altre collettività. Un "noi", una "volontà collettiva", può «essere raggiunta solo identificando un "loro", un avversario che deve essere sconfitto per rendere possibile la nuova egemonia». [*34] Mouffe si riferisce qui essenzialmente al testo “Il concetto del politico”, del 1932, nel quale Schmitt colloca "l’essenza del politico" nell’antagonismo. «La distinzione specificamente politica, a cui si possono far risalire azioni e motivazioni politiche, è la distinzione tra amico e nemico.»[*35] Con questa definizione, Mouffe elogia il relazionale: l’identità è sempre riferita a qualcosa di esterno e di estraneo ad essa, e in ciò vede – non senza ragione – un parallelo con il post-strutturalismo, rivelando così anche la comunanza del suo pensiero con quello di Schmitt. Lei lo considera l'antenato del suo pensiero postmoderno sulla differenza, e un teorico della contingenza politica. [*36] Per Schmitt la definizione di amico e di nemico è, fino al 1933, quanto meno superficialmente contingente: il nemico non si definisce nelle categorie del morale, dell’estetico o dell’economico, né nelle griglie del bene e del male, del bello e del brutto, dell’utile e del dannoso. Schmitt si preoccupa piuttosto di una distinzione ontologica e contingente, poiché potenzialmente essa può essere riempita con qualsiasi contenuto; con una differenza senza mediazione. Il nemico è «in un senso particolarmente intenso, esistenzialmente qualcosa di diverso ed estraneo», esso segna «la negazione del suo modo di esistenza» e pertanto dev'essere combattuto «per preservare il proprio, essenziale tipo di vita». [*37] Detto nei termini di Mouffe, ciò significherebbe che non c’è alcuna “cucitura” possibile tra le “forze antagoniste”: esse si trovano tutte ugualmente nella vuota “terra di nessuno” della “articolazione” politicamente immediata dove ottengono la loro “identità”, “relazionalmente”, attraverso la “separazione” e la “divisione”. Mouffe si sforza ripetutamente di dipingere Schmitt quasi come un pioniere della politica democratica, il cui «riferimento enfatico alla possibilità sempre presente di distinguere tra amico e nemico, oltre che alla natura conflittuale della politica, costituisce il punto di partenza necessario per raggiungere gli obiettivi della politica democratica». [*38] Tuttavia, Mouffe evita le conseguenze del decisionismo di Schmitt, che rimangono deliberatamente non citate. Per il democratico Schmitt, uccidere rimane il mezzo ultimo per determinare il nemico: «I concetti di amico, nemico e lotta ricevono il loro vero significato a partire dal fatto che si riferiscono - e si riferiscono in modo particolare - alla possibilità reale dell’uccisione fisica». [*39] Per questo, Mouffe non vuole arrivare fino a Schmitt, dopo aver già postulato l'antagonismo come entità ontologica, e cerca tuttavia di contenerlo. Il “compito principale della democrazia” è quindi quello di sublimare l’antagonismo in “agonismo”. Se i nemici nell’antagonismo non avessero un terreno comune, la legittimità degli oppositori – come vengono oggi chiamati i nemici – verrebbe riconosciuta in uno “spazio simbolico comune”, costituito da dei principi etici e dall’impegno verso il sistema parlamentare. [*40] Ma poiché Mouffe si affida all’impossibilità assoluta della mediazione, e solo attraverso questa può giungere all’antagonismo di Schmitt, ecco che il suo tentativo di mediazione si impiglia in contraddizioni senza speranza. Riguardo alla trasformazione dell'antagonismo in agonismo, scrive: «Si tratta di una lotta tra progetti egemonici inconciliabili, i quali non possono mai essere razionalmente conciliati [!]. La dimensione antagonista è sempre presente [!]; si tratta di uno scontro reale, seppur regolato da un insieme di procedure democratiche accettate dai rispettivi avversari.» Ciò che per definizione è indomabile, dovrebbe essere domato, ciò che non può essere mediato dovrebbe essere mediato e gli antagonisti irrazionali e ontologici dovrebbero accettare improvvisamente una base comune di comprensione basata sull'intuizione razionale. Mouffe si limita a relativizzare la propria definizione di amico-nemico, e allo stesso tempo si aggrappa alla sua inconciliabile assolutezza. Ma poiché basa l'intera teoria sociale sull'assenza di coerenza, difficilmente può lasciarsi influenzare da tali riferimenti a contraddizioni argomentative.

   A metà strada tra antagonismo e agonismo, la politica deve perciò riflettere sull'ontologia del politico, e generare identità vere e proprie ex negativo, definendo nemici o oppositori. Tuttavia, poiché queste identità collettive non possono riferirsi primariamente a un contenuto comune che spazia dagli interessi sociali alle ideologie reazionarie – dopotutto sono emerse solo a partire dall’articolazione diretta nella sfera politica stessa, senza alcun a priori sociale – necessitano allora, a maggior ragione, di un legame affettivo. Mouffe - che rifiuta non solo il razionalismo del liberalismo ma anche il suo individualismo - immagina l'uomo vedendolo in un rovesciamento fascista di questi paradigmi liberali; come un animale da branco che deve essere innanzitutto attirato nel proprio campo politico, non con argomenti ma con un'influenza affettiva. «Una volta che [...] accettiamo di essere suscettibili all'attrazione della "folla", vista come parte intrinseca di noi, dobbiamo allora affrontare la politica democratica in maniera diversa: dobbiamo chiederci in che modo questo istinto possa essere mobilitato, senza che minacci le istituzioni democratiche.» [*41] L'ultima frase non fa altro che sottolineare, ancora una volta, quanto Mouffe sia consapevole della propria vicinanza alle idee di agitazione fascista. Nel fare ciò, non si vergogna di sostenere il suo psicologismo di massa-umano facendo ricorso a "Psicologia di massa e analisi dell'Io" di Sigmund Freud, che secondo lei avrebbe spiegato plausibilmente l'importanza della passione e della libido ai fini della costituzione di una massa. L'obiettivo del potere che crea una massa, come riassume Freud, è «stabilire una forte identificazione tra i membri della comunità, legarli in un'identità comune. Un'identità collettiva, un "noi", è il risultato di una carica libidica, che include necessariamente la determinazione di un "loro"». [*42] Ma Mouffe, nell'adottare questo obiettivo, ignora deliberatamente il fatto che, secondo Freud, un individuo può fondersi nel collettivo solo arrendendo il suo super-io in favore di un «ideale di massa incarnato nel leader» [*43] . Freud non era un teorico delle masse, come favorevolmente ritiene Mouffle, bensì era proprio un critico di quella regressione, e dei suoi sostenitori. Il nuovo populismo di sinistra, proclamato da Mouffe, deve - nello spirito della psicologia di massa affermativa - abbandonare le assurdità liberali, e fare appello agli istinti di gregge della gente. Per questo motivo, è profondamente invidiosa dell'estremista di destra austriaco dell'FPÖ, Jörg Haider, al quale gli austriaci si sono uniti, non per la sua ideologia ma per la sua concezione politica antagonista. «Vorrei piuttosto sottolineare che - contrariamente a quanto si crede - non è stato certo l'appello alla presunta [!] nostalgia nazista a essere responsabile della drammatica ascesa dell'FPÖ, quanto piuttosto la capacità di Haider di creare un potente polo di identificazione collettiva nel contesto dell'opposizione tra "il popolo" e le "élite del consenso".» [*44] Che ci sia un'identità tra l'uno e l'altro, che la nostalgia nazista consista proprio nella costruzione manichea di un antagonismo tra il popolo e l'élite traditrice, e che questo rappresenti sempre sia il pensiero nazionalista sia l'agitazione delle esigenze regressive della massa, è qualcosa che la populista Mouffe ha bisogno di negare dal momento che vuole traghettare Haider alla sinistra. Nel suo testo “Per un populismo di sinistra”, invita a rivolgersi agli elettori di destra, assumendo le loro legittime preoccupazioni e richieste, ma anche a fornire loro un «vocabolario alternativo in modo da poter ripensare queste richieste in termini di obiettivi egualitari». Mouffe ammette prontamente che la “leadership carismatica” potrebbe essere vantaggiosa tanto per la sinistra populista quanto per la destra. «Non c'è motivo di equiparare una leadership forte all'autoritarismo. […] Tutto dipende dal tipo di relazione che si instaura tra il leader e il popolo.» [*45] Finché il popolo applaude, e finché le masse si identificano con il leader, allora per la Mouffe non si può parlare di autoritarismo. Haider non ha mai sostenuto il contrario, dal momento che il fascismo prospera sulla denuncia di un'élite inautentica e dei suoi presunti sostenitori, nonché sul desiderio di sostituirla con un'autorità autentica, attraverso - per dirla con Schmitt - «un'incondizionata uguaglianza di specie tra capo e seguaci». [46] Continuando a cercare di astrarre dalla totalità sociale e dall'ideologia, e definendo gli antagonismi politici come delle articolazioni contingenti, la teoria di Mouffe non fornisce un giudizio plausibile e sostanziale per quello che è il suo populismo di sinistra. Sarebbe altrettanto facile sostenere una posizione di destra sulla base della sua teoria. Mouffe e Laclau spiegano il loro impegno nella politica di sinistra, come il risultato del loro sviluppo individuale casuale: «Per noi, la validità di questo punto di partenza si basa semplicemente sul fatto che costituisce il nostro passato». [*47] Tuttavia, la loro posizione politica non è così tanto arbitraria come credono Mouffe e Laclau. Infatti la definizione contingente del nemico, visto come forma di politica, rimanda, nonostante tutte le affermazioni contrarie, al contenuto di questa definizione formale. Il decisionismo astratto, che non attribuisce alcuna importanza al contenuto della decisione, porta, per sua stessa logica, alla sostanzializzazione di amico e nemico; cosa che si può osservare tanto in Schmitt quanto nella stessa Mouffe. Mentre nel 1932 Schmitt aveva già definito il politico come una “decisione a favore della risolutezza - non importa per che cosa”[*48], ovvero come forma priva di contenuto, già a partire dal 1933 si impegna nel tentativo di fissare il contenuto del rapporto amico-nemico. Nel senso di un «pensiero concreto e sostanziale del movimento nazionalsocialista», egli rifiuta l’arbitrarietà della decisione, facendolo a favore di una distinzione tra «compagni e stranieri». [*49] Ora è la “uguaglianza di specie” che fissa i partecipanti del collettivo, al di qua della linea antagonista, mentre al di là di essa viene già indicata l’identità del nemico. In contrasto con lo Stato del movimento, lo Stato liberale ci appare «solamente come un occultamento e un camuffamento di forze e poteri non statali - ma per niente apolitici, anzi sovra-statali, spesso persino sovversivi - che possono svolgere in segreto, in modo anonimo, invisibile e irresponsabile il loro ruolo di entità politicamente decisive sotto la protezione delle libertà liberali ». [*50] Quali forze si intendano qui è ovvio, e lo fu anche allora quando Schmitt scrisse poco dopo a proposito della ”infezione ebraica”, allorché pensò di vedere nel singolare collettivo dell’ebreo il «nemico mortale di ogni genuina produttività in ogni altro popolo», e da allora non perse mai occasione per dichiarare l’antagonismo tra tedeschi e gli ebrei come la causa primaria della politica. [*51]

