venerdì 30 agosto 2019

Classici!!

Perché continuano a meravigliarci
di Adam Gopnik

Perché leggiamo i classici? L’attacco all’idea di un «canone» della letteratura classica - non intendo soltanto i classici dell’antichità, ma anche gli attuali capolavori della letteratura occidentale - è stato vibrante e per molti versi definitivo, almeno nell’ambiente accademico americano. I classici - ci hanno detto - non rappresentano una fonte di verità, ma un muro opprimente fatto per escludere, un muro che estromette le donne e le minoranze, i colonizzati e i perseguitati, chi è ignorato e chi è trattato ingiustamente. Il «canone» della letteratura classica non è altro che una cospirazione di uomini bianchi europei per promuovere altri uomini bianchi europei, e ne facciamo benissimo a meno. Il prestigio è potere, e il potere è tutto quello che vale la pena di studiare - e avere il potere di cambiare il potere è tutto quello che vale la pena di fare. Questo, però, nessuno lo crede veramente: quale che sia il modello prescelto di attacco al canone, per esempio, nessuno può insegnare questo principio senza riferimenti impliciti o espliciti a Marx o Foucault o Fanon. In effetti, il canone degli anti-classici è solido come lo stesso canone classico - per molti versi anche di più. D’altra parte, l’attacco ai classici nel loro complesso rimane una sfida per lo studioso, e lo è ancor di più per il lettore amatoriale che vuole sapere perché - quando qualcuno gli mette tra le mani l’Odissea, o il Paradiso perduto, o la Divina commedia - valga ancora la pena leggerli come qualcosa di più d’un reperto del passato.
Vi sono, io credo, due risposte distinte a questa sfida, caratterizzate da due diversi livelli di persuasività. La tipica risposta dello studioso di vecchio stampo è che i classici sono depositari di conoscenza e saggezza ai quali è possibile attingere ripetutamente, e che se trascuriamo la saggezza e la conoscenza che essi hanno in serbo, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Leggendo Omero, Dante e gli altri, per non parlare della Bibbia, apprendiamo devozione, eroismo e nobiltà. Abbiamo bisogno dei classici perché senza di essi saremo privati della virtù.

Vi prego di perdonarmi se mi oppongo a questa asserzione. In verità, la maggior parte del tempo che dedichiamo alla lettura dei classici non è impegnata in una lettura diligente alla ricerca di nuove profondità e nuovi significati - di fronte ai quali, invece, passiamo oltre con disinvoltura. Mentre puntiamo verso gli altri piaceri che si suppone il testo abbia da offrire, passiamo oltre su tutto quello che ci sembra palesemente abominevole o esecrabile. Nel Vecchio Testamento, il libro di Ester, per quanto magnifico, è anche la storia del brutale impalamento dei persiani: gente che ci hanno insegnato a non stimare, certo, ma pur sempre esseri umani. (Provate a immaginare un impalamento! E poi rideteci sopra, trovatelo piacevole.) Proprio adesso sto leggendo in inglese moderno, nella splendida traduzione di Richard Fagles, l’Odissea di Omero: nessun libro è più classico di questo, che ne ha ispirati infiniti altri, compreso il classico dei classici del ventesimo secolo: l’Ulisse, la parodia joyceana di Omero (perché, di fatto, è di quello che si tratta).
In verità, però, anche se - un verso dopo l’altro - narrazione e invenzione ci conquistano, è comunque uno shock esser tenuti ad accettare i valori d’un mondo in cui l’eroismo militare è quasi l’unico attributo di virtù, in cui il massacro in massa di sfortunati pretendenti è considerato una vendetta legittima e in cui, sotto molti aspetti fondamentali, è soltanto la forza a dettar legge. (Gli dèi devono essere placati, ma solo perché sono potenti.) È per questo che ci sentiamo pervasi di piacere quando scorgiamo, in mezzo alle differenze, l’amo- re di Omero per la primaria virtù umana dell’ospitalità: il benvenuto verso chi viene da lontano è un fondamentale atto di reciprocità che tutti devono rispettare. La sua presenza, sorprendente e gradita, ci emoziona e ci commuove. Avvicinandoci ai nostri tempi e a quella che un anglofono percepisce come la propria cultura, quando leggiamo il Paradiso perduto di Milton, ci viene chiesto di aderire ai valori spaventosi di un culto del sacrificio sostitutivo. Probabilmente quel culto - la religione cristiana - ci è familiare, ma questo non lo rende meno scioccante. Né, e qui forse rischio di offendere il mio amato pubblico italiano, possiamo leggere l’Inferno di Dante senza avere a tratti la sensazione che ci stiano offrendo una visita guidata ad Auschwitz, con quelle moltitudini che soffrono per l’eternità senza avere colpe più gravi delle nostre - eppure non siamo disposti a provare pietà, ma inclini a fare giustizia.

Non possiamo leggere i classici perché ci insegnano a fare le cose nel modo giusto, perché in realtà non lo fanno. E allora perché li leggiamo? Invece di partire dall’idea che contengano verità profonde, muoviamo da una premessa più semplice. Partiamo dal piacere. Combiniamo una prospettiva epicurea e una prospettiva darwiniana. I classici allora sono semplicemente i testi che - passati al vaglio del tempo – sono giunti a noi, e dai quali più lettori hanno tratto piacere: al punto da voler continuare a «copiarli», ripubblicarli, riprodurli, tramandarli affinché li leggano anche le generazioni future. Nel concetto di piacere non è incluso un qualche semplice concetto di virtù: il piacere è molteplice, pericoloso, autocontraddittorio. Quando leggiamo, le nostre fantasie e i nostri valori sono spesso in conflitto: devono esserlo, per poter essere interessanti. Nessuno, ad esempio, legge, o dovrebbe leggere, un fantasy che rappresenti accuratamente la vita di un maschio dodicenne, con l’eroe sprofondato nella lettura. No, quando un dodicenne s’innamora di Tolkien, non gli diamo una spada, né gli mostriamo dove sono gli Orchi. Gli diamo invece un altro libro. Il piacere della lettura non sta nel fatto che ci mostra un comportamento da imitare, ma che ci mostra altri mondi, altre possibilità, altri valori diversi dai nostri. La cosa peggiore che si possa dire di un libro è che è una lettura d’«evasione» - forse però è anche il commento migliore da fare. L’evasione è il nostro tributo più sincero alla realtà.

Noi leggiamo andando in cerca di pericolo, di meraviglia - per usare un’espressione inglese un po’ datata, “for thrills”, in cerca di brividi, di emozioni. Altrimenti dovremmo smettere di leggere. Leggiamo i classici per piacere: un piacere profondo, complesso e complicato, spesso proibito. Mentre scrivo, sulla mia scrivania ho la serie completa di James Bond, la stessa edizione tascabile dei romanzi di Ian Fleming che avevo quand’ero un ragazzino di dieci anni. Nessuno può essere stato Bond-dipendente in modo più totale di come lo ero io: dunque non sono guarito da questa passione? Sì e no. Ho superato i valori offerti da quei romanzi, ma non la dipendenza. La buona letteratura, gli autentici classici, dovrebbero avere qualcosa della pornografia, del suo aroma - dovrebbero colpirci come piaceri proibiti, più che come una fonte di istruzioni morali. Un grande classico inglese, la “Vita di Samuel Johnson” di James Boswell, è pettegolezzo e conversazione - un passato lontano ma ancora attuale. Trollope e Balzac ci offrono titoli politici – un passato lontano e superato. I classici andrebbero letti stando sotto le coperte, o in piedi in librerie male illumina- te, o nascosti fuori in giardino. Per mantenerci fedeli alla nostra effettiva esperienza di lettori, dobbiamo de-classicizzare i classici. Proibiamoli, come è accaduto in tanti regimi totalitari, e loro rivivranno. Noi rientriamo in connessione con l’autenticità del nostro passato moralmente diviso solo quando ci riconnettiamo all’autenticità del nostro sé moralmente diviso. Pettegolezzo e conversazione, seduzione ed eccitamento, manovra politica e scontro fazioso – le piccole province della vita sono il vasto impero della letteratura.

- Adam Gopnik - Pubblicato su L'Espresso del 2/6/2019 - traduzione di Isabella Bloom

giovedì 29 agosto 2019

Si chiude!

Il testo " Il superamento del lavoro " è apparso nel 1999, su " Feierabend! Elf Attacken gegen die Arbeit " ["Si chiude! Undici attacchi contro il lavoro"], un libro organizzato da Robert Kurz, Ernst Lohoff e Norbert Trenkle che riuniva «undici assalti contro il lavoro» formulati nel contesto teorico tedesco della Critica del Valore. Insieme al "Manifesto contro il lavoro", pubblicato in quello stesso anno, il libro è una sintesi delle analisi e delle polemiche sviluppate dal Gruppo Krisis a partire dalla fine degli anni '80. In questo saggio, Kurz e Trenkle vanno ben oltre la ben nota critica del lavoro, svolta dal punto di vista marxista tradizionale , e al di là della «lotta di classe». Un punto di vista che ha segnato profondamente la critica sociale in quello che è stato il processo di affermazione della forma sociale moderna. Nella prospettiva degli autori, l'esaurirsi dell'impulso di modernizzazione del capitalismo mette sotto scacco l'ontologia relativa a quel processo ed esige una critica categoriale della «società produttrice di merci». Qui - così come avviene con la scommessa del Manifesto contro il lavoro, per quel che attiene alla lotta «antipolitica» - appaiono in maniera sintetica le formulazioni della rivista Krisis riguardo una nuova prassi sociale anticapitalistica, soprattutto nelle due sezioni, «Dall'espropriazione all'appropriazione» ed «Elementi per un movimento di appropriazione», pensate entrambe in vista del nostro attuale periodo storico di decadenza della forma sociale dominante. Rileggere questo testo, ci dà anche l'opportunità di considerare i vent'anni trascorsi dalla pubblicazione delle due opere succitate, e riprendere, a partire da esse e contro lo spirito del tempo, il sempre più ineludibile dibattito sul processo di quella che è la crisi fondamentale del capitalismo.

Il superamento del lavoro
- Uno sguardo alternativo oltre il capitalismo -

di Robert Kurz e Norbert Trenkle

Disoccupazione e crisi sono „da sempre“ una realtà del capitalismo. La novità sta tuttavia nel fatto che questi fenomeni alla fine del 20° secolo hanno assunto le sembianze di una „crisi della società del lavoro“; si tratta di un tema originariamente riconducibile al pensiero della filosofa Hannah Arendt (Arendt 1989/1958). Fino alla prima metà di questo secolo nessuno avrebbe mai immaginato di poter attribuire un tale significato a fenomeni consueti nelle crisi del capitalismo. A prescindere da partiti o teorie la categoria „lavoro“ sembra essere per così dire un incontestabile presupposto ontologico, sovrastorico di ogni realtà sociale. Se finisce il lavoro allora anche il cielo può crollarci sulla testa. Questa mutazione nel significato della crisi, „impossibile“ per l’antica coscienza sociale, rimanda al suo nuovo carattere qualitativo. Evidentemente essa rappresenta molto più dell’esaurimento di un qualunque, banale, ciclo capitalistico. Nell’espressione „fine della società del lavoro“ si manifesta anche l’identità interna di „lavoro“ e „capitale“, mentre la tradizionale interpretazione di questi concetti ha sempre e solo posto l’accento sul loro contrasto immanente che si è concretizzato nell’eterna lotta degli „interessi organizzati“. La radicalità appare consistere esclusivamente nell’inasprimento di questo conflitto – „classe contro classe!“ – al cospetto del presupposto ontologico del „lavoro senza fine“. Che „lavoro“ e „capitale“, in ultima analisi, siano solo due stati di aggregazione di un’identica forma feticistica sociale cioè che siano gli elementi della trasformazione „incessante“ di energia umana in denaro, secondo uno „scopo autoreferenziale“ all’interno di un processo „svincolato“ da ogni bisogno e relazione, rimane un fatto completamente refrattario ad ogni analisi e di certo largamente al di fuori delle possibilità di immaginazione. Secondo questa prospettiva il conflitto immanente sarebbe dunque soltanto una funzione all’interno di un sistema di riferimento comune i cui funzionari, per usare la terminologia marxiana, assumono il ruolo di „maschere di carattere“ al servizio di questo „scopo autoreferenziale“ ed irrazionale che sovrasta ogni cosa.

La rottura categoriale
Il problema consiste nella necessità di mettere in discussione, in modo categoriale, oltre alla contrapposizione funzionale, immanente alla società, anche il sistema di riferimento feticistico nel suo complesso e con esso il „lavoro“. Per questo tuttavia difettano attualmente sia un’adeguata coscienza critica, sia una chiara proposizione di obiettivi. E‘ certo angoscioso doversi ritrarre da uno spazio categoriale consueto, automaticamente interiorizzato, che solo in seguito alla sua obsolescenza si mostra ai nostri occhi come una realtà distinta. Il fatto che gli stati di aggregazione complementari di „lavoro“ e „denaro“ in quanto dati positivi a-problematici della modernità, siano considerati come inossidabili tabù, poiché essi in un certo senso costituiscono e „garantiscono“ la realtà, diviene più che mai palese nel momento della loro crisi categoriale.
Le crisi precedenti, che avevano un carattere transitorio all’interno di un processo intrinseco di sviluppo, venivano proclamate in modo affrettato come „crisi del capitalismo“ (la cui conseguenza avrebbe dovuto essere l’emancipazione del lavoro „eterno“ nei confronti del suo antagonista); così questa crisi fondamentale e qualitativamente nuova del moderno sistema produttore di merci appare di converso, altrettanto affrettatamente, soltanto come una crisi unilaterale del „lavoro“, cioè dei lavoratori salariati e delle loro organizzazioni, funzionari, ideologie ecc. Il „capitale“ al contrario pare essere in grado di reiterare la propria accumulazione indisturbato, fino all’eternità („jobless growth“). Ma se il capitalismo è una società del lavoro in senso stretto allora la crisi del lavoro equivale alla crisi del capitale stesso.
Essendo il lavoro astratto la „sostanza“ del capitale, allora la forma di attività racchiusa nello scopo autoreferenziale „svincolato“ assume nel contempo il carattere di un contenuto quantitativo spettrale: i prodotti non sono trattati socialmente come semplici beni d’uso, ma (per usare le parole di Marx), come „gelatina di lavoro“; ciò significa che una determinata quantità astratta di energia „umano-sociale“ spesa, grava su di loro come un’invisibile „proprietà“ la cui „validità“ viene regolata attraverso il meccanismo della concorrenza sui mercati anonimi. Questa pseudo-qualità dei beni su cui si fonda il feticismo della relazione sociale, appare come „valore“ economico dei prodotti che si rappresenta come prezzo e di nuovo come una certa quantità di denaro. Consiste precisamente in ciò la relazione che costituisce lavoro e capitale come stati di aggregazione di un comune sistema meccanico sia per quel che riguarda la forma (forma-valore) sia per il contenuto (sostanza di valore). Logicamente ne consegue che la „crisi della società del lavoro“ non è solo una „crisi formale“, comune ad entrambi i lati di questo rapporto, ma anche una „crisi sostanziale“ dell’accumulazione del capitale.
Naturalmente la sovrastruttura finanziaria speculativa del „capitalismo da casinò“, staccata da ogni base reale, crea l’apparenza di un capitale che continua ad accumularsi anche in assenza di una sufficiente sostanza di lavoro, almeno fino al prevedibile crollo finanziario. Ma già di per sé questa crisi del lavoro che si presume unilaterale rimanda ai limiti del sistema nel suo complesso. Dal momento che finora il modo di produzione capitalistico ha avuto davanti a sé margini di sviluppo, anche la battaglia immanente dei lavoratori salariati a difesa dei loro interessi poteva essere condotta spregiudicatamente: era necessario fare valere il proprio interesse all’interno del sistema nell’eterna contrapposizione con l’avversario, magari a costo di dolorose fasciature. Oggi al contrario la lotta per gli interessi è uscita di scena ed ha lasciato il posto alla „responsabilità comune“ per la conservazione del sistema („logica della posizione“).
Questo particolare stato di cose dimostra solo che il sistema di riferimento comune è giunto all’assurdo. Naturalmente non si vuole in alcun modo sminuire la necessità di lottare qui ed oggi all’interno del sistema per i propri interessi vitali. Ma proprio perché il sistema è approdato ai suoi limiti storici questo interesse, sempre più impellente in un futuro non lontano, si trova in una situazione di paralisi. Abbiamo a che fare con una dialettica paradossale: possiamo fare valere i nostri interessi all’interno del sistema solo se, simultaneamente, il sistema nel suo complesso viene messo in questione e sorge di conseguenza un movimento sociale di trasformazione. In futuro anche il salario minimo o l’indennità di malattia potranno ancora essere difesi solo nella cornice più ampia di un grande movimento radicale anticapitalistico.
Ma a questo proposito minaccia di ingenerarsi una spirale perversa, in quanto finora come critica radicale al sistema si è sempre e solo inteso il punto di vista „radicalizzato“ del lavoro. Risulta così decisivo che la rottura categoriale, fin qui impensabile, con le forme basilari del sistema produttore di merci assieme ad una prospettiva qualitativamente differente (corrispondente al carattere della crisi) per l’emancipazione sociale, riesca a penetrare come problema e come possibilità nella coscienza sociale, così da costituire il punto di riferimento di un nuovo orientamento per la discussione e per la trasformazione sociale. La rottura con il capitale deve essere in realtà anche una rottura con la categoria del „lavoro“ e naturalmente con tutte le forme politiche ed economiche ad essa relative. Andare oltre il lavoro può significare solo andare oltre la forma-valore feticistica, nonché oltre merce e denaro, mercato e Stato, politica ed economia.

