sabato 30 marzo 2019

Niente da fare!

Salgari indigeribile per le camicie nere

Aveva ragione Margherita Sarfatti. Nel 1928, quando la rivista «Il Raduno» presentò Emilio Salgari come un precursore del fascismo, la biografa e amante del Duce obiettò indignata che i romanzi dell’autore veronese non solo «esaltano la rivolta, l’indisciplina e la disobbedienza alle autorità» ma, peggio ancora, «sono libri anticoloniali, dei quali il protagonista è sempre un indigeno, oppure (ed è ancora più grave) un bianco capo di indigeni, pirati o banditi in rivolta contro i colonizzatori». In effetti il papà di Sandokan aveva poco a che fare con le camicie nere, come sottolinea la studiosa inglese Ann Lawson Lucas nel secondo volume, dedicato al fascismo, della sua vasta opera Emilio Salgari, edita da Olschki (pagine 533, € 35) sulla fortuna dello scrittore veronese.
Addirittura, ricorda Rodolfo Sideri nel libro Fascisti prima di Mussolini (Settimo Sigillo, pp. 271, € 22), nello stesso 1928 l’editrice Augustea preferì «ritirare e mandare al macero» un libro di Umberto Bertuccioli che inseriva Salgari tra i «prefascisti». Eppure negli anni successivi i tentativi di arruolare lo scrittore sotto l’insegna del littorio proseguirono, persino inventando di sana pianta una sua sensibilità inconscia per «la questione razziale». Evidentemente restava troppo popolare fra i lettori giovani e meno giovani perché il regime potesse rinunciare ad appropriarsene. Ma se si esamina davvero il contenuto delle opere di Salgari, piene di eroi esotici e amori meticci, c’è da stupirsi, nota Ann Lawson Lucas, che le autorità fasciste, dopo aver avviato le persecuzioni antisemite, «non abbiano proibito la lettura dei romanzi di questo scrittore pericoloso».

- Antonio Carioto - Pubblicato sul Corriere del 19 agosto 2018 -

venerdì 29 marzo 2019

La via diretta

Un attacco frontale: Moishe Postone scuote la critica sociale tradizionale
- di Norbert Trenkle -

Ci sono libri che si vantano di aver reinventato il mondo, anche se non fanno altro che rappresentare quelle che sono solo versioni rinnovate di qualche banalità già nota. Con il libro di Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale" [Il libro, in lingua inglese, può essere liberamente scaricato e/o letto cliccando qui], avviene l'esatto contrario. Calmo e attento, sia nel tono che nello stile - a volte perfino anche troppo - presenta, nel suo contenuto, un vero e proprio attacco frontale alle false certezze basilari del pensiero sociale critico esistito fino ad allora. Con gran meticolosità, Postone mina le basi teoriche di questa critica, mettendole radicalmente in discussione. Perciò non sorprende che questa reinterpretazione della teoria di Marx, seppure fosse disponibile già dieci anni fa nell'originale in lingua inglese, abbia avuto finora solo uno scarso riscontro nel dibattito critico sociale. Il vecchio modo di pensare è ostinato, ed ha un'enorme capacità di resistere e di reprimere. Ed è oggi proprio una minoranza accademica, quella che invoca ancora Marx e che non ha mai superato il marxismo tradizionale, a dimostrarlo sempre di più. Chissà se ora, con una sua traduzione in tedesco, possa essere quanto meno costretta a rinunciare alla sua sdegnosa ignoranza.
L'attacco di Postone è diretto in primo luogo contro il maggior santuario della società borghese, contro la categoria che viene venerata sia dalla destra che dalla sinistra: il lavoro nel capitalismo. Per il pensiero borghese, non c'è niente che riesce a sembrare più naturale dell'idea secondo la quale ogni società si baserebbe sul lavoro. Vede il lavoro come se fosse un principio trans-storico, come ciò che rende umano l'uomo. Ed è esattamente questo principio auto-evidente che, nei suoi fondamenti, viene messo in discussione da Postone. Sebbene il lavoro - nel senso di un processo metabolico con la natura - giochi evidentemente un ruolo in ogni società, il capitalismo è l'unica fra tutte le formazioni sociali ad essere costituita dal lavoro fino a tal punto, ovvero, in altre parole, è l'unica in cui il contesto sociale viene mediato dal lavoro. Questa è una caratteristica assai specifica storicamente, che distingue il capitalismo da tutte le altre società precedenti.
Una simile conclusione ha conseguenze di vasta portata. La mediazione del lavoro è essenzialmente una mediazione con sé stessa, quasi automatica. Per esempio, sfida e si oppone al controllo cosciente ed alla pianificazione, attraverso lo Stato, elevandosi, al suo posto, a «soggetto automatico» della società, costituendo in questo modo una certa forma di dominio astratto. Nelle forme oggettivate della merce e del valore, si oppone all'uomo come una forza apparentemente esterna, assoggettandolo a quelle che sono le sue coercizioni oggettive, come la costrizione ad una crescita quantitativa permanente; coercizioni che appaiono come delle leggi naturali insormontabili, sebbene siano esse stesse prodotte, sotto forma alienata, dagli esseri umani.

Raramente, tutto questo è stato analizzato in maniera così tanto precisa e coerente come avviene in Postone, soprattutto nel quarto capitolo del suo libro. Sebbene il carattere di auto-mediazione del lavoro sia intrinsecamente legato alla produzione di merci, ossia, nonostante sia la caratteristica centrale di una società «nella quale la merce è la forma generale della ricchezza» (p.229), Postone non accetta di venire dirottato verso lo scambio di merci, come diceva Marx, ma persiste nella sua argomentazione, in maniera conseguente al livello del lavoro stesso. Questa «via diretta» è assai più complicata e difficile da capire rispetto alla succitata «deviazione», e tuttavia è necessario seguirla. Poiché solamente in questo modo può essere dissipato quel fondamentale malinteso che è caratteristico di tutte le varianti del marxismo tradizionale. Dal momento che il lavoro è sempre stato considerato come una categoria centrale trans-storica di ogni società, la sua critica, in ultima analisi, rimane sempre in opposizione alla «trasformazione» di quella categoria in capitale. Lo sfruttamento del lavoro ed il presunto «occultamento» di questo sfruttamento attraverso lo scambio delle merci, sono stati criticati, ma non lo sono stati nella forma del lavoro astratto in sé, ed in quello che è il ruolo specifico del lavoro nel capitalismo.
In questo senso - come Postone non si stanca di sottolineare - il marxismo tradizionale, in contrasto con la sua stessa auto-comprensione, ha occupato in maniera positiva il punto di vista del lavoro, a partire dal quale ha svolto la sua critica della circolazione, della proprietà privata e del mercato; quindi, una critica dell'appropriazione del plusvalore, e non del valore in quanto categoria. La sua principale preoccupazione era quella di liberare il lavoro, e non liberarsi dal lavoro.
Questo legarsi in maniera irriflessa, da parte della critica, al livello della circolazione e della distribuzione, è anche la ragione per cui il marxismo tradizionale è arrivato a toccare il suo limite, ed è diventato incapace di analizzare e criticare in maniera adeguata gli attuali sviluppi del capitalismo. Il suo caso limite è contrassegnato dalla Teoria Critica, il cui pessimismo era per l'appunto il risultato del fatto che non riusciva a superare il punto di vista del lavoro, sebbene, alla luce degli sviluppi storici avvenuti, non potesse più relazionarsi positivamente con esso.
Tuttavia, Postone non scarta in maniera astratta questo limite della critica, come se si trattasse di un «errore», ma lo classifica storicamente in quanto espressione di un determinato periodo della storia della costituzione e dell'imposizione capitalista. In generale, la sua grande forza risiede nel comprendere in maniera conseguente il capitalismo come un processo storico che non solo soffre di una serie di mutazioni, ma che possiede anche una specifica dinamica direzionale. Tale direzionalità, che si stabilisce nell'auto-mediazione contraddittoria della società per mezzo del lavoro e del valore, consiste, innanzitutto, nel sussumere il mondo intero sotto la finalità astratta della valorizzazione del valore, vale a dire, consiste nel produrre una totalità sociale. In secondo luogo, questa direzionalità si esprime nell'impulso permanente ad aumentare la produttività, e rendere quindi superfluo il lavoro nel processo di produzione immediato. Così facendo, secondo Postone, il capitalismo produce le condizioni ed il potenziale per il suo stesso superamento.
Per un osservatore superficiale, questo può sembrare qualcosa simile ad una costruzione della filosofia della storia. Ma si tratterebbe di un grande malinteso. Postone mostra chiaramente come questa direzionalità storica sia una peculiarità assai specifica del capitalismo che la distingue da ogni precedente formazione sociale. Il concetto secondo cui ci sarebbe una legge trans-storica della «storia», viene rifiutato in maniera esplicita da Postone; in maniera convincente, ci mostra come un'idea simile, in sé stessa, rifletta solo quella che è la coscienza tipica della società borghese, vale a dire che riflette proprio questa regolarità dinamica storicamente specifica che, come tutte le altre categorie del capitalismo, appare come se fosse trans-storica.
Questa visione rende possibile una critica di Hegel e di Lukács, che fa parte di quanto ci sia di meglio fra tutto ciò che è già stato fatto in tal senso. In contrasto con la moda che critica la filosofia della storia, e che oggi viene recitata da qualsiasi studente appena arrivato, il metodo di Postone consiste nello spiegare questa forma di pensiero a partire da alcune relazioni sociali, anziché rifiutarla come se si trattasse di una semplice costruzione idealistica. Visto in questo modo, anche il libro di Postone può essere letto come un commento al postmodernismo, perfino se questo viene menzionato solo occasionalmente nelle note a piè di pagina.

Il problema con la dimostrazione che Postone dà di quest'intrinseca dinamica direzionale, non è quello di una presunta direzione in termini di filosofia della storia, ma è quello legato ad una contraddizione immanente alla sua stessa argomentazione. Quando Postone mostra che il capitalismo, nella sua logica intrinseca, spinge in modo da rendere superfluo il lavoro immediato nel processo di produzione  - e, pertanto, arriva a minare la sua stessa propria base, che è la valorizzazione del valore - ecco che tutto questo in realtà   è la diagnosi di un processo di crisi fondamentale. Un processo di crisi che spinge il capitalismo fino a  fargli raggiungere quelli che sono i limiti della sua capacità di funzionare, e che ha come risultato quello di escludere dalla ricchezza sociale una parte sempre più grande dell'umanità. Nell'argomentazione di Postone, una tale conseguenza viene presentata in maniera logica, e tuttavia arretra spaventato. Sebbene si parli di una crescente tensione risultante dal fondamentale processo contraddittorio esistente fra le forze produttive e le relazioni di produzione, egli la descrive come se fosse solamente una fra le tante possibilità, e le molte potenzialità, che vengono prodotte dal capitalismo, e parla della sua realizzazione come se fosse qualcosa che a sua volta viene impedita. Il fatto che questa tensione si auto-alimenti, è qualcosa che non viene mai negato.
Al di là di questo, Postone ha ragione nel rifiutare e respingere l'idea di una qualche tipo di automatismo di liberazione. La dissoluzione emancipatrice di questa tensione, è solo una possibilità, la cui realizzazione presuppone il processo cosciente del superamento della forma del valore e della merce. Ma così come viene espressa l'intensificazione della contraddizione fra le forze produttive e le relazioni di produzione, non viene espresso quello che è il se e il quando in cui avviene questo superamento emancipatorio. Il capitalismo si svilupperà all'infinito su una base costantemente in diminuzione? Oppure sono le sue tendenze autodistruttive ad essere assai più vicine?
Soprattutto alla luce degli attuali sviluppi globali, questo problema è altamente esplosivo, dal momento che determina lo sfondo su cui si svolgerà l'azione dei movimenti di emancipazione. Postone lascia aperta tale questione. Ma, nel gettare via la critica sociale tradizionale, ci fornisce la base teorica sulla quale un simile problema dev'essere discusso.

- Norbert Trenkle - Pubblicato originalmente sul numero 24/2 di Jungle World, del giugno 2004

fonte: Blog da Boitempo

giovedì 28 marzo 2019

le Signore delle Macerie

Le donne nelle rovine della crisi
- di Robert Kurz -

Il capitalismo è stato sempre anche un'economia delle relazioni di genere. La società ufficiale, ha reso le donne fondamentalmente responsabili  di quelli che sono i «momenti dissociati della vita» (Roswitha Scholz). E questo è vero non solo sul piano socio-psicologico, in quello che è «il lavoro relazionale e amoroso» (la donna in quanto essere che ti accarezza), oppure sul piano simbolico-culturale, per quelle che sono alcune attribuzioni (la donna in quanto «natura»), ma anche nelle attività materiali, all'interno e all'esterno delle famiglie, le quali sono sì importanti ai fini della riproduzione, ma che però sfuggono alla logica della valorizzazione del capitale. Sia che si tratti di cambiare i pannolini dei neonati, di cucinare in casa, di preparare il caffè in ufficio o di mettere in ordine dopo una conferenza o dopo un seminario, sono sempre solo le donne ad assumersi questi ruoli, qualunque sia il gruppo in cui si trova. Più del 99% dell'educazione nelle famiglie monoparentali viene assicurata da delle donne.
Questa dissociazione sessuale può essere osservata in tutte le sfere della società, e non solo nella sfera privata. Nell'economia ufficiale, di regola le donne vengono pagate peggio degli uomini, e se vogliono fare carriera, bisogna che si diano da fare più degli uomini. Appare altrettanto chiaro che ad essere svalorizzati sono i settori in cui sono sovra-rappresentate. Laddove, nel corso dei decenni, le donne si sono integrate in massa, sia nel settore pubblico che in quello privato, esse sono state «doppiamente socializzate»  (Regina Becker-Schmidt), vale a dire che la dissociazione dei momenti di vita femminile è stata comunque mantenuta nella forma di quello che è un doppio fardello (bambini e carriera, oggetto di piacere e donna di successo).
Le illusioni postmoderne includevano la speranza che, attraverso alcuni settori dello Stato sociale o dell'attività commerciale, sempre più aspetti della riproduzione quotidiana sarebbero stati socializzati ,  a favore di una liberazione delle possibilità femminili. Ma nell'economia di crisi, a partire dalla fine degli anni '90, lo Stato sociale si è ritirato dai settori della cura e dell'assistenza (asili nido, case di riposo per anziani, impianti per le persone che hanno disabilità, ecc.). Tutto ciò che lo Stato ed il Mercato non sono più in grado di mantenere, viene di nuovo delegato alla parte femminile della società. Sono le donne a dover garantire il funzionamento dell'economia sommersa non retribuita, nella famiglia, nel quartiere e negli altri settori, al fine di mantenere una facciata di normalità sociale borghese.
Questa situazione è particolarmente estrema nelle baraccopoli del terzo mondo. Ancora una volta, sono le donne che, nei progetti sociali autogestiti e nelle organizzazioni non governative (ONG), forniscono più del 90% di quelli che sono gli elementi fondamentali della riproduzione sociale, del consolidamento di base dell'organizzazione dell'educazione scolastica, grazie all'aiuto di organizzazioni straniere. Nelle favelas, si arriva a parlare perfino di una «nuova società matriarcale». Tuttavia, quello che è il potere reale rimane sempre pressoché tutto nelle mani di una vera e propria mafia maschile armata, la cui economia sotterranea è basata sulla droga, sulle armi e sulla prostituzione. Da parte sua, lo Stato alimenta le ONG femminili per mezzo della carità, rivalorizzandole moralmente in cambio. Sia la mafia che la gestione capitalistica della crisi usano le donne come se fossero dei cuscinetti per attutire la crisi, e fanno affidamento sulle loro attività sociali non remunerate o mal retribuite.
Più la crisi progredisce, meno la questione di genere viene presa in considerazione nei movimenti sociali, benché le donne siano nuovamente sempre più esposte alla violenza fisica di quella parte di uomini che si trovano in uno stato precario, mentre le amministrazioni comunali riducono le sovvenzioni per le istituzioni femminili. Più la situazione si fa difficile , più aumentano i casi di denunce di molestie nelle imprese e nelle istituzioni, dove le donne sono le vittime principali. Perfino nei gruppi teorici di sinistra, le donne ribelli che hanno delle competenze comprovate sono state «invitate gentilmente ad andarsene».
Non dovremmo sorprenderci se, in un futuro prossimo, anche nella sinistra, ci sarà una nuova rivolta da parte delle donne che non vorranno essere trasformate in signore delle macerie [*], a buon mercato e moralmente adulate, della crisi capitalista.

- Robert Kurz - Pubblicato su Neuen Deutschland del 21/1/2005 -

[*] - Donne delle rovine, o donne delle macerie (in tedesco: "die Trümmerfrauen", dove Trümmer significa « macerie » e Frauen « donne ») si riferisce alle donne tedesche e alle donne austriache - per la maggior parte vedove, o i cui mariti erano assenti (soldati prigionieri, dispersi o invalidi) - le quali, all'indomani della seconda guerra mondiale, riprendono in mano le città e danno inizio allo sgombero e alla ricostruzione del paese.