   Chantal Mouffe - che non dice una parola sull'antisemitismo di Schmitt - non si spinge certo fino alla sua fonte di ispirazione. Ma dopo che nella sua fase iniziale aveva rifiutato qualsiasi definizione di antagonismo, anche lei ora occupa i poli dell'antagonismo facendo riferimento ad attori concretamente nominati. Da questa parte della “prima linea politica”, c’è il “popolo” attribuito positivamente, e dall’altra parte c’è la “oligarchia” di quello che è un piccolo gruppo di governanti cospiratori. [*52] E questo sviluppo non può sorprendere. Infatti, l'idea politica dell'antagonismo, che dissolve la totalità sociale nel calcolo dell'egemonia di quelli che sono gruppi concorrenti e ostili tra loro, contiene già in sé il manicheismo e la personificazione del dominio senza soggetto. Chantal Mouffe, dimostra involontariamente che la forma politica dell'antagonismo è indissolubilmente legata al suo contenuto politico-ideologico, e che un adattamento della teoria politica di Schmitt, non è possibile senza subirne simultaneamente le conseguenze nazionaliste. Che non esista una società, ma solo degli antagonisti politici, è già un'espressione della forma di pensiero di una falsa immediatezza, che non può assumere altro che un contenuto ideologico. Sebbene Mouffe non abbia fatto affermazioni antisemite nelle sue opere precedenti, la sua rivendicazione del popolo, il suo appello alla mobilitazione affettiva delle masse, la sua immediata determinazione antagonista del nemico sono tutte cose già al servizio dello schema di pensiero dell'antisemitismo. La riduzione, che Gramsci fa della società, vista come lotta per l'egemonia, e la pessima abolizione dell'economismo marxista tradizionale a favore di un politicismo senza mediazioni, così come la sua “filosofia della prassi”, oggi lo rendono attraente, non solo per la sinistra in generale, che cerca di compensare la propria reale impotenza attraverso l'allucinazione di lotte sovversive, ma anche per la decostruttivista Chantal Mouffe, che giustamente lo adatta alla sua divulgazione post-strutturalista della società tramite articolazioni contingenti di soggetti politici.  Benché lo stesso Gramsci non avesse compiuto appieno la dissoluzione della totalità nella politica, ma fosse invece partito - per quanto in maniera erronea - da strutture sociali antecedenti, la sua teoria mirava, in ultima analisi, alla diffusione di queste ultime nell'equilibrio di potere dei soggetti politici. Mouffe trae le conseguenze di questo modo di pensare, dichiarando che la sintesi sociale è una finzione, e intendendo il sociale solo come un'emanazione incondizionata di articolazioni politiche, alla stregua di una “creatio ex nihilo”, come una “terra di nessuno” senza “cuciture”. E poiché queste articolazioni si coagulano in antagonismi privi di mediazione sotto il segno dell'ipostasi postmoderna della differenza, è facile che si leghi al decisionismo di Carl Schmitt e alla sua definizione di amico-nemico. Come il suo antenato decostruttivista, anche Mouffe passa dalla contingenza radicale alla sostanzializzazione dell'antagonismo, all'ossessione, rivolta a sinistra, per il popolo e per i suoi nemici. La mediazione - che, sul piano reale, smentisce l'immediatezza dell'antagonismo, e su quello intellettuale impedisce alle masse di mobilitarsi affettivamente contro i nemici designati - ha una reputazione altrettanto negativa tanto presso Chantal Mouffe quanto presso Carl Schmitt. La loro comune avversione alla mediazione, è il segno di un modo di pensare che risponde all'esigenza regressiva di individuare finalmente il male di una società opaca nel nemico del popolo e di condannarlo all'innocenza.

- Patrice Schlauch - 7 dicembre 2023 - Pubblicato su fractura - Gruppe für kategoriale Kritik


NOTE:

