giovedì 7 marzo 2019

C’era una volta… la «scimmia assassina». O no?!?

Decostruire il mito di una preistoria selvaggia e bellicosa
- No, gli uomini non hanno sempre fatto la guerra -

- di Marylène Patou-Mathis * -

Per quanto riguarda la violenza negli esseri umani, si confrontano e si affrontano due concezioni radicalmente opposte. Il filosofo inglese del XVII secolo, Thomas Hobbes, pensava che «la guerra di tutti contro tutti» esistesse fin dall'alba dei tempi (Leviatano, 1651). Per Jean-Jacques Rousseau, l'uomo selvaggio era soggetto a poche passioni e venne trascinato nel «ben più orribile stato di guerra» dalla «società nascente» (Discorso sull'origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini, 1755). L'immagine dell'uomo preistorico violento e guerriero, è il risultato di una sapiente costruzione elaborata dagli antropologhi evoluzionisti e dagli studiosi della preistoria del XIX secolo e dell'inizio del XX. Ed è rimasto scolpito nella mente insieme al sostegno del presupposto secondo cui l'umanità avrebbe conosciuto un'evoluzione progressiva ed unilineare [*1]. A partire da questo, nel 1863, il riconoscimento degli uomini preistorici ha avvicinato il loro aspetto fisico ed il loro comportamento a quello delle grandi scimmie, gorilla e scimpanzé. Per alcuni studiosi, questo «uomo terziario» rappresentava l'anello mancante fra la «razza dell'uomo inferiore» e la scimmia. Perciò, la cosiddetta teoria «delle migrazioni», apparsa negli anni 1880, ha sostenuto che la successione delle culture preistoriche era il risultato della sostituzione delle popolazioni insediate su un territorio con altre popolazioni; essa permise che si radicasse la convinzione che la guerra di conquista fosse sempre esistita. Senza aver mai effettuato un'analisi precisa delle loro usanze, i primi studiosi della preistoria davano agli oggetti intagliati dei nomi che avevano una connotazione bellica: mazza, pugnale ...
Le esposizioni universali e i primi musei riproducevano questo pregiudizio. Così, il Museo dell'Artigliera (divenuto poi Museo dell'Esercito), installato nel 1871 agli Invalides, presentava delle collezioni di armi pre e proto-storiche, antiche, storiche ed etnografiche, e, per ciascun periodo, dei manichini a grandezza naturale armati, in costume da guerra. Una simile presentazione insinua nella mente del visitatore l'idea di una continuità culturale della guerra, a partire dal periodo più remoto dell'umanità. Eppure, secondo quelli che sono gli attuali studi, queste armi venivano usate per uccidere degli animali, e non degli esseri umani.

