Uscita nel 1929, Deutschland, Deutschland über alles è probabilmente l’opera satirica più provocatoria di Kurt Tucholsky. In questo testamento politico accompagnato dalle fotografie dell’artista dada John Heartfield, Tucholsky punta il dito contro la Repubblica di Weimar, denunciando senza mezzi termini la corruzione della giustizia e della società. Le parole dell’autore berlinese scatenarono polemiche talmente accese da indurre lo scrittore a fuggire definitivamente in Svezia. Un corrosivo affresco dell’epoca che ancora oggi continua a graffiare le coscienze.
(dal risvolto di copertina di: John Heartfield, Kurt Tucholsky, "Deutschland, Deutschland über alles". Meltemi)
Miseria e lussuria
- Il destino di Weimar -
di Ranieri Polese
Alla vigilia delle elezioni europee, torna il ricordo dei brevi, tempestosi anni della Repubblica di Weimar. La prima repubblica della storia tedesca, nata all’indomani della sconfitta e dell’abdicazione del Kaiser Guglielmo II (novembre 1918), durò fino alla presa del potere di Adolf Hitler nel 1933. Parlando dell’edizione italiana di Deutschland, Deutschland über alles (appena uscita da Meltemi), violento manifesto di satira politica di Kurt Tucholsky con le immagini di John Heartfield, pubblicato nel 1929, Vittorio Giacopini scrive: «Torniamo a leggere questo libro adesso, tristissimamente è il momento giusto». E così, sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung», Wolfgang Schneider: «Di questi tempi, ripensare alla Repubblica di Weimar provoca un diffuso senso di angoscia», nel timore appunto che la sorte di quella «democrazia poco amata» possa ripetersi. Siamo del resto in presenza di una crisi economica che, se non può essere paragonata all’iper-inflazione del 1923 e al crollo del 1929-30, genera comunque crescente disagio e scontento. Qualcuno, addirittura, ha rievocato la durezza con cui i vincitori della guerra costrinsero la Germania a pagare le riparazioni di guerra (nel 1923 l’esercito francese occupava la Ruhr) parlando del modo con cui Bruxelles e Berlino hanno trattato la Grecia.
Se infinite tracce (una sterminata bibliografia, nuovi studi, ristampe di opere di allora, cinema e mostre d’arte) ci riportano a Weimar, si torna a ricordare la sfortunata Repubblica anche perché, cento anni fa, nell’agosto del 1919, il presidente Friedrich Ebert promulgava la nuova Costituzione votata dall’Assemblea nazionale riunita in quella città della Turingia. Prendeva forma, con quel testo, una Repubblica semipresidenziale che introduceva il suffragio universale per uomini e donne. Se quella democrazia fu poco amata, spiegano gli storici, fu perché nell’opinione corrente era stata imposta dai vincitori della guerra e perché dovette sottoscrivere le pesanti riparazioni di guerra previste dal trattato di Versailles. Inoltre circolava con crescente successo la teoria della «pugnalata alla schiena»: se i tedeschi avevano perso la guerra, la colpa era dei ricchi banchieri ebrei.
Esposta a continui attacchi da destra e sinistra, la Repubblica ebbe una vita difficile: a renderla fragile cooperavano miseria, disoccupazione, scioperi, disordini nelle strade. Ci furono tentativi di golpe della destra estrema: quello di Wolfgang Kapp (1920: fu bloccato dallo sciopero generale) e quello di Hitler a Monaco, il «Putsch della birreria» del 1923 (Hitler, arrestato e processato, finì in prigione, dove scrisse Mein Kampf). Terroristi di destra uccisero, nel 1921, il politico cattolico Matthias Erzberger e, l’anno dopo, il ministro degli Esteri Walther Rathenau, entrambi colpevoli di aver sottoscritto gli impegni di Versailles. Anche l’estrema sinistra tentò di rovesciare la Repubblica per creare uno Stato socialista sul modello sovietico: nel gennaio del 1919, l’esercito e le squadre armate dei Freikorps («Corpi franchi», milizie di destra) soffocarono nel sangue la rivolta, e il 15 gennaio Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, fondatori del Partito comunista tedesco (Kpd), furono arrestati e uccisi. Il presidente della Repubblica, il socialista moderato Friedrich Ebert, aveva stretto un patto con lo stato maggiore dell’esercito e aveva dato mano libera ai Freikorps: questo «tradimento» segnò per sempre la frattura tra i comunisti e i socialisti, che presentandosi divisi alle elezioni non riusciranno a contrastare l’avanzata di Hitler.