Una storia della critica del lavoro
Ad un’analisi superficiale la critica del lavoro non è assolutamente qualcosa di nuovo anche se negli ultimi 150 anni solo assai di rado ha fatto una fugace comparsa ai margini dei grandi movimenti sociali. Per esempio Paul Lafargue, il genero di Marx, divenne celebre con il suo pamphlet Il diritto all’ozio. In quest’opera l’autore si fa beffe della „mania del lavoro“ e dell’ideologia del rendimento di origine protestante del movimento operaio ufficiale, ed esige „nei tempi di crisi una divisione dei prodotti e divertimento generale“ (Lafargue 1998/1883, 31) così come „una legge inderogabile…che proibisca a chiunque di lavorare per più di tre ore al giorno“ (loc.cit., 53). Ci si può facilmente rendere conto di come si abbia a che fare qui con una critica del lavoro fenomenologica e per così dire abituale ma non ancora categoriale.
Possiamo ancora sorridere per certe isolate formulazioni scherzose come quando Lafargue si contrappone agli ideologi del lavoro cristiani: „Jehovah, il dio barbuto e musone, dà ai suoi adoratori il più sublime esempio di pigrizia ideale: dopo sei giorni di lavoro Egli si riposa per tutta l’eternità“ (loc.cit., 22). E quando invita a proclamare „i diritti all’ozio che sono mille volte più nobili e sacri degli asfittici diritti umani, ruminati dagli avvocati metafisici della rivoluzione borghese“ (loc.cit., 33) è come se tirasse uno schiaffo sul volto desolato della sinistra verde-oliva dei diritti umani.
Deve suonare un tantino sospetto il fatto che nei circa 120 anni successivi il Diritto all’ozio sia stato di volta in volta riscoperto per essere inteso come una provocazione; dunque la critica del lavoro per tutto questo tempo è praticamente rimasta al palo. Lo stesso Lafargue non si spinge oltre la richiesta di un maggiore consumo di merce e di meno tempo di lavoro, d’altronde in misura inaudita e non solo per la sua epoca. Però la sua critica del lavoro non è solo quantitativa, quando esprime le sue pretese in termini non più fondamentalmente improntati all’ideologia del lavoro ma piuttosto di carattere edonistico: l’obbiettivo non deve essere il dovere astratto ma un godimento intenso tanto sensuale quanto intellettuale. Era indubbiamente un passo avanti nella giusta direzione, ma non ancora un superamento della categoria del lavoro.
Più tardi furono ancora i Dadaisti, nel quadro del loro generale disprezzo della borghesia e del pubblico, a ridicolizzare il lavoro piuttosto che criticarlo, ed in fondo era già qualcosa. Bisogna riconoscere che già nel 1916 Richard Huelsenbeck con il verso: „Arbeit Arbeit brä brä brä brä brä brä brä“ aveva anticipato l’ultima parola di Gerhard Schröder e della sua cricca. Non si era ancora approdati però ad una vera critica categoriale. Mentre il capitalismo di Stato dell’Est, nei paesi della „modernizzazione di recupero“ sprofondava negli eccessi stachanovisti del lavoro astratto, in Occidente l’impulso negatorio contro il lavoro si limitava alla politica sindacale dell’accorciamento della giornata di lavoro, un concetto che già di per sé emana un cattivo odore di immanenza da carcere del lavoro. Questa politica sociale interna al sistema si è resa ridicola al cospetto della logica aziendale, che proprio con la crisi della „società del lavoro“ pone all’ordine del giorno un prolungamento del tempo di lavoro aziendale. Oggi perciò l’accorciamento del tempo di lavoro vale come un modello di scarico mentre simultaneamente le masse dei disoccupati aumentano. Sia una condotta meramente edonistica, sia l’istanza della semplice diminuzione quantitativa di un lavoro rimasto insuperato vengono travolte dalla crisi del sistema.

Oltre la lotta di classe
L’ultima onda della tradizionale critica del lavoro giunse negli anni’70 dall’operaismo italiano, che avuto i suoi epigoni in Germania nella rivista „Autonomie“ e, negli anni’80, nel gruppo Wildcat. Che anche questa impostazione non vada troppo lontano lo denota già il suo apparato concettuale: come può un „operaismo“ contenere una critica categoriale del lavoro? Anche in questo contesto la critica del lavoro rimane limitata al piano fenomenologico. L’elemento edonistico, per quanto presente anche nella definizione operaistica come eredità del tradizionale marxismo del lavoro, si rifugia dietro ad un nuovo sociologismo fondato sul concetto di classe. Cioè, da un lato viene criticata la corrente principale del marxismo, poiché „riduce la classe alla sua esistenza come forza-lavoro“ (Schultze/Gross 1997, 111), ma dall’altro la categoria sociologicamente limitata di „classe“ rimane il fondamento estremo della critica.
Da questa prospettiva derivano alcune sorprendenti indeterminatezze. Mentre il marxismo tradizionale aveva situato correttamente, anche se in modo affermativo, la categoria „classe“ nel contesto delle forme feticistiche derivate dalla forma-valore, l’operaismo cerca di distillare una categoria di soggetto che si regga da sola. „Classe“ in questa accezione non è un termine che indica una condizione oggettiva all’interno della struttura formale del sistema produttore di merci, ma un agglomerato di volontà soggettiva contro le pretese del sistema stesso. In ciò consiste la critica del lavoro operaistica. Ma naturalmente le categorie oggettivate del capitalismo non vengono minimamente scalfite da un semplice „insurrezionismo“.
L’oggettivismo economico del tradizionale movimento operaio viene così rovesciato in un soggettivismo complementare, secondo il motto: che ci importa del lavoro degradante e della forma-valore, tutto ciò che vogliamo è vivere bene! Nessuna meraviglia che anche la sinistra postmoderna possa conciliarsi con questo modo di pensare, che si crogiola nelle fantasie di un consumo di merci sfrenato e di gran lunga idiota. Nell’operaismo così come nel marxismo del movimento operaio è assente la critica categoriale e quindi non vi è una rottura decisiva. La determinazione meramente soggettivistica di „classe“ come non-lavoro e non-valore si imbroglia davanti al nocciolo del problema così come l’usuale obiezione, per così dire epistemologica, contro la critica radicale del lavoro e del valore: si insiste sempre su categorie in cui gli individui non sono compresi! E‘ un’obiezione tanto corretta quanto insignificante, dal momento che il presupposto della critica è che gli individui a dispetto di ogni introversione non si dissolvono certo nelle categorie che li sovrastano; ma a cosa serve questa premessa se la critica stessa non si rivolge alla totalità?
Le correnti operaistiche si appoggiano parzialmente alle ricerche meritevoli di E.P.Thompson, che, portando ad esempio l’Inghilterra, ha riportato alla luce la storia „dimenticata“ delle prime rivolte sociali contro la modernizzazione capitalistica avvenute molto tempo prima del „classico“ movimento operaio (Thompson 1980; 1987). Queste rivolte, come Thompson fa notare a ragione, in polemica con l’oggettivismo economico, non erano „il risultato di leggi di movimento economiche…, ma un processo attivo, risultato di azioni umane e di condizioni storiche“ (Schultze Gross, loc.cit., 108). Questo vale per ogni movimento sociale che non è mai „pura soggettività“ ma si trova sotto certe „condizioni“. La volontà emancipatoria ruota precisamente attorno alla possibilità di modificare o di abolire queste „condizioni“!
L’impeto delle antiche rivolte sociali veniva dal fatto che i loro protagonisti seguendo il loro istinto non intendevano certo diventare la „classe operaia“ di una struttura sistemica autonomizzata. Il più tardo movimento operaio al contrario operava soltanto all’interno di questo contesto sistemico, dopo che esso si era storicamente imposto. Oggi per noi fondamentale è spezzare le sbarre categoriali di questo contesto sistemico e liberarci di nuovo dal lavoro astratto. Per questo fine non basta più una rivolta spontanea o il riferimento ad una „economia morale“ premoderna (concetto centrale in Thompson). La scoperta delle antiche rivolte sociali oggi può solo avere il significato di una presa di coscienza circa la „genesi“ sanguinaria e repressiva del mondo attuale dei „posti di lavoro“ e di una „storicizzazione“ di categorie apparentemente astoriche come „lavoro“ e „valore“. Ma naturalmente non è possibile ricollegarsi semplicemente a queste antiche rivolte in modo immediato per ricavarne una pura „soggettività ribellistica“ nella forma di una „volontà soggettiva“ astorica. Per potere annientare le oggettivizzazioni prodotte ed introiettate nel corso di un lungo processo storico è necessaria una coscienza critica nei confronti della sua costituzione storica e strutturale. Questo è fondamentale sia per portare alla coscienza il fatto che la costituzione storica della „economia politica delle bocche da fuoco“ dei primordi della modernità si sia evoluta verso una struttura sistemica autonoma „svincolata“ sia per criticare radicalmente il sistema categoriale di questa struttura.
Le diverse correnti operaistiche al contrario si accontentano di semplici gesta alla Robin Hood, mentre la connessione categoriale della società del lavoro si risolve in pura azione volontaria. In questo modo perfino la crisi viene soggettivizzata: lo sviluppo del meccanismo appare come semplice reazione del capitale contro le „rivolte del lavoro“ come se non esistesse la concorrenza tra capitali ed economie nazionali; e viene perfino parzialmente negata l’ulteriore esistenza del contesto sistemico categoriale attraverso la tesi „che il capitale non ha più alcun interesse alla valorizzazione della forza-lavoro, poiché realizza la creazione di valore attraverso le macchine piuttosto che dal lavoro concretizzato(!) e perciò la relazione di dominio diviene puramente politica…“ (Schultze/Gross, loc.cit., 129). Alla luce di un tale pensiero riduzionistico non vi può essere naturalmente alcuna „crisi della società del lavoro“: il problema viene risolto ignorandolo!
Le diverse correnti operaistiche non hanno mai saputo che farsene del problema della critica categoriale in tutti i possibili movimenti, „riots“, programmi connessi, dai tumulti per il pane nel Terzo Mondo, jobber-iniziative ed economie di sussistenza fino al reddito di esistenza. Viene così dimostrato come la limitatezza immanente al sistema della „lotta di classe“ non possa essere distrutta convertendola in soggettività. Un interesse fatto valere in forma di merce o denaro è già in un modo o nell’altro oggettivato nell’ambito della società del lavoro capitalistica.
Questo era già il problema dell’antico, „oggettivo“ concetto di classe. Non esiste nessuna classe o gruppo sociale determinato che soltanto sulla base della sua posizione all’interno della società del lavoro sia predestinata „di per sé“ ad essere la portatrice specifica della trasformazione sociale (e che debba esserne cosciente „di per sé“). Lo storico „in sé“ della classe operaia non rappresentava un’entità in grado di trascendere il sistema ma al contrario un’esistenza (originariamente forzata) come categoria funzionale del capitale. Proprio per questo il movimento operaio in quanto tale non poteva essere un movimento contro il lavoro, ma solo un movimento per la sua completa penetrazione ed il suo riconoscimento universale.
La rottura categoriale con la logica del sistema-feticcio capitalista al contrario non può per definizione essere delegata a questo „in sé“ o originarsi quasi automaticamente dalla sua dinamica propria. La „conseguenza automatica“ che si genera dall’interna autocontraddizione della valorizzazione del capitale, è la sua rottura negativa nella forma della „crisi della società del lavoro“. L’oggettività di questa crisi non può essere cortocircuitata o scambiata per una oggettività presunta del superamento emancipatorio, anche se produce indignazione e disperazione.
Il tentativo operaistico, di trasformare attraverso la „posizione“ puramente soggettiva una categoria appartenente al contesto sistemico oggettivato, cioè il concetto di classe, in un’entità in grado di trascendere il sistema e che assurdamente sussisterebbe solo „di per sé“ (indipendentemente dalla forma sociale) deve naufragare. Vale a dire, per intenderci, la concezione de „lo sviluppo del capitale come variabile della lotta del lavoro“ (Schultze/Gross, loc.cit. 125). Proprio al contrario: la lotta in nome del lavoro (lotta di classe, lotta per l’interesse immanente al sistema) rimane per sua essenza una variabile dello sviluppo capitalistico. La critica del lavoro è possibile oltre la lotta di classe come auto-costituzione di un movimento di emancipazione che non pensi ed agisca più „all’interno“ delle forme di coscienza capitalistiche.

La revoca del lavoro nella vita
Naturalmente la critica categoriale del lavoro non può consistere soltanto nella sostituzione del concetto astratto di lavoro con un’altra astrazione etimologicamente neutra come per esempio „attività“. Si tratta piuttosto del reale superamento dell’economia „scatenata“. Questo può solo significare la revoca del contesto sistemico autonomizzato nella società e con esso del „lavoro“ nella vita. Innanzitutto si tratta della richiesta rivolta alla società di determinare le relazioni sociali concrete ed i contenuti materiali ed intellettuali della propria riproduzione coscientemente e direttamente e di introdurli nella sfera di influenza delle istituzioni sociali, invece di abbandonarle alla procedura irrazionale di una forma sociale autonomizzata. Intendiamo con questo la liberazione delle relazioni sociali dalla categoria feticistica del valore affinché si crei una situazione in cui i membri della società non producono collettivamente in aggregati altamente socializzati che sono altrettanti scopi a sé stessi solo per poi „scambiare“ successivamente i prodotti sotto restrizioni completamente folli come se fossero i prodotti di singoli produttori isolati.
L’alternativa sarebbe l’impiego delle risorse comuni in un rapporto trasparente in modo che la „socialità“ cessi di essere un’assurda proprietà delle cose e non debba essere più regolata dalla „mano invisibile“ di un meccanismo resosi autonomo. Con la scomparsa della razionalità economico-aziendale distruttiva naturalmente non si mira certo a smantellare le forze produttive generate ciecamente dal capitalismo ma ad impiegarle secondo una „ragione sensibile“ nei confronti del contenuto (invece che secondo una razionalità monetaria astratta, indifferente ai contenuti), a trasformarle e a svilupparle ulteriormente.
Superamento del lavoro non significa perciò semplicemente una mera diminuzione quantitativa del tempo di lavoro per mezzo di una „completa automatizzazione“ (priva di riguardo per i contenuti), ma la liberazione di tutte le attività sociali dalla loro forma astratta, de-sensualizzata, indifferente di fronte ad un contenuto puramente aleatorio (variabile casuale). Attraverso questo superamento della forma-valore universale e così dell’economia aziendale, del mercato, dello scambio e del denaro la riproduzione sociale cessa di essere sottomessa ad una forma di attività universale ed astratta; essa si articola allora in un intreccio multiforme di attività innumerevoli, concrete, determinate secondo il loro contenuto, in nome del quale tutto viene svolto ed effettuato, invece di essere giudicate secondo un criterio applicato dall’esterno da un contesto sistemico astratto.
Appena le attività concrete vengono gestite socialmente secondo il loro contenuto reale, anche il tempo astronomico dell’economia aziendale deve terminare di esercitare la sua dittatura. La riproduzione personale e sociale si articola allora in elementi che hanno ciascuno la propria forma temporale. In particolare i settori e gli elementi dissociati definiti come „femminili“ che non possono obbedire in nessun modo alla „logica del risparmio di tempo“ (F. Haug) vengono reintrodotti nella società. Se la riproduzione sociale viene resa trasparente determinata solo attraverso il contenuto concreto non vi può più essere alcuna gerarchizzazione dei settori di attività e nessuna correlazione specificamente sessuale.
Superamento del lavoro non significa solo che i differenti momenti della riproduzione sociale ottengono in qualche modo giustizia ma che vengono superati in quanto sfere separate. La separazione delle sfere risulta già dallo „svincolamento“ dell’economia come scopo a sé stesso nel cui spazio funzionale tutti gli altri elementi devono essere dissolti. Superamento del lavoro è perciò anche superamento del „tempo libero“ e quindi liberazione dell’ozio, che non può essere „tempo residuo sociale“ ma si afferma sull’intera riproduzione.
Come prima cosa dunque: fine dell’istigazione al lavoro; perché produrre freneticamente date le gigantesche forze produttive se scompare insieme allo scopo delirante anche ogni ragione di aizzare gli uomini al suo perseguimento?
Questo non vale solo per il rapporto tra impegno e ozio ma per una reciproca affermazione di settori e momenti, Così la cultura nel senso più esteso non sarà più un settore separato ma verrà integrata nella riproduzione liberata dalla dittatura del tempo astratto. In questo senso si tratterebbe dell’adozione di criteri culturali ed estetici in tutti i „settori funzionali“ tradizionali. Il crimine estetico degli attuali „campi professionali“ non sarebbe allora più possibile.