Benevolenza nei confronti dei disabili
Ancor più del lavoro scientifico, sono state le opere di artisti e scrittori ad aver costruito l'immagine degli uomini preistorici e del loro modo di vivere: le sculture di Emmanuel Frémiet o quelle di Louis Mascré, i dipinti di Paul Jamin o quelli di Fernand Cormon; gli studi antidiluviani di Pierre Boitard; e naturalmente, soprattutto, la Guerra del Fuoco di J.-H. Rosny "aîné",  pubblicato nel 1911. Fino alla fine del XIX secolo, quest'immagine consiste, salvo rare eccezioni, in quella di una scimmia antropomorfa, assai spesso una sorta di gorilla, specie che veniva considerata allora come particolarmente selvaggia e libidinosa. Viene rappresentata nell'atto di brandire delle armi primitive, come mazze o pugni,  come dedita alla pratica della schiavitù e che indulge nell'omicidio, e perfino al cannibalismo. Questa visione la si trova nella maggior parte dei romanzi che fioriscono a partire dal 1880.
Queste storie stabilirono nell'immaginario popolare un archetipo preistorico: un eroe maschile, virile, affronta animali giganteschi, come il mammut, o feroci, come la tigre dai denti a sciabola. Armato di un bastone e vestito di una pelle d'animale, vive in una caverna all'interno della quale intaglia oggetti in pietra. Bellicoso, istintivo e violento, il nostro antenato combatte per conquistare il fuoco, una donna, o per vendicare una persona amata. I conflitti sono dovunque, come se la guerra fosse inesorabile, in particolare quella fra le differenti «razze», le cui tipologie sono spesso tratte dai racconti degli esploratori [*2].
All'inizio del XX secolo, basandosi sul comportamento delle grandi scimmie, alcuni socio-biologhi, a cui si aggiunsero degli antropologhi e degli storici della preistoria, sostennero la tesi secondo la quale gli uomini discenderebbero da delle «scimmie assassine». L'Homo sapiens, animale brutale in quanto predatore, si sarebbe diffuso dall'Africa attraverso l'Eurasia, eliminando le altre grandi scimmie bipedi. Questa ipotesi, avanzata nel 1925 dallo storico della preistoria Raymond Dart,venne resa popolare nel 1961 da Robert Ardrey nel suo "I figli di Caino" ("African Genesis"). Cacciatori, quindi predatori, gli uomini preistorici sarebbero stati aggressivi per natura, e la guerra perciò non sarebbe stata altro che una caccia all'uomo.
L'uccisione dell'animale può sembrare espressione di una violenza umana intrinseca. Tuttavia, diversi studi etnografici mostrano come, nella maggioranza dei casi, essa escluda ogni aggressività da parte del cacciatore [*3]; al contrario, socializza questa violenza necessaria al modo di scambio cosmologico fra l'uomo e la natura [*4]. Inoltre, essa contribuirebbe alla costituzione di un legame sociale attraverso la condivisione della preda. Al giorno d'oggi, l'ipotesi secondo cui gli esseri umani, in quanto predatori, discenderebbero dalle «scimmie assassine» è stata abbandonata, così come è stata abbandonata quella dell'«orda primitiva» proposta da Sigmund Freud nel 1912.
Difensore della teoria di Jean-Baptiste Lamarck sull'eredità dei caratteri acquisiti, il padre della psicanalisi sosteneva che, nei tempi molto antichi, gli esseri umani fossero organizzati in un'orda primitiva dominata da un grande maschio tirannico. Quest'ultimo si concedeva a tutte le femmine,  costringendo i figli a procurargliele all'esterno, rapendole. Poi, un giorno, «i fratelli che erano stati cacciati si sono riuniti e hanno ucciso e mangiato il padre, cosa che ha posto fine all'esistenza dell'orda paterna», scriveva in Totem e Tabù, nel 1912. Freud sviluppa anche i concetti di «primitivo interiore» e di «pulsione selvaggia»; i conflitti interiori rappresenterebbero l'equivalente di lotte esterne che non sarebbero mai cessate. In realtà, questa «ferocia interiore» , come suggerisce l'epistemologo ed antropologo Raymond Corbey [*5], non sarebbe altro che una «costruzione mentale immaginaria, influenzata dalle ideologie del XIX secolo, come il razzismo o l'eugenetica». Diversi studi neuroscientifici affermano che il comportamento violento non è geneticamente determinato [*6]. Anche se esso è condizionato da certe strutture cognitive, l’ambiente familiare ed il contesto socio-culturale giocano un ruolo importante nella sua genesi [*7]. Inoltre, molte opere, sia sociologiche che neuroscientifiche, o relative alla preistoria, mettono in evidenza il fatto che l'essere umano sarebbe naturalmente empatico. È l'empatia, perfino l'altruismo, ad essere stata il catalizzatore dell'umanizzazione [*8].