Eppure, superato l’inverno del 1923 («l’inverno dei cavoli» perché erano l’unica cosa da mangiare), per la Repubblica di Weimar si apriva un periodo migliore. Grazie agli americani, il piano Dawes — una sorta di anticipazione del piano Marshall del secondo dopoguerra — fece arrivare in Germania una grossa quantità di dollari come investimenti nelle industrie tedesche. Per cinque o sei anni (dal 1924 al 1930) l’economia riprese a funzionare, Berlino diventò una delle più vive e attraenti capitali europee. Sono gli anni in cui il ministro degli Esteri Gustav Stresemann ottenne una revisione del trattato di Versailles e fece entrare la Germania nella Società delle Nazioni. Con la sua morte nell’ottobre del 1929 e l’arrivo in Europa delle conseguenze del crollo della Borsa di Wall Street, gli «anni d’oro» finirono. La depressione produsse una enorme disoccupazione e ad approfittare del malessere fu l’estrema destra, il Partito nazista, le cui squadre d’assalto, le SA, seminavano il terrore. L’ultimo atto si consumò nel gennaio 1933, quando il presidente von Hindenburg affidava a Hitler, che aveva ottenuto il 33 per cento dei voti alle elezioni politiche del novembre 1932, l’incarico di formare il governo. Dopo l’incendio del Parlamento (Reichstag) di cui venne incolpato un comunista olandese (27 febbraio) e l’arresto dei deputati della Kpd, nelle nuove elezioni del marzo Hitler ottenne il 43,9 per cento e con i voti dell’alleato Partito popolare nazionale tedesco e del Centro cattolico fece approvare la legge dei pieni poteri (24 marzo), che segnò l’inizio della dittatura.
Anni folli
All’inizio del 1919, Harry Graf Kessler, aristocratico, diplomatico, collezionista d’arte, scriveva nel suo diario: «Stiamo ballando sulla bocca di un vulcano». E un americano in visita in quei giorni a Berlino raccontava che tutti i locali notturni di Friedrichstrasse — bar, cabaret, sale da ballo — erano pieni. Ma quando si usciva, ci si trovava in mezzo agli scontri a fuoco fra comunisti spartachisti e soldati: questo però non scoraggiava i frequentatori di quei luoghi di piacere. L’aneddoto si trova nel libro Es wird Nacht im Berlin der Wilden Zwanziger («Scende la notte sulla Berlino dei folli anni Venti»), pubblicato da Taschen un anno fa e ora uscito in edizione inglese e francese. Il testo è di Boris Pofalla, scrittore e critico d’arte del quotidiano «Die Welt», mentre Robert Nippoldt è l’autore delle bellissime illustrazioni: immagini che riprendono fotografie dell’epoca che Nippoldt traduce in un contrastato bianco e nero a cui aggiunge campiture di beige a far da sfondo, a suggerire luci e ombre. Correda il volume un Cd con registrazioni d’epoca (Marlene Dietrich, Anita Berber, Jan Kiepura, Lotte Lenya, Kurt Weill, Friedrich Holländer fra gli altri). Gioca, il titolo del libro, sull’equivoco: può voler indicare le folli notti di Berlino-Babilonia, champagne, droga, sesso; ma vuole anche alludere alla buia notte della dittatura che nel 1933 chiuderà i brevi anni della Repubblica di Weimar.
Certo, comunque, testo e immagini raccontano il clima frenetico e tragico di quel periodo, di cui si ritrova l’eco nei romanzi di Volker Kutscher (Feltrinelli pubblica adesso il secondo volume della serie berlinese: La morte non fa rumore) tradotti maestosamente nel film-tv Babylon-Berlin trasmesso da Sky Atlantic. Anni durissimi con migliaia di reduci di guerra senza lavoro, famiglie senza più casa né cibo. Il culmine venne toccato nel 1923, con la iper-inflazione, quando un semplice pezzo di pane arrivò a costare milioni di marchi. È quello il mondo rappresentato dai disegni e dai dipinti di George Grosz, con i mutilati di guerra che chiedono l’elemosina e i ricchi speculatori che bevono champagne.