Dall’espropriazione all’appropriazione
Le risorse sociali sembrano a portata di mano ma sono separate dai loro produttori da una parete di vetro. E questo perché la società che si fonda sul lavoro e sulla produzione di merce non è altro che una gigantesca macchina dell’espropriazione. Non nell’interpretazione asfittica, da marxismo del movimento operaio, secondo cui i mezzi di produzione non „appartengono“ giuridicamente ai lavoratori i quali quindi vengono privati dei frutti del loro lavoro (nella forma feticistica del plusvalore) dal capitale. L’espropriazione ha un carattere molto più esteso e perciò non la si può superare attraverso un semplice cambiamento esterno, giuridico nel cosiddetto „potere di disporre“ su fabbriche, terreni, officine, case ecc.
Questo vale anche se lo Stato si presenta come imprenditore generale e proclama in pompa magna che „il popolo“ o la „classe operaia“ sono divenuti „ipso facto“ gli orgogliosi proprietari dell’intero aggregato dell’economia nazionale al servizio della quale devono sottomettersi in modo zelante, o se le imprese in „autogestione“ sono condotte come comunità che producono merce e con essa un contesto sociale orientato dell’economia di mercato (anche se il mercato dove è possibile viene provvisto dell’aggettivo „socialista“)- entrambi questi due casi hanno rappresentato solo due tentativi storici fallimentari, di introdurre una consapevolezza riguardo ai bisogni all’interno della società della merce e del lavoro, che è per sua natura un sistema cieco e indifferente ai bisogni.
In questa società le potenze produttive e le condizioni socio-culturali si contrappongono agli uomini nella forma impazzita di una forza esterna dominante. Quando gli individui moderni pensano e agiscono lo fanno sempre sotto le condizioni presupposte dall’impianto costitutivo della società del lavoro e della merce, le cui costrizioni non solo funzionano esternamente ma sono presenti anche all’interno della loro struttura socio-psichica. Ogni „libertà“ nella società della merce e ogni „politica“ si riduce a decisioni prese all’interno di una dimensione intrinseca a questa „seconda natura“, che in quanto tale non è mai a disposizione e si sottrae ad ogni intervento cosciente. Il concetto di espropriazione denota perciò l’incapacità fondamentale e strutturale dei membri della società di disporre coscientemente di sé stessi e del proprio contesto.
L’uomo della società della merce non può neppure mangiare una carota senza porsi inconsapevolmente in relazione, al di là del suo acquisto, con un gigantesco apparato agro-industriale, logistico e burocratico, fatto di fabbriche di concime, spedizionisti, distributori di sovvenzioni ecc., i quali non sono certo interessati alla carota in quanto tale ma solo e unicamente al guadagno monetario astratto ed aziendale, che in qualche punto di questa processo a catena totalmente assurdo ha casualmente assunto le sembianze di una carota. Il risultato sociale e materiale è inoltre che essi stessi così come fondamenti naturali avvelenati della vita, uomini impoveriti e prodotti agrari eccedenti finiscono nelle discariche. Non solo i processi di lavoro quotidiani in ufficio, in fabbrica e al supermercato vengono diretti dall’astratta razionalità della valorizzazione ma anche i sogni degli uomini sono il frutto della volontà meccanica della società della merce.
Viene da sé che una simile espropriazione totale non potrà mai essere superata attraverso un cambiamento esterno nel potere politico o attraverso il mutamento giuridico del „potere di disporre“ (come sembra suggerire la celebre formula della „espropriazione degli espropriatori“) ma solo attraverso un movimento sociale di emancipazione che si appropri in modo totale e cosciente dell’intera sfera sociale. La dissociazione strutturale di politica ed economia come è stata generata dallo scopo a sé stesso scatenato deve essere revocata sin dall’inizio all’interno del movimento sociale stesso; questo non può più essere „politico“ nel senso tradizionale (quindi riferito allo Stato). Le risorse materiali non possono essere strappate al sistema tautologico della valorizzazione semplicemente con una cerimonia solenne, ma solo nel corso di una trasformazione fondamentale di tutte le relazioni sociali, economiche e culturali, in cui cambia aspetto anche la faccia materiale del mondo (dall’architettura ai mezzi di trasporto). Una tale determinazione emancipatoria di obbiettivi si deve sviluppare in una situazione sociale che la fa apparire completamente illusoria perché il processo di crisi ha scatenato ancora una volta un nuovo rigurgito del fanatismo del lavoro ed ha rivolto verso l’esterno i lati più oscuri dell’anima della merce.
Il processo di espropriazione permanente non si estingue affatto di per sé nel corso della crisi ma al contrario assume una forma ancora più truce. Che il soggetto del lavoro e della merce viva da sempre isolato nella più totale dipendenza socio-economica, lo sperimenta nel modo più brutale quando la sua forza-lavoro non è più necessaria e nello stesso tempo si esauriscono i trasferimenti sociali. Senza denaro („lavoro coagulato“) esso è letteralmente una nullità nella società capitalistica; è come se i suoi bisogni non esistessero, perché essi non possono essere espressi come domanda con potere di acquisto. Simultaneamente gli resta precluso l’accesso a risorse materiali inutilizzare (come ad esempio case disabitate), che sono gelosamente custodite dai „servizi di sicurezza“ statali e privati, poiché per essi non è previsto alcun utilizzo diverso da quello capitalistico.
Ogni tentativo di arrestare questo processo autoreferenziale di espropriazione assoluta (che si spinge fino allo sterminio di massa per fame nelle più disastrate regioni del globo) attraverso una „politica diversa“ immanente per ricadere in uno stato servile del tutto insostenibile all’interno della società del lavoro è fin dal principio destinata al fallimento. Tutto questo non ha più alcun fondamento perché la politica è solo l’astratta forma universale in cui la società produttrice di merci governa le sue inconciliabili contraddizioni, e ora questo strumento perde sempre più la sua limitata capacità di intervento e di regolazione quanto più avanza la crisi della società del lavoro. La sfrenata brutalizzazione della logica capitalistica ed il crollo di tutti gli standard civilizzatori (dalla forma dei rapporti civili all’assistenza medica) può essere arrestata solo grazie da un movimento sociale che non accetti più che la produzione di ricchezza si resa possibile solo nella forma del lavoro produttore di merce. Un’appropriazione emancipatoria in questo senso non si svolge più attraverso il metodo politico-giuridico ma attraverso la rottura categoriale con gli imperativi della „seconda natura“ della società della merce.

Elementi per un movimento di appropriazione
Una prospettiva di emancipazione può consistere solo nell’appropriazione da parte della società, della riproduzione dell’intera esistenza che non è più „mediabile“ nel contesto della società del lavoro e la praxis di questa appropriazione avrà la forma di un processo che si protrarrà presumibilmente per molti anni nel corso del quale verrà coinvolto l’insieme dei rapporti sociali, economici e culturali. Non sono solo i rapporti di forza esterni a determinare in modo forzoso un processo di trasformazione così complesso. Gli elementi di una socialità emancipata, estranea alla forma-merce, non si trovano certamente belli che pronti, né possono per così dire venire creati dalla situazione, ma devono essere individuati e sviluppati. Non si tratta semplicemente di una questione tecnico-organizzativa; essa riguarda essenzialmente gli individui che agiscono nella società e la loro struttura psicosociale. In definitiva i membri di un movimento di superamento ed appropriazione non dovranno essere degli „esseri trascendenti“, ma solo uomini con una soggettività del lavoro e della merce più o meno marcata, cui non sono però deterministicamente consegnati ma che, tuttavia, non possono sfilarsi di dosso come fosse una camicia. Perciò tale processo di appropriazione dovrà essere anche e necessariamente un processo di discussione estesa, di confronto reciproco e di autoriflessione.
Un „movimento“ inteso nel senso di tale processo di appropriazione (al contrario di un’azione politica esterna) non ha nulla a che vedere con un „accontentarsi“ su piccola scala o di una „economia della miseria“ su di una Terra arsa dalle fiamme dell’economia di mercato. Inoltre si differenzia fondamentalmente da una „prospettiva di sussistenza“ da civiltà agricola e artigianale o dai progetti di „economia locale“ che vengono divulgati in molte forme sotto la pressione della crisi. Certo la produzione locale e l’iniziativa personale con mezzi semplici offre spesso ai molti uomini resi „superflui“ dalla crisi l’unica possibilità di garantirsi la sopravvivenza. In parte questo fenomeno va di pari passo con la rinascita e il recente sviluppo di nuove forme di cooperazione ed auto-organizzazione; e perciò si delineano anche qui elementi che sono diretti contro la logica della concorrenza capitalistica. Nonostante ciò queste impostazioni rappresentano solo strategie di ripiegamento e di difesa che restano socialmente isolate e non offrono nessuna prospettiva emancipatoria cui approdare. Perciò non possono sviluppare di per sé nessuna dinamica che trascenda il livello estremamente basso di socializzazione, divisione del lavoro e produttività su cui si muovono. Al contrario sono facilmente strumentalizzabili per strategie di amministrazione della crisi e della miseria ed inoltre disponibili alla costituzione di identità etnicistiche e localistiche.
Le frazioni più spregiudicate nella politica della crisi, nei governi e nelle istituzioni internazionali come la Banca Mondiale o l’ONU non hanno nulla da dire, se i „superflui“ dal punto di vista capitalistico si avvicinano in un modo o nell’altro ai margini del capitalismo stesso, per garantire la loro sopravvivenza. In questo modo non solo la rivolta sociale si inasprisce ma si crea la legittimazione a proseguire con una politica di esclusione sociale. Inoltre le eventuali risorse disponibili sono calcolate in quantità così scarsa che le iniziative e i gruppi che se ne occupano sono impegnati per la battaglia per i mezzi di sussistenza quotidiani e non possono essere più mobilizzate energie per attività ulteriori. Per esempio nei loro programmi per „combattere la povertà“ già da anni la Banca Mondiale promuove a fine di cosmesi con due noccioline i cosiddetti „aiuti per l’iniziativa personale“ e in Messico il governo neoliberale del presidente Salinas ha investito le organizzazioni di base nelle città di un potere decisionale particolarmente ampio in materia di infrastrutture (strade, canalizzazione ecc.) per coinvolgerle in questo modo nell’amministrazione politica della crisi.
E‘ completamente falso sostenere che l’unica possibilità sia la partecipazione a questo stato di cose. In questo modo si realizza sia sul piano ideale che su quello teorico la capitolazione di fronte ai compiti indubitabilmente gravosi di un’appropriazione trascendente che abbracci l’intera società mondiale, ancor prima che venga compiuto il primo passo effettivo verso questa meta. Invece un progetto di appropriazione emancipatoria ha il dovere di sviluppare il quadro di riferimento per una prassi di appropriazione, che è sempre stata concepita solo come temporanea e di emergenza, affinché possa consolidarsi e crescere oltre sé stessa. La tensione tra l’obbiettivo di un superamento del lavoro per la società nel suo complesso e le difficoltà di un movimento di appropriazione che vuole cambiare le cose rappresenta comunque un elemento progressivo e non può essere sacrificato in cambio della vuota evocazione di un „totalmente altro“ né per l’autonomizzazione di forme di prassi limitate.
La prassi di un movimento di appropriazione non va concepita in modo riduttivo alla stregua di un mero progetto di nicchia ma in termini essenziali come confronto incessante con la prassi capitalistica sui livelli più diversificati. Questo vale prima di tutto per la critica radicale della razionalità economico-aziendale non solo in generale, ma come completo smascheramento del suo carattere irrazionale e distruttivo nei processi materiali concreti come in quelli sociali di „messa in rete“ del capitale (come quando galletti surgelati vengono scarrozzati attraverso l’Europa per migliaia di chilometri da camionisti sovraffaticati e sottopagati). La scoperta sistematica delle colossali assurdità nella prassi economico-aziendale capitalistica potrebbe costituire allo stesso tempo una base per indagare le possibilità di un’appropriazione e di una trasformazione del contesto della riproduzione materiale sul piano dei settori produttivi e precisamente dei loro flussi di risorse. Proprio perché non è più possibile assumere semplicemente il complesso produttivo capitalistico nella sua forma attuale, ma grandi parti di esso dovranno essere smantellate o modificate in termini fondamentali, l’appropriazione e la diffusione di questa conoscenza (di per sé una netta rottura con le regole del sistema) è di enorme significato.
Bisognerebbe considerare con spirito critico anche i precedenti tentativi di critica e sovvertimento sul piano della riproduzione concreta, che hanno avuto luogo in un contesto del tutto diverso; per esempio, le analisi del movimento ecologista o il cosiddetto „dibattito sulla riconversione degli armamenti“ negli anni’70 e ’80. Con esso viene almeno in parte analizzato in modo minuzioso e competente come l’industria degli armamenti con l’aiuto della competenza settoriale disponibile e attraverso un parziale intervento sul parco-macchinari possa essere riconvertita ad un altro tipo produzione, non militare. Naturalmente non si trattava di una critica radicale all’economia „scatenata“, ma solo, in ultima analisi, di conservare „posti di lavoro“ nell’economia di mercato; per lo più in relazione con l’illusione di una „politica economica alternativa“ orientata in senso ecologico e comunitario all’interno di un capitalismo in qualche modo riformato. Era del tutto ingenuo pensare che l’industria degli armamenti potesse essere smantellata se solo fossero state sviluppate idee produttive alternative. Perciò il dibattito sulla riconversione scomparve dalla scena pubblica senza lasciare traccia anche in seguito al declino del movimento degli alternativi e della pace e in concomitanza con il processo di adattamento dei verdi. Nonostante ciò queste analisi „ad acta“ potrebbero essere utili come strumenti per potere discernere quali conoscenze e quali possibilità materiali potrebbero essere mobilizzate nel contesto di un „dibattito sulla riconversione“ da un punto di vista totalmente diverso, contro l’economia aziendale e la produzione di merci.
Il punto di partenza e l’impostazione di un movimento radicale di appropriazione sarà certo molto diverso a seconda del paese o della regione e dei rapporti che vi si sono instaurati. E‘ immaginabile e profondamente auspicabile che un movimento di protesta di massa rivolto contro l’amministrazione della crisi da parte dello Stato, a causa dell’insopportabile inasprimento delle condizioni della crisi, si impossessi, secondo una dinamica propria, di grandi settori del tessuto sociale compreso l’apparato di produzione industriale. Dipende dalle diverse condizioni di riferimento, siano esse politiche, sociali od economiche, in cui ha luogo la crisi del capitalismo, quali forme transitorie di appropriazione reale possano concretizzarsi; in primo luogo naturalmente occorre chiedersi se e in quale misura l’atomizzazione e la letargia sociali possano essere eliminate. Nella stessa misura in cui la riproduzione all’interno della società del lavoro va restringendosi sempre più e gli uomini devono ricorrere alle razioni di emergenza, la battaglia per la sussistenza elementare cioè per l’abitazione, il cibo, l’energia ecc. e per l’accesso ai servizi sociali e sanitari può acquistare una forza esplosiva. Chi ritiene tutto ciò un’illusione, deve ricordarsi che in vaste regioni del mondo i circuiti di sussistenza „regolari“ legati allo Stato o all’economia di mercato sono in gran parte già crollati. Nei paesi centrali del capitalismo il treno viaggia da tempo verso la stessa destinazione; anche in questi paesi la pressione aumenta, tuttavia essi sono ancora nella condizione di scaricare in qualche modo i costi sulla loro forza-lavoro, perché i salari decrescono stabilmente e allo stesso tempo le prestazioni sociali vengono decurtate. In tali circostanze diventa cruciale un’alternativa: o le catastrofi legate alla sussistenza genereranno una violenta concorrenza tra gli esclusi, che potrà essere condotta da bande razzistiche e da ambigui politici-mediatici nazionalisti – oppure farà la sua comparsa nella società un centro focale di stampo emancipatorio che cominci per esempio con occupazioni di case o „scioperi dell’affitto“ svincolando la sfera dell’abitare dalla sfera della produzione di merce e che nel contempo organizzi nei quartieri un’infrastruttura autonoma di servizi medici e sociali, punti di incontro, centri di comunicazione ecc. Ma tali misure sono durevoli solo se, agendo come fondamenta iniziali e teste di ponte, riescono in una certa misura ad originare un processo dinamico che agisca sulla riproduzione sociale nel suo complesso; e una tale dinamica è possibile solo se contemporaneamente sorge un centro focale teorico e sociale che diffonda nella forma di nuova controinformazione le idee della rottura categoriale con il lavoro e con la produzione di merci. Questo implica la necessità sin dal principio di una comunicazione, di una coordinazione e di un appoggio reciproco su scala transnazionale ed interregionale di un movimento di appropriazione che sia in grado di intervenire da una posizione „terza“, di superamento, nei conflitti sociali immanenti e nella contrapposizione tra gli interessi per ciò che riguarda il salario, i sussidi di disoccupazione, l’assistenza sociale ecc.
Non é neppure auspicabile una struttura „economica alternativa“ di piccole comunità che producono merci o perfino di singole persone che scambiano „direttamente“ il loro tempo di lavoro, come prescritto dalla regressiva ideologia dei „circoli di scambio“. In questo modo non si otterrebbe altro che la riproduzione (o la simulazione in parallelo alla società) delle costrizioni dell’economia di mercato con tutte le loro implicazioni. L’astratta forma di attività „lavoro“ non viene superata per questa via ma la sua „autogestione“ si limiterebbe solo a mettere in pratica in prima persona le demenziali leggi dell’economia aziendale. Appropriazione reale può sempre e solo significare che le risorse disponibili nei corrispondenti settori di intervento vengono impiegate conformemente all’accordo diretto degli interessati ed il risultato di questo processo viene „esaurito nell’uso“ invece di rientrare sul mercato come offerta. Solo in questa prospettiva è possibile intraprendere l’abolizione della sfera autonomizzata dell’economia all’interno di un tessuto sociale consapevolmente organizzato anche in settori separati.
Quando si parla di „accordi diretti“ naturalmente non si vuole dire che gigantesche masse umane debbano incontrarsi in continuazione, per discutere e deliberare su ogni faccenda. Bisognerebbe piuttosto escogitare un sistema istituzionale e organizzato per gradi, di intese su tutti i livelli, che divenga per ciascun membro della società parte integrante del suo vivere quotidiano (come lo sono oggi il lavoro astratto, il denaro e la concorrenza). Con l’espressione „diretto“ intendo soltanto dire che nessuna forma feticistica autonomizzata può frapporsi tra i membri della società e le condizioni della loro esistenza e che anche i livelli più elevati di organizzazione all’interno della struttura sociale devono restare visibili per tutti (per esempio grazie ai moderni mezzi di comunicazione) facendo a meno dello Stato con i suoi apparati che, analogamente all’economia, è avulso dalla società e la tiene soggiogata nel nome di uno scopo presupposto in sé.
Il compito di sviluppare tali forme ed istituzioni della connessione sociale diretta ed anche la loro composizione si trova di fronte d’altra parte ad un ostacolo, ovvero il fatto che non esiste alcun modello storico e tanto meno attuale da cui trarre ispirazione. Per esempio l’idea seppur effimera dei „consigli“ potrebbe offrire (per quanto analizzata criticamente) un punto da cui partire; ma essa è naufragata proprio per il fatto di essere rimasta ancorata alla società del lavoro e di non essere quindi riuscita ad oltrepassare la forma borghese della politica; piuttosto essa era pensata nei termini di un sistema rappresentativo politico di tipo plebiscitario con un controllo meramente esterno sul lavoro astratto e sull’economia della merce rimasti insuperati. Ne è prova il fatto che, per esempio, l’elaborazione teorica dei consigli, così come fu sviluppata da Karl Korsch negli anni ’20, prevedeva una diversificazione tra „consigli di produttori“ e „consigli di consumatori“; si dovrebbe così riprodurre in pratica la schizofrenia strutturale del soggetto della merce che da un lato è il venditore della sua stessa forza-lavoro e dall’altro un consumatore di merce. Al contrario al fine di un superamento della forma feticistica resasi autonoma sarebbe da presupporre logicamente che si arrivi ad instaurare l‘identità di produttore e di consumatore mediata all’interno delle relazioni sociali,.
In ogni caso sarebbe del tutto insensato fissarsi su di un „modello“ determinato di connessione sociale che dovrebbe essere valido ovunque, analogamente alla forma-merce. Bisognerà discutere oltre che dell’assistenza ai bambini nei quartieri (e non necessariamente in tutti i quartieri e regioni allo stesso modo) anche della produzione di travi d’acciaio e dell’organizzazione di un programma radiofonico. Se il superamento del lavoro implica anche che tutte le attività riconosciute come sensate abbiano un valore nel senso della loro logica propria, allora anche i processi decisionali devono tenerne conto. Il futuro oltre il lavoro non è certo un nuovo principio funzionale ed organizzativo, che rimanga astrattamente universalistico, ma uno spazio sociale veramente „aperto“ che si contrapponga alla forma-merce e che favorisca lo sviluppo di una molteplicità concreta in tutti i campi dell’esistenza – senza l’impulso costrittivo che deriva dalla costruzione di un’identità modellata sulla concorrenza e dalla paura dell’esclusione.