Osservando le anomalie o i traumi scritti nelle ossa di vari fossili umani del paleolitico, si constatata come i disabili fisici o mentali, anche fin dalla nascita, non venivano eliminati. I resti, risalenti ad un periodo che va da 420.000 a 300.000 anni fa, di un bambino "Homo heidelbergensis" affetto da una precoce craniosinostosi, sono stati ritrovati in una caverna nella Sima de los Huesos - la «grotta delle ossa» - sul sito di Atapuerca, Spagna. Si tratta di una patologia che causa uno sviluppo anomalo del cervello, e quindi una deformazione del cranio. Colpito fin dalla nascita da un ritardo mentale, questo bambino è sopravvissuto fino all'età di 8 anni. Nella maggior parte dei casi di trauma, le ferite sono guarite, e questo dimostra che quegli uomini di prendevano cura dei loro malati o feriti e che, malgrado il loto handicap, conservavano il loro posto nella comunità. Un altro esempio: l'esame del bacino e della colonna vertebrale di un altro "Homo heidelbergensis" vissuto circa 500.000 anni fa, scoperto sempre sul sito di Atapuerca, mostra che soffriva un'eccessiva crescita ossea vertebrale, oltre ad uno scivolamento delle vertebre. Quest'uomo alto un metro e sessantacinque e pesante almeno cento chili, era perciò gobbo e doveva quindi soffrire particolarmente durante i suoi spostamenti. Ma sopravvisse fino a raggiungere l'età di circa 45 anni, e questo grazie alle cure che gli venivano prodigate dalla sua famiglia.
Se anche oggi, nell'immaginario popolare, gli uomini preistorici appaiono come se fossero stati degli esseri continuamente in guerra, la realtà archeologica ci autorizza invece a guardarli sotto una luce completamente diversa. L'analisi degli impatti di corpi contundenti sulle ossa umane, le ferite, lo stato di conservazione degli scheletri e del contesto in cui sono stati scoperti ci permette di riconoscere un atto violento. Attualmente, le più antiche tracce di violenza sono state osservate in un contesto particolare, quello del cannibalismo. Sono molteplici le prove archeologiche che attestano una simile pratica, durante il paleolitico, ma sono poche le prove che testimoniano che gli individui consumati siano stati prima uccisi. Inoltre, è impossibile distinguere i gruppi di appartenenza ai «mangiatori» da quelli che appartengono ai «mangiati».
Quanto agli altri segni di violenza, l'esame di diverse centinaia di ossa umani risalenti a più di 12.000 anni fa ha rivelato quella che è la loro estrema rarità [*9]. Inoltre, sono assai spesso difficili da interpretare, in quanto possono essere sia il risultato di un colpo assestato intenzionalmente che di un incidente, soprattutto di caccia. La più antica testimonianza di violenza al di fuori di un contesto cannibale, è stata la scoperta del cranio di un Homo sapiens arcaico trovato in una caverna vicino a Maba, nella Cina meridionale, e vecchio di un periodo che va da 200.000 a 150.000 anni. La frattura osservata nella zona temporale destra sarebbe il risultato di un colpo inferto per mezzo di un oggetto contundente di pietra. Più di 100.000 anni dopo, nella grotta di Shanidar, in Iraq, un cranio di Neanderthal di un età fra i 30 e i 40 anni presenta due schiacciamenti: uno a livello dell'osso frontale destro e l'altro a livello dell'orbita sinistra. Tuttavia, come osserva l'autore dello scavo, questi segni potrebbero esse il prodotto del crollo della volta della caverna, verificatasi dopo la sepoltura del corpo.
In Europa, la parte frontale del cranio di un Neanderthal adulto, riesumato in una cava di pietra sulla riva del fiume Vah, nei pressi di Sala, in Slovacchia, reca il segno di un oggetto appuntito che ha provocato una ferita non mortale. A Saint-Césaire, nella Charente-Maritime, una giovane donna Neanderthal ha ricevuto anch'essa un colpo sulla parte destra anteriore della testa. Inferto con uno strumento molto appuntito, avrebbe provocato una forte emorragia ed una commozione celebrale, forse un coma. Del resto, ferite provocate dall'impatto di un oggetto appuntito di legno o di pietra sono state osservate su alcuni scheletri (risalenti ad un periodo che va da 60.000 a 45.000 anni fa) di Neanderthal, a Skhul, in Israele.