Eppure, le notti di Berlino continuavano a essere eccitanti...
Ecco, in questa contemporanea presenza di piaceri e tragedia, di lussuria e miseria, risiede il fascino inquietante, perverso di quella Berlino. Il cui simbolo, forse, è il ritratto della cantante di cabaret Anita Berber eseguito da Otto Dix. Giovanissima, Anita aveva dato scandalo presentandosi nuda sul palcoscenico; poi, molto prima di Marlene Dietrich, andava in scena vestita da uomo, con lo smoking e il cappello a cilindro. Nel dipinto, fasciata in un abito rosso fuoco, sguardo sprezzante, la bocca rossa come una ferita, Anita Berber esibisce una faccia bianca, quasi spettrale. Un effetto della cocaina, spiega lo storico dell’arte Rainer Metzger. Del resto, il suo soprannome era «la regina della neve». Morì nel 1928, a soli 29 anni per un eccesso di droga e alcol.
Quando, nel 1924, la situazione tedesca aveva cominciato a migliorare, Berlino, città senza tabù, divenne il luogo in cui scrittori, intellettuali, artisti arrivavano per cercare stimoli e ispirazione. È quello che si legge nel libro di Luigi Forte, Berlino città d’altri (Neri Pozza), dove si raccontano i soggiorni berlinesi di Joseph Roth, Luigi Pirandello, Simone Weil, Georges Simenon, Thomas Wolfe, Vladimir Nabokov, Boris Pasternak. Senza dimenticare gli inglesi Wystan Hugh Auden, Christopher Isherwood, Stephen Spender, che vissero a Berlino negli ultimi anni della Repubblica. Isherwood nel 1929 raggiungeva l’amico Auden, che gli aveva descritto il clima euforico di una città dove c’erano tanti ragazzi bellissimi e disponibili. Dei tre, Isherwood rimase a Berlino fino alla primavera del 1933, quando ormai Hitler era al potere. Ebbe il tempo di vedere la fine di Babilonia, e la persecuzione di comunisti, omosessuali ed ebrei. Di questa tragica delusione parlano i suoi romanzi berlinesi, Mr Norris se ne va e Addio a Berlino (quest’ultimo, nel 1972, sarebbe diventato il musical Cabaret di Bob Fosse, con Liza Minnelli, vincitore di otto Oscar). Folle e spensierata, comunque, è la Berlino di Lili Grün, la ragazza ebrea di Vienna che arrivava in cerca di musica e divertimento. Il suo romanzo Tutto è jazz (tradotto da Enrico Arosio per Keller) è una cronaca allegra. La vita di Lili Grün fu invece tragica: fuggita da Berlino dopo l’arrivo di Hitler, nel 1942 si trovava in Ucraina. Rastrellata insieme agli altri ebrei dai nazisti che avevano invaso l’Unione Sovietica, fu uccisa e gettata nelle fosse comuni.
Babylon Berlin
Berlino, in quegli anni, è il cinema (Friedrich Wilhelm Murnau, Fritz Lang, Georg Wilhelm Pabst), è il teatro (Max Reinhardt, Bertolt Brecht), è la letteratura (Alfred Döblin, Erich Kästner, Heinrich e Klaus Mann, Else Lasker-Schüler, Gottfried Benn e Vicki Baum), è l’arte (George Grosz, Otto Dix, Christian Schad), è l’architettura e il design della scuola del Bauhaus. Ma è anche la capitale dove tutto è permesso. A farci da guida in quel mondo c’è il libro di Pofalla e Nippoldt, che fa il ritratto di politici, uomini di cultura, attori e attrici, musicisti e cantanti. Ma insieme elenca grandi magazzini, ristoranti, caffè, locali notturni, club; descrive le mode che imponevano alle ragazze pettinature a caschetto alla Louise Brooks e gonne corte (ma anche pantaloni da uomo), mentre tutti sembravano impazzire per il jazz e i nuovi balli (tango, fox-trot, charleston). Nel 1932, ricorda Pofalla, si contavano 119 licenze per night-club di lusso e 400 per bar e sale da ballo. I ristoranti con licenza erano 20 mila, uno ogni 280 abitanti (a New York la proporzione era di uno ogni 433). Notti illuminate, quelle di Berlino ribattezzata «Città della luce»: nel Tiergarten, la ditta Osram aveva eretto una Torre della luce alta 25 metri (ma nel 1939 il regime nazista collocò al suo posto la Colonna della vittoria); sulle facciate e sulle torri dei grandi magazzini Karstadt (1929) una cinquantina di colonne di luce davano l’immagine di un imponente castello.