Robert Kurz e Norbert Trenkle

- Pubblicato su Krisis - Die Aufhebung der Arbeit - traduzione in italiano a cura di Krisis.

fonte: Krisis

mercoledì 28 agosto 2019

Strade

«Bella Ciao», una melodia ebraica venuta da New York
- di Karlos Zurutuza -

Ebreo di nascita, zingaro di sangue e cristiano di fede: questo era Mishka. Un cane senza guinzaglio, un essere talmente estemporaneo da suonare «Bella Ciao» decenni prima che il mondo la conoscesse.
A lui, ci siamo arrivati attraverso Fausto Giovannardi, un irrequieto ingegnere italiano, talmente irrequieto da trovare un CD dal titolo "Klezmer, música swing yiddish" in una bancarella del quartiere latino di Parigi. L'acquisto avvenne nel giugno del 2006, ma per ascoltarlo tutto, all'ingegnere, ci vollero alcune settimane. Lo sentiva in macchina, andando al lavoro.
«All'improvviso, senza nemmeno accorgermene, ecco che comincio a cantare. Era la musica di Bella Ciao! Fermo la macchina e leggo il titolo del brano sul CD: "Koilen (3'.30) – Mishka Ziganoff, 1919"», ha spiegato Giovannardi ad un corrispondente de La Repubblica. Ma come ha fatto una melodia ebraica del XX secolo ad aver viaggiato dai confini del Mar Nero fino agli Stati Uniti, per poi tornare in Europa e trasformarsi in un inno antifascista? La cosa sembrava assai più che intrigante! Avrebbe potuto essere stato un emigrante italiano ritornato dagli Stati Uniti...
Col CD nella tasca della giacca, Giovannardi si mise al lavoro. Un professore dell'università californiana di Berkeley gli spiega che la melodia di Koilen ha suono russo assai ben distinto, e che potrebbe avere avuto la sua origine in una canzone popolare yiddish. La British Library di Londra confermò che Mishka Ziganoff era un ebreo proveniente dall'Europa orientale, e che la melodia in questione era una versione della canzone yiddish «Dus Zekele Koilen» [«Un sacchetto di carbone»], di cui esistono almeno due registrazioni precedenti.
Un viaggio ed un'intervista dopo l'altra, Giovannardi si fa trasportare dagli accordi del Klezmer, un genere musicale tanto affascinante quanto poco documentato. Che interesse si potrebbe mai avere nei confronti di un pugno di ebrei e di zingari analfabeti che si trovano sulle rive del Mar Nero, a confronto con i nostri Debussy e Rachmaninov? Ma se lo guardiamo dal punto di vista opposto: l'autocompiacimento accademico dei tardo-romantici potrebbe fare poco, o niente, contro al tradizione dell'Europa più orientale; quell'Europa che si è bevuta Daci, Traci e Romani; quell'Europa fatta di bulgari, polacchi, ungheresi, serbi, turchi e perfino di Gaugazi e Ruteni. Se a tutto questo aggiungiamo un'interminabile fila di automobili piene di gitani e di ebrei, ecco che allora si può arrivare ad ascoltare clarinetti e violini che imitano il rumore dei temporali, e perfino il suono  di voci umane, risate e lacrime incluse. Ecco, è questo il Klezmer!

A questo punto, i neuroni del nostro ingegnere stavano già facendo il bagno nelle acque del Mar Nero, senza nemmeno essersi avvicinati alle sue rive. Subito dopo scopre che il termine Klezmer proviene dalle parole ebraiche "kli" ("strumento") e "zemer" ("suono", "canzone"). E scopre anche che l'emigrazione di massa degli ebrei centro-europei, avvenuta soprattutto durante la seconda metà del XIX secolo, e la fuga di coloro che scapparono e sopravvissero alla Shoah del XX secolo, trasformarono gli Stati Uniti nella mecca e nella culla di questo genere musicale che risale al XVI secolo. Da Cornelius Van Sliedregt, musicista della banda olandese KLZMR, Giovannardi ottiene la conferma del fatto che "Koilen" era stato registrato da un certo Mishka Ziganoff (anche Tziganoff o Tsiganoff) a New York nell'ottobre del 1919. Un momento! Come può essere ebreo qualcuno che si chiama Ziganoff [«figlio di gitano»] ?. A tal proposito, è Ernie Gruner, leader della band australiana Klezmer, a spiegare all'ingegnere come Ziganoff fosse un fisarmonicista zingaro cristiano. Era nato ad Odessa (nell'attuale Ucraina) e aveva aperto un ristorante a New York; e parlava perfettamente l'yddish. Prima di continuare, apriamo una parantesi per parlare di una lingua che è pura fantasia. Il suo corpo è costituito al 70% di tedesco medievale, mentre il resto si ripartisce fra parole ebraiche, slave e perfino aramaiche. Va detto che Ludwik Lejzer Zamenhof costruì l'Esperanto a partire dalla grammatica dell'yddish moderno, quello stesso yiddish che Isaac Asimov dimenticò poco tempo dopo aver messo piede negli Stati Uniti, o che Woody Allen o Leonard Cohen non arrivarono mai ad ereditare dai loro genitori. Ma torniamo alla musica. Quello che è il carattere tradizionale del Klezmer, inizia il suo declino non appena arriva dall'altra parte dell'Atlantico ed entra in contatto con le nuove correnti musicali (non dimentichiamo che il CD di Giovannardi includeva anche lo swing presente nel titolo), ma c'è da dire anche che l'anima Askenazi continua a trasudare nell'opera di compositori ebrei di successo, come Leonard Bernstein o Aaron Copland. Inoltre, gli esperti affermano come il clarinetto che apre la «Rhapsody in Blue» di Gershwin sia inequivocabilmente klezmer. Allo stesso tempo, ci sono dei compositori non ebrei che fanno ricorso a questo baule pieno di tesori musicali che continua ad esse il klezmer. Lo stesso Sostakovich sosteneva di ammirare la capacità che una simile musica aveva di «armonizzare l'estasi nei confronti della vita e la disperazione umana in un unico pezzo». Bisognerà aspettare fino agli anni '70 perché si produca un vero e proprio revival, quando il klezmer si fa di nuovo vivo e torna a farsi valere, come se si trattasse di un organismo dotato di vita propria. A partire dagli anni '80, un folto gruppo di gruppi e bande musicali (Brave Old World, Hot Pstromi, The Klezmatics…) mettono in atto a quelle che sono le loro origini più orientali, resuscitando pezzi risalenti al 19° secolo, come se fosse musica senza tempo. La fusione musicale degli anni '90 finisce per incrociare quei violini e quei clarinetti con tutto lo spettro musicale; jazz d'avanguardia, drum & bass, trip hop... ed altre etichette che non riescono ad ingabbiare un territorio così infinito come quello della musica.
Torniamo ora a «Bella Ciao». Le teorie sulla sua origine sono molteplici, sebbene non troppo diverse. Tutte quante girano intorno ai possibili autori italiani, che spaziano dal nord al sud dello stivale: di Modena, di Ferrara, di Catania... Oppure, che sia stata scritta prima o dopo la guerra; o se era una precedente canzone appartenente al mondo contadino... Da dovunque essa provenga, stiamo parlando di un tema folk che in mezzo a quelli che erano i rantoli della seconda guerra mondiale, è diventato un inno antifascista. Da qualche parte, in Italia, un incontro di partigiani. Un nuovo arrivato comincia a canticchiare, distrattamente, una canzone che aveva sentito nel ristorante di un ebreo a New York. La melodia è talmente accattivante che finisce per farla diventare una canzone di resistenza e di libertà. Il fatto che la storia reale abbia avuto o meno simili ingredienti, oppure ancora degli altri, adesso, ha poca importanza. Quello che importa è continuare a cantarla. Non dimentichiamocela!

- Karlos Zurutuza - Pubblicato il 19/8/2019 su Jot Down -

 



lunedì 26 agosto 2019

Per sempre!

Saremo sempre schiavi dei miti
- di Alberto Manguel -

Gli dei e gli eroi dell’antica Grecia alimentano ancora la nostra vita quotidiana. Nei modi di dire (“tallone d’Achille”), nella musica pop (Venus degli Shocking Blue), nei titoli dei giornali (“L’Odissea della Nato”), negli epiteti rivolti ai personaggi famosi (“l’Adone della moda”), nel gergo psicologico o politico («essere narcisisti», «affrontare una fatica di Ercole»), negli eufemismi (“il regno di Poseidone”), nei toponimi (“Champs Elysées”), in astronomia (i nomi dei corpi celesti), nelle insegne dei negozi e nei marchi (“Hotel Mercure”): in tutti questi campi la mitologia contraddistingue il modo in cui nominiamo il mondo. Forse non sappiamo esattamente chi sia Medusa, ma comprendiamo l’espressione francese être medusé. Può sfuggirci la trama esatta della tragedia di Edipo, ma nel “complesso di Edipo” coniato da Freud riscontriamo una precisa descrizione del figlio mammone della vicina di casa. Possiamo ignorare chi fossero i Titani e le loro imprese, ma siamo concordi nel pensare che una nave battezzata Titanic dovesse essere gigantesca. In qualche modo, i miti greci restano presenti nella nostra lingua e nel pensiero anche oggi, nonostante l’incessante perdita di prestigio dell’atto intellettuale. Le nostre scuole possono non richiedere più uno studio del mondo antico, ma l’immaginario collettivo rifiuta di rinunciare alla presenza di ciò che la nostra fantasia ancestrale ha immaginato per noi. Come società possiamo anche aver deciso di inseguire il benessere materiale e il profitto economico sopra ogni altra cosa, di fare del linguaggio univoco della propaganda una virtù, e di dar più valore all’istantaneità dell’informazione rispetto a ciò che richiede riflessione prolungata, ma immediatamente al di fuori delle mura che abbiamo eretto per difenderci dalla complessità e dall’ambiguità, antiche storie di amore e vendetta, di nascite straordinarie e terribili morti, di metamorfosi e fondazioni, di maledizioni e ricerche continuano a ossessionarci. I classici del mondo antico greco e romano (tra gli altri) ci hanno donato non solo una raccolta di racconti ben conosciuti, originati da remote fantasie poetiche, il complesso intreccio delle imprese di dei ed eroi che nutre l’immaginario collettivo. Né si tratta di una semplicistica traduzione delle prime esperienze degli eventi naturali compiute dall’umanità. L’insieme dei classici è diventato un tentativo coerente di riprodurre, attraverso una logica poetica, l’osservazione di una corrispondenza tra gli eventi naturali e quelli della società in cui viviamo, un poderoso sistema di pensiero, una sapienza che Giambattista Vico ha definito «non ragionata ed astratta qual è questa degli addottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’essere di tai primi uomini». Il pensiero classico è una forma di pensiero sociale. Secondo Robert Graves, prima delle invasioni elleniche agli albori del secondo millennio avanti Cristo, l’Europa non aveva molteplici divinità, ma adorava un’immortale e onnipotente Grande Dea comune, che sovrintendeva al cambio delle stagioni, alla crescita delle messi e al miracolo della nascita. Le divinità maschili importate dagli invasori vennero via via ammesse nel regno dell’unica dea femminile e, attraverso varie fasi, si moltiplicarono e trasformarono nella variegata comunità di dei e dee che finirono per prendere dimora sul Monte Olimpo. Iniziando a narrare le loro storie nel IX secolo a.C., Omero presentò ai greci (e a tutte le generazioni a venire) una versione poetica del risultato di quelle lunghe relazioni che derivava da una visione “europea” del mondo, e contribuì a sua volta a definirla. E questa, nel suo senso più profondo (anche se gli antropologi odierni rifiutano questa idea), è universale. Il mito di Antigone serve a dar ragione della tragedia della guerra non solo nell’antica Grecia, ma anche nella Francia occupata, in Iraq, in Afghanistan e nell’ex Jugoslavia, grazie alla rappresentazione delle sue svariate versioni, da Sofocle a Hölderlin, a Cocteau ad Anouilh. Il mito di Ulisse ci parla di tutti i nostri viaggi, dalla ricerca di una casa al cammino infinito dell’esule – da Omero al Troilo e Cressida di Shakespeare, al celebre sonetto di Du Bellay, a Omeros di Derek Walcott fino, soprattutto, all’Ulisse di Joyce – ma anche del bisogno di cercare nuove imprese, nel mito reinventato da Dante e ripreso da Tennyson e Nikos Kazantzakis. Il mito della famiglia degli Atrìdi pervade il teatro di Atene con la sua summa del nostro destino umano e riecheggia senza fine quando si leggono le diverse versioni di Ifigenia di Goethe, Il lutto si addice ad Elettra di Eugene O’Neill, Le mosche di Sartre, Cassandra di Christa Wolf e La riunione di famiglia di T.S. Eliot. Raymond Queneau ha affermato, nella prefazione a Bouvard e Pécuchet che «ogni capolavoro letterario è un’Iliade oppure un’Odissea». Ogni cultura e ogni era dona ai racconti classici una particolare importanza o valore, li deride o li sublima, li disseziona o li ricostruisce. Anche quando una cultura volta loro le spalle, essi rifiutano di sparire e aleggiano sull’immaginario del subconscio con le loro narrazioni implacabili.