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

mercoledì 27 marzo 2019

Oppio

« Dicono "Ramen" invece di "Amen" e adorano un essere superiore che risponde al nome di Prodigioso Spaghetto Volante ».

Ogni anno in giro per il mondo spuntano nuove religioni come funghi. In questo libro Graziano Graziani ne ha catalogate e raccontate quarantadue, tra le più sorprendenti: si va dalle religioni parodistico-paradossali come il Pastafarianesimo, i cui adepti adorano un essere superiore (il «Prodigioso Spaghetto Volante») alla Chiesa del Giovedì Scorso, che sostiene, con irreprensibile argomentazione logica, che Dio ha creato il mondo giovedì scorso; dalle religioni pop (il Googleismo, l'Iglesia Maradoniana) a quelle di natura artistica (la Chiesa di John Coltrane), o contestatrice (il Kopimismo, la Chiesa dell'Eutanasia). Ma anche le religioni più serie, come quelle generate dalla scienza (la Religione della Scienza o il Cosmismo) e dalla politica (il Culto di Putin), sono parodie; e forse nel mondo secolarizzato finiscono per esserlo anche quelle tradizionali. Oltre a contenere storie buffe e curiose, questo catalogo ci porta a riflettere sul persistere del fenomeno religioso nel mondo dominato da scienza e tecnica, nonché sulle questioni di diritto che la pluralità religiosa pone a uno Stato laico.

(dal risvolto di copertina di: Graziano Graziani, "Catalogo delle religioni nuovissime". Quodlibet)

Oltre la scomparsa del sacro, quando il culto non è che narrazione
- di Gennaro Serio -

Il grande scrittore cattolico G. K. Chesterton non avrebbe apprezzato la visione di Kurt Vonnegut secondo la quale una religione è una finzione letteraria. Tuttavia, tra i due, quello che compare come fondatore di una chiesa è lo scrittore americano: trattasi del Bokononismo, di cui l’autore parla nel suo romanzo Ghiaccio-nove. Nel florilegio di pseudo-religioni che Graziano Graziani ha raccolto (Catalogo delle religioni nuovissime, Quodlibet, pp. 396, euro 17,00), sparito il sacro, del culto non resta che la narrazione, o alla peggio il management corredato dalle sue policy.
Così da chiese votate a uno spirito apertamente goliardico affiorano istanze politiche e sociali, dall’ecologismo tragicomico del Movimento per l’estinzione volontaria, che chiede ai fedeli di non riprodursi per liberare le altre specie viventi dall’oppressione dell’uomo, all’ordine queer delle Sorelle della perpetua indulgenza che venerano tra gli altri Padre Fellatio e Suor GladAss, passando per il pacifismo paradossale del Prodigioso Spaghetto Volante adorato dai pastafariani, che invece di chiedere sacrifici umani in suo nome, «condisce» il suo Verbo con la memorabile massima: «Se qualcuno non crede in Me, pace, nessun problema». Al capitolo «religioni pop» compaiono il Jedismo (da Star Wars), e la chiesa Maradoniana (60 mila seguaci), per poi passare agli adoratori di John Coltrane e di Groucho Marx.
Tra i «culti popolari» troviamo coloro che vedono divinità marittime nelle navi cargo che passano al largo delle loro isole, in Vanuatu, e i devoti di San Ernesto Che Guevara, «santo ateo» di un paesino boliviano. Tra le religioni a carattere politico figurano invece, oltre all’Essere Supremo di Robespierre l’Incorruttibile, la mistica fascista e un novello culto di Putin.
Graziani aveva già sperimentato la vertigine della lista con l’Atlante delle micronazioni, un viaggio nel quale raccontava i più piccoli e strampalati casi di auto-proclamazione nazionale, scogli isolati nell’oceano e giardini di casa compresi: una ricerca di identità condotta attraverso la demarcazione di un territorio e la creazione di un proprio «racconto di fondazione». Con questo secondo tassello prosegue un’ingegnosa operazione culturale di reductio ad absurdum, non priva di un soffuso e flaubertiano cinismo, che sposta l’attenzione dal concetto di Stato a quello di Chiesa: i grandi centri di potere dell’età moderna.
Un percorso che sembra configurarsi come un work in progress a cavallo tra giornalismo e letteratura, e che si proietta verso la contemporaneità da un’accattivante prospettiva laterale: non a caso il libro si chiude con una rassegna di riti ufologici e occultistici. Gli echi patafisici da Alfred Jarry, e quelli letterari da Il pendolo di Foucault, a trent’anni esatti dalla sua pubblicazione, rimandano a quel cupo mondo in cui, esaurita la funzione dell’enciclopedia ufficiale e l’influenza delle antiche chiese, tanti si sono abbandonati all’idea che «tutto c’entra con tutto», e qualcuno s’è persino persuaso di essere la reincarnazione del Conte di Saint-Germain.
Scorrendo l'elenco di culti non così nuovi è facile rendersi conto che tra i più estrosi riti psichedelici e le grandi religioni monoteiste sussistono differenze troppo sottili. E se troviamo ridicola la religione che annuncia senza tema di smentita che il mondo è stato creato giovedì scorso e finirà giovedì prossimo, non si capisce perché dovremmo trovare meno ridicolo «il dialogo di un pastore israelita con un roveto ardente».
L’annuncio di Jarry, per bocca di Padre Ubu, risuona da oltre un secolo con rinnovata attualità: «La patafisica è una scienza che abbiamo inventato e il cui bisogno si faceva generalmente sentire». Nulla a che vedere con il «religioso» di cui si trova traccia in quello che forse è il vero culto contemporaneo, e che compare nel catalogo di Graziani all’ultima pagina, sotto mentite spoglie: è La chiesa del tempo presente, dalla quale scaturisce tanto l’immobilismo politico e filosofico dell’Occidente, quanto l’impostura di fronte all’ansiogeno scenario dell’iper-connessione globale.

- Gennario Serio - Pubblicato sul Manifesto del 4/1/2019 -

martedì 26 marzo 2019

Ombre

Le ombre di Kafka
- Editoriale di K - Revue trans-européenne de philosophie et arts - numéro 1 - 2/2018, pp.5-10

Con una straordinaria intuizione, Giorgio Agamben ha identificato la “colpa” di Josef K., protagonista del Processo, nell’autocalunnia, nell’accusa che egli fa a sé stesso calunniandosi e che mette in moto il romanzo (G. Agamben, “K.”, in Id., Nudità, Roma, nottetempo, 2009). Un reato paradossale, in cui l’accusato sa di essere innocente, ma in cui, nel momento in cui si autoaccusa, diventa colpevole (di calunnia, appunto). Ma perché K. calunnia sé stesso? Secondo Agamben, nel Processo l’accusa è la chiamata in causa dell’essere del diritto, che è appunto accusa nella sua stessa essenza, dal momento che l’essere, una volta “accusato”, perde la sua innocenza, divenendo “cosa”, causa, oggetto di lite. È contro questa origine del diritto che si scaglia Kafka. Dall’autocalunnia discende infatti nel romanzo un processo in cui non solo in causa non è nulla di preciso, ma in cui ad essere chiamata in causa è la stessa chiamata in causa, l’essenza stessa del processo. Ma, a cosa punta l’autocalunnia di Josef K.? Qual è il movimento che Josef K. (e Kafka) punta a mettere in opera? La sottigliezza dell’autocalunnia consiste nel fatto che è essa è una strategia che mette in questione la stessa implicazione fondamentale dell’uomo nel diritto, tentando di disattivare e rendere inoperosa l’accusa, la chiamata in causa che il diritto rivolge all’essere. La calunnia che Josef K. fa nei confronti di sé stesso è in altri termini un modo di affermare la propria innocenza di fronte alla legge, un mezzo di difesa contro le autorità che minacciano continuamente l’esistenza, irretendola nella logica della colpa, nella dimensione di una legge che appare sempre come una lancinante e grottesca caricatura di una Legge originaria a cui non è possibile avere accesso. Ma, come Kafka sperimenta proprio attraverso la stesura del romanzo, si tratta di una strategia insufficiente, perché il diritto risponde a questo tentativo di destituzione trasformando in delitto la stessa chiamata in causa e facendo dell’autocalunnia, che doveva renderlo inoperoso, il proprio nuovo fondamento. La frase che conclude il Processo è la conferma dello scacco di questa strategia, radicale e fallimentare al tempo stesso, ma testimonia anche di uno spostamento radicale di prospettiva. “Come un cane!” disse, era come se la vergogna dovesse sopravvivergli». Le parole finali del romanzo in tutti i sensi centrale nell’opera di Kafka, non solo pongono in modo esemplare il dilemma adorniano della necessità/impossibilità di interpretare i testi dello scrittore praghese. Nel momento della condanna, che è anche esecuzione, Josef K., una delle incarnazioni più limpide dell’uomo della conoscenza alla ricerca della verità che attraversano l’opera di Kafka, diventa infatti (come un) animale, tentando, dopo il fallimento della sua strategia di destituzione del diritto, di sottrarsi alla presa della legge e alla colpa che essa genera.
Ma, come già avveniva nella Metamorfosi, questa trasformazione ha un residuo essenziale, la vergogna, che è l’unica cosa che sopravvive al confronto impari tra l’uomo che cerca la verità e la legge. Proprio per questo si può ipotizzare che in Kafka l’animale non sia semplicemente il senza coscienza hegeliano, e neanche l’animale nietzschiano che è identico con il proprio essere corpo ed istinto. L’animale kafkiano è un animale che ha già attraversato la colpa di essere umani, un animale che ridiventa animale comprendendo in sé tutta la disumanità dell’essere uomo, e, in particolare, dell’essere uomo della letteratura: il travaglio della solitudine, la lotta senza mandato e legittimazione da parte di una comunità che non riconosce più la funzione della letteratura, lo scempio di una vita vissuta solo in funzione della scrittura, un animale che si assume la colpa di non essere animale e di non essere più uomo. Nell’opera di Kafka si assiste forse allora anche ad un movimento di destituzione dell’idea di animalità “acefala”, desoggettivante, impiegabile in direzione biopolitica. La vergogna infatti sopravvive, è un residuo del diventare animale, un resto di una morte che non compie, non conclude. La stessa morte diventa così un compito infinito, come la scrittura, Come ha scritto Blanchot, Kafka «va verso il poter morire attraverso l’opera che scrive» (M. Blanchot, De Kafka à Kafka, Paris, Gallimard, 1981), perché l’opera è essa stessa un’esperienza (interminabile) della morte.
Se questa traccia è giusta, se cioè l’animale che vive l’esperienza ignominiosa della morte degradante dell’ultima pagina del romanzo è in prima istanza lo scrittore (il Processo, per non parlare degli infiniti luoghi dell’opera kafkiana, delle lettere e dei diari, lo conferma in numerosi punti), si può ipotizzare che una spinta destituente in atto nell’opera di Kafka – minare l’essenza stessa del diritto, con tutte le sue premesse ontologiche, teologiche e politiche, attraverso un movimento di sottrazione – giunge ad uno scacco essenziale, che ha però il potere di aprire un orizzonte ulteriore e ancor più radicale, in cui cerca di muoversi l’opera dell’ultimo Kafka. La vergogna che il romanzo secerne come suo ultimo resto è infatti sicuramente la vergogna di essere scrittore, la colpa della letteratura in quanto risultato della libidine oscena di un vizio solitario che desacralizza la vita trasformandola in immagine, in pagina perfetta (colpa di cui è monumentale testimonianza il carteggio di Kafka con Felice Bauer, che è la premessa della stesura del Processo). Ma, per il senso di orgoglio e ribellione in essa impliciti, essa esprime anche il senso di umiliazione di uno scrittore che non è riuscito a dimostrare al potere che amministra la vita che la via della letteratura conduce alla salvezza e alla conoscenza della verità. Incapace di accettare il potere di un’istituzione che si è costituita come un sistema impenetrabile di forme intransitive, nell’ultima scena del Processo Kafka rappresenta sicuramente l’esecuzione dell’uomo della letteratura, ma indica anche, proprio in quel senso di vergogna che va oltre la punizione dell’animale letterario, l’orizzonte di una diversa funzione dello scrittore che non si rassegna a cedere la letteratura al potere dell’apparato.

Fare il punto su questo nodo cruciale dell’opera di Kafka, che, a differenza di quanto a lungo proposto dalle diverse mitologie kafkiane, conosce una sua evoluzione interna molto precisa (c’è un Kafka della Metamorfosi, e uno, ad esempio, del Castello, che ha attraversato, facendosi carico appunto della colpa della scrittura, le aporie della cultura del suo tempo), significa – ancora oggi, dopo decenni di filologia kafkiana – porsi il problema di ricordare quante  implicazioni abbia per Kafka l’essere scrittore, l’essere “uomo della letteratura”.
Come ha mostrato Giuliano Baioni (Kafka. Letteratura ed ebraismo, Torino, Einaudi, 1984), Kafka è diretto erede di quella cultura borghese dell’Ottocento romantico che attribuiva allo scrittore il preciso ruolo sociale di vittima sacrificale votata alle estasi di un martirio grazie al quale l’assoluto si rendeva visibile all’uomo nelle forme della poesia. Una concezione estetica, quella da cui muove la cultura giovanile dello scrittore, non ancora incardinata sulla crisi della parola e sulle sollecitazioni nietzschiane proprie delle prime avanguardie e quindi persino in ritardo rispetto ai risultati più avanzati della letteratura di inizio Novecento. È anche da questo “ritardo”, da questa radicale inattualità delle posizioni di partenza dello scrittore di una Praga in parte periferica rispetto ai centri culturali del tempo, che in Kafka germina la potenzialità di un’altra letteratura, che, nei suoi risultati estremi, destituisce di senso e funzione la dinamica innovatrice, tutta interna alla cultura borghese, delle avanguardie, aprendo una dimensione letteraria totalmente nuova.
Il perfezionismo della propria ricerca letteraria colloca Kafka in primissima fila tra i martiri ascetici della produttività borghese, tra quegli scrittori che oppongono al terrorismo della competizione di mercato il terrorismo speculare di una ricerca letteraria assoluta, come avviene ad esempio per Flaubert, lo scrittore che Kafka ha idolatrato e da cui ha tratto un’idea della letteratura come ascesi della produzione nella quale lo scrittore si isola completamente dal mondo per nutrire la letteratura con la propria vita, un’idea castratoria e narcisistica della letteratura che, in particolare nella cultura tedesca, ha fatto di Flaubert il padre dell’estetismo europeo, l’inventore di quella «macchina celibe» che è stata per Kafka la letteratura.
Un racconto, tanto celebre quanto cruciale, come La colonia penale, dice però chiaramente come la macchina delle parole, il congegno traduttore delle metafore che è la letteratura, non funzioni più. La «macchina celibe» della Colonia penale rappresenta appunto questa funzione mortale della letteratura in un’epoca in cui il dolore dell’esistenza artistica non significa più, come accadeva nel passato, l’estasi e il martirio in nome della conoscenza. Nella sua funzione di macchina che traduce i disegni labirintici sia in parole leggibili sia in belle figure ornamentali, il congegno della Colonia penale sembra ad un primo sguardo la metafora di una letteratura che, sia pure al prezzo di un indicibile supplizio, garantisce quell’unità di bellezza e verità che è il punto di partenza della cultura estetica di Kafka. Ma nel racconto la macchina delle parole, il congegno traduttore delle metafore, non funziona più, o meglio, funziona solo per sé stessa, proprio perché l’esercizio della letteratura non è più la catarsi di una cerimonia sociale, ma può essere solo l’abominevole rito di una esecuzione solitaria. I presupposti poetologici di questa concezione della letteratura sono da ricercare in particolare in quel fenomeno della metamorfosi della metafora prodotto dalla complicità tra naturalismo e culto décadent della forma, essenziale per la letteratura tra l’Otto e il Novecento. Il naturalismo, inteso come compimento e superamento del realismo ottocentesco, tende ad annullare la parola nelle cose in nome di uno sperimentalismo scientifico che trasforma la scrittura, da forma di conoscenza, in puro procédé, con il risultato di affermare il principio tecnico di una mimesi che implica la catastrofe della funzione ermeneutica del linguaggio e l’instaurazione del dominio assoluto della forma. D’altronde, già con La metamorfosi Kafka aveva infatti registrato quell’evento catastrofico all’origine della letteratura moderna che è la metamorfosi della metafora. Concependo testi che sfidano il lettore a comprenderli su di un piano diverso da quello della semplice lettura, Kafka pone al lettore domande ineludibili che però costantemente spingono al di là dell’immagine, in direzione di un significato che sembra essere solo alluso o cifrato. Ma, se il lettore, con la sua domanda, inevitabilmente trasforma l’immagine in un simbolo e deve poi condurne la sua lettura come una interpretazione di simboli, ciò è dovuto al fatto che Kafka stesso ha vissuto queste sue immagini come degli oggetti metaforici totalmente negativi, ponendosi, come ha scritto già diversi anni fa franco Fortini (“Gli uomini di Kafka e la critica delle cose”, in Id., Verifica dei poteri, Milano, il Saggiatore, 1965), deliberatamente al di fuori del linguaggio poetico. Le immagini di Kafka non sono infatti forme catartiche, non istituiscono un rapporto che leghi l’orrore del significante alla liberazione di un qualsiasi significato. Non trovando all’interno del testo un senso che le trascenda, esse non rimandano, come pure fanno credere, ad una verità che stia al di là della loro bellezza fisica. Sono semplicemente presenti come materia metaforica, bella ma proprio per questo impermeabile a qualsiasi interpretazione, e il loro grado di verità è unicamente nella funzione che hanno di essere la causa di una domanda che induce il lettore a fabbricarsi, anche inconsapevolmente, una certa chiave della lettura e a compromettersi, in maniera spesso irreparabile, con un’interpretazione univoca e rassicurante. Il carattere «non estetico» della narrativa di Kafka risiede così nell’opacità delle sue immagini che hanno, per questo, molto dell’allegoria benjaminiana che, nel rifiutare la trasparenza del simbolo, è anti-catartica, non più estetica.

