venerdì 26 dicembre 2025

Lavoro & Attività–Merci & Beni…

Il Feticcio-Lavoro e l'antisemitismo
- di Lothar Galow-Bergemann -

La Società del Lavoro
    La legge suprema della nostra società non sta scritta da nessuna parte, e tuttavia la conoscono tutti: dobbiamo lavorare tutta la vita per guadagnare soldi e poter così vivere. Questo lavoro, e il rapporto positivo che abbiamo con esso, ci sembrano essere una legge naturale. Ma l'origine della parola "lavoro", nelle diverse lingue, dovrebbe invece preoccuparci. L'antica parola greca ponein (lavorare) deriva da ponos (fatica o peso), le parole francesi e spagnole per travail / trabajo derivano dal latino volgare tripalare, che significa semplicemente "tormentare, impalare". In russo, lavoro si dice "rabota", che deriva dal "rab", "lo schiavo". E la parola germanica "arba" significa semplicemente "il servo". Nei tempi antichi, la gente pensava in modo assai diverso rispetto a oggi. Non era il "lavoro", a essere socialmente riconosciuto, ma quello che non aveva bisogno di "lavorare". Secondo l'opinione dominante, questo era l'unico modo per poter essere una persona libera e sociale. Ovviamente, ero pochissimi quelli che potevano permetterselo, e la stragrande maggioranza viveva nella miseria. Ma è del tutto falso sostenere che il lavoro sia sempre stato considerato un ideale, alla stregua di come lo è oggi. Una simile evoluzione, è il risultato di una lunga storia a cui ha contribuito il cristianesimo. Martin Lutero (1483-1546), ad esempio, era un vero e proprio fanatico del lavoro: «L'uomo nasce per lavorare, allo stesso modo in cui un uccello nasce per volare», diceva, così come diceva «l'ozio è un peccato contro i comandamenti di Dio» (da "Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca", 1520). Quel lavoro, che oggi diamo così tanto per scontato, è anche strettamente legato all'esercito e alla guerra. I primi lavoratori salariati nel senso moderno del termine furono i Lanzichenecchi degli eserciti permanenti, ai quali i principi assolutisti pagavano uno stipendio; in altre parole, i soldati. La storia del lavoro è una storia di violenza. Dal momento che i salari dei primi operai di fabbrica, erano sufficienti per più di una giornata, ecco che allora, naturalmente, andava a finire che essi non si presentavano per il più a lungo possibile in quell'inferno di 16 ore lavorative.

   Ma poiché il capitalismo non può funzionare in un simile modo, ecco che le persone sono state costrette, attraverso metodi brutali, a sottomettersi al regime del lavoro. I tagli salariali, costrinsero persino i bambini ad andare in fabbrica, per far sì che la famiglia potesse sopravvivere. Per "imparare a lavorare", il sistema giudiziario imponeva delle pene brutali anche per i reati più lievi. I delinquenti venivano pertanto incatenati dentro delle fosse che poi si riempivano d'acqua. Per evitare di affogare, dovettero accettare di lavorare per ore, senza interruzioni. Altri dovevano lavorare impiegando la forza dei loro vitelli nei mulini ad acqua fino allo sfinimento, sotto la sferza della frusta. Le "case di correzione" erano delle «case di lavoro forzato - per mendicanti inveterati e oziosi incalliti, dannosi per la società - dentro i quali questi ultimi erano costretti a lavorare» ("Meyers Konversationslexikon," 4ª edizione, 1888/90). Possiamo trovare molti racconti strazianti sulla storia, purtroppo in gran parte dimenticata, dell'imposizione del lavoro ne "Il libro nero del capitalismo. Il canto del cigno dell'economia di mercato", di Robert Kurz. (1999) (in pubblicazione da Crise & Critique nel 2027). Tuttavia, le persone che nel XIX° secolo crearono il movimento operaio, avevano smesso di opporsi al lavoro. Si identificavano persino con esso, e ne erano anche orgogliosi. Alcune voci ragionevoli, come quella di Paul Lafargue avevano già perso in partenza: «Una strana follia possiede le classi operaie delle nazioni in cui domina la civiltà capitalistica. È una follia che porta con sé miserie individuali e sociali che da due secoli stanno torturando la triste umanità. Questa follia è l’amore del lavoro, la passione esiziale del lavoro, spinta sino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie.»(Paul Lafargue: Il diritto alla pigrizia, 1880.) Nei due secoli successivi, il lavoro venne letteralmente canonizzato in tutta la società e in tutti i campi politici. Oggi, un manifesto con su scritto "Lottiamo perché si sia un lavoro per ciascuno" può provenire tanto dal sindacato IG Metall quanto dal partito CDU. E che cosa si deve aspettare chiunque ottenga un così tanto ambito lavoro? I titoli dei giornali, riflettono su ciò che molti, per loro esperienza, conoscono fin troppo bene: "Burnout. Quando il lavoro ti fa ammalare"; "Una persona su due si lamenta della pressione dovuta al tempo di lavoro"; "Infarto a causa degli straordinari"; "Uno su quattro deve lavorare nei fine settimana, e uno su sei lavora a turno"; "Dipendenti insoddisfatti. Non vogliono andare a lavorare"; "Come uscirne vivi"; "I lavoratori più anziani vogliono andarsene il prima possibile"; "Fuggire dalla vita quotidiana, viaggiare lontano, provare qualcosa di completamente nuovo; molti lo sognano" (si veda anche: Peter Samol, "Die Leistungsdiktatur. Wie der Konkurrenzdruck unser Leben zur Hölle macht", 2021).