[1] Così Michael Hintz e Gerd Vorwallner nella loro prefazione all'edizione tedesca, in: Laclau, Ernesto; Mouffe, Chantal: Egemonia e democrazia radicale. Sulla decostruzione del marxismo, Vienna 1991, p. 11.
[2] Ivi, p. 46.
[3] Ivi, pp. 73 e 69.
[4] Ivi, p. 79 segg. e 83.
[5] Ivi, p. 108.
[6] Ivi.
[7] Gramsci, Antonio: Quaderni del carcere, Volume 6: Filosofia della prassi, Amburgo 1996, p. 1490.
[8] Ivi, p. 1387.
[9] Laclau/Mouffe (1991), p. 111.
[10] Ivi, pp. 125-127.
[11] Ivi, pp. 114, 182, 155, 161ss.
[12] Ernesto Laclau, citato in Laclau/Mouffe (1991), p. 18 seg.
[13] Ivi, p. 162.
[14] Ivi, p. 141.
[15] Ivi, p. 143.
[16] Marx, Karl: Il Capitale. Critica dell'economia politica. Primo volume (Opere di Marx-Engels, Volume 23), Berlino 2008, p. 169.
[17] Ivi, pp. 86ss.
[18] Vedi Scholz, Roswitha: Il genere del capitalismo. Teorie femministe e metamorfosi postmoderna del capitale, Bad Honnef 2011.
[19] Marx, Karl; Engels, Friedrich: L'ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti, Feuerbach, B. Bauer e Stirner, e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti (Opere di Marx-Engels, Volume 3), Berlino 1962, p. 33.
[20] Ivi, p. 62.
[21] Engels, Friedrich: Lo sviluppo del socialismo dall'utopia alla scienza, in: Marx-Engels-Werke, Volume 19, Berlino 1962, pp. 177-228, qui p. 222.
[22] Marx (2008), pp. 741, 761.
[23] Citato in Münkler, Herfried: In nome dello Stato. La giustificazione della ragion di Stato nell’età moderna, Francoforte a. M. 1987, pag. 167.
[24] Citato in Münkler (1987), p. 49.
[25] Ivi.
[26] Sul rapporto tra totalità capitalista e ragion di stato come forma feticistica egoistica dello Stato nel primo periodo moderno, vedi Späth, Daniel: Querfront allerorten! o La “nuova destra”, la “nuova sinistra” e la fine della trascendenza socialmente critica. Parte 1: L’emergere della “nuova destra”. La crisi dell'Unione Europea e la svolta immanente del postmodernismo, in: Exit! Crisi e critica della società delle merci, numero 14, Angermünde 2017, pp. 95-212, qui pp. 101-107.
[27] Kurz, Robert: Il botto della modernità. Innovazione attraverso le armi da fuoco, espansione attraverso la guerra: uno sguardo alla preistoria del lavoro astratto, in: ibid.: Crisi mondiale e ignoranza. Capitalismo in declino, Berlino 2013, pp. 88-108, qui p. 106.
[28] Adorno, Theodor W.; Horkheimer, Max: Dialettica dell'illuminismo. Frammenti filosofici, Francoforte a. M. 2012, pag. 180.
[29] Laclau/Mouffe (1991), pp. 181 e 185.
[30] Ivi, p. 261.
[31] Mouffe, Chantal: Sulla politica. Contro l'illusione cosmopolita, Francoforte a. M. 2020, pag. 8 seg.
[32] Ivi, pp. 15ss.
[33] Schmitt, Carl: Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, Berlino 2015(a), pp. 68f.
[34] Mouffe (2020), p. 71.
[35] Schmitt, Carl: Il concetto del politico, Berlino 2015(b), pp. 19 e 25.
[36] Mouffe (2020), p. 23.
[37] Schmitt (2015b), p. 26.
[38] Mouffe (2020), p. 21.
[39] Schmitt (2015b), p. 31.
[40] Mouffe (2020), pp. 29ss.
[41] Ivi, p. 34.
[42] Ivi, p. 37.
[43] Freud, Sigmund: Psicologia delle masse e analisi dell'Io, in: ibid.: Edizione di studio, Volume 9, pp. 61-134, qui p. 120.
[44] Mouffe (2020), p. 89.
[45] Mouffe, Chantal: Per un populismo di sinistra, Francoforte a. M. 2018, pp. 33 e 83.
[46] Schmitt, Carl: Stato, movimento, popolo. La tripartizione dell'unità politica, Amburgo 1933, p. 42.
[47] Citato in Mattutat, Liza; Breunig, Felix: Involontariamente con Schmitt. La ricezione di Carl Schmitt nella teoria democratica di Chantal Mouffe, in: Hetzel, Andreas (a cura di): Radical Democracy. Sulla comprensione dello Stato di Chantal Mouffe e Ernesto Laclau, Baden-Baden 2017, pp. 65-84, qui p. 77.
[48] ​​Löwith, Karl: Il decisionismo occasionale di C. Schmitt, in: ibid.: Scritti completi, Volume 8, Heidelberg 1984, pp. 32-71, qui p. 44.
[49] Schmitt (1933), pp. 42 e 5ss.
[50] Ivi, p. 28.
[51] Schmitt, Carl: Gli ebrei nella scienza giuridica, Berlino 1935, pp. 16 e 34.
[52] Mouffe (2018), p. 16.