L’ambiguità istituzionale della letteratura si trasforma così in Kafka nel sistema di un prospettivismo totale nel quale la metafora-oggetto diventa la causa meccanica di infiniti modi della lettura che non investono solo gli attributi formali del testo o la sua collocazione storiografica, ma anche il problema, del tutto interno al testo, di un significante che sembra rimandare a un significato assente o inaccessibile. La metaforicità assoluta della poesia moderna, l’attività illimitata di una cultura semiotica che trasforma ogni cosa in segno e nel segno di un segno, è il modo in cui Kafka vive la cultura dell’età post-nietzschiana.
Nel frammento Delle similitudini, Kafka definisce l’imperativo della metafora come un «Va’ dall’altra parte», che forse vuol dire: «sii tu stesso una metafora», «vivi la tua vita nella metafora». Se questo è vero, il dovere di seguire l’imperativo della similitudine diventa il dovere di distruggere la letteratura. L’ethos flaubertiano della costruzione dell’oggetto estetico assoluto deve fare posto a quello della sua distruzione secondo la tecnica dell’interpretazione, di cui Kafka ha dato un modello esemplare nell’esegesi della parabola del Processo, in cui fa letteralmente a pezzi una pagina di “bella letteratura”, creando una nuova forma di letteratura che nega il principio della propria autonomia. Se questa dialettica tra costruzione del testo e sua necessaria distruzione per mezzo dell’interpretazione sarà la legge che informa l’opera tarda dello scrittore, in cui Kafka intenderà la propria esistenza come un processo esegetico ininterrotto e la propria opera come «una nuova dottrina esoterica, una Cabbala», ciò avviene perché nella fase del Processo egli ha rappresentato la catastrofe più clamorosa della letteratura proprio là dove la letteratura stessa celebrava il suo trionfo.
Accanto al Kafka che ha avuto il coraggio di concepire gli orrori della Metamorfosi e della Colonia penale c’è tuttavia anche il Kafka che si è proposto di redimere la letteratura dalla sua mostruosa intraducibilità perseguendo costantemente, al prezzo della sua stessa vita, un testo che, se non poteva sperare di contenere la verità, doveva almeno rappresentare una continua proiezione verso l’al di là dell’immagine, un assalto al confine nel senso di un assalto al concetto stesso di confine. La similitudine di cui si serve la letteratura può essere tutt’al più un rinvio allusivo ad una verità in ogni caso inaccessibile, ma non può in nessun modo esercitare la funzione della metafora piena e significante. Come ha scritto ancora Blanchot, la scrittura diventa così in Kafka una macchina che scrive sé stessa, una danza, una eterogenesi dei fini, un flusso in cui lo scrittore stesso, il soggetto creatore della cultura estetica di ascendenza romantica, attraversando la letteratura precedente, scompare, per riemergere in una dimensione nuova, nel deserto in cui iniziare quell’assalto al confine estremo che è al centro dell’opera dell’ultimo Kafka. La fine del simbolico, e il problema della verità che con questa catastrofe si spalanca, prende le mosse da questo cortocircuito: la cosa non è mai la cosa, ma sempre il segno di un altro da sé, che però non è un simbolo decifrabile, ma semplicemente un oggetto simbolico, cioè, di nuovo una cosa. È proprio per questa radicale ambiguità che l’opera di Kafka si rivela essere il caso estremo di uno sperimentalismo che, a differenza da quanto perseguito dalle avanguardie, non ha per oggetto la struttura formale dell’opera, ma la vita stessa del suo produttore, che letteralmente si distrugge per obbedire al comandamento della similitudine. In un mondo in cui la parola poetica non è più un segno che sta metaforicamente in luogo di qualcosa d’altro, la parola è la cosa, come Gregor Samsa è uno scarafaggio, e la bellezza diviene il regno di un terrore intransitivo. Mancando sia la causa che il fine della metamorfosi, l’immagine dell’insetto non è più nemmeno un’immagine, ma un corpo metaforico negativo che indica l’assenza del significato con una forza di persuasione illimitata. La letteratura, che in questo modo si è trasformata in un’istanza terroristica, è solo bella e, nel momento in cui non può più rappresentare un altro da sé, è anche solo corpo. In questa sua orrida fisicità, la poesia di Kafka può quindi riflettere pienamente gli automatismi formali del mondo moderno. Come ha scritto Benjamin, «anche Kafka è uno che viene sognato; coloro che lo sognano, sono le masse» (W. Benjamin, Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1977, vol. II/III).

In tal senso Kafka è anti-heideggeriano: se si impegna in una lotta mortale per riportare su di un piano umano la natura ingannevolmente trascendente della colpa, ciò avviene perché il suo fine è di gettare le premesse di una rivoluzione, di una comunità a venire. Come hanno chiarito in modo definitivo Deleuze e Guattari, in Kafka tutto è politica, tutto è collettivo, dal conflitto che oppone padri e figli, che non è edipico, ma rappresenta il germe di un programma politico, al fatto che le sue enunciazioni, il suo “stile” inconfondibilmente individuale, trapassi in enunciazione collettiva, perché la letteratura viene ad assumere su di sé questa funzione, divenendo potenzialmente rivoluzionaria (G. Deleuze-F. Guattari, Kafka. Pour une littérature mineure, Paris, Les Éditions de Minuit, 1975). La macchina letteraria anticipa la macchina rivoluzionaria a venire proprio perché in essa non c’è una sola parola che sia ideologia. Dal momento che essa solo può soddisfare le condizioni di un’enunciazione collettiva che, nell’ambito di una letteratura minore, non sono presenti in alcun luogo, questa letteratura diventa affare del popolo. Se, come detto, per un certo periodo, Kafka ha pensato secondo le tradizionali categorie della cultura estetica in cui si è formato (incluso le coppie autore ed eroe, narratore e personaggio, sognatore e sognato), l’evoluzione della sua opera consiste nella rinuncia al principio del narratore e del rifiuto di una letteratura d’autore o di maestri. Gli ultimi racconti testimoniano questo processo chiaramente, da Josephine la cantante-topo che rinuncia all’esercizio individuale del canto per fondersi nel collettivo della moltitudine della sua gente, al passaggio dall’animale individuato alla muta collettiva dei sette cani musicanti delle Indagini di un cane, in cui i pensieri del solitario ricercatore tendono al legarsi all’espressione collettiva della specie canina, anche se questa collettività non è più o non è ancora data. Nell’opera tarda dello scrittore praghese, il soggetto si scioglie in quelli che Deleuze e Guattari definiscono “concatenamenti collettivi d’enunciazione”, che la scrittura esprime nelle condizioni in cui esistono soltanto come potenze diaboliche (come in Un medico di campagna) o come forze rivoluzionarie a venire. La solitudine dello scrittore, il vuoto che si crea dopo che egli ha vampirizzato la propria vita per la letteratura, sono le premesse per l’apertura a tutto ciò che attraversa la storia. La parabola letteraria di Kafka dice, in altri termini, che la letteratura, intesa come costruzione estetica che conferisce senso alla realtà, ha fallito la prova della storia, uscendone distrutta, o trasformata in un’altra letteratura. La storia, mai come in questo caso, non è una categoria astratta, ma è concretamente la Grande Guerra, intesa come evento epocale che segna la spaccatura irreversibile tra verità e realtà dei fatti storici. Nella sua natura erratica, l’opera di Kafka è non solo l’allegoria di ciò che la Grande Guerra significa per la cultura europea, ma ne è anche una delle poche espressioni (insieme al Proust di Deleuze, l’ “altro Kafka”, l’altro scrittore di guerra) capaci di rappresentarne, proprio in virtù di quanto detto sopra, l’irrapresentabilità. In altri termini, la questione a cui cerca di dare risposta l’impossibile lotta contro il confine condotta da Kafka dopo la conclusione del Processo è: cosa può/deve essere la letteratura nell’epoca dopo la fine della Storia? Dopo le carneficine della prima guerra della tecnica, dopo la distruzione dell’umanità dell’uomo avvenuta nelle trincee del primo conflitto mondiale, la verità non è più attingibile né da una letteratura realistica o simbolistica, né dalla sua negazione speculare, una letteratura d’avanguardia. In uno dei suoi ultimi racconti, La tana, Kafka ha invece saputo tradurre l’irrappresentabile della Grande Guerra in una costruzione metaforica assoluta in cui, senza dire nulla della guerra come fatto storico o come esperienza, la nudità del soggetto post-bellico traspare in tutta la claustrofobica logica autoreferenziale della sua costruzione. L’animale post-umano protagonista del racconto, che ovviamente è ancora una volta anche lo scrittore, prigioniero dell’interminabile attività di costruzione della sua opera, rivela in modo chiaro come la potenza destituente della scrittura kafkiana emerga proprio perché non sono i protagonisti delle sue opere ad incarnarla. Al contrario, come quasi tutte le figure kafkiane, esso non sa stare nell’aperto, non sopporta l’idea che l’interpretazione-costruzione non sia più una pratica per accedere alla verità o fondare un centro (M. Cacciari, Icone della legge, Milano, Adelphi, 1985). Sono invece le situazioni – i testi – a tradurre in immagine la dimensione destituente in cui si trova a vivere l’uomo post-kafkiano. Il mondo del testo è traduzione allegorica del mondo destituito di qualsiasi fondamento, in cui si muove un “eroe” che non può accettare la fine del domandare, il fatto che l’interpretazione, per quanto infinita, non conduca alla verità. I personaggi di Kafka non sanno vivere (e di qui discende, il grottesco, e soprattutto, il comico, che è una dimensione essenziale dell’universo kafkiano) in quella dimensione intimamente antinomica in cui pure si muovono, che il testo è. Cosa resta quindi di Kafka? Dopo gli imponenti risultati che la filologia ha raggiunto negli ultimi decenni, è forse possibile iniziare a sottrarre Kafka alle sue mitologie. Kafka e la sua opera sono anche teologia, psicanalisi, esistenzialismo, germanistica, sono sicuramente il terreno ideale per lo strutturalismo, il decostruzionismo, i cultural studies. Ma, dopo circa un secolo, provano anche l’impossibilità di essere ridotti ad interpretazioni unitarie o univoche, ad un senso. Nella scrittura di Kafka è infatti continuamente in atto una radicale forma di liberazione della scrittura da sé stessa, un tentativo così radicale di cancellare la dimensione soggettiva dall’esperienza dell’arte, da giungere fino al punto in cui una scrittura senza autore e senza soggetto può diventare una scrittura di tutti. Anche elementi apparentemente accidentali (e peraltro a lungo costitutivi della mitologia kafkiana), come la volontà di far distruggere i propri scritti, il non risolversi mai per una vita da scrittore di professione, sono espressione di questa esperienza della scrittura come flusso infinito, lavoro di una macchina impersonale, pratica di resistenza destituente in cui arte e vita coincidono oltre la loro reciproca elisione, fino ad essere la possibile voce di tutti e di nessuno.

- K - Revue trans-européenne de philosophie et arts -

domenica 24 marzo 2019

Contro il lavoro, contro il capitale

« Non voglio più sentir dire che in questo paese è più interessante fare qualcosa di diverso dal lavorare» (Emmanuel Macron).

C’é un feticcio che domina la società, il feticcio del lavoro. Tutte le potenze del mondo si sono alleate per difendere questo dominio: Macron e i populisti, Mélenchon e Marine Le Pen, i sindacati e i padroni, la sinistra e la destra, gli ecologisti di Stato e i profanatori del pianeta e degli animali. Sulla bocca di tutti quanti loro, non c'è altro che una sola parola: lavoro, lavoro, lavoro!
Una volta dismessa la maschera della chiacchera continua sulle «possibilità di occupazione», dovunque è diventato chiaro che flessibilità, personalizzazione delle condizioni lavorative, «lavorare di più per guadagnare di più» e Legge « Travaille! » non sono affatto delle promesse bensì, piuttosto, delle minacce, le quali non avevano altro fine se non quello di un rapido deterioramento delle condizioni stesse di sopravvivenza: stress lavorativo ma senza la sicurezza del posto di lavoro, doppia socializzazione per le donne, burnout [esaurimento nervoso] generalizzato, lavori di merda, quasi schiavitù nelle microimprese e autoimprenditorialità, per gli impiegati del servizi lavoretti temporanei e a basso salario, ecc.. Contro queste condizioni di vita e di lavoro inaccettabili, la protesta cresce.
La coscienza di classe della sinistra, il cui orizzonte mentale continua ad essere quello di considerare la precarizzazione come derivante dal «rapporto conflittuale fra le classi» , ha non poche difficoltà a comprendere  in maniera adeguata il problema dell'occupazione precaria attraverso la categoria positiva, e non teorizzata, del lavoro. Poiché in realtà la precarizzazione rimanda a quella che è una mutazione fondamentale del capitalismo, in cui non ci sono solo alcune condizioni di lavoro che diventano precario, ma si tratta del lavoro in quanto tale.
Proprio nella misura un cui questo processo è il risultato diretto del fatto che le basi della valorizzazione capitalistica sono diventate poco a poco obsolete, qualsiasi movimento di contestazione che si allinei sulla strategia della sinistra alter-capitalista e che reclami il reintegrazione degli esclusi, dei precari e dei ruoli domestici attribuiti alle donne nel sistema di lavoro (e del Diritto), rimarrebbe insignificante e senza senso.  Quando non è la crisi della valorizzazione in sé a determinare, essa stessa, l'impossibilità di qualsiasi miglioramento delle nostre esistenze nel contesto del capitale, criticare il capitalismo dal punto di vista del lavoro è un'impossibilità logica, poiché non si può criticare il capitale dal punto di vista della sua stessa sostanza. Lavoro e capitale non sono altro che i due stati aggregati della stessa sostanza in quel processo che è il lavoro astratto, le due facce della medesima medaglia. Di conseguenza, la partecipazione di tutti ad un'altra ricchezza sociale diversa da quella del valore e della merce, vista in un'ottica emancipatrice, non è possibile, se non a condizione di farla finita con il lavoro e con il denaro. Il contrario di quelle che sono le condizioni di lavoro precarie e deregolate, non consiste in delle condizioni di lavoro regolate per mezzo di un miglior codice del lavoro, ma nel non lavorare per niente.
Se la sinistra intende guadagnare punti ed essere all'altezza della situazione, in altre parole, di quella che è la mutilazione crescente delle nostre vite, la critica delle folli pretese capitaliste deve, contrariamente a quanto fa, collocare le sue prospettive su un altro piano, diverso da quello della «giustizia sociale» e della ridistribuzione di soldi dei ricchi  nel contesto della forma merce e di tutto il resto della produzione della non vita. Diviene urgente dover scaricare la zavorra di un anticapitalismo morale, «classista» e superficiale, e di ricollegarsi ad una critica del capitalismo-patriarcato che sia adeguato alla nostra epoca.
Non si tratta più di liberare il lavoro, ma di liberarsi dal lavoro.
Le risorse materiali devono diventare oggetto di un'appropriazione diretta, e la creazione di ricchezza dev'essere liberata dal diktat della forma valore. Perciò, essere anticapitalista non significa solamente lottare contro i ricchi ed i capitalisti; non significa unicamente rifiutare il disprezzo di classe che riempie l'obitorio dei padroni della società. Significa anche combattere la forma di vita sociale, organizzandoci in un movimento radicale di appropriazione reale che abolisca la sfera autonoma dell'economia in un tessuto sociale  organizzato consapevolmente. Il movimento reale che abolirà lo stato di cose esistenti, sarà quello che distruggerà l'economia. Le persone che distruggono le merci, mostrano la loro superiorità sulle merci.

- Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme - 21 marzo 2019 -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

sabato 23 marzo 2019

Europa. Un’altra?!?

Nessun altro periodo della storia è stato altrettanto fitto e denso di esperienze nuove, profonde, vaste, sconvolgenti, esaltanti e terribili.
Ci fu un tempo in cui l’Europa era il centro del mondo. La sua supremazia si estendeva su tutto il pianeta, in ogni campo del sapere e dell’agire. Accadeva cento anni fa, all’apice di un’ascesa iniziata quattro secoli prima, con la scoperta del nuovo mondo e la circumnavigazione dei continenti da parte di intrepidi navigatori. All’inizio del Novecento la guerra appariva un rischio evitabile con la diplomazia, dopo oltre quarant’anni di pace e di progresso che sembravano destinati a durare e a diffondersi nel mondo. Improvvisamente, con la Grande Guerra, l’ottimismo crollò e l’Europa mondiale naufragò nella tempesta che essa stessa aveva scatenato. Con verve narrativa e affascinante erudizione, Emilio Gentile ricostruisce l’apogeo dell’Europa e il ruolo di vero e proprio laboratorio che l’Italia giocò in quegli anni: il nostro fu uno dei paesi in cui si manifestarono i primi segnali della crisi di un intero continente e i sintomi del crepuscolo di una civiltà di cui ancora oggi, a distanza di un secolo esatto, viviamo le conseguenze. Ricostruire quel che accadde in quella stagione può aiutare a comprendere quel che succede oggi nel mondo del terzo millennio, in un momento in cui l’Europa, sempre più indecisa, rischia di scivolare verso una definitiva e pericolosa marginalità.

(dal risvolto di copertina di: "Ascesa e declino dell'Europa nel mondo. 1898-1918", di Emilio Gentile. Garzanti Libri)

I vent’anni che sconvolsero il mondo
–di Emilio Gentile -

Ci fu un tempo in cui l’Europa era il centro del mondo. La sua supremazia si estendeva su tutto il pianeta, in ogni campo del sapere e dell’agire, se non della saggezza.
Ciò accadeva cento anni fa. Fu l’apogeo di un’ascesa iniziata quattro secoli prima, con la scoperta del Nuovo Mondo e la circumnavigazione dei continenti da parte di navigatori europei, che aprirono ai loro sovrani le vie dell’espansione mondiale. Fra il 1898 e il 1918, le potenze imperiali europee esercitavano un’egemonia planetaria. Dei circa 150 milioni di chilometri quadrati delle terre emerse, gli imperi europei possedevano il 35 per cento nel 1800, quasi l’85 per cento nel 1914.
Ascesa e declino dell’Europa nel mondo, 1898-1918 è un saggio di storia mondiale, senza pretendere di essere una storia totale, nel senso di raccontare tutto quanto accadde nel mondo, in tutti i Paesi, fra tutti i popoli, durante tutto il periodo di supremazia mondiale dell’Europa. Altri possono essere capaci di simili imprese, che richiedono una capacità di conoscenza pressoché divina. Sprovvisto di tale capacità, l’autore più modestamente intende per storia mondiale il racconto dei fatti politici, economici, sociali, culturali, pacifici e bellici, che negli anni fra il 1898 e il 1918 hanno condizionato e cambiato, nel mondo, l’esistenza della maggior parte degli esseri umani, per il meglio o per il peggio, o per entrambe le esperienze. Protagonisti sono gli Stati di tutti i continenti, presenti in proporzione all’influenza che ciascuno di essi ha avuto nella storia del tempo.
La collocazione dell’Europa al centro del libro non è dovuta alla preferenza dell’autore, il quale, italiano ed europeista, si sente un cittadino della Storia, ed esplora le vicende umane del passato senza pregiudizi né preferenze, mosso unicamente dal desiderio di conoscere, evocare e comunicare come i contemporanei del passato vissero le loro esperienze. La storia europea ha una parte predominante nella storia mondiale fra il 1898 e il 1918, perché durante quei venti anni l’esistenza dei popoli nel mondo fu condizionata, influenzata, favorita o stravolta, persino destinata alla vita o alla morte, dal sapere e dall’agire dell’Europa imperiale. Di ciò furono consapevoli le popolazioni assoggettate al dominio degli europei, ma che dagli europei stessi appresero il sapere e l’agire per contrastarli e osteggiarli, fino a scacciarli: quest’ultimo evento avvenne però molti anni dopo la storia narrata in questo libro, quando l’egemonia mondiale dell’Europa imperiale era ormai finita.
Gli anni fra 1898 e il 1918 furono l’epoca della mondialità europea. «Mondialità» non è sinonimo di globalizzazione, mondializzazione, internazionalizzazione: questi fenomeni di interdipendenza economica, commerciale, finanziaria, tecnologica sono precedenti, contemporanei e posteriori all’epoca della mondialità europea, e le afferiscono, senza coincidere però interamente con essa. Per «mondialità» si intende l’effettiva supremazia militare, politica, economica, culturale che una collettività umana esercita su altre popolazioni del pianeta, legittimandola con la convinzione di essere una civiltà universale, destinata a modellare e a guidare l’intera umanità.
Altri imperi, sin dal più remoto passato, hanno ritenuto di essere una civiltà mondiale, come l’impero romano e l’impero cinese: ma il loro dominio e la loro civiltà si arrestavano ai confini delle terre e dei mari allora conosciuti. La mondialità europea è stata un fenomeno unico perché l’Europa imperiale raggiunse effettivamente l’egemonia sull’intero pianeta in coincidenza con la scoperta delle ultime regioni sconosciute, ovunque investendo le popolazioni di altri continenti con la potenza delle sue armi, la sua scienza, la sua tecnica, le sue ricchezze, la sua civiltà, la sua intraprendenza curiosa, ambiziosa, avida e rapinosa. Ma fra i protagonisti di Ascesa e declino dell’Europa nel mondo ci sono musulmani, egiziani, turchi, giapponesi, cinesi, indiani, che furono fautori della modernizzazione delle loro civiltà per sottrarsi all’egemonia della mondialità europea.
La supremazia dell’Europa mondiale fu conseguenza di un altro fenomeno europeo avvenuto nello stesso periodo, un fenomeno grandioso e straordinario, sia per la sua totale novità storica sia per l’influenza irrefrenabile esercitata su tutto il pianeta: la modernizzazione industriale. Senza la rivoluzione industriale, ci sarebbe stata una Europa imperiale, ma non una Europa mondiale. La mondialità europea fu conseguenza della modernità industriale nei trasporti, nella produzione, nella potenza armata, nell’accumulazione di capitali e nel loro investimento ovunque sul pianeta. E fu conseguenza anche della modernità politica, cioè lo Stato nazionale e laico, l’autorità centrale, la razionalità burocratica, l’organizzazione della libera ricerca, l’istruzione pubblica, la trasformazione delle masse dei governati in cittadini liberi, con diritti e doveri, partecipanti alla scelta dei governanti.
Nonostante il loro bellicoso antagonismo, le potenze europee condividevano la convinzione che il dominio nel mondo era un diritto e un dovere della loro civiltà e della loro superiorità di razza nei confronti delle razze inferiori, che popolavano gli altri continenti. L’imperialismo, il razzismo, lo sfruttamento delle popolazioni asservite, persino il genocidio, furono componenti della mondialità europea: ma lo furono, allo stesso modo, il pensiero critico, la libertà di ricerca, la scienza sperimentale, la laicità della cultura e della politica, l’inventiva tecnologica, la modernizzazione, il capitalismo, l’autonomia dell’individuo, i diritti del cittadino, la sovranità del popolo, lo Stato nazionale, il governo parlamentare, il liberalismo, la democrazia, il socialismo, il comunismo, i partiti, i sindacati, l’emancipazione femminile, la protezione dell’infanzia, la difesa della salute, la tutela degli anziani, l’allungamento della vita umana. L’Europa mondiale fece tutto il bene e tutto il male di cui può rivelarsi capace l’essere umano. Il meraviglioso e il mostruoso convissero nella mondialità europea, come mai era accaduto nella precedente storia dell’umanità.
La stagione dell’Europa mondiale fu breve. Ma nessun altro periodo della storia è stato altrettanto fitto e denso di esperienze nuove, profonde, vaste, sconvolgenti, esaltanti e terribili, che coinvolsero l’umanità intera. Le nuove esperienze, ancora più profonde, vaste, sconvolgenti, esaltanti e terribili, vissute dall’umanità nel corso del Novecento e all’inizio del Terzo millennio, furono propaggini di fatti accaduti nella stagione breve della mondialità europea. L’assetto politico dell’Europa dopo il 1989, le guerre del Golfo, i massacri e le pulizie etniche nei Balcani, il terrorismo islamico e l’11 settembre 2001, i conflitti armati in Medio Oriente, le tensioni belliche e i nazionalismi xenofobi in Europa orientale, le ambizioni egemoniche della Turchia, persino le sfide planetarie fra le potenze mondiali come gli Stati Uniti, la Russia, la Cina: sono tutti avvenimenti che spontaneamente fanno evocare, specialmente nel centenario della Grande Guerra, la stagione breve della mondialità europea, nelle frequenti analogie fra la situazione di incertezza e di paura del mondo attuale e la situazione del mondo nel ventennio precedente la Grande Guerra.
Le analogie sono spesso fuorvianti. Tuttavia, conoscere quel che accadde nella breve stagione della mondialità europea può forse aiutare a comprendere quel che accade nel mondo del Terzo millennio, dove nessuna grande potenza in declino o in ascesa può vantare un’egemonia mondiale. E la mondialità sembra essere divenuta unicamente l’attributo di un presente disordinato e di un futuro minaccioso, accomunati nella dimensione planetaria. Forse i popoli, in tutto il mondo, aspirano a realizzare una mondialità, che non sia la supremazia planetaria di una potenza imperiale, ma la mondialità del genere umano nella libertà e nella dignità. L’aspirazione è nobile speranza, ma se non si è capaci di realizzarla, è soltanto illusione. E la delusione può essere perfino malvagia.

- Emilio Gentile - Pubblicato sul sole del 30 settembre 2018 -

venerdì 22 marzo 2019

La teoria e la pratica

I risultati pratici di quarant'anni di scribacchiamenti anticapitalisti
- di Jehu -

COMUNIZZAZIONE:

«La Comunizzazione [...] ci può dare ben pochi consigli positivi riguardo una pratica immediata e particolare da usare qui ed ora [...] Quello che può fornirci, sono delle raccomandazioni soprattutto negative: le forme sociali coinvolte nella riproduzione delle relazioni di classe capitaliste non saranno strumenti della rivoluzione, dal momento che esse sono parte di ciò che dev'essere abolito.» (Endnotes).

MARXISMO APERTO:

« Come possiamo fare quindi a cambiare il mondo senza prendere il potere? Arrivati alla fine del libro, così come all'inizio, non lo sappiamo. I leninisti sanno, o sono soliti saperlo. Noi no. Il cambiamento rivoluzionario è ancora più disperatamente urgente di quanto lo sia mai stato, ma noi non sappiamo più cosa significhi rivoluzione. Interrogati, tendiamo a tossire e a biascicare e cerchiamo di cambiare argomento. In parte, il nostro non-sapere è il non-sapere di quelli che si sono persi storicamente: quella che era la conoscenza dei rivoluzionari del secolo scorso è stata sconfitta.» (John Holloway).

WERTKRITIK:

« L'appello all'abolizione del lavoro non ha alcuna conseguenza immediata per la politica marxista. Non esiste alcun nuovo programma, né un qualche piano generale per l'emancipazione che possa essere sviluppato a partire dall'abolizione del valore. Piuttosto, può essere visto come una condizione per l'emancipazione dal valore, e dal sistema astratto di oppressione che esso rappresenta. » (Elmar Flatschart).

ACCELERAZIONISMO DI SINISTRA:

«Forse la vera importanza dell'accelerazionismo sostenuto da Srnicek e Williams, consiste in un intervento nella politica dell'astrazione. Essi sostengono che la rappresentazione dell'astrazione non è solo inevitabile, ma è necessaria al fine di mettere in atto una sfida epistemica e politica al capitalismo. Ma il fatto che sia necessaria una tale rappresentazione, non ci garantisce che sia possibile far collimare l'accelerazione epistemica e quella politica, o più sostanzialmente, che sia possibile coniugare la spiegazione teorica con l'attività emancipativa. Riuscire a farlo, richiederebbe la realizzazione sociale della conoscenza [...]. Senza una teoria della totalità, che riesca ad articolare razionalità esplicativa e causalità emancipativa, diventa difficile capire le condizioni sotto le quali potrebbero essere realizzate le pratiche epistemiche. È questa, probabilmente, la principale lacuna dell'accelerazionismo. Quella che viene richiesta, è una narrazione, a livello di prassi, del collegamento esistente fra il concettuale ed il sociale, vale a dire, una narrazione del modo in cui la funzione cognitiva sopravviene sulle pratiche sociali. È questo ciò che... l'accelazionismo [di sinistra] attualmente [non] fornisce.» (Ray Brassier).


A partire da questi testi, qualsiasi osservatore obiettivo si renderà conto che gli ultimi quarant'anni di sviluppo teorico hanno costituito un vicolo cieco. La teoria, oggi, non fornisce alcun consiglio pratico, se non quelli che forniva alla fine degli anni '70. Il lavoro salariato dev'essere abolito. Proprio ora. Subito. Senza alcuna esitazione da parte nostra. È questa la conclusione che tutti quanti cercano di evitare.

- Jehu - Pubblicato il 26/11/2018 su The Real Movement -

giovedì 21 marzo 2019

Sabato e Lunedì

Forse qualcuno ha picchiato i «gilet gialli» sulla testa, quando erano bambini
- di Jehu -

Stai dicendo che vuoi fare del male a Macron, giusto?
Affermi che lo vuoi vedere in ginocchio, implorando pietà.

E allora cos'è che fai?

In Francia, nei fine settimana, trascorri quello che è il tuo tempo libero protestando contro il suo programma di austerità, giusto?

Diciotto fine settimana, uno dopo l'altro, di seguito, che avresti potuto passare con la tua famiglia e con i tuoi amici, li sacrifichi per fargli capire che le politiche di Macron non ti piacciono.
E poi, ogni lunedì, come tanti bravi ragazzi e ragazze, te ne torni a lavorare in modo da poter creare tanto plusvalore per Macron, per i capitalisti e per lo Stato fascista, soddisfatto per aver mostrato sul serio a quello stronzo quanto ti faccia schifo la sua politica...

... che ogni lunedì tu hai reso possibile grazie al tuo lavoro salariato.