Omicidi o incidenti di caccia?
Queste lesioni sono il risultato di un incidente, oppure costituiscono un atto di violenza nel corso di un conflitto fra persone, fra comunità o fra altri gruppi? Per periodi di tempo così antichi, discernere è difficile. Tuttavia, in molti casi, le ferite, comprese quelle dovute ad uno shock o ad un colpo alla testa, sono cicatrizzate. Quelle persone non vennero finite, cosa che lascia pensare che sia stato piuttosto il risultato di un incidente, oppure di una battaglia interrotta prima che si arrivasse alla morte, suggerendoci così una lite fra individui, una rissa. Solo l'uomo di Skhul e, forse, il ragazzo della «grotta dei bambini» , ai Balzi Rossi, in Italia, sembrano aver subito delle violenze. Ma da parte di chi? Da un membro della loro comunità o da parte di un individuo esterno al loro gruppo? La domanda rimane tuttora senza risposta.
I Neanderthal di Shanidar, secondo lo studio condotto dal paleo-antropologo americano Erik Trinkaus [*10], sarebbero stati vittime di incidenti di caccia. La distribuzione delle lesioni di molti di loro - localizzate principalmente alla testa e alle braccia - corrisponde a quelle che si possono osservare sulle ossa dei professionisti dei rodeo, e rivela dei traumi risultanti da violente cadute al suolo. I Neanderthal erano cacciatori di grossi mammiferi; le loro armi richiedevano l'avvicinamento, perfino il corpo a corpo con l'animale, e quindi era assai probabile che si verificassero degli incidenti. Inoltre, quando i cacciatori scagliavano le loro armi contro la preda, le lance o le frecce potevano mancare il bersaglio e colpire un compagno.
Alcune rare raffigurazioni sulle pareti delle caverne del paleolitico superiore,  nelle grotte di Cougnac e di Pech Merle, nella Lot, e sulle pareti della grotta Paglicci, in Italia, mostrano degli esseri umani. Sovente, queste rappresentazioni vengono chiamate «uomo ferito» o «uomo colpito dalla freccia», poiché, per alcuni studiosi della preistoria questi graffiti simboleggiano punte di freccia. Ma, ancora una volta, non si può escludere la rappresentazione di un incidente di caccia, né quella di sacrifici simbolici nel corso di una cerimonia. Nell'arte paleolitica non c'è alcuna scena di guerra, anche se va precisato che le scene narrative sono estremamente rare.