   Se dovesse dipendere dalle persone, solo il 2% di loro andrebbe in pensione dopo i 65 anni, e la maggior parte vorrebbe fermarsi molto prima (Die Welt, 17 maggio 2014). E qual è la risposta? Pensionamento a 67, 68, 70, 75 anni – tutto questo viene seriamente discusso. Chi oggi ha meno di 40 anni, lo sa già: a 80 anni non riceverà una pensione che gli possa permettere di vivere. E questo è un segreto di pulcinella. Ed è uno scandalo enorme. Anche perché robot e i computer, da decenni, non hanno fatto altro che migliorare sempre più. Da domani potremmo produrre, letteralmente, ancora più beni e con ancora meno lavoro. Eppure, ci viene chiesto di lavorare sempre più a lungo. Che assurdità! Ma questa non è colpa del Cancelliere Federale, o del Presidente del Consiglio di Amministrazione della Deutsche Bank, bensì dell'assurda logica della "nostra economia". Per comprendere meglio questa logica, facciamo un esperimento mentale . Supponiamo che abbiamo comprato una pentola a pressione, e abbiamo preparato un pasto delizioso. Non solo questo pasto è assai meglio rispetto a quello prodotto dalla vecchia casseruola, ma contiene anche più vitamine e, cosa più importante, è già pronto in cinque minuti, anziché nei venti di prima. E ora, che cosa ce ne facciamo, in modo ragionevole, del quarto d'ora guadagnato? Facciamo un pisolino, annaffiamo i fiori, chiamiamo la nostra ragazza...?  Comunque sia, usiamo quel tempo risparmiato per fare altro. La logica della "nostra economia", invece,  non segue questa idea. Invece ci ordina: «Non ti addormentare, piuttosto è meglio che tu prepari quattro pasti deliziosi in 20 minuti!» - «Ma perché, io non ne ho bisogno, a me uno basta.» - «Ciò di cui hai bisogno, non conta. Devi cercare acquirenti, cercare acquirenti, cercare acquirenti!». Ma perché succede tutto questo? Semplice, perché la merce è la forma germinale della nostra società. Ed è rispetto a questo che la nostra coscienza quotidiana ci gioca un secondo scherzo. Ed è proprio come confondere lavoro e attività, non fa alcuna distinzione tra merci e beni. Tuttavia, i beni sono solo beni. La forma di merce, invece, nasconde un'intera relazione sociale. Presuppone che i proprietari di merci siano isolati l'uno dall'altro, suppone che essi non lavorino per i propri bisogni, ma piuttosto per un potere anonimo dal quale dipende il loro benessere e la loro sfortuna: il mercato. La maggior parte di loro, possiede solo e nient'altro che la merce "forza lavoro" e deve pertanto sperare che il mercato del lavoro si interessi a essa. L'economia da cui dipendiamo, viene giustamente chiamata "economia di mercato". Un'altra parola, per esempio, è capitalismo. Sarebbe peraltro preferibile parlare consapevolmente ed esplicitamente di capitalismo, anche perché dobbiamo capire cos'è che dà il nome a questo "ismo": il capitale. Ha una logica interna propria, sconosciuta a qualsiasi altro sistema economico esistito prima. Il capitalismo deve crescere costantemente. Se smette di crescere, entra immediatamente in crisi. Nella feroce competizione del mercato, il capitale si impone solo se dispone di sufficienti mezzi di investimento per razionalizzare il più possibile, cioè se riesce a salvare il lavoro. È questo l'unico modo per offrire un prezzo migliore rispetto a quello  dei concorrenti. Per generare i mezzi di investimento che gli permettano di mantenersi davanti ai concorrenti, il capitale deve ottenere il massimo profitto possibile. Ma poiché ogni singolo capitale deve fare esattamente la stessa cosa, altrimenti scompare, ecco che il sistema, nel suo insieme, genera inevitabilmente una spirale infinita di accumulazione di capitale (concentrazione). Crescita illimitata e profitto massimo, sono il DNA di un'economia di mercato. E i mercati sono i veri padroni del capitalismo.