mercoledì 18 giugno 2025

Differenze…

Che cos'è la comunizzazione?
- di Leon de Mattis -

Una cosa è ormai certa: nel mondo capitalista, la nostra situazione non può altro che peggiorare. Tutto ciò che prima veniva assunto come se fosse una "conquista sociale" garantita, oggi rischia di venir messo in discussione. La ragione di tutto questo non risiede in una cattiva gestione dell'economia, o in un eccesso di avidità da parte dei padroni, o in una mancanza di regolamentazione della finanza internazionale, quanto piuttosto, semplicemente nel fatto che si tratta dell'effetto inevitabile dell'evoluzione globale del capitalismo: il livello dei salari, l'accesso all'occupazione, alle pensioni, ai servizi pubblici e all'assistenza sociale sono tutte cose influenzate da un'evoluzione, per cui, ciascuno al proprio livello, ciò che prima veniva concesso, ora non è più concesso, e domani lo sarà ancora meno. In tutti i settori il processo è il medesimo per cui la nuova riforma riprende l'offensiva nel punto in cui si era fermata la riforma precedente. Tale dinamica non si inverte mai, anche nel momento in cui, dalla "crisi economica", si passa alla prosperità. La cosa ha avuto inizio dopo la grande crisi degli anni '70, ed è proseguita dopo il ritorno della crescita avvenuta negli anni '90 e 2000. Pertanto, sembra parecchio difficile immaginare che le cose possano migliorare, anche nell'improbabile eventualità che, dopo lo shock finanziario del 2008, si possa aprire una "via d'uscita dalla crisi". Eppure, di fronte a questa rapida trasformazione del capitalismo mondiale, la risposta della sinistra rimane spaventosamente debole. Per lo più, si accontenta di denunciare il cosiddetto "ultraliberismo" dei padroni, e i leader politici sembrano credere che si possano difendere le "conquiste sociali" del periodo precedente, se non addirittura di arrivare a estenderle un po' di più; se solo potessimo tornare al capitalismo di ieri, al capitalismo del dopoguerra. Per il futuro, si propone essenzialmente quello che fu il programma della Resistenza, adottato nel 1944, come se ci fosse ancora da combattere il nazismo da combattere, con i governi pronti a mollare per assicurarsi la vittoria; e soprattutto come se nella storia ci fosse già stato un qualche tipo di regressione. Pertanto, quello che viene dimenticato, è l'insieme di ciò che costituisce il rapporto sociale capitalistico nella sua dinamica attuale. Perché la crisi e la "ristrutturazione" del capitalismo (vale a dire, i cambiamenti che lo hanno interessato negli ultimi quarant'anni) rendono impossibile ritornare alle condizioni precedenti alla lotta? E, per la lotta di oggi, cosa possiamo dedurre da questo? Per poter rispondere a queste domande, bisogna fare una breve deviazione teorica: il profitto, non è solo una delle tante componenti - tra le altre - della società capitalistica, ma è la principale forza motrice, la ragion d'essere stessa di tutto ciò che esiste nel mondo sociale. Il profitto non è qualcosa che si innesta sulle attività umane, e che dirotta il prodotto del lavoro verso il capitalismo parassitario. Ma è all'origine di tutte queste attività, le quali, senza di lui non esisterebbero nemmeno; oppure, se preferite, queste attività umane esisterebbero in un modo così tanto diverso che non avrebbero nulla a che fare con le attività così come le osserviamo oggi. Non si tratta di avere un giudizio morale su questo stato di cose, ma piuttosto di comprenderne tutte le conseguenze. Non è che il profitto venga sistematicamente favorito, a scapito di ciò che sarebbe utile, buono o benefico per la società (come la salute, la cultura, ecc.); no, è proprio  la "utilità" stessa che, senza profitto, non può esistere. Nulla di tutto ciò che non sia redditizio serve al capitalismo. O, per dirla diversamente, tutto ciò che è utile può essere utile solo nella misura in cui tale utilità offre l'opportunità di generare profitto. Affermare, per esempio, nel mondo capitalistico che «la salute non è una merce», è solo un'assurdità, priva di ogni minimo accenno alla realtà. Il fatto che la Salute sia una fattore economico, è dovuto solo al suo essere redditizia; da un lato, in maniera assai generale, in quanto mantiene una popolazione attiva in buono stato di funzionamento, e dall'altro lato , in modo particolare, perché è una fonte di profitti per alcuni: ed è solo perché è veramente un settore dell'economia - e quindi una "commodity" -  che ce n'è abbastanza da poter mantenere i medici, produrre le macchine per analizzare il corpo umano, e costruire ospedali. Altrimenti, ovviamente, non ci sarebbe niente di tutto questo. Per generare profitto, il valore contenuto nelle merci deve sempre aumentare: bisogna che il valore di ciò che viene prodotto sia sempre superiore al valore che si è dovuto spendere (in materie prime, macchinari, locali, trasporti, ecc.) per produrlo. Ma ciò che viene utilizzato per produrre, se non viene aggiunto qualcosa, ha sempre lo stesso valore di ciò che viene prodotto. E questo qualcosa che viene aggiunto, è l'attività umana, l'intelligenza, la forza, l'energia muscolare spesa per assemblare e trasformare le cose disperse in un qualcosa di qualitativamente diverso da quello che avevamo all'inizio. Una simile attività deve per forza presentarsi in una forma particolare, che sia tale da poter essere acquistata in modo da poter poi essere incorporata nel valore finale di quello che viene prodotto: si tratta dell'attività umana, sotto forma di lavoro, ed è in una tale forma di lavoro che essa può così essere acquistata dal capitale. Ma - ed è qui che il capitalismo non è condivisione ma sfruttamento - il valore speso nella compravendita della forza lavoro rimane inferiore al valore che la forza lavoro fornisce. Tutto il valore prodotto, non può essere redistribuito, e pertanto "restituito" al lavoro, dal momento che il valore esiste proprio in quanto dissociazione tra il lavoro e il suo prodotto, permettendo così che venga assicurata la distribuzione ineguale del prodotto del lavoro. Ed è proprio l'esistenza di questa dissociazione tra attività e ricchezza socialmente prodotta, a rendere possibile la monopolizzazione di quest'ultima. Il "valore" delle cose non è una creazione naturale, ma è una creazione sociale. Contrariamente a quanto ci piacerebbe credere, non si tratta di una creazione sociale neutra, che esiste solo per convenienza. Il valore rimane necessario, solo perché è uno strumento di dominio. Nell'attuale modo di produzione, esso permette di catturare l'attività delle classi inferiori, a beneficio delle classi superiori. L'esistenza stessa del valore – e di quello che, storicamente, sembra essere il suo rappresentante permanente, vale a dire il denaro e la moneta – diventa una necessità solo nella misura in cui è necessario misurare ciò che deve essere preso da alcuni, per darlo ad altri. Prima del capitalismo, il valore e il denaro non erano al centro della produzione in sé, ma erano però già il segno del potere di alcuni e della debolezza di altri. Il tesoro, l'ornamento dei palazzi, o la ricca decorazione delle chiese erano un segno del potere sociale dei signori, dei califfi, o delle autorità ecclesiastiche. Il denaro e il valore sono stati - fin dagli albori delle società di classe - il simbolo del dominio, fino a diventare poi, nel capitalismo, lo strumento supremo. Pertanto, nessuna uguaglianza può derivare provenendo dall'uso di un mezzo la cui ragion d'essere è la disuguaglianza. Finché ci sarà denaro, ci saranno ricchi e poveri, potenti e dominati, padroni e schiavi. Poiché è la ricerca del profitto a richiedere che il costo di produzione sia il più basso possibile - ma che, simultaneamente, tutto ciò che è già stato prodotto e utilizzato per produrre (macchine, edifici, infrastrutture), non possa però trasmettere più di quanto sia il proprio valore - l'unica variabile che possa essere regolata è il valore della forza-lavoro. Pertanto il valore della forza-lavoro deve essere quindi ridotto al massimo: ma allo stesso tempo è solo la forza-lavoro che può fornire valore. Più volte, il capitalismo si è liberato da questa equazione insolubile, abbassando il valore della forza-lavoro solo in rapporto al  totale del prodotto, aumentando però in maniera assoluta la quantità di lavoro che impiega: è questo che rende possibile l'aumento della produttività, la razionalizzazione del lavoro, le innovazioni tecniche e scientifiche. Ma per poterlo fare, è necessario aumentare la produzione in proporzioni gigantesche, a scapito di molte cose (degli spazi naturali, per esempio). Tuttavia, una simile crescita non esiste mai su base continua, e le inversioni di tendenza finiscono per essere la causa della situazione attuale. Infatti, dal secondo dopoguerra ai primi anni '70, il capitalismo mondiale ha vissuto un periodo particolare, del quale bisogna cogliere le caratteristiche, per riuscire a capire perché oggi esso sia scomparso e perché, contrariamente alle speranze dei sindacalisti e della gente di sinistra, non tornerà mai più. All'indomani della seconda guerra mondiale, la distruzione dovuta alla guerra, e la perdita di valore causata dalla lunga crisi che l'aveva preceduta, crearono una situazione favorevole a quella che gli economisti chiamano "crescita"; la quale non è altro che questa corsa contraddittoria, avanti e indietro, tra la diminuzione relativa del valore del lavoro e la sua ascesa assoluta. Il riavvicinamento politico, reso necessario dall'alleanza antinazista durante la guerra, permise anche una forma di condivisione del potere, sia a livello mondiale (blocco orientale e occidentale) che a livello sociale, all'interno dei paesi occidentali (venne riconosciuto che i sindacati e i partiti di sinistra, avendo una certa legittimità, rappresentavano il mondo del lavoro). A quel tempo prevalse il "compromesso fordista" [*1]. Esso consisteva nel garantire, attraverso aumenti salariali, un aumento del "tenore di vita" in cambio di un forte aumento della produttività e di una maggior fatica del lavoro. Il valore della forza-lavoro impiegata, distribuito su un numero maggiore di operai, aumentava in termini assoluti, ma il valore totale di tutto ciò che veniva prodotto aumentava ancora di più, in seguito all'aumento della produzione. La vendita di tutte queste merci, fondamento di quella che allora si chiamava la "società dei consumi", permise che il plusvalore che appariva nella produzione - la base del profitto capitalistico - si trasformasse in capitale aggiuntivo che veniva poi reinvestito in modo così di produrre sempre più. Il limite, lo si trova proprio in questo «produrre sempre di più»: questa espansione contiene un limite interno: a un certo punto c'è troppo capitale da valorizzare rispetto a quello che è necessario produrre, e vendere, per mantenere un profitto. Di fatto un equilibrio dinamico è stato mantenuto per più di due decenni, fino alla metà degli anni Sessanta, quando ha avuto inizio un progressivo declino che ha portato poi alla cosiddetta “crisi petrolifera” degli anni Settanta.

