« Non voglio più sentir dire che in questo paese è più interessante fare qualcosa di diverso dal lavorare» (Emmanuel Macron).
C’é un feticcio che domina la società, il feticcio del lavoro. Tutte le potenze del mondo si sono alleate per difendere questo dominio: Macron e i populisti, Mélenchon e Marine Le Pen, i sindacati e i padroni, la sinistra e la destra, gli ecologisti di Stato e i profanatori del pianeta e degli animali. Sulla bocca di tutti quanti loro, non c'è altro che una sola parola: lavoro, lavoro, lavoro!
Una volta dismessa la maschera della chiacchera continua sulle «possibilità di occupazione», dovunque è diventato chiaro che flessibilità, personalizzazione delle condizioni lavorative, «lavorare di più per guadagnare di più» e Legge « Travaille! » non sono affatto delle promesse bensì, piuttosto, delle minacce, le quali non avevano altro fine se non quello di un rapido deterioramento delle condizioni stesse di sopravvivenza: stress lavorativo ma senza la sicurezza del posto di lavoro, doppia socializzazione per le donne, burnout [esaurimento nervoso] generalizzato, lavori di merda, quasi schiavitù nelle microimprese e autoimprenditorialità, per gli impiegati del servizi lavoretti temporanei e a basso salario, ecc.. Contro queste condizioni di vita e di lavoro inaccettabili, la protesta cresce.
La coscienza di classe della sinistra, il cui orizzonte mentale continua ad essere quello di considerare la precarizzazione come derivante dal «rapporto conflittuale fra le classi» , ha non poche difficoltà a comprendere in maniera adeguata il problema dell'occupazione precaria attraverso la categoria positiva, e non teorizzata, del lavoro. Poiché in realtà la precarizzazione rimanda a quella che è una mutazione fondamentale del capitalismo, in cui non ci sono solo alcune condizioni di lavoro che diventano precario, ma si tratta del lavoro in quanto tale.
Proprio nella misura un cui questo processo è il risultato diretto del fatto che le basi della valorizzazione capitalistica sono diventate poco a poco obsolete, qualsiasi movimento di contestazione che si allinei sulla strategia della sinistra alter-capitalista e che reclami il reintegrazione degli esclusi, dei precari e dei ruoli domestici attribuiti alle donne nel sistema di lavoro (e del Diritto), rimarrebbe insignificante e senza senso. Quando non è la crisi della valorizzazione in sé a determinare, essa stessa, l'impossibilità di qualsiasi miglioramento delle nostre esistenze nel contesto del capitale, criticare il capitalismo dal punto di vista del lavoro è un'impossibilità logica, poiché non si può criticare il capitale dal punto di vista della sua stessa sostanza. Lavoro e capitale non sono altro che i due stati aggregati della stessa sostanza in quel processo che è il lavoro astratto, le due facce della medesima medaglia. Di conseguenza, la partecipazione di tutti ad un'altra ricchezza sociale diversa da quella del valore e della merce, vista in un'ottica emancipatrice, non è possibile, se non a condizione di farla finita con il lavoro e con il denaro. Il contrario di quelle che sono le condizioni di lavoro precarie e deregolate, non consiste in delle condizioni di lavoro regolate per mezzo di un miglior codice del lavoro, ma nel non lavorare per niente.
Se la sinistra intende guadagnare punti ed essere all'altezza della situazione, in altre parole, di quella che è la mutilazione crescente delle nostre vite, la critica delle folli pretese capitaliste deve, contrariamente a quanto fa, collocare le sue prospettive su un altro piano, diverso da quello della «giustizia sociale» e della ridistribuzione di soldi dei ricchi nel contesto della forma merce e di tutto il resto della produzione della non vita. Diviene urgente dover scaricare la zavorra di un anticapitalismo morale, «classista» e superficiale, e di ricollegarsi ad una critica del capitalismo-patriarcato che sia adeguato alla nostra epoca.
Non si tratta più di liberare il lavoro, ma di liberarsi dal lavoro.
Le risorse materiali devono diventare oggetto di un'appropriazione diretta, e la creazione di ricchezza dev'essere liberata dal diktat della forma valore. Perciò, essere anticapitalista non significa solamente lottare contro i ricchi ed i capitalisti; non significa unicamente rifiutare il disprezzo di classe che riempie l'obitorio dei padroni della società. Significa anche combattere la forma di vita sociale, organizzandoci in un movimento radicale di appropriazione reale che abolisca la sfera autonoma dell'economia in un tessuto sociale organizzato consapevolmente. Il movimento reale che abolirà lo stato di cose esistenti, sarà quello che distruggerà l'economia.
Le persone che distruggono le merci, mostrano la loro superiorità sulle merci.
- Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme - 21 marzo 2019 -
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme
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