- Alberto Manguel. Pubblicato su Repubblica del 12/6/2019 -

domenica 25 agosto 2019

Le dita incrociate

Quello che state guardando, nell'immagine qui sopra ["10 year benchmark long-term government bond yields for Germany, France, Switzerland and Japan" (Source: St. Louis Federal Reserve)], probabilmente è oggi per gli economisti il più spaventoso grafico disponibile: descrive quelli che sono stati i rendimenti obbligazionari di riferimento nei dieci anni, per Germania, Francia, Svizzera e Giappone.
Il grafico mostra come, per ciascuno di questi paesi, i rendimenti abbiano raggiunto o superato il così tanto temuto "zero lower bound" (ZLB) [limite inferiore pari a zero sui tassi di interesse nominale].
Possiamo pensare, a partire da questo grafico, che le economie più avanzate del mercato globale, a questo punto, si trovino stabilmente intrappolate in quella che è una mortale spirale deflazionistica.
Se in questo momento, ad essere il presidente degli Stati Uniti non ci fosse Donald Trump, gli economisti avrebbero già perso la testa.
La ragione per cui perderebbero la testa è semplice: il grafico che vediamo qui sopra ci fa vedere come la politica monetaria sia già morta, e gli alleati degli Stati Uniti non hanno più a disposizione alcuno strumento reale per poter affrontare e combattere la catastrofe in arrivo. Senza un massiccio pacchetto di stimoli fiscali nell'ordine della seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti seguiranno ben presto e rapidamente i loro alleati nell'abisso. Ma in questo momento un massiccio pacchetto di stimoli fiscali garantirebbe la rielezione di Donald Trump, e nessuno la vuole. Ragion per cui non possono fare altro che incrociare le dita.

fonte: The Real Movement

sabato 24 agosto 2019

Discutere!

Genere, Soggetto, Crisi
- Seminario exit! 2019: dal 4 al 6 ottobre, a Mainz (Magonza) -

A partire dall'apice di successo, raggiunto dal decostruzionismo, negli anni '90, oggi, dopo varie fase di crisi, dopo soprattutto la fase della crisi finanziaria del 2008, ad essere nuovamente «in» ed a centro del dibattito troviamo un «femminismo materialista». Sull'argomento abbondano congressi ed antologie. In un simile contesto, anche la Critica della Dissociazione e del Valore sta attirando sempre più attenzione, sia nelle università che nei gruppi e negli ambiti femministi di sinistra. Tuttavia, ciò comporta il rischio che ci si appropri indebitamente della critica della dissociazione e del valore, e/o che parti di essa vengano banalizzate. Col pericolo che soprattutto ci si allontani da una teoria della crisi basata sulla teoria della dissociazione-valore, che parli del collasso o del declino del capitalismo.
Circola la leggenda secondo cui la teoria della dissociazione-valore si muova puramente come un meta-livello che non terrebbe conto delle donne reali, come dice Koschka Linkerhand che, d'altra parte, fa riferimento  ( per esempio sul sito emafrie.de ) anche alla critica della dissociazione e del valore. Norbert Trenkle, della rivista «Krisis», solleva obiezioni simili alle sue. La critica della dissociazione e del valore, cui presumibilmente fa ricorso, in «Exit!» si muoverebbe solo in un meta-livello, in quanto lascerebbe fuori gli individui. Mentre invece «Krisis», avendo come sfondo una critica che viene generalmente immaginata come se fosse una critica del valore (e che, in realtà, è essa stessa una mera critica andro-centrica svolta dal punto di vista della critica della dissociazione e del valore - dal momento che la formazione della critica della dissociazione e del valore deve essere sviluppata centralmente in quanto critica di una tale circostanza!), assumerebbe di fatto quello che è il livello soggettivo, mentre in «Exit!» il soggetto e l'individuo verrebbero inclusi solo attraverso quelle che sono della aggiunte (teoriche) (intervista con Lohoff/Trenkle del 2019 su www.krisis.org ).
Qui, ad essere ignorata non è solo la struttura contraddittoria tra psicologia e sociologia, sottolineata da Adorno, le cui considerazioni vengono assunte dalla critica della dissociazione e del valore, laddove la totalità sociale viene intesa come una totalità frammentata, ivi incluso anche il livello culturale-simbolico; ma si ignora anche il fatto che ad «Exit!» ci sono stati a lungo e per molto tempo dei processi di riflessione relativamente alla relazione esistente tra «forma sociale e totalità concreta», nei quali processi la critica della dissociazione e del valore mira ad un realismo dialettico. Tuttavia, tutto questo dev'essere pensato all'interno del contesto totale feticista della dissociazione e del valore, in cui l'obiettività feticista, pur essendo generata dagli individui, si contrappone ad essi come se fosse indipendente.
Nel seminario di «Exit!» di quest'anno, «Genere, soggetto, crisi», verrà dimostrato, quanto meno sotto alcuni aspetti, che le dimensioni del soggetto e dell'individuo sono da molto tempo parte integrante dell'approccio critico al feticismo della dissociazione-valore, in cui viene assunto un contesto globale patriarcale capitalista, che in sé è sempre stato frammentato.

Venerdì, 4 ottobre, 19:00 - 21:30: Roswitha Scholz: Simone de Beauvoir oggi.
Il libro di Simone de Beuavoir, "Il secondo sesso", pubblicato per la prima volta 70 anni fa, ha smesso da tempo di svolgere qualsivoglia ruolo nella teoria/ricerca di genere. Oggi se ne torna a parlare. Ciò si deve, probabilmente, soprattutto all'auto-riflessione da parte del femminismo e degli studi di genere su quella che è l'attuale situazione di crisi. È qui che si collocano le domande relative a «Come andare avanti?» e «Cosa viene dopo la ricerca di genere?». Negli anni '70, il femminismo dell'uguaglianza si riferiva alla Beauvoir ed allo slogan secondo il quale «Nessuno nasce donna, diventa donna». Uno dei tanti femminismi della differenza, successivamente, l'ha accusata di avere applicato alle donne quelli che erano dei criteri della normalità maschile. Infine, negli anni '90, è stata accusata, da parte di un femminismo decostruzionista, di essere compromessa con il pensiero dualistico, nonostante quelle che erano tutte le sue critiche mosse alle relazioni gerarchiche di genere, e di aver promosso una nuova definizione della bisessualità.
Nella comunicazione, si cercherà di presentare la collocazione temporale de "Il secondo sesso", ed il suo significato, mantenendo sullo sfondo una critica della dissociazione e del valore, e porremo in evidenza degli aspetti che ancora oggi possono essere considerati attuali. Verrà affrontata anche la relazione tra strutture oggettive e soggettività/coscienza, in quella che è la loro mediazione dialettica. L'esistenzialismo, anche nella sua variante marxista con Sartre e la Beavoir, pone il soggetto come assoluto.

Sabato, 5 ottobre, 10:00 - 12:30: Leni Wissen: Una matrice psicosociale del soggetto borghese nella crisi.
La comunicazione di Leni Wissen, «La matrice psicosociale del soggetto borghese nella crisi», si preoccupa, da un lato, nel suo determinare la «matrice psicosociale» del soggetto borghese, sulla base di una lettura della psicoanalisi di Freud sviluppate in una prospettiva della critica della dissociazione e del valore. Per quanto anche il pensare, l'agire ed il sentire delle persone non possa essere derivato direttamente dalla forma della dissociazione-valore, si pone la questione di sapere perché le persone, nel loro pensare, agire e sentire riproducano in quello che è il loro quotidiano le categorie astratte. Ora, dal momento che la forma della socializzazione capitalistica non è astratta, ma viene mediata nei suoi sviluppi empirici, ecco che anche il soggetto e le sue mediazioni psicosociali sono sottomessi alla processualità della socializzazione capitalista. A tal riguardo, la comunicazione cercherà, d'altra parte, di tracciare il percorso del diffondersi del narcisismo nelle condizioni dell'epoca della crisi postmoderna.

Sabato, 5 ottobre, 15:00 - 17:30: Kim Posster: La virilità è la crisi?! A proposito della storia e della relazione tra crisi manifesta e latente del soggetto borghese, e la sua natura sociale (sessuale).
«La vera virilità» semplicemente non può esistere. Essa, o «non è ancora reale», oppure «quasi non esiste già più». Si trova sempre sul punto di non essere altro che una dissolvenza del passato. Senza mai essere stata in grado di evitare la sua scomparsa nel futuro. Che la mascolinità si trovi ad essere in crisi è, quindi, una diagnosi che sembra applicarsi in ogni momento, visto che di solito viene sempre presentata come se fosse un argomento volto a ripristinare la sovranità patriarcale. Gli spiriti più critici contrappongono a questo il fatto che «la virilità è la crisi», sottolineando così la costituzione fondamentalmente precaria della mascolinità, e la paura per la debolezza e la decadenza che la sottende. Ma per quanto si possa respingere l'apologia della natura del genere intesa come miticamente eterna, che vuole cambiare tutto perché alla fine tutto rimanga così com'è, appare essere ancora più sbagliato voler ignorare la storia in essa contenuta. Perciò, anziché districare l'eterno presente del genere in maniera meramente decostruzionista, e tentare di variarlo nella sua colorita «diversità» - come anche il femminismo queer fa - è necessario perseguire materialisticamente la compulsione alla ripetizione sessuale della società borghese, attraverso quelle che sono profonde alterazioni storiche. Poiché solo una storia della mitica eternità del genere, vale a dire, una contemplazione della storia interiore della natura (sessuale) sociale, può chiarire la relazione esistente tra la crisi latente e manifesta del genere, in generale, e della mascolinità, in particolare.
La virilità può essere sviluppata solo come se fosse una categoria naturale della relazione di valore e della sua dissociazione sessuale, che, nello sviluppo storico della contraddizione in processo, cioè, del capitale, sempre si deteriora e deve quindi essere rinnovata ad ogni livello storico. La forma sotto cui questo decadimento viene attualmente trattato dagli uomini, ed il modo barbaro attraverso cui le ideologie nazionaliste e islamiste cercano un rinnovamento, rivela il modo in cui si manifesta oggi la crisi, dopo la «fine della storia», e, soprattutto, come essa scateni un potenziale regressivo.

Sabato, 5 ottobre, 19:00: Assemblea Generale dell'Associazione Exit!.

Domenica, 6 ottobre, 10:00 - 12:30: Andreas Urban: Uguaglianza, donne al vertice e «crisi della mascolinità» - Aspetti cultural-simbolici dell'inselvaggimento del patriarcato.
Sono anni che il moderno ordine di genere è sottomesso a notevoli processi di cambiamento. La politica e la scienza propagandano l'uguaglianza di genere, le donne vengono sempre più integrate nel mercato del lavoro ed arrivano sempre più ad occupare posizioni politiche ed economiche di vertice. Allo stesso tempo, tali sviluppi, così come le crescenti distorsioni del mercato del lavoro (disoccupazione di massa, precarizzazione, ecc.), fanno sì che gli uomini soffrano dei severi tagli e limitazioni in quella che è la loro posizione egemonica così come si è storicamente sviluppata, e, pertanto, anche nella loro identità maschile - tendenze, queste, che sono state recentemente trattate come una «crisi della virilità», in particolare da parte dei conservatori e dei populisti di destra. Dall'altro lato, possiamo osservare come nonostante tutti questi cambiamenti, le disparità specifiche di genere rimangano, così come le gerarchie materiali di genere, e anche quelle simboliche - sia la disparità salariale di genere, così tanto veementemente denunciata dal lato politico femminile, sia la responsabilità per quanto riguarda le attività riproduttive (cura dei bambini, cura della casa, sostegno agli anziani, ecc.), che continuano ad essere come prima a carico delle donne. Anche la normalizzazione dell'occupazione femminile ed il successo ottenuto dalle cosiddette «donne in carriera» si basano, essenzialmente, sull'internalizzazione e sulla riproduzione di orientamenti verso azioni tradizionalmente connotate come maschili, come la concorrenza - orientamenti verso azioni che soffrono di un'estrema acutizzazione a tutti i livelli, soprattutto nell'attuale crisi del sistema di produzione di merci. Contrariamente a quelle che sono le diffuse speranze femministe, tali sviluppi nel campo delle relazioni di genere, se si scava sotto, non si rivelano come un superamento tangibile delle strutture patriarcali ed androcentriche, ma piuttosto come sintomi di un progressivo «inselvaggimento»  (Roswitha Scholz). In questa comunicazione, verranno esaminati alcuni aspetti di questo processo di inselvaggimento - soprattutto a livello di quello che è l'ordine simbolico di genere.

Luogo del Seminario:
  
Jugendherberge Mainz
Otto-Brunfels-Schneise 4 - 55130 Mainz
Telefon 06131/85332
mainz@diejugendherbergen.de
http://www.diejugendherbergen.de/jugendherbergen/mainz/mainz/portrait/

Per arrivare:
In Treno: Magonza (Mainz) è stazione ferroviaria Intercity ed Eurocity. Dalla stazione, linee di autobus 62 e 63 in direzione di Weisenau-Laubenheim, Fermata "Am Viktorstift/Jugendherberge".
In Automobile: sulla Tangenziale A60 Mainz-Darmstadt, uscita  Weisenau/Grossberg in direzione Innenstadt/Volkspark.

COSTI per persona, con vitto ed alloggio, dal Venerdì alla Domenica:
Camera con 4 letti e doccia/WC: 80 euro (40 posti)
Camera singola con doccia/WC: 110 euro (10 posti)
No pagamento anticipato, portare denaro contante.

Partecipazione solo al seminario: 15 euro
Partecipazione con pensione completa: 30 euro
Ci sono 50 posti disponibili

Chi non ha bisogno di alloggio, ma solo di alcuni pasti, indichi per favore quali al momento dell'iscrizione  (colazione, pranzo, caffè pomeridiano, cena). Ai partecipanti che non intendono soggiornare nell'ostello, possiamo procurare un alloggio esterno. Il gestore dell'Ostello della Gioventù ci ha indicato: Hotel Stiftswingert (Stiftswingert 4, Tel 06131-982.640) e Hotel Ibis (Vicino alla Südbahnhof; Holzhofstr 2, Tel 06131-2470); per entrambi, il centro conferenze é facilmente raggiungibile a piedi; il costo è di circa 50 euro a notte.