Alcune brevi osservazioni su questo periodo.
In primo luogo, va detto che la "prosperità" era riservata solo all'Europa occidentale, al Nord America e al Giappone; e che anche all'interno di questi spazi privilegiati venivano escluse alcune frazioni del proletariato, come la forza lavoro appena immigrata, intensamente sfruttata e tuttavia mal pagata. In secondo luogo, la prosperità occidentale non poteva nascondere il fatto che ciò che veniva concesso al proletariato, lo era in quanto polo dominato nel rapporto sociale capitalistico. L'aumento del potere d'acquisto, è stato accompagnato dalla vendita massiccia di beni standardizzati e qualitativamente scadenti. L'espressione che emerse a quel tempo - quello di "società dei consumi" - è infelice perché invece, a essere coinvolta, era proprio una "società di produzione": la messa in circolazione di sempre più merci era indispensabile all'aumento generale del valore totale di cui abbiamo parlato, mentre la caduta del valore di ogni merce, resa possibile dalla massificazione della produzione, permetteva una diminuzione del valore relativo della forza lavoro (era necessaria sempre meno manodopera per fornire i prodotti essenziali alla vita del lavoratore). "L'alienazione" della vita quotidiana - così tanto spesso analizzata e criticata all'epoca - non era altro che la conseguenza degli imperativi della circolazione del valore. Se oggi, questo concetto di "alienazione" - che andava assai di moda trenta o quarant'anni fa - è un po' scomparso dal vocabolario contemporaneo, la realtà che esso descrive rimane ancora molto presente. L'alienazione è, letteralmente, il modo in cui il nostro mondo ci sembra estraneo (l'alieno, parola derivata dal latino, è il completamente diverso, e l'alienato è colui che non è più sé stesso). «Produrre per il gusto di produrre», è la parola d'ordine con cui l'alienazione capitalistica si rivela a noi. La produzione materiale, sembra non avere altro scopo se non sé stessa. Ma ciò che il capitalismo produce, innanzitutto, sono le relazioni sociali di sfruttamento e di dominio. Se esso appare come una produzione materiale senza altro scopo che sé stesso, ciò è perché il capitalismo traspone le relazioni tra gli uomini in rapporti tra le cose: l'assurdità della produzione fine a sé stessa, così come quello di questo potere apparente che gli oggetti esercitano sugli uomini, non è altro che l'immagine rovesciata della razionalità del dominio di una classe su un'altra; in altre parole, lo sfruttamento del proletariato da parte della classe capitalista. L'obiettivo ultimo del capitalismo non è il profitto, o la produzione fine a sé stessa, ma il mantenimento del dominio di un gruppo di esseri umani su un altro gruppo di esseri umani, ed è per garantire questo dominio che il profitto e il fatto di «produrre per il gusto di produrre» sono diventati imperativi che vengono imposti a tutti [*2]. Con il cambiamento d'epoca, avvenuto a partire dagli anni '80, l'alienazione è rimasta, ma la "prosperità" se n'è andata via. La crisi del 1973, dimostrò che la dinamica precedente si andava esaurendo. Il capitalismo non poteva più concedere quegli stessi aumenti salariali, senza ridurre il saggio del profitto. Allo stesso tempo, il proletariato non era più soddisfatto di ciò che i capitalisti gli avevano finora dato. Il periodo degli anni '60 e '70, è stato il periodo durante il quale si era sviluppata una protesta generalizzata, che aveva attaccato il lavoro e le sue condizioni, ma anche molti altri aspetti della società capitalistica. Il compromesso era stato respinto in quello che era più essenziale: scambiare un aumento del "tenore di vita" contro una totale sottomissione del proletariato nella produzione e nel consumo. La contestazione di quelli che erano i vecchi organismi di mediazione del movimento operaio - vale a dire, i sindacati, i partiti comunisti ufficiali - significava la stessa cosa: veniva messo in discussione il ruolo che il “compromesso fordista” aveva assegnato alla classe operaia. Pertanto, il capitalismo aveva dovuto liquidare la maggior parte di tutto ciò che nel periodo precedente lo aveva costituito; e per due ragioni che, in sostanza, sono identiche: la caduta del saggio del profitto e l'ascesa della protesta sociale. Le crisi e le ristrutturazioni sono servite proprio a questo scopo, in un contesto sociale e politico di quella che è stata un'ondata conservatrice e repressiva “neoliberista”, rappresentata da politici come la Thatcher o Reagan. Ma la causa di questa ristrutturazione, non è il "neoliberismo":Anzi, al contrario, è stata la ristrutturazione, essenziale al proseguimento dello sfruttamento capitalistico, a essere stata accompagnata da questo arredo ideologico. In alcuni paesi particolari, fuori dagli schemi, come la Francia, sono stati proprio i “socialisti” a dover obbedire alle ingiunzioni del capitalismo. Ora tutte le componenti della ristrutturazione stavano diventando chiare. Per prima cosa, si trattava di abbassare il costo globale del lavoro; e per fare questo era necessario trovare una forza lavoro a basso costo altrove, che non fosse nei paesi occidentali e che non avesse alle spalle tutta la storia del movimento operaio. Alcuni paesi pionieristici, come Hong Kong e Taiwan, hanno mostrato la strada. Lo sviluppo della finanza e le trasformazioni del denaro – che, dal 1971, non si basa più sull'oro – hanno fornito lo strumento necessario [* 3] allo sviluppo di un capitalismo globalmente integrato: aree dedicate alla produzione manifatturiera, altre dedicate più al consumo e alla produzione di alto livello, altre abbandonate, perché in definitiva soprannumerarie rispetto alle esigenze della circolazione del valore. Questa zonizzazione globale si è sviluppata rapidamente, fino a essere oggi frattalmente riprodotta in tutte le parti del mondo. Rispetto ai flussi mondiali, le periferie impoverite (o le inner-cities) del nucleo centrale sono l'immagine dei Paesi periferici: un'eccedenza umana di cui il profitto non sa che farsene e che deve essere rinchiusa e sorvegliata. La concorrenza mondiale ha imposto al proletariato occidentale una caduta relativa di quei benefici che erano derivati dal precedente compromesso storico. E poiché non c'è alcuna prospettiva di miglioramento, sono i discorsi polizieschi e repressivi a costituire la risposta dello Stato alle speranze perdute. L'esistenza stessa di una simile suddivisione in zone globali, ci mostra come sia impossibile imporre ai paesi di nuova industrializzazione - come l'India o la Cina - quello che era il modello degli inizi della rivoluzione industriale in Europa. Questo ragionamento un po' meccanicistico, vorrebbe che l'evoluzione, che ha interessato la classe operaia dei paesi occidentali uno o due secoli fa si trovi ora, in forma accelerata, in questi paesi. Inizialmente sovra-sfruttata e miserabile, questa classe, lottando per un aumento dei salari, avrebbe ora raggiunto un livello di prosperità che metterebbe in moto il circolo virtuoso della crescita sostenuta dallo sviluppo del mercato interno. Ma a parte il fatto che questa evoluzione è tutt'altro che auspicabile (poiché visti i limiti che stiamo raggiungendo, probabilmente non può significare altro che un disastro ecologico irreparabile), sembra in ogni caso, nelle condizioni attuali, impossibile. Lo sviluppo occidentale, che, non dimentichiamolo, è stato favorito anche dal saccheggio coloniale, non può essere ripetuto in modo identico in un'economia che è stata integrata fin dall'inizio in tutto il mondo. Il mercato interno cinese o indiano, anche se si sta espandendo in modo spettacolare, non può assorbire tutta la crescita di questi paesi che hanno un disperato bisogno di sbocchi occidentali, e persino di ricchezze occidentali; dal momento che i loro beni sono denominati in debito americano o europeo. Per dirla in modo più teorico, è l'intera massa di valore accumulato a livello mondiale (e non solo in questi paesi) che ora deve trovare il suo profitto nella produzione mondiale. Il limite che è stato raggiunto negli anni '70, si trova ancora lì. C'è troppo capitale da sfruttare, perché possa essere ristabilito l'equilibrio dinamico dei Gloriosi Trenta, e questo è altrettanto vero tanto nei paesi di nuova industrializzazione quanto nei paesi occidentali. Dopo la crisi degli anni '70, la ristrutturazione del capitalismo è consistita nel fatto che il capitale ha trovato un altro modo per migliorarsi, abbassando il costo del lavoro. Un tale sviluppo, ha necessariamente avuto un effetto assai importante sulle lotte di classe nei paesi occidentali. Nel periodo che ha preceduto la crisi degli anni '70 e la ristrutturazione, la lotta del proletariato ha avuto un duplice significato, senza dubbio contraddittorio, ma che fondamentalmente si basava però sullo stesso postulato. Da un lato, la lotta poteva perseguire obiettivi immediati, quali il miglioramento delle condizioni di lavoro, un aumento dei salari, o perfino una maggiore giustizia sociale. Ma d'altra parte, la lotta ha avuto anche l'effetto, e talvolta perfino l'obiettivo, di rafforzare il potere della classe operaia rispetto alla classe del capitale, e forse fino al punto di rovesciare la borghesia. Questi due aspetti erano in conflitto tra di loro, l'antagonismo e l'inimicizia tra i sostenitori della "riforma" e quelli della "rivoluzione" erano costanti, ma tuttavia, alla fine, era la lotta in sé stessa che poteva significare entrambe le cose. La lotta per i vantaggi immediati e la lotta per il comunismo futuro, ruotavano entrambe attorno all'idea che era attraverso il rafforzamento della classe operaia, e della sua militanza, che si poteva trionfare. Naturalmente, i dibattiti che attraversavano il movimento operaio corrispondevano ad altrettante divisioni tra i sostenitori della rivoluzione e quelli della riforma, tra i sostenitori del partito, quelli del sindacato e quelli dei consigli operai, tra i sostenitori della rivoluzione immediata e quelli della rivoluzione differita... in breve, tra leninisti, quelli di sinistra, gli anarchici, ecc. Ma ciò che li accomunava era comunque un'esperienza di lotta nella quale il proletariato, senza essere unanime, e nemmeno unito (non lo fu mai), era tuttavia una realtà sociale visibile e nella quale ogni lavoratore poteva facilmente riconoscersi e identificarsi. Ma che dire di adesso? Se, per 30 anni, il dibattito tra "riforma" e "rivoluzione" è semplicemente scomparso, ciò è perché la base sociale che gli dava un senso è svanita. La forma, che per un secolo e mezzo aveva soggettivamente portato all'esistenza il proletariato, il movimento operaio, è crollata. I partiti, i sindacati e le associazioni di sinistra sono partiti di "cittadini" e partiti "repubblicani", la cui ideologia è mutuata dalla Rivoluzione francese, vale a dire dal periodo che aveva preceduto il movimento operaio. E tuttavia, a quanto pare, né il proletariato né il capitalismo sono evidentemente scomparsi. Che cosa manca, allora?