La svolta della sedentarizzazione
Per alcuni storici della preistoria, il Sito 117, sulla riva destra del Nilo al confine settentrionale del Sudan in Egitto (fra 14.340 e 13.140 anni), fornirebbe la prova più convincente dell'esistenza di conflitti sanguinosi fra le due comunità alla fine del paleolitico. Scavando, sono stati portati alla luce 59 corpi di donne, di uomini e di bambini di ogni età, da soli o a gruppi di due, tre, quattro o cinque, in delle fosse poi ricoperte di lastre. Secondo James Anderson [*11], quasi la metà delle persone sepolte sarebbe andata incontro ad una morte violenta, sia a seguito di colpi alla testa, sia dopo aver avuto il torace, la schiena o l'addome trafitti da punte di lancia o da proiettili di pietra, alcuni dei quali sono stati ritrovati all'interno dei corpi. Inoltre, secondo la traiettoria di tali proiettili, si è continuato probabilmente a tirare su tre degli uomini anche dopo che erano rimasti a terra. Cosa è successo?
Alla fine del paleolitico, il Sudan settentrionale ha conosciuto un periodo di inaridimento del clima. Racchiuso nella fertile valle del Nilo e circondato da un ambiente naturale ostile, questo luogo avrebbe attratto l'avidità dei gruppi che vivevano nell'entroterra [*12]; a meno che, con l'aumento della densità della popolazione, la diminuzione delle risorse disponibili non abbia portato ad una competizione interna finalizzata al controllo di tali risorse. Non c'è niente nel materiale archeologico raccolta che indichi un'origine alloctona dei proiettili. Inoltre, i 59 scheletri corrispondo ad un unico episodio, o a più eventi? Comunque, questo sito sembra essere il primo caso accertato di violenza collettiva. Intra o intercomunitaria? Il dibattito rimane aperto.
A partire dalle prove archeologiche, si può ragionevolmente pensare che durante il paleolitico non ci sia stata alcuna guerra in senso stretto, e che questo può essere spiegato da più fattori. In primo luogo, una bassa demografia: in Europa, durante il paleolitico superiore, si stima la popolazione in alcune migliaia di individui. Dal momento che le comunità erano disseminate su un vasto territorio, le probabilità che si siano affrontate sono scarse, anche perché , per garantire la riproduzione, era essenziale che ci fosse una buona comprensione fra questi piccoli gruppi che erano costituiti al massimo da 50 persone.
La sedentarizzazione conosce un'accelerazione nel neolitico, con l'addomesticamento delle piante e degli animali. La conseguenza sarà una crescita localizzata della popolazione ed una crisi demografica. È probabile che essa sia stata regolata per mezzo di conflitti, come viene indicato dalla presenza in più necropoli - a Scheltz, in Austria, a Thalheim, in Germania - di ferite mortali riscontrate sugli scheletri degli uomini, delle donne e dei bambini.
D'altronde, il paleolitico disponeva di un territorio di sussistenza sufficientemente ricco e diversificato. Ci sono alcuni antropologhi i quali sostengono  che la società preistorica avrebbe conosciuto unicamente una «economia di sopravvivenza»; ma un simile postulato non si basa su alcuna realtà archeologica. Numerose opere attestano proprio il contrario, al punto che si sono viste in tali società non solo delle società autosufficienti, ma delle società dell'abbondanza. Quando i territori sono ricchi di risorse, le comunità non entrano in competizione, in quanto sono in grado di modulare i loro comportamenti di sussistenza a partire dallo sfruttamento di più tipi di alimenti. Inoltre, non c'è nessuna prova archeologica che supporti l'ipotesi di guerre territoriali fra migranti e autoctoni.
Ancora una volta, nel corso del neolitico, il bisogno di nuove terre da coltivare innescherà dei conflitti all'interno delle prime comunità di agro-pastori, e forse anche tra questi e gli ultimi cacciatori-raccoglitori, soprattutto con l'arrivo in Europa di nuovi migranti, fra il 5.200 ed il 4.400 avanti Cristo (ad Herxheim, in Germania, per esempio). Una crisi profonda sembra segnare questo periodo, come è testimoniato da un alto numero di casi di sacrifici umani e di cannibalismo.
Mentre i sedentari sono in grado di accumulare dei beni materiali, i cacciatori-raccoglitori nomadi dispongono di una ricchezza necessariamente limitata, cosa che allo stesso tempo riduce anche i rischi di conflitto. Inoltre, l'economia basata sulla predazione, a differenza di quella di produzione, che appare con la domesticazione delle piante e degli animali, non genera alcuna eccedenza. La storia ha dimostrato che le derrate immagazzinate ed i beni possono suscitare avidità e possono provocare delle lotte intestine; un potenziale bottino, rischia di innescare delle rivalità fra comunità e di causare conflitti. È grazie allo sviluppo della metallurgia e del commercio a lunga distanza di quelli che sono beni di prestigio, durante l'età del bronzo (II millennio avanti Cristo), che il guerriero e l'armamento cominciano ad essere oggetto di un vero e proprio culto, ed è in quello stesso periodo che la guerra si istituzionalizza.
D'altra parte, i conflitti vengono spesso scatenati dai possessori di potere o di beni - da quella che viene chiamata «l'élite», la quale spesso si appoggia alla casta dei guerrieri. Ora, mancano le prove se nel paleolitico sia esistita una qualche disuguaglianza socio-economica. Tutto quanto indica che si trattava di società egualitarie e poco gerarchizzate. È solo durante la mutazione socio-economica del neolitico che emergono in Europa le figure del capo e del guerriero, insieme ad un trattamento differenziato degli individui per quel che riguarda le sepolture e l'arte. Si generalizza l'uso dell'arco; per alcuni studiosi della preistoria, l'utilizzo di quest'arma per la caccia avrebbe giocato un ruolo nell'aumento dei conflitti, come sembrano attestare le pitture rupestri del Levante spagnolo.
Probabilmente, lo sviluppo dell'agricoltura e dell'allevamento è all'origine della divisione sociale del lavoro, e della comparsa di un'élite, con i suoi interessi e le sue rivalità. Inoltre, lo sfruttamento di territori sempre più vasti necessitava di un grande numero di braccia rende indispensabile procurarsi della manodopera. Durante il Neolitico medio si assiste alla comparsa simultanea della casta dei guerrieri e di quella degli schiavi - per la più parte, probabilmente, prigionieri di guerra.
Ultimo elemento pacificatore, nel Paleolitico: l'assenza di sacrifici umani ad una divinità. Per alcuni archeologhi, il culto della Dea Madre, o Grande Dea, che viene praticata nel Neolitico, sarebbe succeduta al culto di una dea primordiale rappresentata dalle «Veneri», quelle statuette che hanno sovente un carattere sessuale accentuato e che vennero scoperte in dei siti europei del Paleolitico superiore. Ancora una volta, non c'è alcuna prova archeologica che possa testimoniare la pratica del sacrificio di esseri umani, né quella di altri animali selvaggi, ad una qualche divinità. Questi sacrifici sembrano apparire durante il Neolitico medio (fra il 5.300 ed il 4.500 avanti Cristo) e sembra siano legati a dei riti funerari propiziatori o di fondazione (ad Hârsova in Romania, a La Fare-les-Oliviers in Francia). Inoltre, diversi siti europei risalenti a questo stesso periodo testimoniano dei sacrifici di schiavi nel momento della morte di una qualche personalità (Moulins-sur-Céphons, Le Gournier e Didenheim in Francia). Alla fine del Neolitico, il culto della Dea Madre cede progressivamente il passo a quello delle divinità maschili, spesso rappresentati armati di un pugnale.
In questo modo, la «ferocia» degli uomini preistorici non sarebbe altro che un mito forgiato nel corso della seconda metà del XIX secolo, per rafforzare il concetto di «civiltà» ed il discorso sul progresso compiuto, rispetto alle origini. Alla visione miserabilistica dell'«alba crudele», segue oggi - in particolare con lo sviluppo del relativismo culturale - quella altrettanto mitica di un'«età dell'oro». La realtà della vita dei nostri antenati si situa con ogni probabilità da qualche parte fra le due visioni. Come dimostrano i dati archeologici, la compassione e l'aiuto reciproco, così come la cooperazione e la solidarietà, più della competizione e dell'aggressività, sono stati con ogni probabilità i fattori chiave del successo evolutivo della nostra specie.