   Ma, a dominare, non ci sono sempre delle persone che dominano? Questo era il caso prima del capitalismo, ma poi le cose sono cambiate. Sì, certo, nel capitalismo ci sono quelli che nuotano nel denaro, e ci sono quelli che soffrono la fame. Ci sono "quelli sopra" e "quelli sotto", i potenti e gli inermi. Eppure, anche quelli più potenti non possono sovrascrivere la logica del capitale, anche se volessero. Il capitalismo è una forma di dominio astratto. All'ex CEO di BMW Eberhard von Kuenheim, venne una volta chiesto se sapesse che c'erano troppe auto, e che il pianeta non poteva più sopportare di costruirne altre. La sua risposta: «Potrebbero anche esserci troppe auto al mondo, ma ci sono ancora troppo poche BMW» (Bayernkurier, 7 marzo 2016). Senza volerlo, egli così riassunse quella che è la logica assurda del capitalismo. Ovviamente, i leader di VW, Daimler e Toyota devono dire la stessa cosa. E insieme a loro, lo devono dire anche i lavoratori del gruppo coinvolto. Per quanto un'operaia possa aver rinunciato alla sua auto, per ragioni ecologiche, continua a essere nel suo interesse che BMW costruisca e venda quante più auto possibile. Il suo sostentamento, e quello della sua famiglia dipendono dal suo lavoro. I sindacati e il consiglio aziendale ne sono ben consapevoli. L'accumulo riuscito di capitale non porta solo a dei profitti, ma anche a dei posti di lavoro. La società, nel suo insieme, è ostaggio della crescita eterna e del massimo profitto. Senza questo, lo Stato ovviamente non sarebbe in grado di agire, poiché può generare il suo elisir di vita, le tasse, solo se la mega-macchina è costantemente in funzione. La logica della società capitalista, è assurda e suicida: stiamo andando dritti verso il muro, ma non possiamo uscirne, perché viviamo in questa frenesia. Il movimento per la protezione del clima, sta attualmente vivendo questo fenomeno, particolarmente doloroso, quando si tratta di occupazione.