   Certo, a prima vista possiamo dire che ciò che è cambiato, è il significato che può assumere la Vittoria. Senza idealizzare affatto i periodi precedenti, né sottovalutare le battute d'arresto, possiamo dire che la classe operaia, fin dagli inizi del capitalismo, ha condotto delle lotte che hanno portato a vere e proprie trasformazioni in quello che è stato il suo rapporto con il Capitale: da una parte relativamente a ciò che è stato concretamente conquistato – la regolamentazione della giornata lavorativa, i salari, ecc. – e dall'altra parte in riferimento all'organizzazione, del movimento operaio stesso, in partiti e sindacati. Così, l'ascesa del proletariato poteva essere alla base di ogni lotta e di ogni vittoria parziale, mentre ogni sconfitta poteva apparire come una ritirata momentanea, fino alla prossima offensiva. Certo, questa ascesa al potere è stata simultaneamente anche un'ascesa dell'impotenza: dal momento che le vittorie parziali e l'istituzionalizzazione del ruolo dei sindacati sono stati tutti fattori che ogni giorno hanno spinto sempre più lontano la prospettiva comunista, la quale nel tempo era diventata un orizzonte sempre più remoto e vaporoso [*4]. Ma, di fronte ai padroni, il quadro generale delle lotte, pur con i loro limiti, non era meno il potere della classe operaia. Per quasi trent'anni, le lotte sono state esclusivamente difensive. Ogni vittoria ritardava solo la sconfitta annunciata. La dinamica, per la prima volta in due secoli, consisteva esclusivamente nel declino del potere della classe operaia. L'attuale emblema della lotta operaia vittoriosa è la Cellatex: la lotta radicale per l'indennizzo nel momento in cui il posto di lavoro viene liquidato. La vittoria qui significa solo la fine di ciò che ha reso possibile la lotta; il fatto di essere i dipendenti della stessa azienda, ora chiusa, e non più l'inizio di qualcosa. Ma c'è di più. Le trasformazioni del lavoro negli ultimi trent'anni, sotto l'effetto della disoccupazione di massa, hanno modificato il rapporto che il salariato aveva con il proprio lavoro e, di conseguenza, il rapporto che il proletariato ha con sé stesso. L'occupazione, ha sempre meno lo status di riferimento che aveva nel dopoguerra (cosa che peraltro ha fornito alla critica radicale del lavoro il contenuto di una critica della società capitalistica in quanto tale). Non si ha più una posizione per tutta la vita. Nessun percorso di carriera, è garantito. Il dipendente dovrebbe "evolversi", formarsi, cambiare luogo di lavoro, e lavoro. La precarietà diventa la norma. La disoccupazione non è più la negazione del lavoro, ma solo un momento di esso, un passaggio che, nella propria vita, ogni lavoratore sperimenterà più volte; e addirittura, per molti, è il lavoro che diventa un complemento parziale e transitorio della disoccupazione. All'interno delle aziende, gli status e le condizioni differenziate si stanno moltiplicando. L'esternalizzazione dei compiti, il ricorso a subappaltatori e alle agenzie di lavoro interinale, frammenta e divide i lavoratori in molteplici categorie. Così facendo, la lotta diventa difficile, poiché è l'unità stessa di coloro che devono lottare insieme a essere problematica fin dall'inizio; mentre, come nel periodo precedente agli anni '70, questa unità viene in qualche modo presupposta (e questo indipendentemente dalle divisioni che non hanno mancato di verificarsi). L'unità degli attori della lotta, è ora la lotta che la costruisce in quanto uno dei mezzi necessari per raggiungere i suoi fini. Questa unità non è mai scontata e, inoltre, anche una volta acquisita temporaneamente, rimane soggetta alle possibilità di divisione che già esistevano al momento in cui era stata presupposta. La lotta è quindi più difficile, ma c'è un'altra differenza ancora più importante: la lotta non porta agli stessi risultati di  prima. Ciò perché l'unità, prima della lotta, non viene presupposta, non si trova nemmeno inclusa in quelli che sono gli obiettivi ufficiali della lotta. Una certa idea del miglioramento della condizione della classe operaia, o del proletariato in generale, non fa più parte dell'orizzonte della lotta, o lo si trova solo nell'orizzonte delle lotte difensive, il cui fallimento è programmato (le lotte per le pensioni, ad esempio). Del resto, le lotte vittoriose lo sono solo nella misura in cui perseguono un obiettivo immediato e parziale, diremmo addirittura individuale. Nel capitalismo, non si ottiene più alcun miglioramento collettivo rispetto alla nostra situazione, ma un miglioramento individuale, il quale non fa più parte della prospettiva di una difesa della condizione della classe operaia, e pertanto può essere solo transitorio. Inoltre, la fine della lotta, sia che avvenga per vittoria, che per sconfitta, significa la fine dell'unità costruita nella lotta, e quindi decreta l'impossibilità di continuarla, o di riprenderla come tale; tutto questo mentre il periodo precedente dava la sensazione di un senso di progressione che sembrava rendere possibile la "capitalizzazione" delle lotte, vale a dire, il graduale accumularsi del risultato vittorioso delle lotte passate. Può essere stata un'illusione, ma in ogni caso contava su ciò che le persone potevano pensare della propria lotta, e delle sue possibili conseguenze [*5]. In un certo senso, possiamo dire che oggi ogni lotta di classe incontra il suo limite nel fatto che consiste nell'azione di una classe che non trova più - nel suo rapporto con il capitale - ciò che un tempo sembrava invece costituire la sua ragion d'essere e il suo potere: il fatto che incarnava collettivamente il lavoro. Questo rapporto distante ed - per dirla senza mezzi termini - esterno rispetto al proprio lavoro, ossia con il proprio essere proletario, influenza il modo in cui si può lottare, e vincere nella lotta. Tutto ciò che guadagniamo è una perdita rispetto alle condizioni stesse della lotta. Questo stato di cose sembra essersi definitivamente stabilito, e sarebbe un errore credere che invece era necessario ristabilire prima l'unità del proletariato, prima della lotta, per poter così ottenere da quest'ultimo un'azione efficace. L'unità esiste temporaneamente, ma solo nella lotta e tra gli attori della lotta, senza che intervenga necessariamente alcun riferimento alla comune appartenenza a una classe sociale. La "coscienza di classe", non è un dato di fatto che possa essere ricreato dalla propaganda politica, dal momento che è sempre esistita solo in relazione a uno stato specifico dei rapporti sociali capitalistici. Questa relazione è cambiata, così come la coscienza. Ora, dobbiamo schierarci dalla nostra parte.