- Jehu - Pubblicato il 18 marzo 2019 su The Real Movement -

mercoledì 20 marzo 2019

Il ritorno degli Internauti

Internet: una storia di evocazione, di bolle e di sussunzione del capitale
- Internet: una forma che inizialmente ha impedito la proliferazione della materia bruta, selvaggia, e che ha richiesto decine di anni per poter essere domata, ed essere sussunta realmente al capitale. -
- di humanaesfera - Pubblicato il 18/7/2018 -

1. Una forma che non era in grado di opporsi all'irruzione di un contenuto sociale indomabile (ma che si trovava ad essere contenuto all'interno dei suoi limiti)
L'iniziale apparizione pubblica di Internet (negli anni '90, con il World Wide Web [*1]) ha generato delle circostanze sociali inedite che il capitale, per decine d'anni, non è stato in grado di sussumere realmente all'interno della forma merce e della forma capitale. Per circa 20 anni, la pirateria (relativa al software, alla conoscenza e all'arte) è stata irreprimibile e generalizzata, e c'erano migliaia di ambiti (forum di discussioni, siti a tema ...) dove era possibile a chiunque - di solito, facendo uso di pseudonimi -  appropriarsi, sviluppare, creare e condividere gratis ogni tipo di conoscenza e arte direttamente con qualsiasi altro essere umano sulla faccia della terra che frugasse su Internet. Uno degli aspetti era la potente comunità di software libero che spesso dettava quelli che erano i progressi di Internet e del software in opposizione alle imprese, contro la mercificazione e contro lo Stato.
L'iniziale struttura fisica di Internet era una forma materiale creata e foraggiata attraverso un afflusso di capitali provenienti da tutto il mondo, alla folle ricerca di opportunità che promettevano accumulazione. L'effetto collaterale è stato quello di creare condizioni tecniche selvagge, che a partire da una tale base, almeno sul piano intellettuale ed artistico, hanno portato ad una proliferazione di contenuto sociale libero, che nella pratica affermava senza troppe chiacchiere il principio: «da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni».
Di fronte ad un simile contenuto sociale, la proprietà privata ( e pertanto l'estrazione di plusvalore) era non solo inadeguata, ma impraticabile. Ciò significava che esisteva una sussunzione formale del capitale (l'infrastruttura fisica era la proprietà privata e, quindi, bisognava pagare per l'accesso), ma non c'era ancora sussunzione reale (il contenuto sociale che emergeva in questa struttura si trovava fuori dalla portata del capitale). Le imprese ci provavano, ma continuavano a fallire in quella che doveva essere l'impresa di realizzare la sussunzione reale del contenuto. Un esempio classico di quest'epoca è stata AOL [America On Line], l'impresa che forniva accesso a Internet attraverso i suoi «walled garden» ["giardini recintati"], che si rivelò un tentativo totalmente fallimentare di imprigionare gli internauti all'interno di «bolle» che li isolassero, rispetto a quello che era invece l'accesso diretto ai contenuti che venivano resi universalmente disponibili su Intenet. Incapace di catturare gli internauti in delle «bolle» (che li limitassero digitalmente) per trarne profitto, quell'immenso afflusso di capitali provenienti da tutto il mondo trasformò Internet stessa in un'immensa bolla finanziaria che sarebbe poi scoppiata negli anni 2000 (la famosa «bolla di Internet», o «bolla dei dot com»). È ovvio che tutta quella effervescenza «online» fosse del tutto insufficiente per superare ed abolire la società capitalista, dal momento che questo dipende dalla lotta del proletariato, che allora stava ancora soffrendo tutte le conseguenze della sconfitta di quella che era stata l'ondata mondiale del 1968. La proprietà privata sul piano «fisico» delle condizioni sociali di vita (ivi inclusa la forma stessa di Internet, ossia i mezzi fisici di connessione, le telecomunicazioni...) continuava a rimanere intatta, «offline». Ciò nonostante, erano emerse delle relazioni sociali affascinanti che, seppure estremamente marginali (dal momento che sono una percentuale molto piccola della popolazione mondiale vi aveva accesso), nel loro contenuto non venivano sussunte dal capitale. Indipendentemente da ogni illusione ideologica di quel tempo ( e non sono state poche), veniva assunta come se fosse ovvia, evidente, la prospettiva di una fattività desiderabile di un'intera società globale, la quale funzionasse secondo gli stessi principi del World Wide Web: che venisse abolita, non solo intellettualmente ed artisticamente, ma anche «fisicamente», la proprietà privata, la merce, il capitale, le frontiere e lo Stato [*2]. Erano molti a presupporre che tutto questo sarebbe avvenuto automaticamente, una volta giunta a termine la fine della separazione fra i mondi «online» e quelli «offline» [*3].

2. Evocazione di forze creative incontrollabili
Tutta questa effervescenza non addomesticata che si scatenò in quel periodo, è stata oggetto di molte critiche. Si diceva che non fosse altro che feticismo tecnologico, o mera illusione di liberazione «virtuale» che non ha niente a che vedere con la lotta che avviene nella realtà «offline». Secondo queste critiche, non sarebbe stata altro che una fuga dalla «cruda ed indigesta» realtà. Realtà, la cui essenza sarebbe il sacrificio, il dolore e la morte, e nella quale il «valore reale» dev'essere misurato attraverso l'auto-negazione, per mezzo del dolore sopportato eroicamente, e sorretti dalla speranza.
In realtà, storicamente, la lotta di classe - il movimento di associazione diretta ed universale dei proletari di tutto il mondo che affermano i loro desideri, e che sviluppa le sue capacità lottando conto il capitale, contro la proprietà privata e lo Stato, per la soddisfazione delle proprie necessità - non avviene mai su uno sfondo vuoto, e ancor meno su uno sfondo funereo, né avviene come mera affermazione volontaristica di persone o collettività speranzose, di fronte ad una presunta «brutale realtà».
Al contrario, la lotta avviene sempre da parte delle forze produttive della specie umana, che consistono precisamente nei bisogni e nelle facoltà di esseri umani che si riproducono e si sviluppano in quanto fine in sé, e non come mezzi per fini altrui. È questo a mettere periodicamente a rischio la produzione e la riproduzione del capitale, il quale, tuttavia, non può espandersi senza evocare proprio queste forze. Ma le evoca solo per separarle violentemente per mezzo di quel cuneo poliziesco-penale che è la proprietà privata: da un lato, per controllare e formattare queste necessità (sottomettendoli ad una continua scarsità, che è l'unico modo per poter vendere continuamente merci) e, dall'altro lato, per sfruttare ed estrare plusvalore da quelle capacità (la continua scarsezza richiede che si ottenga continuamente denaro per poter comprare, imponendo a ciascuno la competizione per vendere, continuamente, le capacità umane - vale a dire, vendere sé stessi - al capitale sul mercato del lavoro; a partire da questo, diventano soggetti a minacce di punizioni e ricompense, affinché si lavori al massimo, creando prodotti che verranno poi venduti per realizzare il plusvalore e riprodurre ampiamente il capitale).
In sostanza, a partire dalla rivoluzione industriale (XVIII secolo), l'espansione del capitale non può avvenire senza avvalersi dell'irruzione delle forze produttive, cioè, senza avvalersi delle capacità e dei bisogni umani, che periodicamente sfuggono al loro controllo e minacciano di oltrepassare i limiti del capitale, di abolirlo e di superarlo. Perciò, il capitale lotta contro di esse, per controllarle e trasformarle in forze distruttive, mortifere, che negano, smorzano, diminuiscono, vampirizzano e impoveriscono le capacità e le necessità della specie umana. Tuttavia, il capitale non è altro che queste stesse capacità e necessità (le forze produttive stesse) che vengono rivolte contro loro stesse (accidentalmente) componendo un meccanismo (lavoro morto, il capitale) che si riproduce in maniera cumulativa come se fosse di fatto una forza semovente, automatica, una forza spontanea, irresistibile come un fenomeno naturale. È questo lo sfondo su cui si muove la lotta di classe [*4].

3. La conversione delle forze produttive in distruttive: la rete reazionaria
Oggi, tutto indica che alla fine Internet è stata convertita, da forza produttiva, in forza distruttiva. Negli ultimi 10 anni, è diventato chiaro che ogni creazione di contenuti sociali che finora Internet aveva dato, alla fine passava per essere sussunta realmente sotto il capitale.
Internet libera ed universalista (pirateria senza alcuna restrizione, forum, siti web, comunità di software libero, ecc.) è stata brutalmente svuotata e abbandonata, e i vecchi partecipanti sono stati risucchiati in massa in un mulino di proprietà private che, come le «reti sociali» (o i «social media»), scarseggiano di contenuto prodotto collettivamente, che ora viene elaborato attraverso algoritmi, riducendosi così a spazio virtuale privato, familista o addirittura neo-feudale (vale a dire, le cosiddette «bolle»).
Tutto ciò porta a credere che c'è stata una cattura in massa all'interno di una trappola pavloviana [*5], la quale, in cambio di stimoli-risposte che danno dipendenza e assuefazione, occupa ormai tutto il tempo, ed impone un'esposizione costante alla pubblicità e alla necessità di dover pagare denaro  se si vuole accedere momentaneamente ad un qualche contenuto che viene reso accessibile da parte di alcuni domini feudali un po' più ampi. Un'ipotesi è quella secondo cui la cattura all'interno di questa trappola pavloviana avrebbe ormai raggiunto una massa critica in cui, a partire da un certo punto in poi, qualsiasi persona che rimanesse fuori da questa trappola diventerebbe isolata, escluso dalla vita sociale e perfino dal mercato del lavoro, e quindi anche il più recalcitrante sarebbe obbligato ad accettare di essere catturato.
Le «reti sociali» sono letteralmente delle reti di reazione. Nella loro struttura essenziale, sono profondamente reazionarie. A tal punto che qualsiasi contenuto che cada al loro interno, viene immediatamente spogliato di qualsiasi aspetto universalista, razionale, di ogni tentativo di contributo all'umanità, e viene obbligatoriamente risucchiato e convertito in un altro dei tanti detriti personali disponibili  che competono in un interminabile «adesso», dove una massa infantilizzata, se non addirittura animalizzata, risponde pavlovaniamente per mezzo di reazioni emotive. In simili condizioni, la memoria, la ragione e la storia diventano impraticabili e non esistono più, ed ogni cosa si trova ad essere ridotta alla polarizzazione emotiva finale su questo o su quell'assunto, «urgente» e di moda. Nelle reti sociali non rimane niente di quella che è la ricchezza delle espressioni umane; l'unica espressione permessa è la propaganda ininterrotta di sé stesso, dei prodotti o delle aziende. Nel periodo immediatamente precedente a questa catastrofe, la lotta per i contenuti gratuiti e aperti su Internet sembra essere incredibilmente vittoriosa, rivolgendo apparentemente contro le aziende le grandi innovazioni di Internet [*6]. Come abbiamo visto, diversamente dalla proprietà provata, Internet consisteva di una situazione nella quale la libertà di ciascuno non si trovava ad essere in concorrenza e, pertanto, non limitava la libertà degli altri, ma, al contrario, potenziava la libertà e l'autonomia (vale a dire, le capacità e le necessità) di tutti, estendendo la portata della specie umana. Perciò, ad esempio, ogni persona che contribuiva con conoscenze ed informazioni, ecc. su un determinato argomento, con l'accesso a Internet andava a comporre, insieme alla conoscenza di tutti gli altri che erano interessati nel mondo, una conoscenza assai più ricca e profonda. Questa era un sua caratteristica, fin dai suoi inizi negli anni '90.
Tuttavia, intorno al periodo che va dal 2006 al 2010, a tutto questo viene dato il nome di «sharing economy», «economia collaborativa». Stranamente, a partire da quel momento questo tipo di nomi cominciano ad apparire dappertutto: imprese, governi, pubblicità di qualsiasi prodotto, libri su come «coltivare la felicità». Coloro che erano maggiormente critici, cominciano ad insospettirsi, ma la maggior parte delle persone vengono ingenuamente sedotte dal pensiero secondo il quale il «modello anarco-comunista» di Internet stava dimostrando di essere talmente superiore che le imprese e i governi stavano cominciando ad aderirvi, cosa che avrebbe mutato il mondo in senso cooperativo, in maniera contraria alla concorrenza, se non addirittura post-capitalista.
Improvvisamente, molti cominciarono a rendersi conto, troppo tardi, che le «economie collaborative» che erano così di moda, e che veniva utilizzate massicciamente, erano in realtà imprese, proprietà private (come youtube, google, facebook, twitter, ecc.).
Era successo che moltissime aziende che avevano un'aura visionaria e utopica (praticamente tutte quelle che usavano software libero e tecnologie open source [*7] [*8]), e che nascondevano il fatto di essere industrie capitalistiche, erano riuscite a catturare e a indurre sempre più internauti a produrre contenuti per aumentare la loro proprietà privata. Queste persone non si rendevano conto di non star più contribuendo alla comunità libera su Internet. Ma tale comunità era stata oramai già svuotata, ed era stata sostituita da queste proprietà private, il cui capitale fisso è costituito da algoritmi che controllano le condizioni e le relazioni nelle quali gli utenti si incontrano e accedono a quello che rimane di Internet.
D'ora in avanti, catturato in questa trappola pavloviana della proprietà privata, ogni contributo volontario non potenzia più l'autonomia di sé e degli altri, ma, al contrario, contribuisce solamente ad accumulare più proprietà privata, più dipendenza, più scarsità, più assoggettamento alla classe proprietaria.
È stato così che, dopo decenni, il capitale ha trovato finalmente la formula per convertire Internet in una forza distruttiva. Distruttiva, in quanto nega, smorza ed impoverisce le capacità e le necessità della specie umana, che vengono vampirizzate dal lavoro morto, dal capitale.
A partire da quel momento, con un Internet finalmente addomesticata, la barriera esistente fra «offline» e «online», che fino ad allora era stata rigidamente mantenuta, viene rimossa quasi immediatamente, e il «reale» ed il «virtuale» sono cominciano a diventare sempre più indistinguibili.

4. Il confezionamento sotto la forma merce, e la sussunzione reale, sotto il capitale, della produzione di contenuti
Una delle caratteristiche più basilare dell'informatica, è la copia esatta dell'informazione che avviene praticamente a costo zero [*9]. Anche prima di Internet, fin dall'emergere dei computer digitali, in special modo dai Personal Computer, esistevano già reti incredibilmente estese, il cui mezzo di comunicazione consisteva nella copia manuale, su nastro magnetico o su floppy disc, dei dati (programmi, archivi, libri, immagini, codici di programmazione ecc., piratati o gratuiti) fra utenti di computer di tutto il mondo. Internet, il World Wide Web, non è altro che la medesima rete di copiatura di dati diventata automatica e praticamente istantanea, attraverso stazioni ripetitrici di telecomunicazioni - vale a dire, copiatrici automatiche di dati - che coprono tutto il globo con fibra ottica, cavi e radio.
La copia e la diffusione di informazioni diventa pertanto una comunità universale, in cui la copia viene resa disponibile da ciascuno a tutti, e viceversa. Essa avviene quasi in tempo reale, e può includere, ad esempio, una molteplicità di rapporti sugli avvenimenti, oppure le più diverse conoscenze pratiche (per esempio, come riparare le cose, o perfino come costruirle) e teoriche. La molteplicità dei resoconti, che erano ugualmente accessibili a tutti quelli che li cercavano, la molteplicità dei punti di vista su un certo evento e su un certo soggetto, consentiva a ciascuno di potersi formare un'idea abbastanza oggettiva riguardo ai soggetti e agli eventi che interessavano la sua vita.
In questo modo, la trasmissione digitale di informazioni ignora quella che è la base della proprietà privata, la scarsità, dal momento che la trasmissione digitale è di per sé copia, parola che, non a caso, trae origine dal latino "copia", «abbondanza, profusione, eccedenza, pienezza» (parola formata da "co-" «unito, con. in comune» + "opis", «potere, ricchezza, forza, risorse».
Ma questo è assolutamente intollerabile in una società che si fonda su acquisti e vendite costanti, e che pertanto necessita del fatto che tutti si sforzino instancabilmente di imporre continuamente la scarsità, la proprietà privata, come condizione assoluta della sopravvivenza nella concorrenza generalizzata.
Il capitale aveva pertanto disperatamente bisogno di creare un'interfaccia, o un livello artificiale, rispetto alla rete fisica universale della copia libera e gratuita, che fosse capace di rendere scarsa ogni e qualsiasi informazione, doveva renderla difficile da accedere. Era necessario iniettare artificialmente in Internet. nel suo insieme, un rumore assordante e costante, un muro di entropia contro il quale l'informazione si staglia come un qualcosa di separato, di raro, di valorizzato, di privato, di vendibile. Alla fine, solo ciò che è monopolizzabile ha un prezzo, è proprietà privata, merce, vale a dire, ha il potere di imporre il pagamento (e, di conseguenza, il lavoro) come condizione per accedervi, sotto la protezione e la garanzia della polizia, dei tribunali, dello Stato. In ultima analisi, questa scarsità generalizzata dell'informazione è avvenuta soprattutto a causa dello svuotamento di Internet causato dalle «reti sociali», che abbiamo precedentemente descritto. Internet svuotata è una terra di nessuno, un deserto occupato da migliaia di falsi siti creati continuamente su scala industriale (probabilmente da algoritmi, da robot) che mostrano solo pubblicità e ancora annunci pubblicitari, informazioni fraudolente o incomplete, link ingannevoli, truffe, trappole per fregare i soldi degli Internauti, per acquisire informazioni e poterle poi rivendere, per utilizzare i processori degli Internauti a fini occulti, per installare malware, virus, ecc..
Da quel momento in poi, ciascun Internauta, immerso in delle bolle forgiate dagli algoritmi delle reti sociali (e credendosi perfino protetto da essi), si trova ad essere perpetuamente sottomesso ad un'a completa assenza di informazioni, artificialmente scagliato in una palude di frenetica entropia, in una paralizzante valanga di informazioni di qualità estremamente bassa, inutili, manipolatrici e false. Nelle bolle, ogni Internauta diventa, egli stesso, iniettore, ripetitore e diffusore robotico di rumore per tutti gli altri, indipendentemente dalla sua volontà. In tale circostanza, diventa finalmente possibile imporre degli oneri per ottenere le informazioni (conoscenze pratiche, teoriche, arte, programmi, ecc.) che promettono di differenziarsi rispetto al flusso diarroico di rumore artificiale che affligge ogni Internauta.
La sussunzione reale della società sotto il capitale arriva a delle profondità che erano precedentemente irraggiungibili. Le «reti sociali» sono riuscite a sottomettere perfino la stessa soggettività umana alla forma capitale, nel senso che la produzione per la produzione (lavoro astratto), la produzione in quanto fine in sé cieco, nella soggettività è diventato un imperativo (nella «dialettica del riconoscimento» in quanto tale, se si parla in termini hegeliani). Le «reti sociali» sono condizioni sociali tecnicamente progettate in ogni dettaglio dalle aziende affinché i partecipanti esistano l'uno per l'altro (e, di conseguenza, per sé stessi) solo se producono freneticamente contenuti in un presente perpetuo sempre più accelerato. Essi diventano dipendenti dalla contemplazione dello schermo, continuando ad aspettare nuove opportunità di reagire e di produrre più contenuti, più rumore. Produzione che la proprietà privata colloca in anticipo (dal momento che prima ha ridotto i partecipanti, i quali nel precedente periodo di Internet di regola usavano dei pseudonimi, a persone identificate «reali», certificate dalla proprietà privata, vale a dire, dallo Stato, dalla polizia, e classificata in dei profili bio-socio-psicometrici)  per sottometterla in modo che segua la forma merce, per venderla e trarne profitto.