Identificazione nel lavoro
    Nonostante tutti i conflitti di interesse tra capitale e lavoro, alla fine i due si trovano comunque sulla stessa barca, quella della valorizzazione del capitale. Il lavoro, non è né una "attività", né una «contraddizione antagonista (inconciliabile) con il capitale». Ma è, piuttosto, il principio formale dominante una società di produttori e di venditori di merci. Il punto di partenza, e l'obiettivo di questa società di merci, è l'accumulazione di capitale visto come fine in sé. In un'altra società, il cui punto di partenza, e il cui obiettivo, non sarebbe la ricchezza astratta dell'accumulazione di capitale, bensì la soddisfazione dei bisogni umani, l'unico scopo dell'attività sarebbe la ricchezza materiale di cui abbiamo bisogno per vivere. E pertanto, allora, non lavoreremmo e produrremmo merci, ma faremmo un business utile e produrremmo beni. Il lavoro e le merci sono i feticci che ci dominano. Abbiamo creato questa dominazione, ma non ne siamo consapevoli, e quindi la consideriamo "naturale" e "completamente normale". A differenza di un'ideologia, ad esempio, questo feticismo non può essere superato solo grazie alla riflessione intellettuale. Ma tuttavia, senza una critica ponderata del capitalismo, non siamo nemmeno consapevoli del carattere feticistico di questa dominazione, e non riusciamo neanche a immaginare che essa sia creata dall'uomo, e che pertanto possa essere abolita. Ma non importa se tu comprendi o meno questo feticismo: in una società capitalista, a dipendere dal loro lavoro, è quasi la vita e lo status sociale di tutti. Senza il mio lavoro, non sono nulla. Lo sappiamo e lo sentiamo. È facile identificarsi con il proprio lavoro, soprattutto perché sembra essere quasi una sorta di legge naturale. Anche se segretamente lo odiamo. Non è un caso che alla domanda «Chi sei?» nessuno risponda: «Sono un padre» oppure «Sono qualcuno a cui piace fare escursioni, suonare musica, pensare o ballare», ma piuttosto «Sono una venditrice, un macchinista, un insegnante, un concessionario d'auto». Seguo il mio lavoro. Così, il loro rapporto con l'identità sul lavoro, impedisce alle persone di vedere oltre il capitalismo. Finché restano prigionieri di questa prigione mentale, non importa che cosa "il popolo" abbia da dire. In Svizzera, famosa per i suoi referendum, una larga maggioranza ha votato contro le sei settimane di ferie pagate per tutti. Questa non sembrava fosse esattamente la transizione verso una società senza classi. Ma l'argomento era: «Più ferie significa meno posti di lavoro.» Grottesco. L'identificazione con il lavoro, spinge le persone a rinunciare a una vita migliore. Essi sono costantemente perseguitati dalla paura di diventare "inutili" per il mercato, e di sprofondare nel nulla. Eppure, a loro, questa situazione sembra naturale e senza alternative. Quando sentono che qualcosa non va nella società, essi danno la colpa ai singoli "colpevoli", e alle "cattive politiche", senza mai nemmeno considerare i vincoli strutturali dell'economia. Se le crisi si accumulano, ciò sembra a loro, ancor di più, non avere nulla a che fare con il dominio del lavoro, delle merci, del mercato e del capitale. La visione ristretta delle persone, può poi, rapidamente, trasformarsi in teorie del complotto. Fantasticano su delle forze oscure con intenzioni malvagie le quali vogliono loro fare del male. Gli eventi "Querdenken" (pensiero laterale) stanno attualmente mostrando, in angoli molto diversi della società, quanto sia grande questo potenziale, e nemmeno l'istruzione e l'intelligenza proteggono necessariamente da tutto ciò.