- Marylène Patou-Mathis * - Pubblicato su Le Monde diplomatique del Luglio 2015 -

NOTE:

(1) Cf. Le Sauvage et le Préhistorique, miroir de l’homme occidental, Odile Jacob, Paris, 2011.

(2) Cf. Préhistoire de la violence et de la guerre, Odile Jacob, 2013.

(3) Pierre Clastres, Archéologie de la violence. La guerre dans les sociétés primitives, Editions de l’Aube, La Tour-d’Aigues, 2013 (1re éd. : 1977).

(4) Philippe Descola, « Les natures sont dans la culture », dans « Anthropologie : nouveaux terrains, nouveaux objets », Sciences humaines, hors-série, n° 23, Paris, décembre 1998 — janvier 1999.

(5) Raymond Corbey, « Freud et le sauvage », dans Claude Blanckaert (sous la dir. de), « Des sciences contre l’homme, II. Au nom du bien », Autrement, no9, Paris, mars 1993.

(6) Axel Kahn, L’Homme, ce roseau pensant... Essai sur les racines de la nature humaine, NiL, Paris, 2007.

(7) Pierre Karli, Les Racines de la violence. Réflexions d’un neurobiologiste, Odile Jacob, 2002.

(8) Penny Spikins, Holly Rutherford et Andy Needham, « From hominity to humanity : Compassion from the earliest archaic to modern humans » (PDF), Time & Mind, vol. 3, no3, Oxford, novembre 2010.

(9) Questi segni di violenza sono stati osservati solo su 5 di 200 individui scoperti in dei siti nel sudovest della Francia: cfr. A bioarcheological study », thèse de doctorat, université de New York, 1991.

(10) Erik Trinkaus, The Shanidar Neandertals, Academic Press, New York, 1983.

(11) J. E. Anderson, « Late Paleolithic skeletal remains from Nubia », dans Fred Wendorf (sous la dir. de), The Prehistory of Nubia, Southern Methodist University Press, Dallas, 1965.

(12) Jean Guilaine et Jean Zammit, Le Sentier de la guerre. Visages de la violence préhistorique, Seuil, Paris, 2001.

* Directrice de recherche au Centre national de la recherche scientifique (CNRS), département préhistoire du Muséum national d’histoire naturelle (Paris).

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