5. Personalizzazione, Temporalità animalizzata, Vigilanza, Frustrazione, Paura, Odio, Trollificazione di massa
Come abbiamo detto, nel primo periodo di Internet, l'utilizzo di pseudonimi era la regola. Questo aveva come effetto che i soggetti non venivano mai principalmente ricercati, dibattuti, creati, sviluppati e sfruttati  per il loro aspetto personale, familista, feudale, contrariamente a quanto avviene oggi. Gli "alias" si contattavano, comunicavano e si relazionavano a partire dagli interessi, dalle curiosità e dalle passioni umane, e non in funzione del vuoto di un'identità che dev'essere costantemente affermata nella competizione per il presente perpetuo della «timeline», una linea temporale che è una travolgente valanga entropica.
Questa condizione, simultaneamente universalista e singolare (ma non personale), all'interno della quale ciascun Internauta si incontrava, e che costituiva la Internet iniziale, portava in sé una percezione del tempo e dello spazio che era storico-globale: quando qualche pseudonimo contribuiva, pubblicando su Internet, si atteneva alla prospettiva secondo la quale il suo contributo sarebbe stato accessibile a tutta l'umanità, e che sarebbe rimasto disponibile per sempre nel futuro, e per le generazioni future. Pertanto, le passioni, a partire dalle quali i pseudonimi si relazionavano, venivano espresse in quanto passioni che contribuivano all'umanità e al futuro della specie, per mezzo di elaborate opere prime che non avrebbero dovuto essere corrotte dal tempo, né dovevano avere frontiere nella spazio (esistevano migliaia di simili siti web, ammirevoli, che oggi sono stati abbandonati o che, nella maggior parte dei casi, sono scomparsi).
Era esattamente il contrario di quanto avviene oggi, dove tutti si incontrano in una condizione in cui sanno già che il loro contributo vale solo per adesso, per coloro che hanno familiarità, dove reagiscono gli «amici» e gli «amici degli amici», e sparendo dalla visione di qualsiasi pubblico , essendo rifiutati come se subito dopo fossero già qualcosa di obsoleto. Tutto questo comporta per ciascuno, quando si pubblica qualcosa, di avere in anticipo la percezione di essere inutile, in una sorta di stanchezza per cui non vale la pena tentare di elaborare e pubblicare qualsiasi cosa che vada al di là di questo tempo «di ora», al di là di questo spazio feudale fatto di «amici e familiari» e fatto della ricerca istupidente della «viralizzazione».
E anche dal momento che la maggior parte delle attività gratuite su Internet (in principal modo la pirateria) venivano perseguite da parte dello Stato nella vita «offline», ecco che l'utilizzo di pseudonimi diventava una necessità vitale (i metodi di identificazione su Internet, da parte dello Stato e delle imprese, erano ancora primitivi, se non poco usati). Ovviamente c'erano dei «troll» (persone che scaricavano le loro frustrazioni, creando confusione nei forum), ma non costituivano in alcun modo una minaccia reale, in quanto nessuno era così pazzo da esporsi su Internet col suo proprio nome, foto e indirizzo.
Oggi è il contrario, praticamente quasi tutti accettano di esporsi ai troll, psicopatici, mafie, polizia, padroni e imprese, e sono costretti ad esporsi se non vogliono restare esclusi dalla vita sociale. Come minimo, vivono un uno stato di costante paura di vedere distrutta la propria immagine (nella società dello spettacolo, questo è tutto quello che si possiede), oppure che - in una situazione personalistica, accelerata, senza tempo, che permette solo delle reazioni emotive - obblighi tutti, costantemente frustrati, a trasformarsi in troll [*10].

6. Sussunzione degli ingranaggi che costituiscono la mente: la memoria, il pensiero, la volontà, il desiderio
Non è solo la relazione sociale delle conoscenze, delle capacità e degli affetti di ciascuna persona con gli altri, ma è anche la relazione che ciascuna persona ha con le idee, gli affetti, le conoscenze e le capacità che si trovano al proprio interno, ad essere ogni volta sempre più sussunta realmente sotto il capitale. Nell'esternalizzare sulle reti sociali le proprie conoscenze, le proprie facoltà e sentimenti, tutto queste cose diventano, in pochi istanti, non interessanti, obsoleti e da buttare. Non esiste più né tempo né spazio per poter sviluppare profondamente una qualche idea, una qualche conoscenza o capacità, per sé stessi, anche perché non c'è più né tempo né spazio in cui tali idee, conoscenze e capacità possono essere espresse per venire fruite e confermate (o meno) come potenza umana oggettiva, sociale.
Socrate criticava la scrittura perché essa esternalizza la memoria umana in oggetti, cosa che renderebbe le persone non in grado di ricordare, facendoli diventare sempre più smemorati e sempre meno autonomi. Forse esagerava, ma è una descrizione esatta di quel che stiamo vedendo oggi: la memoria di ciascuno viene sempre più esternalizzata, abbandonata, per venire appropriata da aziende che rendono opaco e difficile l'accesso alla forma originale in cui è stata esternalizzata, lo rendono «scarso», in modo che, dopo essere stata sviluppata, resa più facile, «masticata» dagli algoritmi, manipolata e formattata per creare dipendenza, divenga merce. Si tratta di un modus operandi diametralmente opposto a quello della precedente comunità gratuita di Internet, la cui ricchezza consisteva unicamente nella crescita dell'autonomia, delle capacità di coloro che partecipavano, che diventavano più potenti attraverso le storie e le memorie che ciascuno apportava.
Questa attuazione algoritmica della mente ai fini della proprietà privata può essere vista nelle attuali interfacce uomo-macchina, che diventano sempre più bestializzanti, destituite di tutte quelle che sono le ampie possibilità di configurazione e modificazione che avevano precedentemente (perfino i più semplici software degli anni '90, sembravano essere dei complessi pannelli di navi spaziali). Le interfacce attuali (dei sistemi operativi, degli applicativi, dei programmi, delle macchine e perfino quelle di intere industrie, ecc.) sono in genere dei grandi pulsanti colorati tipo asilo nido, con tutte le diverse possibilità bloccate, inaccessibili o nascoste.
Oggi, le aziende vendono una presunta massima facilitazione che presumibilmente serve ad economizzare il massimo del tempo (che è «denaro», il tempo astratto del capitale), e questo viene reso possibile grazie agli algoritmi delle imprese che vigilano in maniera invisibile sulle azioni della vita di ogni persona e ne analizzano il profilo bio-socio-psicometrico  per poi presentare ciascuno, sotto forma di interfaccia uomo-macchina, gli oggetti di libera scelta che si suppone ognuno voglia già scegliere [*11]. Come abbiamo già visto nel capitolo 4, questa «facilitazione» è stata possibile solo grazie alla marea di rumore che è stato iniettato artificialmente in Internet (e dove programmi come torrent, da cui si scaricavano gratuitamente film, programmi e musica, sono stati svuotati, e dove proprietà private specializzate nello streaming, i cui algoritmi «rendono tutto più facile» - purché si paghi - come netflix e spotfy, ne hanno preso il posto in maniera inarrestabile).

7. La lavorizzazione dell'esistenza
In special modo, quello che fa un'interfaccia uomo-macchina è elevare in maniera quasi assoluta il potere delle imprese sull'esistenza umana. Con la popolarità degli smartphone - computer miniaturizzati connessi a Internet, dotati di telefono e di altri sensori (fotocamere, videocamere, microfoni, geolocalizzatori, accelerometri, giroscopi, sensori di prossimità, magnetometri, esposimetri, termometri...), diventati onnipresenti ed obbligatori per chi non vuole essere escluso dal contatto sociale - ogni persona viene praticamente monitorata in quelli che sono tutti gli aspetti della sua vita, per 24 ore al giorno, da degli algoritmi della proprietà privata. I dati raccolti dalle aziende consentono di implementare, attraverso quegli stessi smartphone, una sussunzione della società sotto il capitale che oramai copre tutti i più minuti dettagli della vita quotidiana, del lavoro e del consumo, e che stanno diventando sempre meno distinguibili, e dove tutto diventa in una maniera o nell'altra una qualche forma di lavoro, di «aggregazione di valore».
Perfino in maniera inconscia, a causa dello sviluppo e dell'applicazione delle tecniche di gamification, vale a dire, progettare le condizioni di qualsiasi tipo di attività affinché essa sembri un giochino, manipolando in maniera pavloviana l'utente affinché svolga gratis dei compiti sotto il comando della classe capitalista, proprietaria di tali condizioni .
Con tutta una loro ideologia millenaria e utopica, le imprese di «economia collaborativa», come ad esempio Uber, annunciano di offrire il tocco di Mida che trasforma in capitale quelli che sono gli oggetti di consumo dei proletari (casa, automobile, attrezzi. mobili, elettrodomestici, giocattoli, ecc. che sono solo un costo - vengono consumati, vale a dire che si usurano a partire dal loro utilizzo), così come i loro corpi e la loro mente, ossia, annunciano la transustazione dei proletari in capitalisti, diventati finalmente liberi dal lavoro salariato e padroni del loro tempo [*12].
In realtà, con tutta questa retorica futuristica post-industriale, non ha fatto altro che resuscitare semplicemente, grazie all'altissima tecnologia, la più arcaica forma di sussunzione del lavoro sotto il capitale industriale: il «putting-out system» ["il sistema di darla via"], che include la tenebrosa figura dell'«intermediario». La differenza consiste nel fatto che, ora, l'intermediario (la classe proprietaria), grazie ai suoi «efficienti» algoritmi, che per mezzo di Internet analizzano e confrontano le prestazioni di ognuno rispetto a quelle di tutti gli altri, secondo una portata che coinvolge l'intero pianeta, riesce ad imporre sempre più ai proletari una competizione globale continuamente ottimizzata, al fine di riuscire ad offrire il massimo del lavoro in cambio del minino di salario. L'unica cosa che separa questo limite massimo di sfruttamento dall'essere assoluto, è il tempo per il sonno e per l'alimentazione (anche se sempre più spesso viene interrotto dal padrone, grazie ai suddetti smartphone). Mangiare e dormire sono necessità ancora insormontabili dei proletari di tutto il mondo. Sono l'ultima frontiera dello sfruttamento, e sono inaccettabili, intollerabili, inconcepibili per il sistema della proprietà privata [*13].
Inoltre, la produzione, il trasporto e la distribuzione di tutte le merci sono diventate inseparabili da Internet. Nelle catene di distribuzione, chiamate anche catene di rifornimento o reti logistiche, a comandare direttamente è l'aumento o la diminuzione della domanda di merci (senza esseri umani, per mezzo degli algoritmi), attraverso la trasmissione di informazioni via Internet, l'attivazione automatica delle varie fasi di produzione, di assemblaggio, di stoccaggio e flusso (marittimo, stradale, ferroviario, aereo) delle merci per tutto il mondo. Assai spesso sono i segnali trasmessi ad azionare direttamente le macchine, robot, nastri trasportatori, la movimentazione di container da e verso le navi, e la contrattazione e la movimentazione dei lavoratori dispersi e frammentati per tutto il pianeta, tutti coloro i quali sono collegati per mezzo di queste catene logistiche, che sono proprietà privata di giganteschi «intermediari» invisibili [*14].
I proletari di tutto il mondo non sono mai stati cos' vicini gli uni agli altri, ma sono sempre più collocati in una situazione nella quale non vedono che stanno lavorando direttamente per il capitale, per i padroni, per la classe proprietaria. Tutto quanto fa sembrare che stiano lavorando immediatamente per sé stessi e contro gli altri proletari in competizione fra di loro (il risorgere, oggi, del provincialismo, del razzismo, della xenofobia, del nazionalismo, dell'identitarismo di sinistra e di destra, del separatismo, del militarismo, del fascismo... che per molti è un mistero insondabile non è altro che la banale espressione dell'estrema intensità di quella che è la competizione per la sopravvivenza fra i lavoratori, la competizione per ottenere il «merito» della sottomissione esclusiva alle «loro» classi proprietarie). In cambio, essi pensano di star guadagnando denaro per poter soddisfare la domanda automatica del mercato globale che viene loro segnalata dalle interfacce uomo-macchina dalle quali sono ormai circondati [*15] [*16].

