Nelle sue "Memorie di un antisemita", Gregor von Rezzori parla di un mondo che in parte è anche quello di Joseph Roth o di Freud, oppure anche quello di scrittori posteriori, come Hermann Broch («sono un figlio di sonnambuli», scrive von Rezzori, arrivato quasi alla fine delle "Memorie") e Döblin; ma dal momento che von Rezzori nasce nel 1914, la sua esperienza del periodo fra le due guerre è quella del bambino e dell'adolescente che ha vissuto come se fosse stato sepolto da quei preconcetti e pregiudizi che nella sua famiglia venivano trasmessi da una generazione all'altra. Von Rezzori cresce in un mondo già diviso ma che, tuttavia, celebra ancora il passato - la sua mentalità in formazione viene come colonizzata dal sentimento della nostalgia di un periodo che egli non ha vissuto direttamente, ma che lo circonda in forma fantasmatica (nelle fotografie, negli oggetti, nei racconti ripetitivi dei membri della famiglia). Ma la voce narrante, modellata dalla narrazione degli eventi in modo da poterli spiegare, è altrettanto forte del periodo storico che viene vissuto. Il narratore delle Memorie va avanti e indietro nel tempo , con ironia e mantenendo una profonda attenzione ai dettagli, dove si muovono gli innumerevoli parenti, i conoscenti, i vicini, gli artisti che via via incontra e perde poi di vista:
«Lei ormai non viveva più nel suo stesso mondo, e a separarla erano le frontiere di sei nuovi Stati, e ben presto aveva smesso di parlare la sua lingua, ad accompagnarla rimaneva solo la vita di quelle persone amate e diventate sempre più distanti attraverso l'astrazione delle notizie che arrivavano per mezzo delle lettere, le quali, nel migliore dei casi, erano integrate dalle fotografie, oltre che dalle impressioni generali circa i cambiamenti introdotti dai nuovi tempi documentati dai reportage fotografici sulle riviste illustrate» (Gregor von Rezzori, Memorie di un Antisemita. Longanesi).
Questo passaggio, che ci parla della proliferazione dell'Impero dopo la prima guerra mondiale, è interessante perché si avvicina e costituisce un approccio a questa segmentazione nazionale ed identitaria di quella che era un'incipiente cultura di massa, della quale, in quegli stessi anni, saranno tanti ad occuparsi (Benjamin, ovviamente, ma anche Warburg e Freud - come sostiene Jonathan Crary in "Suspensions of Perception: Attention, Spectacle and Modern Culture"). La vediamo innanzitutto nelle lettere, a volte accompagnate da delle fotografie e, ad un terzo livello, da ritagli di riviste illustrate.
Tutto questo va a formare quell'archivio personale - fatto di spostamenti e traumi che avvengono nel corso di generazioni - che poi sarà centrale per la narrazione di W.G. Sebald, per esempio, il quale in tutti i suoi romanzi cercherà di rintracciare tutte queste reliquie - fotografie, ritagli, diari, annotazioni, biglietti, ecc..
«L' Epiro, per partire dall' elementare, è l' Albania? E la Podolia dove sta, forse vicino alla Bucovina che appare e scompare dalle carte geografiche (un punto fermo: qui era nato il bravissimo e affascinante Gregor von Rezzori, l' autore di Un ermellino a Cernopol e delle Memorie di un antisemita)? Sfido chiunque a collocare da qualche parte questi quattro staterelli: Kartalia, Cahetia, Imeretia e Samtskhe. E i ruteni chi sono? Risposta: non lo sanno nemmeno loro, perché vivono in sei stati, la loro lingua può essere scritta in cinque differenti versioni, nell'alfabeto cirillico e in quello latino, e si considerano variamente ukraini, slovacchi, ungheresi, polacchi, rumeni, jugoslavi e anche carpato-rusyns, che non so cosa significhi. » (Stefano Malatesta, in "Mi manda Bisanzio", su La Repubblica del 27/7/1999)
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