Sconto: chi ha difficoltà per il pagamento, può esporre il problema all'atto dell'iscrizione ed ottenere uno sconto.

Iscrizione: Indicare all'atto dell'iscrizione un'eventuale scelta per un menu vegetariano.
Per E-mail:  seminar + @exit-online.org (rimuovere il segno + insieme agli spazi prima e dopo tale segno).
Per posta: Verein für kritische Gesellschaftswissenschaften, Heiko Gebauer, Buddestraße 16, 33602 Bielefeld.


fonte: EXIT!

venerdì 23 agosto 2019

Dopo il lavoro

Invenzione, centralità e fine del lavoro
- di Michel Freyssenet -

Sebbene ci sembri inerente alla condizione umana, il lavoro appare essere non solo come una parola ed un concetto storicamente datato, ma anche come una realtà inventata, costruita nel 18° secolo europeo. Esso corrisponderebbe all'emergere sia del rapporto salariale che del lavoratore libero che vende la sua capacità di lavorare. La diffusione e l'egemonia progressiva di questo rapporto sociale, che si traduce nel fatto che è diventato la base ed il riferimento per percepire, pensare ed organizzare ogni altra attività, avrebbe avuto come conseguenza un'estensione del termine lavoro anche alle attività che non riguardano il rapporto salariale, come il «lavoro domestico», il «lavoro autonomo»... Ne sarebbe risultata una naturalizzazione del lavoro, da allora in poi percepito come una realtà universale esistente da sempre. Così come è avvenuto per l'economia, avremmo proiettato sul passato e sulle altre società questa realtà contemporanea, e che in origine era anche geograficamente circoscritta, che è il lavoro, anziché riconoscere quali sono state le condizioni storiche, e non necessarie, che lo hanno fatto emergere tre secoli fa. Non sarebbe stato nemmeno socialmente necessario fin dall'inizio, come è poi divenuto al giorno d'oggi in quanto condizione di accesso alle risorse necessarie alla vita nelle nostre società. Se la sua storicità implica un giorno in cui logicamente avverrà la sua scomparsa, ragionevolmente questo non può essere pronosticato in un avvenire immediato, in quanto ciò presuppone la marginalizzazione del rapporto sociale che lo ha fatto nascere.
Se da qualche tempo, nelle scienze sociali, viene usata volentieri l'espressione «invenzione di...», per indicare il carattere storico e localizzato del concetto di cui si parla, come per esempio il mercato o la disoccupazione, potrebbe apparire più azzardato utilizzarlo per il lavoro, poiché questo appare essere come consustanziale alla condizione umana. Eppure, tuttavia, la questione va esaminata.
Il lavoro ed il dominio economico a cui esso è collegato verrebbero definiti e delimitati , dopo l'eliminazione delle particolarità che essi rappresenterebbero in ciascuna delle società conosciute, per mezzo delle attività che contribuiscono alla riproduzione materiale della vita umana e sociale. Il lavoro sarebbe quel momento che consente all'uomo di ottenere, direttamente o indirettamente attraverso lo scambio o un equivalente generale, ciò che all'uomo è necessario per vivere nella società in cui si trova. L'economia come il lavoro esisterebbero in qualche modo, indipendentemente da ogni rapporto sociale per organizzarlo, dal momento che nel corso della storia, ed in seno a ciascuna società, potrebbero farlo attraverso dei rapporti sociali differenti. La riproduzione materiale,  percepita dal nostro senso comune e dal pensiero economico - che esso sia d'ispirazione classica o marxista - come il minimo indispensabile ad ogni esistenza umana, l'attività economica ed il lavoro, e di conseguenza le relazioni sociali che le vengono attribuite, si trovano ad essere investita di una preminenza su quelle che sono tutte le altre attività, e su tutti gli altri rapporti sociali. Questa rappresentazione dell'economia e del lavoro, della loro universalità e della loro importanza in ogni società, attraverso le relazioni sociali che le avrebbero storicamente strutturate, diventa problematica per molteplici ragioni [*1].

1. - Il lavoro non è sempre esistito. È stato inventato
    Sono due gli argomenti che lo suggeriscono: l'assenza del termine e del concetto di lavoro presso numerose società; l'obbligo a dover ammettere l'ipotesi dell'«homo faber» in modo da poter fondare l'universalità del lavoro.

1.1. - Solo le nostre società distinguono il lavoro dalle altre attività
    La ricerca condotta da Marie-Noëlle Chamoux [*2] sulle realtà di cui sopra e sulle parole che in numerose società sono state tradotte con il termine «lavoro», risulta inquietante per una visione universalista del lavoro. Avviene che, o termine ed il concetto sono assenti, oppure confliggono coinvolgendo più parole e realtà, o i loro contrari non sono né il riposo né il tempo libero, oppure includono indissolubilmente ed esplicitamente degli atti magici o religiosi, oppure, arrivano perfino a non includere attività che sono tuttavia necessarie alla vita materiale, come la caccia... Il concetto di dolore, di sofferenza che d'altronde troviamo che in numerose società esso non presenta alcuna omogeneità, né per quel che riguarda la definizione, ne per quel che attiene alle attività in tal modo designate. La categoria di lavoro si rivela dunque difficilmente comprensibile empiricamente.  Marie-Noëlle Chamoux pone perciò la domanda: si può dire che il lavoro esiste sono quando esso non viene né pensato né vissuto come tale?
Oggi, gli storici e gli antropologhi sembrano essere pressoché unanimi nel dire che l'economia, la produzione, il lavoro... così come non li intendiamo nella nostra società, sono dei concetti e dei domini che si sono chiaramente costituiti a partire dal 18° secolo in Europa, insieme alla differenziazione di un mercato capitalista all'interno del mercato che gli preesisteva. Prima, l'economia, la produzione, il lavoro erano, come dire, incastrati, mescolati alla politica e alla religione, oppure fusi con essi. Possiamo provare ad immaginare questo incastro dell'economia e del lavoro facendo riferimento, ad esempio, alla sfera familiare, così come la conosciamo oggi. Ci sono numerose attività che sono ancora indissolubilmente legate all'educazione, all'affetto, alla riproduzione materiale, alla sottomissione, alla gratitudine, ecc., dimensioni caratteristiche della sfera stessa e del rapporto sociale che costituisce tale sfera e la rende definibile. A partire da questa constatazione comune, gli orientamenti di ricerca divergono.
Karl Polanyi, riprendendo e sviluppando le osservazione precedentemente fatte da Karl Marx e da Max Weber, soprattutto sul carattere «non-segregato» degli aspetti economici rispetto agli altri aspetti della vita in tutte le società diverse dalla nostra [*3], concludeva che non esiste una definizione «concettuale» universale dell'economia. Ogni epoca conosce delle forme economiche distinte. D'altra parte, riteneva che si possono dare delle definizioni «sostanziali» dell'economia, della produzione e del lavoro che siano valide per tutte le società conosciute: vale a dire, l'attività necessaria alla vita materiale dell'uomo e della società. Ma quest'attività, distinta dalle altre o ben incastrata nelle altre, non è tuttavia per sua natura necessariamente determinante per le altre attività. Può avere, secondo le epoche, un peso assai variabile sulla vita sociale in generale. In quest'occasione, Karl Polanyi denuncia l'economicismo che secondo lui aveva invaso le scienze storiche e sociali.
Maurice Godelier, nel suo libro "L'ideale e il materiale. Pensiero, economie, società" [Editori Riuniti, 1985], riprende la tesi polanyana della mescolanza dell'economia nel tessuto sociale di numerose società, ma senza condividerne le conclusioni. Egli scrive che questo consente, al contrario, di riesaminare il concetto marxista di relazione sociale di produzione, e di liberarlo da ogni riferimento ad una qualche società particolare, soprattutto alla nostra società, la quale ha autonomizzato l'economia. Questo ci permette soprattutto di comprendere, contrariamente a quanto viene affermato dallo stesso Polanyi, perché dei rapporti sociali ritenuti sovrastrutturali, come la parentela o come le relazioni politiche, abbiano potuto fondare ed organizzare l'intera società. La produzione viene inserita in queste relazioni e di conseguenza queste ultime svolgono la funzione di rapporti di produzione. Ciò grazie anche all'eccezione costituita dalla società capitalista occidentale, a partire dalla fine del 18° secolo, che ha fatto emergere l'economia e l'ha designata come tale, rendendo così possibile «comprendere l'importanza delle attività materiali e delle relazioni "economiche" nel movimento di produzione e di riproduzione delle società...» [*4]. Il fatto che le relazioni economiche una volta autonomizzate appaiano determinanti nella vita sociale, sarebbe la prova che le relazioni politiche e i rapporti simbolici su cui si reggono alcune società potevano farlo solo perché tali relazioni politiche e rapporti simbolici integravano anche le relazioni sociali di produzione. Il ragionamento seguito da Maurice Godelier [*5],  diversamente da Karl Polanyi, riconduce perciò i rapporti sociali di produzione alle basi di ogni società.
Louis Dumont, da parte sua, propone di sviluppare la tesi polanyana fino a che non gli sembri arrivata alla sua fine logica: vale a dire, rinunciare definitivamente ad ogni economicismo, anche per quanto riguarda la nostra società, e «rifiutare fino all'ultimo la compartimentazione che la nostra società - ed essa sola - propone, e anziché cercare nell'economia il senso della totalità sociale  - cosa alla quale Polanyi si è certamente opposto - cercare invece nella totalità sociale il senso di ciò che per noi è la nostra economia» [*6]. Infatti, molti antropologhi considerano che laddove la storia comincia, la cultura è già presente. La produzione è simbolica da cima a fondo. La società borghese, prima di essere un'economia, è innanzitutto una cultura. «Considerare come vantaggioso la scambio per entrambe le parti ha rappresentato un cambiamento fondamentale e ha segnalato l'accesso alla categoria economica» [*7]. Possono perciò essere distinti due grandi orientamenti. Per il primo orientamento, il rapporto capitale-lavoro ha reso autonome le attività che concorrono alla riproduzione materiale, e ha permesso così di definire l'economia in generale, a prescindere dalla sua forma capitalistica. Il lavoro sarebbe quindi sempre stato questa attività che consiste nell'utilizzare, nel padroneggiare, nel dominare la natura al fine di produrre tutto quello che è necessario all'uomo. Avremmo in questo modo una possibile definizione sostanziale possibile del lavoro, che ci permette di analizzare in ogni società questa forma di attività per mezzo di criteri comuni, e determinare quale ruolo avrebbe potuto svolgere nella strutturazione dei rapporti sociali. Mentre per Polanyi l'economia, il lavoro sarebbero strutturanti solamente nella nostra società, per Marx e per Godelier (1984), il rapporto capitale-lavoro avrebbe altresì rivelato il suo carattere fondante in tutte le società. Per il secondo orientamento, una cultura, e finora una soltanto, la cultura borghese, ha inventato un dominio chiamato economico, la cui sostanza consiste della relazione che questa cultura ha generato e sviluppato tra gli individui. Pertanto, una definizione universale dell'economia è impossibile sia a livello concettuale che sostanzialmente. In questa prospettiva, il lavoro così come lo intendiamo oggi corrisponde all'emergere della relazione salariale e del lavoratore libero che vende la propria capacità lavorativa. La diffusione e l'egemonia progressiva di questa relazione sociale, la quale si traduce nel fatto che è diventata il riferimento per poter comprendere, pensare, organizzare tutta una serie di attività, avrebbe avuto come conseguenza un'estensione della parola lavoro a delle attività che non venivano designate come tali e che non rientrano nella relazione salariale, come «lavoro domestico» e come «lavoro autonomo». Ciò avrebbe prodotto una naturalizzazione del lavoro, che da allora in poi sarebbe stato percepito come una realtà universale da sempre esistita. Come è avvenuto per l'economia, questa realtà contemporanea che è il lavoro, all'origine geograficamente e culturalmente circoscritta, sarebbe stata proiettata sul passato e sulle altre società, anziché assumere come tali le condizioni storiche, e non necessarie, che l'avevano fatto emergere tre secoli fa. Un buon modo per poter andare avanti in tale dibattito, è quello di analizzare i presupposti delle due posizioni.

1.2. - Mantenere l'ipotesi dello sviluppo del lavoro e dell'economia a partire dalla relazione capitale-lavoro, e quindi della sua universalità, presuppone l'adozione di un materialismo naturalistico oggi insostenibile.
Dopo aver letto la sua Prefazione al Contributo alla Critica dell'Economia Politica nella quale Marx esponeva la sua distinzione tra i rapporti che fondano la società (infrastrutture) e le relazioni che la governano (sovrastrutture), un giornalista americano aveva obiettato a Karl Marx che la determinazione della vita sociale da parte dei rapporti sociali di produzione, non può essere posta come universale. La società antica e la società feudale, faceva notare, erano fondate su delle relazioni essenzialmente politiche. Marx gli rispondeva, in una nota ne Il Capitale, che, nel corso della decomposizione delle relazioni feudali, anche Don Chisciotte aveva dovuto trovare da bere e da mangiare. In altri termini, privi delle relazioni che, in alcune società, inglobano e allo stesso tempo mascherano quelle relazioni per mezzo delle quali viene assicurata la riproduzione materiale della società, gli uomini si trovano di fronte quelli che sono i loro primari obblighi fisici: nutrirsi. La determinazione da parte dell'economia, aveva perciò chiaramente origine dalle ineludibili necessità vitali. Non è inutile ricordare da dove provenga questa posizione naturale-materialista. Essa affonda le sue radici nelle prime opere filosofiche di Karl Marx. Reagendo contro l'idealismo e l'universalismo hegeliano, che avevano precedentemente condiviso, Marx ed Engels sottolineano ne L'Ideologia Tedesca che l'Uomo in Generale non esiste e che esistono solo quelli che sono degli individui concreti storici. « Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, cosi come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico. » [*8]. Quindi per « dissipare le fantasmagorie universaliste del pensiero e liberarsene», propongono un programma di lavoro volto a studiare gli uomini storici concreti, le relazioni che intrattengono fra di loro, le loro condizioni di vita, e i processi della vita reale. Per giustificare tale programma, sostengono tre argomenti. Un argomento metodologico: la vita materiale degli uomini concreti è verificabile in maniera puramente empirica. La sua analisi fornisce delle basi reali per la riflessione, a partire dalle quali si può fare astrazione solo per mezzo dell'immaginazione. Non sono dei dogmi. Un argomentazione importante se mira a denunciare l'oblio da parte del pensiero universalista di quelle che sono le condizioni di vita reale e le loro relazioni con le diverse correnti e forme di pensiero. Argomento tuttavia insufficiente per giustificare il primato che viene accordato alla vita materiale affinché essa comprenda le altre manifestazioni umane. È quindi possibile aggiungere un altro argomento storico: si può dimostrare che esiste un legame, nella storia umana, tra i diversi stadi dello sviluppo della divisione del lavoro e le forme di proprietà, vale a dire, i rapporti degli individui fra di loro. Logicamente questa correlazione, constatabile, che non implica che la produzione materiale sia altrettanto determinante, è seguita da una terza argomentazione, chiaramente naturalistica: » (...) dobbiamo cominciare col constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per poter « fare storia » gli uomini devono essere in grado di vivere. « Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l'abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un'azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini.» [*9]. « Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione5 per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. » [*10]. Engels e Marx aggiungono che, assai rapidamente, si sviluppano altri bisogni e tutto un modo di vita. Rimane il fatto che fondano la preminenza dell'attività produttiva sull'«evidenza» dei bisogni vitali, evidenza che parte da un discorso sulle origini dell'uomo, essendo in realtà un discorso sulla proprietà dell'uomo alla sua origine.
Al giorno d'oggi, per poter affermare, rispetto ad ogni società, il carattere fondante della produzione materiale, bisogno condividere quest'ipotesi originale? Sembra di sì, dal momento che al di là di questi bisogni vitali che sarebbero primari, la produzione materiale è essa stessa un prodotto totalmente sociale e storico, allo stesso titolo di qualsiasi altra manifestazione umana. I presupposti dell'enunciato del «primo fatto storico», vale a dire la produzione di quei mezzi che permettono di soddisfare i bisogni legati al nutrimento, sono troppo numerosi e incerti per poter essere considerati oggi. Infatti, avrebbe dovuto essere necessario che, solo fra tutte le specie animali, il pre-uomo non avesse più trovato, nel suo eco-sistema, da bere e da mangiare. Avrebbe dovuto essere necessario che fosse stata questa necessità, e non un'altra, ad essere diventata una costrizione assoluta, che avesse innescato l'invenzione e la riflessione umana, ed il primo rapporto sociale. Avrebbe dovuto essere necessario che il ricorrere ad un mezzo «artificiale» per l'acquisizione del nutrimento fosse stato proprio dell'uomo, cosa che, come sappiamo, non è avvenuto, ecc. In breve, non sarebbe più possibile fondare una tesi così gravida di conseguenze teoriche e pratiche, come quella dei rapporti sociali di produzione che si troverebbero alla base di ogni società, sulla fragile ipotesi dell'homo faber. Possiamo ragionevolmente postulare che un essere sociale «completo», libero da ogni primitivismo, le cui condizioni di esistenza stessa sono quindi quelle di una società, di una lingua, della trasmissione delle conoscenze, delle ragioni per vivere e per morire... piuttosto che il bere ed il mangiare, per non parlare della altre condizioni naturali o culturali, altrettanto essenziali, ma che noi ignoriamo dal momento che di esse non abbiamo notizie. Si viene allora riportati alla posizione di Louis Dumont ed a dover ricercare nella «totalità sociale» di ciascuna società le ragioni della suddivisione e della designazione del sociale che in tale posizione si osserva? Oltre che in tal modo si viene rimandati a dover costruire per ciascuna società una «totalità» impossibile da fissare e «risolvere», bisognerebbe anche rappresentare la società come un organismo, dotato di un unico principio di esistenza, di ordine e di regolamentazione, che darebbe un senso a ciascuna delle sue parti. Anziché tentare di costruire una simile «totalità», sarebbe più prudente ed euristicamente più fecondo partire prima dalla constatazione dell'esistenza dei rapporti sociali, storicamente dati, con una logica propria; rapporti sociali agiti, attualizzati e trasformabili da parte degli attori sociali che ciascuno di questi rapporti istituiscono; che coesistono o si articolano fra di loro; e creano dei campi sociali, la cui designazione ed i cui confini si trasformano, in funzione del luogo e dell'importanza che questi rapporti acquistano, gli uni in rapporto agli altri. Curiosamente, Marx ci dà l'occasione e la possibilità di intraprendere questa strada e pensare il concetto del rapporto sociale liberato da ogni determinazione «sostanziale», contrariamente a quanto egli sostiene altrove al fine di fondare il carattere fondamentale dei rapporti sociali di produzione.