8. La trasfusione, nei pori del mondo fisico, delle forze distruttive - L'incorporazione della proprietà privata nella «natura delle cose»: l'Utopia suprema del capitale (per fortuna ancora irrealizzabile)
Innanzitutto, il dominio del capitale è da sempre l'incorporazione artificiale della scarsità nella natura oggettiva. È la natura trasformata, per mezzo del lavoro alienato degli esseri umani, in un potere separato da essi: la proprietà privata. La popolazione viene ad essere privata di quelle che sono le sue condizioni di esistenza materiale, e, di conseguenza, tutti, democraticamente, si vedono costretti a comprare, e per questo, se vogliono sopravvivere, sono costretti a vendere volontariamente la loro merce.
Nelle società precapitaliste, nella servitù e nella schiavitù, il dominio era personale, direttamente degli uomini su altri uomini, essendo la volontà personale imposta agli altri direttamente, negandoli. Diversamente, l'aspetto più fondamentale della società capitalistica è che essa trasforma il dominio e lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo in qualcosa che è volontario, in una manifestazione del libero arbitrio di ciascuno. Ciò perché questo si verifica in una condizione coercitiva oggettiva, la privazione della proprietà, che si impone oggettivamente, vale a dire, impone in maniera «neutra» («democratica», «impersonale», «ragionevole», «giusta», «naturale») la necessità di competere per la sottomissione alla proprietà privata, alla classe capitalista, per guadagnare un salario e sopravvivere.
Dal momento che ogni proletario, poiché viene privato dei mezzi di produzione, non ha niente da vendere, se egli vuole sopravvivere (socialmente e fisicamente) ha solo l'opzione di vendere volontariamente sé stesso, le sue capacità vitale, sul mercato del lavoro, ai proprietari dei mezzi di produzione (la classe capitalista). Egli ha il libero arbitrio, dal momento che «può» scegliere di morire di fame, oppure di mendicare, anziché vendersi. Comprati dai capitalisti, questi ultimi consumano una tale merce: il proletario viene messo a lavorare e a trasformare la natura, aumentando la proprietà privata, il potere oggettivo che gli si oppone come una forza ostile. Quanto più egli lavora, tanto più diventa privo della proprietà, tanto più potente diventa la proprietà privata, e tanto più egli trasferisce le sue capacità umana in essa (capitale fisso: macchine, automazione, conoscenza e know-how che diventano proprietà intellettuale), creando attivamente quello che diventa sempre più scartabile, privo di proprietà, proletario.
Insomma, nella società capitalistica, il dominio si presenta come un imperativo della realtà oggettiva, una «forza della natura» («seconda natura») che è stata creata dal lavoro umano. La scarsità, la privazione di proprietà, la proprietà privata, si riproduce come una forza indipendente che comanda tutti gli esseri (umani e non umani), inclusa la persona del capitalista ( e anche gli Stati) che, se perdono nella competizione per accumulare capitale, vengono dichiarati falliti, e sostituiti automaticamente da altri che sono in questo più «efficienti» (ed è per questo che usiamo la parola «capitale», poiché è essa, di fatto, che comanda al società della merce secondo una logica autonoma, automatica, ma opaca, dal momento che i capitalisti sono solo agenti, personificazioni del potere del capitale, obbligati ad applicare sugli esseri umani i dettami dell'accumulazione del capitale, pena cadere nell'inferno di diventare anche loro proletari).
Ma, fino ad oggi, la società capitalista non è stata possibile senza un potere centrale, il quale, con polizia e prigioni, impone con la violenza il rispetto della proprietà privata, convalida centralmente l'equivalenza dei mezzi di scambio e di pagamento (denaro, credito), protegge e garantisce i contratti fra proprietari, e reprime la lotta dei proletari contro la deprivazione delle loro condizioni di vita (lotta che, per definizione, non rispetta la proprietà privata di tali condizioni). Ragion per cui, la società capitalista ha un suo tallone di Achille abbastanza definito e visibile, che, se viene attaccato, inceppa istantaneamente tutti gli ingranaggi del sistema di proprietà privata. Ovviamente, l'esistenza di questo punto vulnerabile, è causa di grande preoccupazione per la classe proprietaria. Finora, per la classe proprietaria, l'unico modo di giustificare e legittimare lo Stato - che è semplicemente un'impresa territoriale, che, come ogni capitale, è una dittatura che viene esercitata attraverso l'imposizione del lavoro salariato, sottomessa ai medesimi imperativi dell'accumulazione di capitale da parte di qualsiasi altra impresa - è stato quello di presentarla in maniera fantasiosa come neutrale, al di sopra delle classi e del capitale. Vale a dire, come «Stato di Diritto», come rappresentanza di soggetti (o cittadini) la cui «autonomia» coincide con la loro sottomissione volontaria ad esso, dove il cittadino elegge il proprio capo (che compete per essere scelto nelle urne), come rappresentanza della «volontà generale del popolo». In altre parole: l'ideologia democratica (o «socialista», come avviene nei paesi del capitale nazionalizzato). Tuttavia, questa legittimità puramente immaginaria non è mai pienamente convincente, e molti capitalisti preferiscono predicare che lo Stato sarebbe del tutto separato ed estraneo rispetto alla proprietà privata, mentre in realtà, come abbiamo visto, esso è sempre stato di fatto un'istituzione suprema ed indispensabile che della proprietà privata garantisce l'esistenza. È semplicemente impossibile che la proprietà privata esista senza polizia, senza tribunali, senza forze armate e senza prigioni. Perfino oggi.
La tecnologia «block-chain» (il cosiddetto «contratto intelligente») oggi viene finanziata con l'esplicito oggettivo che, nel futuro, possa rendere la proprietà privata qualcosa che non dipenderà più assolutamente da nessun «potere centrale», rendendolo incorporato nel comportamento automatico e decentralizzato delle cose e, pertanto, nelle relazioni fra gli esseri umani mediate da queste cose. L'obiettivo è quello di fare in modo che ciascuna cosa verifichi spontaneamente, omologhi e convalidi quella che è la presupposta condizione di deprivazione di proprietà. Ciò significa autenticare istantaneamente la scarsità artificiale di tutto per mezzo dell'equivalenza quantitativa imposta dalla proprietà privata: a partire dall'omologazione della limitazione dell'utilizzo del pagamento, alla limitazione della copia per mezzo di licenze di copia, all'autenticazione dell'ordine di eseguire il lavoro, dall'autenticazione istantanea del rispetto dei brevetti e della proprietà intellettuale in tutte le cose, e fino alle leggi che stabiliscono i casi in cui si applica, ecc..
In questo modo, ciascun oggetto tenderà a smettere di essere un «prodotto» - che viene comprato solo una volta, ed il cui uso, dopo essere stato comprato, diventa indipendente dall'impresa e dal mercato - per diventare un «servizio» - nel quale, per il suo utilizzo, viene continuamente pagato un abbonamento o una licenza, come se si trattasse di un affitto. Apparentemente, questo rende il suo uso a breve termine molto più a buon mercato, ed accessibile per i proletari, ma invece farà sì che la classe proprietaria avrà il potere di imporre direttamente a tutti e a chiunque il dettame della scarsità continuata. e la «monetizzazione» perfino di quelli che sono i gesti più banali (specialmente attraverso la diffusione della tecnologia indossabile, ad esempio, «abiti intelligenti», realtà aumentata, protesi «transumane», sensori biomedici, ecc.) quali vestirsi, camminare, andare in bagno, evacuare, sbadigliare, guardare, ascoltare, parlare, respirare, fino alla digestione, alla circolazione del sangue, alle sinapsi cerebrali... Tutti i gesti, e perfino il funzionamento dell'organismo umano, da quel momento in avanti, incarneranno la coercizione al lavoro. Sarò necessario, in maniera ancora più intensa di quanto già lo sia oggi, lavorare disperatamente per poter ottenere il denaro necessario a pagare per esistere.
È uno scenario in cui l'«Internet delle cose» assumerà di per sé, automaticamente, il ruolo di cuneo poliziesco-penale che separa le capacità umane dalle necessità umane, imponendo la sottomissione alla riproduzione della proprietà privata dei mezzi di vita, e alla produzione di assolutamente tutti gli aspetti di quella che è l'esistenza umana. Come abbiamo visto, l'utopia della proprietà privata è stata sempre quella di convertire la totalità delle circostanze nelle quali si trovano gli esseri umani, in imperativi «naturali», «oggettivi», «automatici» e «volontari» di sottomissione ai dettami dell'accumulazione del capitali, tutt'al più a quelli del lavoro. Ora la differenza è che, con queste due tecnologie, il Blockchain e l'Internet delle cose, la polizia sarà automatica, e sarà nella «natura delle cose». La prigione potrà essere il divano di casa tua, oppure la propria «casa intelligente», che improvvisamente blocca la risorsa; o potrebbero anche essere tutte quante le cose (tutti i «servizi» nella casa intelligente e nella smart city) che improvvisamente smettono di funzionare per lui, isolandolo da una società che esiste solamente se si è connessi ad essa). E il giudizio del «crimine», un algoritmo decentralizzato che restituisce al «criminale» - il quale non dev'essere informato del fatto che sia stato accusato, giudicato e condannato (come già avviene quando si viene «bannati» sulle reti sociali e nelle imprese dell'«economia collaborativa») - l'esecuzione automatica della pena. «Diritto» e «fatto» diventano indistinguibili. L'ideologia dello «Stati di diritto» diventano del tutto inutili al fine di legittimare il cuneo poliziesco-penale, il quale diventa quella stessa oggettività «neutrale» delle condizioni in cui ciascun individuo atomizzato si trova costretto a «scegliere liberamente», volontariamente [*17].
Per fortuna, tutto questo è ancora un sogno del capitale. E non v'è dubbio che il minimo tentativo di realizzarlo, in una società che è un meccanismo cieco , del cui funzionamento i suoi capitalisti ed i suoi tecnocrati sono intrinsecamente quelli che ci capiscono meno (in quanto hanno una prassi - e pertanto anche un modo di pensare - del tutto offuscata dal feticismo delle merci), porterà di sicuro ad effetti incontrollabili che minacceranno di perturbare e minare proprio il funzionamento globale del capitale stesso. (Ad esempio, si veda cosa è successo di recente con la piccolissima esperienza legata alla criptovaluta bitcoin - dalla quale ha avuto origine l'idea stessa del Blockchain -, creata a partire da una fede feticistica incrollabile nella mano invisibile che opera per mano della tecnologia semovente, per mano del lavoro morto).
È assai più probabile che, alla fine, la tecnologia blockchain verrà utilizzata principalmente dagli Stati, per mantenere i propri archivi aggiornati istantaneamente, e per rendere automaticamente unificati e immediati al massimo quelli che sono gli schemi di vigilanza, di giudizio, di punizione e di polizia. Oppure - e il che è lo stesso - attraverso quelle imprese che, nella divisione del lavoro, svolgono il ruolo unificante (la cosiddetta «interoperabilità») necessario all'andamento della società capitalista (la quale, senza di esso, lacerata com'è dalla concorrenza della guerra di tutti contro tutti che la fa muovere, collassa), e a tal fine riscuotono contribuiti, tasse, per l'accesso a quei Blockchain che sono di loro proprietà privata - per esempio, sono tali quelle implementazioni del Blockchain come Ethereum -, proprietà privata che allo stesso tempo andrà a costituire l'infrastruttura unificante indispensabile per tutte le transazioni e le cose prodotte nella società capitalista. In pratica, questo contribuito equivarrà ad un'imposta, per cui queste imprese saranno l'equivalente di uno Stato, che a questo punto farebbe a meno di abbellirsi  usando una facciata ideologica democratica («repubblica», «monarchia costituzionale», «socialismo»), per diventare direttamente una monarchia assolutista corporativa (del resto, com'è sempre avvenuto in un modo o nell'altro: dittatura dell'imprenditoria). Per quel che attiene all'intelligenza artificiale, e alle illusioni nei suoi confronti, e per quanto riguarda la disoccupazione e il reddito di base universale [UBI], ne abbiamo parlato altrove, si tratta di un'altra panacea della classe proprietaria.


9. Conclusione: Scordiamoci la speranza!
Come abbiamo visto in precedenza, l'auto-costituzione del proletariato in classe autonoma contro il capitale - la lotta di classe - non avviene mai a partire da uno sfondo vuoto, o funereo, al quale si opporrebbe la libera volontà o il libero arbitrio degli sfruttati pieni di speranza, i quali romperebbero l'isolamento attraverso una comunità di sofferenza, di dolore e di colpa.
Nella realtà concreta, avviene esattamente il contrario: le capacità e le necessità umane, le forze produttive, diventano simultaneamente un fine in sé ed un mezzo di lotta del proletariato contro il capitale, e la rottura dell'isolamento e dell'atomizzazione, la fraternizzazione, e la sua irruzione in quanto classe storica mondiale, così come la sua sconfitta o la sua vittoria, dipende solo da questo.
Fintantoché l'altro viene vissuto, in pratica, come causa di impotenza, di negazione dei desideri e dei bisogni, come impedimento alla sopravvivenza nella competizione di ciascuno contro tutti per la sottomissione alla proprietà privata dei mezzi di vita, non esiste la benché minima possibilità di spezzare l'atomizzazione e l'isolamento. E i tentativi di romperlo per mezzo della «forza di volontà», delle «giuste idee»  o attraverso l'attivismo non fanno altro che riprodurre solo quelle che sono le identiche circostanze, tutt'al più creando una competizione moralistica ancora più insopportabile, introducendo così nella soggettività umana un livello ancora più estremo, quello del «fare per fare», la «produzione per la produzione», la sussunzione reale sotto il capitale.
Alla libertà, che consiste nell'affermazione pratica delle forze produttive della specie umana, il capitale contrappone la libertà fittizia del libero arbitrio, la libera scelta, la libera volontà. Questa libertà immaginaria è il modo in cui esso sottomette e adatta la soggettività umana alla separazione di capacità e necessità, che vengono violentemente separate per mezzo della privazione di quelli che sono i loro mezzi (proprietà privata). Questa pseudo-libertà serve a rivolgerli contro sé stessi, trasformando in forze distruttive quelle che sono delle forze produttive, mediante l'accumulazione di lavoro morto, rendendoli dei servi attivi dell'imperativo di scegliere fra quelle che sono le innumerevoli opzioni di sottomissione e di sfruttamento che il capitale presenta al fine di riprodursi indefinitamente. Le facoltà e i bisogni umani vengono creati, si producono e si sviluppano nelle condizioni di esistenza materiale che esse stesse stanno trasformando, vale a dire, nella prassi. Nel far questo, esse producono sé stesse, facendo emergere, in questa trasformazione, facoltà, potenzialità, desideri e necessità inedite, scoprendo così potenziali inimmaginabili ed impossibile nelle condizioni precedenti. Non esiste scelta libera. Scegliere, per definizione, è scegliere fra cose già note, già esistenti: fra elementi che compongono lo stesso status quo. Nella vera libertà, al contrario, non si sceglie niente, non viene selezionato niente di ciò che è possibile, ma, trasformando quelle che sono le condizioni nella loro totalità, ecco che irrompe ciò che viene sempre considerato come rigorosamente impossibile.
Ciò implica che non ha alcun senso il fatto che la teoria comunista venga fatta competere con le altre teorie, affinché possa essere scelta dagli sfruttati, non ha senso che venga resa popolare, che venga fatta diventare «virale». Visto che, come abbiamo visto, non è dalla libera scelta dei proletari che nasce e si sviluppa la loro lotta, la loro libertà, la loro autonomia, ma dalla crescita materialista della loro capacità di agire (dalla loro capacità di affermare i loro desideri nella pratica, di soddisfare le loro necessità, di svilupparle associandosi come classe senza frontiere contro la dittatura del capitale), la quale è indistinguibile dalla crescita della loro capacità di pensare in maniera autonoma. Ed è solo come espressione di tutto questo che ci si può appropriare della teoria comunista  secondo quelli che sono i suoi stessi termini, anziché declassarla riducendola ad essere una delle tante nella società dello spettacolo. In altri termini: è dalla prassi comunista che nasce la necessità di appropriarsi delle teorie presenti e passate che hanno a che fare proprio con tale prassi. Allo stesso tempo, tutte queste teorie vanno criticate, liberandole dagli aspetti distorti del passato, in modo da sviluppare la teoria della sua prassi concreta, la conoscenza di ciò che è oggettivamente necessario fare per distruggere la società capitalista e liberare la strada affinché il processo dell'irruzione dell'impossibile arrivi fino in fondo.
Tutto questo implica che, nei lunghi periodi di incapacità pratica, come quello attuale (di profonda sconfitta del proletariato), la minuscola minoranza che prende partito per il comunismo sviluppi delle teorie la cui unica importanza sia quella di comporre un'analisi radicale della società capitalista, di come muta il dominino e lo sfruttamento, e, soprattutto, della situazione delle necessità e delle facoltà umane. Sono queste che, di tanto in tanto, ma prima o poi, irrompono come forze produttive selvagge, anche perché il capitale è destinato ad invocarle periodicamente per poter espandere le condizioni materiali di intensificazione dell'accumulazione, liberando senza volere tali forze. Ma poiché ogni trasformazione delle condizioni di esistenza crea un'irruzione da parte dell'impossibile, dell'inaspettato e dell'imprevedibile, ecco che il capitale allora si vede costretto a lottare violentemente per addomesticare queste forze, per rivolgerle contro sé stesse, dal momento che minacciano di tracimare, di abolirlo, di superarlo.
A partire dalle analisi delle contraddizioni e delle potenzialità che si sviluppano nella società capitalista, la teoria attualizza il programma comunista, che non è altro che uno sforzo di sintesi (sempre incompleto, fino a che il capitale e lo Stato non saranno aboliti) delle necessità pratiche oggettivamente indispensabili (e, come abbiamo visto prima, tutte rigorosamente impossibili) per poter superare le attuali società di classe.
Ad esempio, di fronte al fatto che scioperi, proteste e occupazioni devono essere addomesticati e canalizzati da parte delle diverse fazioni della classe dominante che concorrono fra di loro per dirigere sia il lavoro salariato che il capitale e lo Stato (a partire dai burocrati di sinistra e di destra, fino ad arrivare alle varie fazioni legali ed illegali del capitale nazionale ed internazionale, ai capitalisti finanziari, commerciali e industriali), appare comprovato come oggi sia un'illusione supporre che queste tattiche possano portare a delle graduali riforme capitalistiche a favore dei lavoratori (ad esempio, quelle in direzione di un «welfare»). Contro una simile illusione, i comunisti prendono posizione affermano la necessità oggettiva di superare queste vecchie tattiche, sostituendo lo sciopero con la tattica della produzione libera, la quale, insieme al suo diffondersi con rapidità in maniera esponenziale ed incontenibile in tutto il mondo, abolisce immediatamente l'impresa e il posto di lavoro. Questa rapidità è necessaria per abolire la divisione del lavoro - vale a dire, le condizioni di esistenza della merce, dello Stato e del capitale - prima che il capitale possa avere il tempo di studiare e mettere in atto la reazione, e questo prima che le scorte si esauriscano obbligando a scambiare - compravendere - per ottenere prodotti fabbricati in altre parti del mondo di cui si rimarrebbe privati, oppure che costringerebbe a competere in modo che i prodotti possano essere scambiati vantaggiosamente, riproducendo così al loro interno, necessariamente, lo sfruttamento e la società di classe. Si tratta di sopprimere la proprietà privata dalle condizioni di esistenza universalmente interconnesse (le catene di approvvigionamento e i mezzi di produzione e di distribuzione globali), con l'obiettivo di abolire ogni e qualsiasi sistema di ricompense e punizioni, liberando le forze produttive rendendo la comunità umana globale espressione dei desideri, dei bisogni e delle capacità umane in quanto fine in sé.