   E dobbiamo schierarci dalla nostra parte, tanto più che questa nuova situazione ci costringe a rivedere le nostre concezioni del comunismo e della rivoluzione, e a comprendere, in modo critico, com'erano nel periodo precedente. Infatti, nel momento in cui l'identità proletaria è stata confermata dal rapporto del proletariato con il capitale, la concezione di cambiamento radicale che si è imposta in modo massiccio – e che è stata ampiamente condivisa da tutti,  dai riformisti ai rivoluzionari, dagli anarchici ai marxisti – è stata quella di una vittoria del proletariato sulla borghesia, ottenuta con vari metodi in seguito a una mobilitazione del potere della classe operaia (azione e organizzazione sindacale; conquista elettorale del potere; azione del partito d'avanguardia; autorganizzazione del proletariato...). Questa visione, ripetiamolo, offriva una prospettiva tanto al riformismo quanto alla rivoluzione e permise loro, al di là della loro contrapposizione, di situare le loro dispute su uno sfondo comune. Ed é per questo che, come abbiamo detto, la prospettiva rivoluzionaria e la prospettiva riformista antiquata sono scomparse insieme dal campo della politica ufficiale. Oggi, quando parliamo di riforma, dalla destra all'estrema sinistra dello spettro politico, ci riferiamo a una riforma della gestione del capitalismo, e non più a qualcosa che porterebbe a una rottura con il capitalismo. In una forma innegabilmente ideologizzata, ma la cui esistenza era significativa, quest'ultima idea si trovava ancora nei programmi dei partiti socialisti fino agli anni '70. Da allora, questa prospettiva è stata semplicemente dimenticata. Ora possiamo capire come, sia la prospettiva riformista che quella rivoluzionaria, fossero un vicolo cieco, dal momento che vedevano la rivoluzione comunista come la vittoria di una classe su un'altra, e non come la scomparsa simultanea delle classi. Da qui nasceva l'idea tradizionale del periodo di transizione, nel quale il proletariato, una volta che ha vinto, assume la direzione della società per un periodo intermedio. Storicamente, sappiamo che ciò ha effettivamente portato all'instaurazione di un capitalismo di Stato in stile sovietico, dove la borghesia è stata sostituita da una classe di burocrati legati al Partito Comunista, e la classe operaia rimaneva in effetti sfruttata e costretta a fornire il plusvalore richiesto. Tuttavia, va notato come questa idea di un periodo intermedio sia più ampia dell'idea, strettamente marxista, della "dittatura del proletariato", e ciò perché, in vari modi, i riformisti (che contavano su una presa del potere attraverso le urne), e persino gli anarco-sindacalisti (che pensavano una presa del potere da parte delle strutture sindacali), non si ponevano al di fuori di questo quadro di pensiero. Anche per loro si trattava del trionfo del proletariato - democratico, attraverso gli organi statali, per i riformisti, o attraverso la lotta, con le proprie organizzazioni (sindacali), per gli anarcosindacalisti - cosa che avrebbe dato loro il tempo di trasformare la società attraverso il dominio. Sono stati i dissidenti, sia del campo anarchico che di quello marxista, a elaborare gradualmente una teoria dell'immediatezza della rivoluzione e del comunismo. Sulla base delle loro esplorazioni teoriche di allora, e con il senno di poi della recente trasformazione del capitalismo, siamo oggi in grado di capire come il comunismo possa essere solo la scomparsa simultanea delle classi sociali, non il trionfo, seppur transitorio, di una sull'altra. L'attuale periodo, ci offre una nuova concezione sia della rivoluzione che del comunismo, la quale scaturisce da tutte quelle correnti critiche dissidenti che esistevano già all'interno del precedente movimento operaio, e che l'evoluzione del capitalismo ci mostra come si sono adattati a ciò che è oggi la lotta proletaria. Dato che l'esperienza proletaria quotidiana fa sì che l'appartenenza alla classe tenda ad essere vissuta come una costrizione esterna, ecco che la lotta per difendere la propria condizione viene confusa con la lotta contro la propria condizione. Sempre più spesso, nelle lotte, compaiono pratiche e contenuti che possono essere analizzate in tal modo. Non si tratta necessariamente di affermazioni radicali, o drammatiche. Ma sono altrettante pratiche di fuga, lotte in cui i sindacati vengono screditati e fischiati, ma dove non si dà alcun tentativo di sostituirli con qualcos'altro poiché sappiamo che non c'è nulla da mettere al loro posto; si tratta di rivendicazioni salariali che si trasformano nella distruzione dello strumento di lavoro (in Algeria, in Bangladesh), di lotte in cui non chiediamo il mantenimento dei posti di lavoro bensì un risarcimento (Cellatex e tutto ciò che ne è seguito), di lotte in cui non chiediamo nulla ma in cui ci ribelliamo contro tutto ciò che costituisce la nostra condizione di vita (le "rivolte" nelle periferie francesi nel 2005), ecc. A poco a poco, in queste lotte, emerge una messa in discussione, attraverso la lotta, del ruolo che ci viene assegnato dal capitale. I disoccupati di una certa collettività, gli operai di una certa fabbrica, gli abitanti di un particolare quartiere possono organizzarsi come disoccupati, operai, abitanti, ma assai rapidamente emerge che è proprio questa identità ciò che deve essere superato, affinché la lotta continui. Ciò che è comune, l'unità, proviene dalla lotta stessa, e non dalla nostra identità nel Capitale. In Argentina, in Grecia, in Guadalupa, ovunque la difesa di una condizione particolare è apparsa largamente insufficiente, vediamo che ogni condizione particolare non può più essere identificata con una condizione generale. Anche il fatto di essere "precari", non può costituire una figura centrale nella lotta in cui tutti possano riconoscersi. Non esiste uno "status" del precario, da riconoscere o difendere, perché essere precari - che si tratti di una situazione subita o scelta, o un po' di entrambe le cose - non è una nuova categoria sociale, quanto piuttosto una delle realtà che contribuisce alla produzione di appartenenza di classe in quanto costrizione esterna.