2. - Il rapporto capitale-lavoro ed il lavoro che questo rapporto ha storicamente generato, non solo concettualmente collegati alla produzione materiale
Nelle sue ricerche sul lavoro produttivo ed il lavoro improduttivo, Marx mostra come questa distinzione abbia senso solo in rapporto ad una forma sociale di accumulazione. Riprendendo la tesi di Adam Smith, e difendendola contro J.B. Say ed il post-classici, egli mostra che la definizione di lavoratore produttivo in quanto produttore di valore d'uso non sia di interesse scientifico, dal momento che lo è ogni persona a partire dal fatto che il prodotto materiale o immateriale della sua attività trova un utilizzo qualunque, anche di fantasia. Il fine della produzione capitalista non è la produzione di valori d'uso o di merci in quanto tali, bensì la riproduzione del vecchio valore e la creazione di plusvalore, per cui il lavoro produttivo è dunque quello che viene scambiato con il capitale, mentre il lavoro improduttivo è quello che viene scambiato con il reddito, qualunque sia la sua forma (salario, profitto, rendita, imposte, ecc.). Tuttavia, Marx si differenzia da Adam Smith su un punto importante. Per Smith, il lavoro produttivo del capitale corrisponde alla produzione di beni materiali sotto forma di merci, ed il lavoro improduttivo ai «servizi», definiti come scambio da uomo a uomo. Per cui fonda la distinzione produttivo-improduttivo non solo sul rapporto tra lavoro e capitale, ma anche su una differenza nella natura dell'attività. Introduce una seconda determinazione: quella della materialità del prodotto. Al contrario, Marx mostra che se è vero che il lavoro produttivo del capitale produce più spesso dei beni materiali, la sua definizione non ha niente a che vedere con il suo contenuto concreto, ma essa designa esclusivamente un rapporto sociale, al punto che una persona impegnata nella medesima attività - ad esempio la cucina - sarà produttivo o improduttivo dal punto di vista del capitale a seconda che egli venda la sua capacità lavorativa ad un ristorante o ad un privato, a seconda perciò che la sua capacità lavorativa venga scambiata contro del capitale al fine di metterlo in valore oppure contro del reddito per soddisfare una domanda del detentore di quel reddito. Un professore sarà produttivo (dal punto di vista del capitale) se sarà un dipendente di una scuola privata a fine di lucro, e sarà improduttivo di capitale se darà lezioni private in una famiglia o se sarà il dipendente del Ministero della Pubblica Istruzione. Se Marx arriva a dire che la caratteristica del « lavoratore produttivo, vale a dire del lavoratore produttore di capitale, è quella per cui il suo lavoro si realizza in delle merci, nella ricchezza materiale», egli sta parlando delle merci nel senso del valore di scambio, e designa così «un'esistenza fittizia, puramente sociale della merce, assolutamente distinta dalla sua realtà fisica; [...] qui l'illusione proviene dal fatto che una relazione sociale si presenta sotto forma di oggetto » [*11].
Denaturalizzando completamente il concetto di relazione capitale-lavoro, considerandolo come una relazione puramente sociale, mostrando che non è legata alla produzione materiale, Marx rende quindi questo «rapporto sociale di produzione» come storicamente datato, come una relazione la cui predominanza sulle altre relazioni sociale non può più provenire da delle attività che servono alla riproduzione materiale della società. Sembra che egli non sia mai arrivato ad una simile conclusione. Pertanto, continua a seguire logicamente quella che è la sua analisi del lavoro produttivo del capitale. Ed essa è, come si vede, in contraddizione con il naturalismo materialista della Ideologia Tedesca [*12]. Oggi come in passato, è impossibile riuscire a dare una definizione sostanziale di che cosa sia il lavoro, vale a dire, definirlo a partire dalla natura delle attività che esso è chiamato a raggruppare in base alla loro utilità. Nelle nostre società, la medesima attività può essere lavorativa come non lavorativa. La sua natura non dipende affatto da che essa avvenga o meno nell'ambito di uno dei tre rapporti sociali che al giorno d'oggi ci fanno parlare di lavoro: il rapporto salariale, il rapporto di mercato (non in tutti i casi) e la relazione domestica (questa la innesca, ma non è così dappertutto). Va notato, infine, che un numero crescente di attività, considerate come non rilevanti economicamente e come non lavorative, lo sono diventate con la diffusione della relazione salariale ed in particolare della relazione capitale-lavoro.
Una determinata attività può essere lavorativa o non lavorativa, a seconda del momento in cui viene svolto: giardiniere, autista, cucinare, costruire, cantare... Una stessa attività può essere contemporaneamente lavorativa e non. Pertanto, una persona che sta con i propri figli, in cambio di una remunerazione, controlla allo stesso tempo anche i figli degli altri. Di un'attività, potremo quindi dire che essa è un lavoro solo se specifichiamo sotto quale rapporto sociale viene effettuata. E al giorno d'oggi ci sono solo tre relazioni sociali che ci fanno parlare di lavoro: la relazione salariale, quella di mercato, e la relazione domestica.
L'utilità non ci permette di stabilire quali sono i confini tra il lavoro e le altre attività, non più di quanto faccia la natura dell'attività stessa. Anche se vi aggiungiamo la qualifica di «sociale», l'utilità eccede ampiamente quelle che sono tutte le attività comunemente classificate sotto il termine di lavoro. Le relazioni sociali che oggi rendono lavoro quelle che sono alcune attività, non sono più legate ad un particolare dominio del sociale. Esse possono coinvolgere delle attività assai diverse fra loro, alcune delle quali, numerose, non fanno parte di ciò che viene comunemente denominato come produzione, o campo economico.
Per esempio, il rapporto capitale-lavoro, se esteso, si estende sempre più a delle attività considerate ieri fuori dalla sfera economica: il tempo libero, lo sport, la politica, la religione, i simboli, la scienza, l'arte, la filosofia, la polizia, ecc.. All'origine, non riguardava le attività essenziali per la vita materiale. In certi paesi, esso ha sottomesso l'attività agricola tardivamente. I suoi limiti variabili nel tempo e nello spazio, i tentativi spesso vani di contenere l'espansionismo in nome della presunta «nobiltà» intrinseca di questa o di quella attività, dimostrano che si tratta di un rapporto indifferente alla natura delle attività che esso organizza. Si comincia, ad esempio, a discutere oggi per sapere sotto quale relazione sociale (il dono, l'indennizzo, l'acquisto o il salario) si verificherà in futuro, in un dato numero di casi, tutta quanta o parte della riproduzione umana, allo stesso modo in cui si parla dell'«accompagnamento» dei morenti. La relazione capitale-lavoro è quindi un rapporto sociale suscettibile di diffondersi in ogni tipo di attività. Per sua natura, nessuna attività, a priori, può sfuggire a questo. È questa estensione, che supera tutte le frontiere  finora stabilite nelle nostre società fra i vari tipi di attività umane, che conferma il carattere puramente sociale e storico dell'economia e del lavoro.
Da questo punto di vista, si può dire che il lavoro diventa sempre più centrale: sia perché è per la maggior parte delle persone la forma obbligata di attività per poter accedere alle risorse materiali ed immateriali necessarie per vivere nelle nostre società, sia perché diventa sempre più la forma di realizzazione delle attività umane a prescindere dalla loro natura. Oggi, sapere se non devono essere stabiliti dei limiti - questione che alcuni pongono in termini di mercificazione dei rapporti umani - è una questione che riguarda la società.
Dal momento che solamente uno dei rapporti sociali cosiddetti di produzione conosciuti - vale a dire il rapporto capitale-lavoro - non è concettualmente legato alla riproduzione materiale della vita nella società, ecco che diviene impossibile farne il criterio per definire la preminenza delle relazioni sociali di produzione in generale rispetto agli altri rapporti sociali. Ciò invalida la possibilità di costruire un concetto universale di relazione sociale di produzione, e ci porta a considerare il rapporto capitale-lavoro come un rapporto «totalmente sociale», vale a dire, come un rapporto che non appartiene ad un particolare dominio di attività che esisterebbe al di fuori di sé stesso; che non riguarda una particolare categoria di relazioni sociali; che è unico come tutti i rapporti sociali; che è in grado di organizzare la quasi totalità della vita sociale, come sembra sia avvenuto nella storia con altre relazioni sociali; e che, infine, non presenta una dimensione che prevarrebbe sulle altre, come lo dimostra l'analisi stessa del rapporto capitale-lavoro, essendo questa relazione tanto politica e simbolica quanto economica. Il lavoro sarebbe una pura costruzione sociale senza alcun legame con delle esigenze naturali? Come fare a capire che un rapporto sociale possa prevalere storicamente su degli altri rapporti, e perfino egemonizzare ed omogeneizzare tutto il sociale, se non traendone questa capacità di controllo delle attività «vitali» della società considerate? In effetti, è difficile pensare che non si tratti delle condizioni necessarie alla riproduzione di qualsiasi società e della specie umana, e che conterebbero solo le condizioni specifiche a ciascuna società. Ma queste condizioni generali sono molteplici: ovviamente magiare, bere, eventualmente vestirsi ed alloggiare, ma anche procreare, respirare, comunicare, essere riconosciuti, muoversi, non essere uccisi, e molte altre condizioni note o ignote. Queste condizioni «vitali» diventano tali, e vengono percepite come tali, solo a partire dal momento in cui esse non sono più date naturalmente o socialmente a tutti, o al più grande numero di persone. Ciò perché alcune di queste condizioni sono risibili, come respirare, dal momento che finora l'aria, benché di qualità variabile, rimane direttamente accessibile a tutti. Tuttavia, questo esempio ha il merito di ricordare il carattere sociale e storico di quelle che sono le condizioni per la riproduzione della vita nella società. Esse acquisiscono lo status di condizioni solo se diventano oggetto di una scarsità naturale, di un'appropriazione sociale, o di una restrizione collettiva. Pertanto, si può pensare che la riproduzione materiale ed il lavoro, in quanto attività votata a tale riproduzione votata, potrebbero non essere stati socialmente importanti, o fondanti, qualora altre condizioni altrettanto essenziali per la vita sociale, o per la vita di questa o di quella società, fossero state oggetto preferenziale dell'appropriazione o del controllo sociale.
In una simile prospettiva, ogni rapporto sociale avrebbe il proprio valore, la propria economia, la sua razionalità, la sua forma di distribuzione e di divisione delle attività che esso regola, i suoi principi tecnici... che potrebbero diventare quelli di una società, se questo rapporto sociale dovesse arrivare a prevalere storicamente sugli altri rapporti sociali. Una società non sarebbe mai arrivata ad essere una totalità, rispetto alla quale ciascuna delle sue «parti» sarebbe divenuta comprensibile, ma avrebbe dato vita ad un insieme di possibili rapporti sociali in tensione fra di loro, l'uno con gli altri, che creano socialmente uno o più bisogni vitali, e governano l'accesso a tali risorse.
Si potrebbe perciò azzardare l'ipotesi secondo cui una relazione sociale diventa importante allorché essa trasforma determinate risorse naturali o culturali in una sfida sociale, in condizioni non garantite della vita in società, attraverso la differenziazione ed il controllo, e che diventa fondamentale quando arriva ad essere la strada obbligatoria per poter accedere a quelle che sono diventate la risorse materiali ed immateriali (di ogni tipo e natura) necessarie alla vita nella società che stiamo considerando. L'economia ed il lavoro, perciò, esisterebbero e sarebbero importanti solo nella nostra società. Questi manterrebbero il loro carattere centrale di quelle che sono le manifestazioni e le designazioni naturalizzate di una relazione sociale che, regolando alcune condizioni generali necessarie alla vita nella società, insieme alle condizioni particolari proprie delle nostre società, è diventata egemonica.

3. - La diffusione della relazione capitale-lavoro e l'universalizzazione naturalista del lavoro
Se così fosse, come ha potuto diffondersi questo termine, fino a designare anche delle attività che non vengono svolte sotto questa relazione sociale? Per fare questo, bisogna comprendere due generalizzazioni: quella del lavoro dipendente e quella del lavoro salariato, e più in generale quella del lavoro. Sembra che i termini di salario, di salariati e di lavoro salariato, dipendente, siano stati estesi posteriormente a delle situazioni alle quali non corrispondevano affatto: per esempio, il dipendente di una casa o di una collettività che vende i propri servizi in cambio di un reddito, e non di capitale, e che viene pagato sotto forma di uno stipendio; i funzionari, questi «servitori dello Stato», i cui emolumenti costituiscono la retribuzione della funzione sociale che essi svolgono per conto della collettività. E infatti, malgrado l'omogeneizzazione giuridica delle condizioni lavorative, il tipo di rapporto non è lo stesso. La subordinazione non è dello stesso tipo, e l'incertezza della relazione sociale non ha la medesima forma, a seconda del rapporto salariale che consideriamo. In questo caso, il fine del datore di lavoro non è né l'arricchimento personale né l'accumulazione del capitale. Il datore di lavoro elargisce il suo reddito per ottenere i servizi che desidera, o perché vengano adempiute quelle funzioni che gli sono stati assegnati dalla collettività, senza alcuna intenzione o speranza di recuperare la sua spesa. Il fine è quello della soddisfazione per il servizio che viene svolto. Se è possibile ottenerla, e se la cosa avviene effettivamente ad intervalli più o meno regolari, in particolar modo da parte della collettività (Stato, comuni, associazioni, istituzioni...), ecco che allora viene ricercata una migliore efficacia a costi inferiori attraverso delle «riforme» o dei «contratti», a partire dalla pressione politica di tutti, o parte, di quelli che pagano le tasse o i contributi, e che desiderano vedere diminuire il loro continuo aumento per dei motivi, e non a causa della necessità di riprodurre il capitale. Le modalità e le conseguenze della subordinazione salariale, così come quelle relative all'incertezza inerente a questo tipo di rapporto sociale, non sono le stesse per i dipendenti e per i datori di lavoro.