Humanaesfera - Pubblicato nel luglio 2018 -

NOTE:

[*1] - Una breve storia sintetica di come è stata creata Internet, e di come, praticamente per caso, i suoi protocolli fondamentali di comunicazione vennero sviluppati da parte di hacker che collaboravano, in una prospettiva universalista, volontariamente, alla Internet Engineering Task Force, dove ogni risorsa doveva essere libera ed ugualmente accessibile da chiunque nella rete, può essere trovato in questo testo: http://www.metamute.org/editorial/articles/immaterial-aristocracy-internet

[*2] - A proposito di alcune evidenti potenzialità di Internet , a partire delle quali il proletariato può abolire la proprietà privata e lo Stato, creando il comunismo generalizzato si veda: http://humanaesfera.blogspot.com.br/2016/01/contra-metafisica-da-escassez_85.html

[*3] - Negli anni 2000, fra le altre cose, è emersa una tendenza tecnocratica la quale predicava che lo sviluppo delle stampanti 3D avrebbe traghettato il mondo «offline» verso il «comunismo» di Internet, causando una rivoluzione tecnica che avrebbe abolito il capitalismo (per esempio, quest'idea è stata difesa da  Adrian Bowyer, Jeremy Rifkin, Paul Mason, e Alex Williams). Riassumendo, l'idea era la seguente: la generalizzazione delle stampanti 3D avrebbe permesso a chiunque di produrre qualsiasi cosa volesse, usando progetti e modelli digitali creati liberamente dagli utenti e resi disponibili gratuitamente su Internet. Le stampanti stesse sarebbero state riprodotte in maniera esponenziale, allo stesso modo, da altre stampanti 3D, in modo che chiunque avrebbe potuto averne gratuitamente una. Questo perciò avrebbe portato a mettere fine alla necessità di scambiare merci, e quindi alla fine del denaro, alla fine della proprietà privata dei mezzi di vita, e di conseguenza alla fine del capitale. L'ideale perfetto sarebbe stato quello di sviluppare una stampante 3D molecolare, che avrebbe prodotto qualsiasi materia prima ed avrebbe costruito qualsiasi cosa a partire dagli atomi di idrogeno, che sono la cosa più abbondante dell'universo. In questa visione, l'equivoco, così come in ogni tecnocrazia, in realtà è quello per cui essa attribuisce alla tecnica un potere immaginario, che presuppone proprio quello che è il feticismo della merce stessa, nella quale la tecnica, le cose e i mezzi di produzione vengono visti come se fossero qualcosa che posseggono in sé una virtù propria, autonoma, separata dalle relazioni sociali , e determinante. In realtà, è il concetto stesso di «tecnologia» - vale a dire, di una logica autonoma che regolerebbe le tecniche indipendentemente dalle relazioni sociali, indipendentemente dalle necessità e dalle capacità umane e dalla lotta di classe - a non essere altro che un sinonimo del capitale, il movimento autonomo del lavoro morto.

[*4] -  Si veda: "Absolute Property", di G. Kay e J. Mott; "L'Anti-Edipo". di Deleuze e Guattari. Ma anche il concetto di composizione di classe, sviluppato dall'Autonomia Operaia italiana negli anni 1960-1970. "Segni e macchine. Il capitalismo e la produzione", di Maurizio Lazzarato, ma anche "I Grundrisse" di Marx, così come "Bozza di un articolo sul libro di Friedrich List", sempre di Marx:
«L'industria può essere vista come un grande laboratorio in cui l'uomo prende per la prima volta possesso delle proprie forze e delle forze della natura, oggettivando sé stesso e creando per sé stesso le condizioni per un'esistenza umana. Quando l'industria viene considerata in questo modo, si astrae dalle circostanze in cui essa oggi opera, ed in cui esiste come industria; non è un punto di vista portato dall'interno dell'epoca industriale, ma al di sopra; l'industria viene considerata non per quello che essa oggi è per l'uomo, ma per quello che l'uomo di oggi è per la storia umana, per cosa egli è storicamente; non è la sua esistenza presente (non è l'industria come tale) quella che viene riconosciuta, ma piuttosto il potere che l'industria ha senza volerlo e senza saperlo, il potere che la distrugge e che crea le basi per un'esistenza umana. [...] Questa valutazione dell'industria è perciò allo stesso tempo il riconoscimento che per essa è arrivata l'ora di essere abolita, ovvero è arrivata l'ora per l'abolizione delle condizioni materiali e sociali in cui l'umanità ha sviluppato le proprie abilità in quanto schiava. Nel momento in cui l'industria non viene più considerata come un interesse usuraio, ma così come lo sviluppo dell'uomo, l'uomo, invece che dall'interesse usuraio, è fatto dal principio e quello che l'industria potrebbe sviluppare soltanto in contraddizione con l'industria stessa fornisce le basi che sono in armonia con quello che dev'essere sviluppato. [...] La scuola di Saint-Simon ha glorificato in ditirambi la potenza produttiva dell'industria. Le forze che l'industria chiama all'esistenza vengono accomunate all'industria stessa, che è come dire, alle attuali condizioni di esistenza che l'industria impone a queste forze. [...] Questa valutazione dell'industria è perciò allo stesso tempo il riconoscimento che per essa è arrivata l'ora di essere abolita, ovvero è arrivata l'ora per l'abolizione delle condizioni materiali e sociali in cui l'umanità ha sviluppato le proprie abilità in quanto schiava. Nel momento in cui l'industria non viene più considerata come un interesse usuraio, ma così come lo sviluppo dell'uomo, l'uomo, invece che dall'interesse usuraio, è fatto dal principio e quello che l'industria potrebbe sviluppare soltanto in contraddizione con l'industria stessa fornisce le basi che sono in armonia con quello che dev'essere sviluppato.» ("Bozza di un articolo sul libro di Friedrich List", di Karl Marx).

[*5] - Questa manipolazione behaviorista deve molto ad un campo di studio accademico, quello della cosiddetta psicologia cognitiva e che esiste dagli anni '80 e che viene chiamata «gestione dell'attenzione» o «economia dell'attenzione», il cui obiettivo è manipolare la percezione e la cognizione della popolazione mettendola al servizio dell'accumulazione del capitale. Le reti sociali sono state progettate da imprese che hanno usato questa «scienza», in modo che gli utenti focalizzano la loro attenzione su di esse, trascurando tutto il resto.

[*6] - Come  Linux, Apache, PHP, MySQL, Python, wiki, ecc.

[*7] - http://www.metamute.org/editorial/articles/infoenclosure-2.0 , questo testo, scritto in quel momento descrive cosa stava accadendo. Si veda anche: https://libcom.org/library/fetishism-digital-commodities-hidden-exploitation-cases-amazon-apple

[*8] - La comunità del software libero e quella del software open source, cui gli hacker aderivano volontariamente contro la proprietà privata dei software, contro il dominio delle imprese e dello Stato (peraltro, è stato grazie a tale proposito da parte degli hacker, che sono stati creati i protocolli di comunicazione, che sono il fondamento del World Wide Web e di Internet), sono state svuotate e la funzione svolta precedentemente da loro è stata sostituita in maniera schiacciante dalle imprese di «startup». Qui, una massa di giovani («nerd») viene direttamente finanziata dal capitale per creare «innovazioni», sviluppando così sempre più modi di lucrare e «monetizzare» tutto quello che fino ad allora non aveva potuto essere sottomesso alla proprietà privata.

[*9] - Il segnale trasmesso nelle vecchie reti analogiche delle telecomunicazioni, si degradava ad ogni ri-trasmissione, a ciascuna copia, sommando al segnale ricevuto il rumore accumulato per tutto l'intero percorso, dall'inizio alla fine. Al contrario, il segnale trasmesso nelle reti digitali viene rigenerato  nella sua esatta forma originale, a ciascuna copia e ad ogni ritrasmissione, dal momento che la trasmissione non più un segnale continuamente variabile (ossia, analogico), bensì un segnale binario (cioè, digitale , formato da «zero e uno»). Pertanto, è necessario che nel segnale vengano ricevuti solo questi due livelli discreti, che servono a rigenerarlo o a copiarlo, il che permette di scartare il rumore esistente fra i due livelli Oppure, misurarlo, correggerlo, per mezzo di calcoli  o, se la relazione fra segnale e rumore è molto bassa, scartare il segnale e sollecitare un rinvio, e tutto questo in maniera automatica), mentre nell'era analogica era necessario rilevare l'intera forma d'onda dei livelli in continua variazione, cosa che rendeva impossibile distinguere il segnale originario dal rumore  che veniva aggiunto dal mezzo di trasmissione (di conseguenza, nell'era analogica, il segnale originale senza rumore era necessariamente proprietà privata di chi stava trasmettendo verso i destinatari, mentre nell'era digitale, questa base fisica della proprietà privata dell'informazione è stata intrinsecamente superata, dal momento che tutti possono avere la copia esatta dell'originale). Inoltre, diversamente da come avveniva con la vecchia trasmissione analogica, una volta stabilita una rete di trasmissione digitale , il consumo di energia necessario a rigenerare (recuperare il segnale binario originale, correggere gli errori, ecc.) e a ritrasmettere il segnale digitale in tutti le connessioni fisiche (cavi sottomarini, fibre ottiche, satelliti, cavi elettrici, radio a micro-onde) è sempre lo stesso, indipendentemente dal fatto che gli utenti si stiano trasmettendo o meno informazioni l'un l'altro. Poiché le connessioni hanno sempre la loro banda occupata da simboli i «zero e uno» a causa dei protocolli di controllo dei livelli 1 e 2 (livello fisico e livello di collegamento) del modello OSI (un'eccezione è quella costituita da alcuni sistemi di radio a micro-onde, che usano uno schema di larghezza dinamica della banda base, e che non è in funzione di una minore o maggiore trasmissione di informazioni per gli utenti, ma è in funzione della relazione segnale-rumore sul mezzo di propagazione del segnale, ossia, l'atmosfera terrestre che varia continuamente). La variazione del consumo di energia si verifica solo nel processo di informazione, il quale si concentra prevalentemente nel computer dell'utente (livelli 4,5 e 6 del modello OSI) e nei router (livello 3 del modello OSI), ma anche così la variazione è insignificante.

[*10] - Il libro "Teoria del Drone". di Gregoire Chamayou (Derive Approdi), esplora le implicazioni dei sistemi di vigilanza totale, e la loro relazione con la repressione e la guerra.

[*11] - Su questo, un testo interessante può essere "Style Is an Algoritm ( https://www.racked.com/2018/4/17/17219166/fashion-style-algorithm-amazon-echo-look )

[*12] - Si veda su questo: "Uberizzazione del lavoro: sussunzione reale della viralità" ( http://passapalavra.info/2017/02/110685 ). E inoltre anche il libro di Adam Greenfield, "Tecnologie radica. Il progetto della vita quotidiana" (Einaudi), che esamina fondo le implicazioni, per la vita quotidiana, di una serie di tecnologie, come lo smartphone, l'Internet delle cose, la realtà aumentata, la fabbricazione digitale, la cripto-valuta, il BlockChain, l'automazione, l'apprendimento attraverso le macchine e l'ntelligenza artificiale.

[*13] - Per capire come tutte queste «novità» si limitano a reiterare e ad intensificare tendenze della società capitalista che sono emerse dopo la sconfitta delle lotte proletarie del 1968, e dopo la crisi della redditività che dura dagli anni '70 e arriva fino ad oggi, si veda questo testo del 1988 che rimane incredibilmente attuale: Il capitolo "I frammenti del capitale", dal libro "Contrattempo - Saggi su Alcune Metamorfosi del Capitale", di  Eric Alliez, Michel Feher, Didier Gille, Isabelle Stengers e con una postfazione di Félix Guattari, pubblicato nel 1988 da Derive Approdi, descrive le enormi trasformazioni che la società capitalista stava attraversando nei decenni 1960-1980.
Circa il sonno, si veda il libro di Jonathan Crary, "24/7. Il capitalismo all'assalto del sonno" (Einaudi).

[*14] - Si veda, di Brian Ashton, La logistica e la fabbrica senza mura ( http://humanaesfera.blogspot.com/2013/03/a-logistica-e-fabrica-mundial.html ).

[*15] - Questa sottomissione alla classe proprietaria che sembra rendere i lavoratori piccoli dei capitalisti, imprenditori, capitale umano, piccolo-borghesi, porta anche a quella che, da parte dei lavoratori, è una lotta illusoria, una sorta di proudhonismo. Questa illusione presuppone che, per realizzare i suoi interessi, basterebbe farla finita con i monopoli delle grandi imprese, e stabilire una società di piccoli produttori (autogestione) che, grazie alle App, scambierebbe fra di esse, le merci «secondo giustizia», stabilendo quello che è il «giusto valore» che remuneri ciascuno. Ma tutto questo è illusorio in quanto lo scambio delle merci è una relazione sociale che, indipendentemente dalla volontà e dalle buone intenzioni, implica la competizione (in modo che si comprino le merci di uno al posto delle merci di un altro, e che si compri a buon mercato e si venda a caro prezzo, ecc.) Competizione e monopoli sono solo dei semplici aggettivi della proprietà privata, che presuppongono la privazione della proprietà, vale a dire, la proletarizzazione, e quindi il lavoro salariato, l'accumulazione del capitale, la classe capitalista, lo Stato... Quanto al valore, anch'esso è una relazione sociale che non dipende dalla volontà o dalle buone intenzioni: il valore è il comando che una proprietà  privata, attraverso la competizione, ottiene sul lavoro altrui, facendo sì che chi compra debba lavorare al massimo per poter comprare (vale a dire, che la sua merce divenga equivalente al massimo del lavoro astratto della società, in cambio del minino del lavoro minimo di quella società), oltre ad imporre che gli stessi lavoratori lavorino al massimo, in cambio del minimo, per tentare di vincere la concorrenza), Perciò, questa illusione va sempre apertamente contestata nelle lotte dei lavoratori.

[*16] - Nel libro di Nick Srnicek, "Platform Capitalism", questa nuova configurazione della società capitalista viene chiamata «capitalismo delle piattaforme». Secondo lui, le piattaforme si caratterizzano per l'estrazione dei dati della società, come materia prima per poterne trarre profitto. Classifica cinque tipi diversi di piattaforma: «L'elemento che conta è che la classe capitalista sia proprietaria della piattaforma, e non necessariamente che essa produca un prodotto fisico. Il primo tipo è quello delle piattaforme di propagande (per es. Google, Facebook), che estraggono informazioni dagli utenti, fanno un lavoro di analisi, e quindi utilizzano i risultati di questo processo al fine di vendere spazio pubblicitario. Il secondo tipo è quello delle piattaforme «cloud» (ad es., AWS, Salesforce), proprietarie di hardware e di software che vengono usati da imprese che dipendono dall'economia digitale, e che li affittano secondo le necessità. Il terzo tipo è quello delle piattaforme industriali (per es., GE, Siemens), che fabbricano hardware e software necessari a trasformare la produzione tradizionale  in processi connessi mediante Internet che riducano il costo di produzione e trasformino i prodotti in servizi. Il quarto tipo è quello delle piattaforme di prodotti (per es., Rolls Royce, Spotify), che generano reddito utilizzando altre piattaforme per trasformare prodotti tradizionali in servizi, ottenendo il pagamento degli affitti, o sottoscrivendo abbonamenti. Infine, il quinto tipo è quello delle piattaforme snelle (per es., Uber, Airbnb), che cercano di ridurre la loro proprietà patrimoniale al minimo, lucrando sulla riduzione al massimo dei costi. Queste divisioni analitiche funzionano spesso insieme all'interno di ciascuna impresa. Amazon, per esempio, viene vista spesso come una compagnia di commercio elettronico, sebbene si sia rapidamente estesa come una compagnia di logistica. Oggi, si sta espandendo nel mercato on-demand (lavoro su domamda) con un programma di Home Service (lavoro a casa) in collaborazione con TaskRabbit, mentre la famigerata azienda Mechanical Turk (AMT) è stata per molti versi un pioniere della gig economy (economia dei lavoretti) e, cosa forse ancora più importante, sta sviluppando Amazon Web Service, come servizio basato sul «cloud». Pertanto, Amazon copre quasi tutte le categorie descritte sopra.»

[*17] - Felix Guattari, Eric Alliez e Maurizio Lazzarato fanno uso dei concetti di assoggettamento sociale (tradotto anche come soggezione sociale) e servitù macchinica (tradotto anche come soggezione macchinica) e servitù macchinica (tradotto anche come schiavizzazione macchinica), per descrivere questa modifica del dominio. Seconda tale ipotesi, negli ultimi decenni, la tendenza è quella che la società capitalista smette di legittimarsi presentandosi come affermazione di libertà del soggetto  che attraversa volontariamente vari compartimenti della società capitalistica per assoggettarsi ad essi (la soggezione sociale). Questa libertà, che ha la soggettività di attraversare le compartimentazioni (quali, il tempo di lavoro e il tempo di riposo, la prigione e la libertà, la scuola e il tempo fuori dalla scuola), culminava nell'autonomia in quanto soggezione volontaria, diritti di cittadinanza, per mezzo dello Stato di Diritto e,     quindi, legittimazione da parte della società capitalista per quel che riguardava i diritti e le libertà democratiche, attraverso lo Stato  del benessere sociale ecc., visto come liberto ed esterni al dominio macchinico del capitale. A partire dagli anni '80, la società capitalista tende a trasmutare, ribaltando quelle che sono tutte queste compartimentazioni, nei confronti dei quali la soggettività che le attraversava veniva rappresentata come se fossero libera dal dominio, mentre ora si presentava immediatamente come servitù macchinica, che poi è esattamente quello che descriviamo in questo capitolo sulla massima utopia del capitale.