Per i piaceri consentiti, il luogo preferito era Haus Vaterland vicino a Potsdamerplatz: dodici ristoranti con le cucine del mondo, un cinema da 1.400 posti, una sala da ballo e una terrazza-ristorante in cui si riproduceva il suono del temporale. Ma poi c’erano tutti i peccati possibili, dalla cocaina al sesso in ogni sua declinazione e varietà. Fa testo un libro uscito nel 1931, Berlino, guida alla capitale dei vizi (ripubblicato di recente da be.bra Verlag), il cui autore, lo scrittore Kurt Moreck, proponeva al lettore «in cerca di esperienze, avventure, sensazioni forti» un viaggio nelle notti della moderna Babilonia, la città in cui — scriveva Spender — «non ci sono vergini, nemmeno fra i gatti». Notte e giorno, in ogni parte della città, si trovavano prostitute, quelle registrate presso la polizia e sottoposte a controllo medico, ma anche donne che avevano perso il lavoro, impiegate, madri di famiglia che occasionalmente battevano il marciapiede. Uno studio recente calcola che negli anni Venti c’erano circa 130 mila prostitute. Ma altrettanto numerosi erano i gay: nel rapporto di un commissario di polizia nel 1922 risultano 100 mila, di cui 25 mila minorenni. Nonostante il paragrafo 175 del Codice penale, che puniva l’omosessualità come un reato, c’erano circa 170 bar, pub, sale da ballo per gay: il più famoso era l’Eldorado, per omosessuali maschi e femmine e travestiti (ma era frequentato anche da eterosessuali, in cerca di eccitanti novità). Il Top-Keller era solo per lesbiche. La più grande sala da ballo per gay e lesbiche, il Nationalhof, proponeva serate a tema come il «Ballo degli Apache».
Berlino era anche la sede dell’Istituto per la ricerca sulla sessualità, fondato e diretto da Magnus Hirschfeld, paladino della depenalizzazione dell’omosessualità, morto in esilio in Francia. Luci, musiche, piaceri che non bastavano a nascondere l’altra metà della capitale, il sotto-mondo della miseria. Berlino era divisa in due, l’Ovest ricco e pieno di bar e cabaret alla moda, l’Est miserabile e disperato. A Est c’erano mense per poveri e dormitori pubblici affollati. Alcuni dei quali, con lo spirito caustico dei berlinesi, erano stati ribattezzati con i nomi di locali di lusso: Le Palme, Sala da ballo Froebel.
Marlene se ne va
La sera del 1° aprile 1930, al Gloria Palast di Berlino, ci fu la prima mondiale del film L’angelo azzurro di Josef von Sternberg, con Marlene Dietrich nel ruolo di Lola-Lola, la cantante che porta alla rovina il timido e puritano professor Unrat. Quando si accesero le luci, applausi e ovazioni salutarono la nuova divina. Che, subito dopo, correva a prendere il treno per Amburgo, da dove si sarebbe imbarcata per l’America. Immagine simbolo della Germania sull’orlo dell’abisso, Marlene arrivava al cinema dopo qualche apparizione in spettacoli di varietà. Per il provino, cantò un fox-trot da un film appena uscito, Wer wird denn weinen, wenn man auseinander geht («Perché piangere se uno se ne va, tanto all’angolo di strada ne trovi subito un altro...»). La sfacciata postura e il canto allusivo affascinarono von Sternberg.
Molti anni dopo, nelle sue memorie piene di bugie, di falsità e di risentimenti, Leni Riefenstahl avrebbe raccontato che anche lei aveva sostenuto il provino, «ma il regista cercava una puttana, perciò scelse la Dietrich». Grazie a quel film Marlene sarebbe diventata una star internazionale nemica giurata del nazismo, la Riefenstahl sarebbe stata la regista prediletta di Hitler.
- Ranieri Polese - Pubblicato sulla Lettura del 10/2/2019 -
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