La ribellione conformista
    Puoi essere ribelle e conformista allo stesso tempo. Non comprendere il capitalismo, ma ribellarsi alle sue conseguenze, può rendere tutto ciò possibile. È come essere rinchiuso in una prigione della quale non si sa nulla. Se ciò è accompagnato dall'idea che ci siano «cattivi, colpevoli e complotti», ecco che vengono gettati le basi di una ribellione conformista. Ciò richiede pertanto delle soluzioni autoritarie alla crisi, e l'eliminazione di coloro che dovrebbero essere i colpevoli. Nel peggiore dei casi, si sprofonda nella follia sterminatrice antisemita. La Germania nazista dimostrò che, in tempi di crisi, la prigione mentale del culto del lavoro può produrre veri e propri mostri. Il nazionalsocialismo era un movimento di massa di ribelli conformisti. Il loro desiderio inconscio, e non dichiarato, di una vita senza lavoro, pur identificandosi con il loro proprio lavoro, si traduceva in un odio verso chi poteva permettersi una vita del genere; sia nella realtà, ma anche solo nell'immaginazione dei ribelli. In ogni caso, essi si sentivano profondamente offesi e traditi da quelli. Non è un caso che il loro odio fosse rivolto "agli ebrei." La storia dell'Occidente cristiano, è segnata da pogrom omicidi contro gli ebrei. Per quasi duemila anni, il cristianesimo ha stigmatizzato gli ebrei in quanto "assassini di Dio." Erano considerati "avvelenatori di pozzi" e "assassini di bambini". Erano ovviamente anche "responsabili" della peste. Nel XII° secolo, la Chiesa proibiva ai cristiani di "commerciare denaro" e pertanto lo assegnava agli ebrei, ai quali tuttavia vietava anche l'esercizio di molte professioni. Tutto ciò portò inevitabilmente a che ci fossero più ebrei tra i banchieri di quanti ce ne fossero nella popolazione totale. Venne così gettata la base per equiparare l'"ebreo" al "denaro", un topos centrale dell'antisemitismo moderno. Inoltre, in nessun luogo la santificazione del lavoro era più evidente di quanto lo era in Germania. Ciò si legava anche al cristianesimo, e in particolare al protestantesimo, cosa che lasciava tracce così marcate solo in pochi paesi. Martin Lutero non era solo un fanatico del lavoro, ma era anche un convinto antisemita. Non è un caso che i nazisti fossero grandi ammiratori di Lutero. Anche nelle loro menti, i due concetti avevano una corrispondenza perfetta. Un riferimento assai affermativo al "lavoro onesto", era semplicemente costitutivo della visione del mondo del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori. A causa di tutte queste continuità storiche e tematiche, era ovvio che gli ebrei sarebbero diventati l'oggetto di odio che i nazisti tedeschi volevano eliminare. Nell'illusione, che aveva preso il sopravvento sulla maggior parte dei tedeschi, sia che appartenessero a "quelli di sopra" o a "quelli di sotto", Auschwitz rappresentava l'eliminazione della "avidità" fatta in nome del "lavoro onesto e ingannato". Il perverso motto secondo cui  «Il lavoro ti rende libero», scritto sopra la porta di Auschwitz, aveva la sua logica. Grazie agli Alleati della Seconda Guerra Mondiale, i nazisti tedeschi vennero sconfitti. Oggi, la maggior parte delle persone «non ha nulla contro gli ebrei.» Tuttavia, l'antisemitismo non è scomparso. Ciò è anche dovuto al fatto che tutto ciò non è mai stato davvero compresa e assimilato. Ribolle sotto la superficie di una società in crisi, e oggi osa sempre più esprimersi, apertamente e senza mezzi termini, ad esempio durante le manifestazioni "Querdenken" (pensiero laterale). Ma anche coloro che non equiparano i "colpevoli", da cui si sentono oppressi, agli "ebrei" possono tuttavia trovarsi pericolosamente vicini all'antisemitismo, senza esserne consapevoli. Dalla crisi finanziaria del 2008, che ancora oggi non mostra segno di finire, e si manifesta in forme sempre nuove, molti si sentono minacciati da dei "speculatori avidi, banchieri, predatori" (ecc.) ai quali attribuiscono "la colpa". La critica sociale viene così confusa con la rabbia contro i "bugiardi" e contro la "stampa bugiarda". Se c'è una lezione da imparare dalla storia, è questa: in tempi di crisi, la follia antisemita dell'estinzione può diffondersi a velocità fulminea. Nelle elezioni del Reichstag del maggio 1928, il NSDAP ottenne il 2,6% dei voti. Meno di 14 anni dopo, nel gennaio 1942, la Conferenza di Wannsee organizzò la "Soluzione finale della questione ebraica." I mostri del passato possono essere resuscitati.

Nulla dovrebbe rimanere com'è
    Stiamo vivendo un periodo di crisi pericoloso. Non sappiamo come finirà. Ma ci sono anche dei motivi di speranza. Tra questi, c'è la critica riflessiva del capitalismo, la quale lo comprende assai meglio di quanto faccia il classico "anticapitalismo", tanto di sinistra quanto di destra. Purtroppo, esso rimane ancora troppo poco conosciuto. Per riuscire a trovare delle vie d'uscita dal capitalismo, la sua diffusione è essenziale. Essa inizia con una critica al Lavoro, e può pertanto recare in sé una prospettiva completamente diversa rispetto alle cose. Il vero scandalo non risiede nel fatto che l'enorme aumento di produttività cui stiamo assistendo, non permetta a tutti di avere un lavoro, ma che, al contrario, nonostante questo aumento, dobbiamo lavorare sempre più e sempre più a lungo. Da molto tempo ormai, è possibile poter condurre una vita migliore, più rispettosa della natura e degli esseri umani, e con molto più spazio per la realizzazione personale – senza capitalismo (vedi anche Lothar Galow-Bergemann ed Ernst Lohoff, "Gestohlene Lebenszeit. Warum Kapitalismus zu Verzicht nötigt und wir viel weniger arbeiten könnten", in: Ernst Lohoff, Norbert Trenkle (a cura di), Shutdown. Klima, Corona und der notwendige Ausstieg aus dem Kapitalismus, 2020) Ma non ci si potrà liberare dal capitalismo fino a che non lo si capirà davvero. I vari tentativi falliti di superarlo ne sono la prova. Ma tuttavia, non sono tutti quanti fallimenti. Oggi ci sono molte iniziative, e progetti pratici intelligenti ed entusiasmanti, che stanno imparando dagli errori del passato, e stanno esplorando nuove scelte.

- Lothar Galow-Bergemann -  fonte: Utopie und Praxis Leipzig -

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