   Se, dunque, una rivoluzione comunista oggi è possibile, essa non può che nascere in questo contesto molto particolare: essere proletario viene vissuto come una forma esterna a ciò che si è, sebbene, nel capitalismo, se si deve vendere la propria forza-lavoro, e qualunque sia la forma di questa vendita, non si può essere altro che proletari. Una situazione del genere crea facilmente la falsa idea che possa essere altrove - in un modo di vita più o meno alternativo - che il comunismo può essere creato. Non è affatto un caso che una minoranza, che nei paesi occidentali comincia a essere socialmente consistente, cada facilmente in questo sogno, e immagini di schierarsi contro il capitalismo, e di combatterlo, con questo metodo. Ma la relazione sociale capitalistica consiste nella dinamica totalizzante del nostro mondo, e non c'è nulla che le sfugga. Il superamento di tutte le condizioni esistenti può avvenire solo a partire da una fase di lotta intensa e insurrezionale, durante la quale le forme della lotta e le forme della vita futura prenderanno corpo in un unico e medesimo processo, essendo queste ultime nient'altro che le prime. Questa fase, e la sua attività specifica, è ciò che proponiamo di chiamare con il nome di comunizzazione. La comunizzazione non esiste ancora, ma è tutta la fase della lotta attuale che abbiamo appena menzionato che ci permette di parlarne ora. In Argentina, durante la lotta che ha seguito le rivolte del 2001, sono state scosse le determinazioni del proletariato, come classe, in questa società: la proprietà, gli scambi, la divisione del lavoro, i rapporti tra uomini e donne... Poiché la crisi era allora limitata a questo solo paese, questa lotta non ha mai attraversato le frontiere: eppure la comunizzazione può esistere solo in una dinamica di allargamento senza fine. Se si ferma, morirà, almeno momentaneamente. Ma le prospettive per il capitalismo, dopo la crisi finanziaria del 2008 – una prospettiva che è molto cupa per esso a livello globale – ci porta a credere che la prossima volta il collasso del denaro non si limiterà all'Argentina. Ciò non vuol dire che il punto di partenza sarà necessariamente una crisi valutaria, ma piuttosto ci porta a considerare che, nella situazione attuale, molti punti di partenza sono ipotizzabili, e che la grave crisi monetaria che si profila è senza dubbio uno di questi. A nostro avviso, la comunizzazione sarà il momento in cui la lotta renderà possibile - come uno dei mezzi della sua continuazione - la produzione immediata del comunismo. Per comunismo, intendiamo un'organizzazione collettiva liberata da tutte le mediazioni che, in questo momento, servono alla società per collegare gli individui: denaro, Stato, valore, classi, ecc. Questo perché tutte queste mediazioni non hanno altro scopo se non quello di consentire lo sfruttamento. Anche se vengono imposte a tutti, sono del resto utili solo a pochi. Il comunismo sarà quindi il momento in cui gli individui si relazioneranno direttamente gli uni con gli altri, senza che le loro relazioni interindividuali siano oscurate da categorie a cui tutti dovrebbero sottomettersi. Va da sé che questo individuo non sarà l'individuo come lo conosciamo - quello della società del capitale - ma un individuo diverso prodotto da una forma di vita diversa. Per comprendere questo punto, bisogna ricordare che l'individuo umano non è una realtà intangibile risultante dalla "natura umana", bensì una produzione sociale, e che ogni periodo della storia ha prodotto il suo tipo di individuo. L'individuo del capitale è colui che è determinato dalla quota di ricchezza sociale che riceve: questa determinazione è subordinata al rapporto tra le due grandi classi del modo di produzione capitalistico, il proletariato e la classe capitalistica. La relazione tra le classi viene prima, l'individuo è prodotto come conseguenza; contrariamente alla convinzione diffusa che le classi siano raggruppamenti di individui preesistenti. Pertanto, l'abolizione delle classi sarà l'abolizione delle determinazioni che fanno dell'individuo del capitale quello che esso è: colui che gode individualmente ed egoisticamente della parte della ricchezza creata in comune. Naturalmente, questa non è l'unica differenza tra capitalismo e comunismo: la ricchezza creata nel comunismo sarebbe qualitativamente diversa da quella che il capitalismo è in grado di creare. Il comunismo non è un modo di produzione, nel senso che le relazioni sociali non sono determinate dalla forma che assume il processo di produzione degli oggetti necessari alla vita, ma al contrario sono le relazioni sociali comuniste a determinare il modo in cui gli oggetti necessari vengono prodotti. Noi non sappiamo, e non possiamo sapere, e quindi non cerchiamo di sapere come sarà effettivamente il comunismo. Sappiamo solo cosa, in negativo, attraverso l'abolizione delle forme sociali capitaliste, non sarà. Il comunismo è un mondo senza denaro, senza valore, senza Stato, senza classi sociali, senza dominio e senza gerarchia; e il che richiede che le vecchie forme di dominio che sono state integrate nel funzionamento stesso del capitalismo - come è avvenuto col patriarcato - vengano superate, e che il comunismo debba simultaneamente essere anche il superamento congiunto della condizione maschile e femminile. Va da sé che, nel comunismo, che è fin dall'inizio globale, qualsiasi forma di divisione comunitaria, etnica, razziale, o di altro tipo è ugualmente impossibile. Se non siamo in grado di prevedere e di decidere quali saranno le forme concrete del comunismo, ciò è perché le relazioni sociali non nascono mai da un solo cervello, per quanto brillante possa essere, ma possono risultare solo da una pratica sociale massiccia e generalizzata. È questa pratica che chiamiamo comunizzazione. La comunizzazione non è un fine, non è un progetto; Non è altro che un cammino, ma nel comunismo il fine è il cammino, e il mezzo è il fine. La rivoluzione è precisamente il momento in cui usciamo dalle categorie del modo di produzione capitalistico. Questa uscita è già annunciata nelle lotte attuali, ma in realtà non esiste, nella misura in cui solo un'uscita di massa, che distrugge tutto ciò che incontra sul suo cammino, può essere un'uscita. La comunizzazione - non possiamo dubitarne - sarà un processo caotico. Questo perché la società di classe non morirà senza difendersi in molteplici modi, e la storia ci insegna che la ferocia di uno Stato che cerca di difendere il suo potere è illimitata – tutto ciò che è stato più atroce e disumano dagli albori dell'umanità è stato fatto dagli Stati. È solo in questa lotta fino alla morte, e nelle sue necessità, che l'ingegno illimitato, che può essere liberato dalla partecipazione di ogni persona all'opera della propria liberazione, troverà le risorse per combattere il capitalismo e creare il comunismo in uno stesso movimento. Le pratiche rivoluzionarie della gratuità, dell'abolizione del valore, dello scambio e di tutti i rapporti mercantili nella guerra contro il capitale, costituiscono l'arma decisiva per integrare, attraverso misure di comunizzazione, la maggioranza degli esclusi, delle classi medie e delle masse contadine più povere, in breve, per creare nella lotta quell'unità che non esiste più nel proletariato. E' anche ovvio che la corsa in avanti, rappresentata dalla creazione del comunismo, morirà se si vorrà interromperla. Ogni forma di capitalizzazione delle "conquiste della rivoluzione", ogni forma di socialismo, ogni forma di "transizione", concepita come una fase intermedia prima del comunismo, come una "pausa", diventerò la controrivoluzione, prodotta non dai suoi nemici, ma dalla rivoluzione stessa, e su cui il capitalismo morente cercherà di fare affidamento. Il superamento del patriarcato provocherà uno sconvolgimento tale che dividerà il campo dei rivoluzionari stessi, perché ovviamente quella che verrà cercata non sarà "l'uguaglianza" tra uomini e donne, ma la pura e semplice abolizione delle distinzioni sociali basate sul sesso. È per tutte queste ragioni che la comunizzazione apparirà come una "rivoluzione nella rivoluzione". Solo la molteplicità delle misure di comunizzazione, prese in tutti i luoghi e da tutti i tipi di persone, le quali, quando sono una risposta adeguata a una data situazione, si generalizzano senza che nessuno sappia chi le ha create e chi le ha trasmesse, può fornire un modo adeguato di organizzazione per questa rivoluzione. La comunizzazione non sarà democratica, perché la democrazia, anche la democrazia "diretta", è anch'essa una forma che corrisponde solo a un tipo di rapporto tra l'individuo e la collettività, precisamente quel tipo che il capitale ha spinto al suo estremo, e con cui il comunismo romperà. Le misure di comunizzazione non saranno prese da nessun organismo, da nessuna forma di rappresentanza di nessuno, da nessuna mediazione. Le misure di comunizzazione saranno prese da tutti e nessuno. Saranno presi da tutti coloro che, in un dato momento, prenderanno l'iniziativa di cercare una risposta che considereranno adeguata a un problema di lotta – e i problemi della lotta saranno anche i problemi della vita, come mangiare, come vivere, come condividere con tutti, come lottare contro il capitale, ecc. Ci saranno dibattiti, divergenze, lotte interne: la comunizzazione sarà anche una rivoluzione nella rivoluzione. Non c'è un organo che risolverà questi conflitti: è la situazione che deciderà, ed è, post festum, la storia che saprà chi ha avuto ragione. Questa conclusione può sembrare brusca: ma è che non c'è altro modo per creare un mondo.

- Leon de Mattis - Pubblicato su SIC INTERNATIONAL JOURNAL FOR COMMUNISATION

NOTE:

↑1    Henry Ford, un grande capo americano, aveva sostenuto nel periodo tra le due guerre l'idea che i salari e la produttività dovessero essere aumentati per sviluppare sia la produzione che il mercato che potesse assorbirla.
↑2    E anche ai capitalisti, che non sono padroni delle regole che li rendono padroni.
↑3    Il capitalismo finanziario non è affatto una conseguenza parassitaria del capitalismo produttivo, contrariamente a quanto la vulgata di sinistra vorrebbe farci credere. Al contrario, è indispensabile per l'esistenza del capitalismo produttivo stesso. L'enorme sviluppo della finanza a partire dagli anni '70 ha, tra le altre cose, reso possibile la circolazione globale e istantanea del capitale, uno strumento necessario per l'integrazione globale dei cicli di produzione e consumo.
↑4    Alcuni libertari o comunisti consiliari non esitarono a denunciare il tradimento dei dirigenti sindacali. Ma un tale "tradimento" era inscritto nell'istituzionalizzazione del movimento operaio implicita nell'affermazione del suo potere da parte del proletariato. I dirigenti sindacali erano traditori in quanto, per rafforzare il proprio potere, accettavano di assumere un certo ruolo; Ma non hanno creato questo ruolo. Denunciare semplicemente il loro "tradimento" non è sufficiente, nella misura in cui potrebbe indurre a pensare che altri leader più onesti avrebbero potuto agire diversamente.
↑5    Le lotte di classe nei paesi di recente industrializzazione, come la Cina, l'India, il Bangladesh o la Cambogia, possono essere diverse, dal momento che le lotte che si svolgono lì, ad esempio quelle per i salari, consentono ancora vittorie che hanno una portata molto ampia, ma mai abbastanza ampia, nel capitalismo globalmente integrato. modificare veramente le caratteristiche del rapporto sociale capitalistico. Queste lotte non sono una ripetizione delle lotte che hanno avuto luogo in Europa nei primi giorni del capitalismo, se non altro perché non possono più essere inscritte nella prospettiva rivoluzionaria che è stata quella degli anni '40 e '70 dell'Ottocento.