4. - Oggi, il lavoro è diventato centrale perché la relazione sociale che ha creato si è diffusa in tutte le attività, e perché tale rapporto è «totalmente sociale»
Com'è noto, la relazione capitale-lavoro viene da tempo percepita, considerata, come se fosse un semplice rapporto commerciale: imprenditori e lavoratori comprano e vendono del lavoro a prezzo di mercato. Ci sono voluti numerosi dibattiti, numerosi conflitti, per tutto il 19° secolo affinché i salariati riconoscessero e facessero riconoscere che si trattava di un rapporto specifico che doveva essere oggetto di una legislazione speciale, separata dagli altri diritti, per lo più commerciali. Non si trattava di un semplice malinteso, o di un mezzo che avevano i datori di lavoro di evitare ogni responsabilità, soprattutto in caso di incidente. In realtà, si trattava di forme ambigue molto diffuse: l'outsourcing a domicilio e le equipe di lavoro mobile dirette da un capo-squadra. Da allora in poi, è stato riconosciuto che il contratto di lavoro non è uno scambio fra pari e uguali. Ma esso cela la subordinazione del salariato all'autorità del datore di lavoro, ma allo stesso tempo contiene in sé un'irriducibile incertezza, che è la seconda caratteristica di questa relazione. Quello che al momento dell'assunzione tutti considerano come venduto o comprato, viene messo quotidianamente in discussione nel rapporto di lavoro.
In realtà, cosa nasconde una vendita della capacità di lavorare? Si tratta di mettere a disposizione, da parte del salariato, tutto insieme, la sua energia, la sua esperienza, la sua intelligenza, le sue motivazioni, la sua dedizione, la sua immaginazione? Oppure, come testimonia la storia, si tratta di un conflitto costante circa tutto ciò che ciascuno può esigere dall'altro, vale a dire, circa la natura di quella che è la rispettiva libertà, e del salariato e del datore di lavoro. L'entità di ciò che si considera aver venduto, e ciò che l'altro ritiene di avere acquistato, non differisce solo a partire da un diverso apprezzamento di ciò che viene giudicato come vendibile e acquistabile: la dedizione, la fedeltà, ne fanno parte? La motivazione, l'immaginazione, l'intelligenza, fino a che punto ne fanno parte? La definizione precisa di lavoro non attiene solo ad una tendenza del datore di lavoro che si esercita sotto la forma della prescrizione, ma è anche una domanda del salariato, il quale, sotto un'altra forma, vuole stabilire dei limiti rispetto a ciò che si può esigere da lui.
Il rapporto capitale-lavoro richiede la «libertà» da parte dei lavoratori di vendere la propria capacità di lavorare, e, da parte dei detentori di capitale, di acquistarla. Queste due libertà non sono né sostanze naturali, né elementi permanenti non soggetti a limiti o ad alterazione. Del resto, non tutti ne «godono». Il bambino, nella sua maggioranza, la donna, fino a poco tempo fa, ed ancora oggi, in molti paesi, devono avere l'autorizzazione del padre o del marito per poter vendere il loro lavoro in cambio di un salario, e non sempre dispongono, di fatto o per legge, del denaro derivante dalla vendita della loro capacità di lavoro. Queste «libertà» si trovano in una situazione di costante ridefinizione e delimitazione, sia nella legge che nella pratica. I dibattiti ed i conflitti riguardanti la durata del lavoro non si limitano solo alle divergenze a proposito della qualità e del ritmo della vita necessario o accettabile alla luce di quelli che sono gli imperativi «economici», e tenuto conto delle esigenze della riproduzione delle capacità lavorative, ma si riferiscono allo status «politico» di lavoratore «libero». Com'è noto, per esistere, il rapporto capitale-lavoro ha implicato anche il fatto che esso abbia dovuto essere considerato moralmente accettabile; il che ci porta a considerare che la somma degli interessi egoisti possa concorrere, contribuire, a quello che è l'interesse ed il benessere generale. E a dire il vero, il processo di moralizzazione del capitalismo rimane tuttora aperto. Il rilancio del liberismo economico si è accompagnato ad un discorso non solo sulla sua efficacia, ma anche sul fatto che sarebbe anche il più giusto. Infine, attraverso l'atto di vendita della sua capacità lavorativa, il salariato riconosce all'acquirente la legittimità - per quanto concessa temporaneamente, parzialmente, e nell'ambiguità - dell'autorità che verrà esercitata su di lui. Affinché il rapporto capitale-lavoro si riproduca, questo riconoscimento dev'essere riconfermato quotidianamente nell'atto lavorativo. Il salariato accetta di alienare la propria «libertà» di lavoratore «libero» per tutto il tempo di lavoro, e accetta di limitare i suoi diritti di cittadino che del resto sono suoi solo al di fuori del tempo e dello spazio dell'impresa che lo impiega.
Il secondo modo, consiste nell'intervenire su quello che è il concetto di processo di produzione, degli strumenti e delle macchine, dell'organizzazione del lavoro e delle forme di cooperazione fra salariati, in modo che tali dispositivi delimitino l'attività o si impongano, per quanto possibile, su coloro che dovranno utilizzarli, essendo impossibile un inquadramento ed un prescrizione assoluta. In questo modo, una parte essenziale dell'intelligenza del lavoro viene quindi a trovarsi sotto l'autorità del datore di lavoro, e muta così di fatto di contenuto e di forma. La distribuzione del lavoro tra gli specialisti viene perciò sostituita dalla divisione dell'intelligenza del lavoro. Quest'ultima, in linea di principio, viene a delimitare la varietà delle forme tecniche di produzione, di organizzazione del lavoro, di regolamentazione, di strutturazione, di classificazione e di formazione della manodopera osservata. L'intervento del datore di lavoro nella progettazione del processo di produzione, è osservabile fin dalle origini della relazione salariale, facendo sì che la costituzione di un gruppo o di più gruppi di salariati aiutino a svolgere questo compito.

5. - Il lavoro sta perdendo la centralità acquisita? Esso non è più alla base del legame sociale?
Nel dibattito attuale riguardo la perdita di centralità da parte del lavoro, si possono distinguere almeno tre posizioni che portano a delle conclusioni pratiche assai diverse. Per alcuni, oggi, il lavoro cambia natura e dev'essere visto come un'attività che consente a ciascuno di dimostrare le proprie capacità. Per altri, il lavoro non è più, se mai lo è stato, l'unica fonte di ricchezza, e non è più economicamente centrale. Infine, per i terzi, con le nuove tecnologie, i guadagni di produttività sono tali che in futuro non sarà più possibile dare lavoro a tutti. Si tratta di un'opportunità che consente di praticare un'ampia divisione del lavoro, e permette ad un enorme numero di persone di potersi dedicare ad attività di libera scelta.
Stranamente, i primi riducono il loro campo di visione, rappresentando il lavoro come un'attività vincolata, prescritta, imposta, senza autonomia, in poche parole, il lavoro taylorista, nel modo in cui esso è stato abusivamente descritto e generalizzato. Constatando che questo lavoro si trova sul punto di essere rimpiazzato da un'attività di sorveglianza, di intervento e di comunicazione, che può dare luogo ad iniziativa ed invenzione (cosa che corrisponde più ad un'affermazione o ad un desiderio che ad osservazione e analisi) [*13], essi concludono che è emersa una nuova realtà che non merita più il nome di lavoro, nella misura in cui permetterebbe l'auto-realizzazione di sé. Il recupero del termine «mestiere», per cercare di designarlo, è sintomatico di tale posizione.
Per i secondi, la teoria del valore basata sul lavoro è teoricamente e praticamente invalidata. Il lavoro non è più l'elemento fondamentale o esclusivo della produzione di valore. Il rendimento economico non sarebbe più direttamente legato al lavoro, al suo volume, alla sua qualità, alla sua organizzazione nelle fabbriche, ma piuttosto alla gestione della produzione, all'organizzazione della progettazione, alla relazione con la clientela... Come se il lavoro si limitasse solo a quello della fabbrica, come se i lavoratori fossero indifferenti, ad esempio, al fatto che la produzione avvenga a raffica, ininterrottamente, oppure secondo il «just-in-time», come se queste differenti modalità non costituissero una modellazione del lavoro, come se l'emergere di nuove forme di progettazione, gestione ed organizzazione non corrispondessero a dei momenti, a delle congiunture, a delle fasi del rapporto salariale.
Per gli ultimi, il lavoro salariale capitalista è fondamentalmente e definitivamente obbligato. È inutile sperare di trasformarlo in un mezzo di realizzazione. È consigliabile piuttosto utilizzare al massimo quelle che sono le potenzialità di riduzione dei tempi e dedicarsi a che ciascuno possa impegnarsi in attività sociali e culturali di sua scelta, e quindi far emergere altre relazioni sociali. In primo luogo, tutto ciò presuppone un aumento della produttività  che diventi sempre più importante di quella dei potenziali concorrenti, in modo da non dover rimettere in discussione la continua riduzione del tempo di lavoro; in secondo luogo, un divieto al capitale di investire in delle nuove attività sociali, che rivelerebbero di fatto un potenziale mercato; infine, un'autorità politica forte che disponga a sufficienza di mezzi per garantire a tutti una parte di lavoro socialmente necessario che è rimasto, o di un reddito di esistenza, in modo da operare le riconversioni periodicamente indotte dai cambiamenti di produzione, di tecnologia e di organizzazione. Supponendo che queste condizioni possano essere soddisfatte, esse potrebbero esserlo solo in alcuni insiemi geo-politici. Benché marginalizzato in termini di tempo, in questi insiemi, il lavoro rimarrebbe la condizione di esistenza e di supremazia, vale a dire, rimarrebbe di fatto centrale, dal momento che dovrebbe essere oggetto di ogni attenzione.
Se si analizza il lavoro come un'invenzione storica, cosa che abbiamo cercato di fare qui, ecco che allora siamo portati a pensare che non siamo affatto vicini a vedere la fine della sua centralità. Infatti, affinché il lavoro non sia più centrale, e la società si strutturi a partire da altri rapporti sociali, bisogna che la vendita della capacità lavorativa di ciascuno, o quella del prodotto del suo lavoro, per quanto parziale, non sia più il prerequisito per poter accedere a quelle che sono storicamente diventati i presupposti della vita stessa nella nostra società. Sarebbe inoltre anche necessario che il capitale non fosse più in grado di investire quelli che sono tutti i domini, vecchi o nuovi, della vita sociale, così come fa irresistibilmente, malgrado le battute di arresto che gli vengono imposte temporaneamente qui o là, dal momento che il movimento di espansione in dei nuovi campi è una delle condizioni della sua riproduzione.
Sebbene farlo, abbia qualcosa di un po' ridicolo, possiamo rischiare qualche ragionamento. Per fare in modo che il lavoro non sia più centrale, ci dovrebbe essere un riflusso della relazione capitale-lavoro a causa del dinamismo di un'altra relazione sociale che alla fine lo soppianterebbe; allo stesso modo in cui egli stesso lo ha fatto, e continua a farlo, riuscendo ad essere più più efficace su quel terreno da cui trae la sua forza di espansione, vale a dire, sulla capacità di orientare la domanda verso quelli che sono i nuovi beni che esso produce, qualora si ammetta che la libertà politica e la libera scelta rimangono delle conquiste storiche. Il che è come dire che abbiamo ancora qualche difficoltà ad immaginare il processo.

Conclusione
Sebbene ci sembri inerente alla condizione umana, il lavoro appare quindi, non solo come una parola ed un concetto storicamente datato, ma anche come una realtà inventata, costruita a partire dal 18° secolo europeo. Esso corrisponderebbe all'emergere del rapporto salariale e del libero lavoratore che vende la sua capacità lavorativa. La diffusione e la progressiva egemonia di tale rapporto sociale, che si traduce nel fatto che è diventato il riferimento per percepire, pensare, organizzare qualsiasi altra attività, e avrebbe avuto come conseguenza un'estensione del termine di lavoro anche alle attività che non sono soggette alla relazione salariale, come il «lavoro domestico», il «lavoro autonomo»... Ne sarebbe risultata una naturalizzazione del lavoro, da allora in poi percepito come una realtà universale da sempre esistita. Come è avvenuto per l'economia, avremmo proiettato sul passato e su delle altre società questa realtà contemporanea, ed in origine geograficamente circoscritta, che è il lavoro, anziché rendersi conto delle condizioni storiche e non necessarie che lo hanno fatto emergere tre secoli fa. Né tantomeno sarebbe stato socialmente centrale fin dall'inizio, come lo è diventato al giorno d'oggi essendo la condizione di accesso alle risorse necessarie per la vita nelle nostre società. Per quanto, la sua storicità implichi logicamente che un giorno avrà luogo la sua scomparsa, in un avvenire immediato essa non può essere ragionevolmente prevista, dal momento che presuppone la marginalizzazione della relazione sociale che l'ha fatta nascere.

- Michel Freyssenet, directeur de recherche au CNRS. -
- Pubblicato il 20 aprile 2018 su Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme -

NOTE:

[*1] - Questo articolo riprende e sviluppa un insieme di testi pubblicati a partire dal 1987: «Le concept de rapport social peut-il fonder une autre conception de l’objectivité et une autre conception du social» in Freyssenet, M., Magri S.(eds), «Les rapports sociaux et leurs enjeux», CSU, Paris, volume 1, 1989, pp 9- 23, et “Le rapport capital-travail et l’économique” in volume 2, 1990, pp 5-16. “L’invention du travail” in Futur Antérieur, 1993/2, pp 17-26. “Historicité et centralité” in Bidet J., Texier, J., La crise du Travail, PUF, Paris, 1995, pp 227-244.

[*2] - Chamoux M-N. “Société avec et sans concept de travail: remarques anthropologiques”, in Freyssenet, M., “Les énigmes du travail”, Sociologie du Travail, n° hors-série, octobre 1994.

[*3] - Polanyi K., La grande trasformazione. Einaudi.

[*4] - Maurice Godelier - "L'ideale e il materiale. Pensiero, economie, società ". Editori Riuniti.

[*5] - Da allora, la posizione di Maurice Godelier si è evoluta, come viene spiegato nella prefazione a “Transformation de la nature et rapports sociaux” in Michel Freyssenet et Suzanna Magri (eds) Les rapports sociaux et leurs enjeux. CSU. Paris. tome 2. 1990. p19-20. Riprendendo un suo testo, “L’oeuvre de Marx” pubblicato in “Le marxisme analytique anglo-saxon”, Actuel Marx, n°7, septembre 1990, egli scrive: «Quando, per esempio, in una società tribale, i rapporti di parentela funzionano anche all'interno come rapporti di produzione, quindi allo stesso tempo sia come infrastruttura che come sovrastruttura, bisogna allora spiegare perché... (Tuttavia), l'antropologia sociale finora non ha mai scoperto un rapporto diretto, di causalità, tra un modo di produzione ed un modo di filiazione e di alleanza. Infatti, se i rapporti di parentela non dipendono direttamente, nel loro apparire, da un modo di produzione, ciò è perché esse hanno le loro funzioni proprie e posseggono - e questo è un paradosso solo in apparenza - una base materiale indipendente: i rapporti biologici tra i sessi e tra le generazioni, condizioni materiali della produzione di nuovi individui, ai quali le regole della filiazione e dell'alleanza dei diversi sistemi di parentela conferiscono un senso e degli usi sociali... Pertanto, l'ipotesi centrale di Marx, che fa dei modi materiali e sociali di produzione il fondamento generale della vita sociale, non viene confermata. Ma conserva una capacità più limitata, eppure sempre impressionante, per poter spiegare il funzionamento e l'evoluzione delle società».

[*6] - Prefazione di Louis Dumont al libro di Karl Polanyi, "La grande transformation". Gallimard. Paris. 1983, p XXVI.

[*7] - Louis Dumont. "Homo aequalis". Gallimard. Paris. 1985. p. 45

[*8] - Engels F., Marx K., "L'ideologia tedesca". Editori Riuniti. p.50

[*9] - ivi, p.57.

[*10] - ivi, p.45.

[*11] - Marx K., "Storia delle teorie economiche". Einaudi.

[*12] - Oggi, bisognerebbe riprendere dall'opera scientifica di Marx questo sforzo, reperibile nei suoi scritti e sempre più visibile, via via e nella misura in cui egli si rimette a lavorare sulle sue stesse proprie analisi, della denaturalizzazione e della storicizzazione dei concetti e delle realtà che sono per noi ordinarie, sforzo che siamo ben lontani dall'avere perseguito, ivi compresi coloro i quali hanno denunciato e denunciano il materialismo di Marx, come è testimoniato dalla convinzione largamente condivisa da ogni genere di corrente filosofica e politica secondo cui il lavoro è inerente alla condizione umana.

[*13] - Freyssenet M., “Processus et formes sociales d’automatisation. Le paradigme sociologique”, Sociologie du travail, 1992/4, pp 469-496.


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