domenica 30 settembre 2018

Grammatica del giallo

maigret

Nel 1961, quando ancora Simenon era confinato fra gli scrittori di serie B, Sciascia, dopo aver dichiarato che i suoi romanzi valevano ben più di quelli dell'école du regard, aggiungeva: «... e forse anche qualcuna delle avventure del commissario Maigret ha più diritto di sopravvivenza di quanto ne abbiano certi romanzi che, a non averli letti, si rischia di sfigurare in un caffè o in un salotto letterario». Questione di chiaroveggenza, certo. E di perspicacia, come quando, sempre nel 1961, scriveva: «Maigret è l'elemento cui la realtà reagisce: una specie di elemento chimico che rivela una città, un mondo, una poetica». Ma anche di passione per un genere – la letteratura poliziesca – da sempre frequentato: con una spiccata simpatia per il «modulo», scaturito da Poe, che del giallo fa un rigoroso cruciverba narrativo, un gioco ingegnoso. Quel che in questo libro scopriamo è che sin dai primi anni Cinquanta Sciascia ha anche costantemente indagato la letteratura gialla, quasi volesse chiarire a se stesso le ragioni della sua passione e costruire una sorta di mappa, una genealogia degli autori più amati – Chesterton, Agatha Christie, Erle Stanley Gardner, Rex Stout, Simenon, Geoffrey Holiday Hall e altri ancora. Offrendoci così trascinanti riflessioni e insieme gli indizi indispensabili per individuare le ascendenze dei protagonisti dei suoi gialli: dal capitano Bellodi del Giorno della civetta all'ispettore Rogas del Contesto, al brigadiere Lagandara di Una storia semplice.

(dal risvolto di copertina di: Leonardo Sciascia: Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, a cura di Paolo Squillacioti , Adelphi, pp. 191, € 13,00)

Sciascia e la grammatica del giallo attorno a Simenon
- di Alberto Fraccacreta -

Un elemento ossessivo nelle inchieste del commissario Maigret è questo: «Caricò macchinalmente la pipa». In realtà, in molte occasioni Jules carica anche lentamente la pipa. È la parola «macchinalmente» (in francese machinalement), però, a costituire un vero e proprio stilema della scrittura simenoniana, come sottolinea Marco Morello, tanto da riguardare la quasi totalità dei suoi personaggi: un tic dello scrittore belga vòlto alla semplificazione del dizionario per arrivare al maggior numero di lettori possibile. Strategia, quella del «monolinguismo», davvero molto petrarchesca. Per il resto Maigret ha la fortuna di avere dalla sua una donna eccezionale – la signora Maigret, un visiting angel del quotidiano –, di bighellonare in una Parigi dall’aria spesso frizzante (il «soffio di poesia» dei gialli, secondo Sciascia) e di essere votato al suo chiodo fisso, con la fronte sul vetro gelido della finestra.
Dalle poche nozioni sulla vita del commissario è agile l’imbeccata verso una domanda ormai necessaria, per certi versi simile alla dualità poesia/canzone. La narrativa di genere (o di consumo) ha la medesima dignità del romanzo propriamente detto? Inoltre: esiste una grammatica minima del giallo? In ventitré articoli apparsi dagli anni cinquanta in giù e radunati adesso da Adelphi sotto il titolo Il metodo di Maigret e altri scritti sul gialloPiccola Biblioteca», a cura di Paolo Squillacioti, pp. 191, € 13,00), Leonardo Sciascia scrive un abbozzo di teoria del poliziesco, riabilitandolo – in straordinario anticipo sui tempi – ed evidenziando come Simenon non abbia nulla da invidiare all’allegra brigata dell’école du regard. Anzi, tutto il contrario. C’è qualcosa in lui destinato a rimanere: nel gettare libri dalla finestra ed erigere barricate à la Zola – ma è noto che Simenon lavorasse, senza rileggere per altro, chiuso nella stiva di battelli fluviali –, egli ha creato con furberia volpina quel faux après che rende inconfondibile i suoi rapidi passaggi descrittivi, le scorrerie nell’ambivalente psicologia di alcuni tipi d’uomo, il tono da al di sopra della mischia.
Eppure l’acutezza, almeno in fatto di sottosuolo – «l’investigatore è un genio, un uomo che possiede eccezionali qualità razionali e visionarie» –, è caratteristica essenziale del dottor Ciccio Ingravallo (chi non ricorda il suo astuto «chiste è ll’amico» a casa di Liliana Balducci?), di Hercule Poirot, dell’eleganza edificante di Padre Brown, dell’esteta Sherlock Holmes e naturalmente del loro capostipite, Auguste Dupin. Ed ecco la folgorazione di Sciascia: l’investigatore è un eletto, colui che è investito dalla Grazia illuminante, tipica di Santa Lucia «nimica di ciascun crudele». Non a caso, rileva ancora l’autore siciliano, la più antica detective story figura nel libro di Daniele con la vicenda di Susanna, dei giudici corrotti, del lentisco e del leccio. Ma l’aura divina spira anche in un’esaltazione nominalistica vibrata da funzione ironica o simbolica: «L’aiutante di Wolfe (wolf: lupo) che si chiama Arcibaldo, Mason che vuol dire muratore, Ellery Queen edera regina (il tenace arrampicarsi dell’edera)». C’è dunque un nesso inestricabile tra i protagonisti, nell’identikit del loro repertorio – come accade alle maschere di Commedia dell’Arte. «La centrifugazione della realtà è la specifica tecnica del romanzo poliziesco». Ciò significa che l’esistenza è «turbinata» dalla descrizione, soggetta cioè a un appiattimento di sfumature.
Nondimeno Maigret è un diverso, un anomalo. Non pensa ma vede, e soprattutto, cechovianamente, ama. Le atmosfere torbide delle sue giornate confliggono con sentimenti non di rado sbiaditi, onirici («istantanee intuizioni», figlie di un’incapacità algebrica e di un vivissimo senso lirico); da lì viene fuori l’ipotesi di verità. Una questione di metodo, appunto. Una concezione dello scrivere vicina a quanto «di inquieto, di ribollente, di disordinato» ci sia «nelle coscienze». Maigret sembra dormire a lungo, forse troppo, sembra essere posseduto da strane visioni, rivivere continuamente, nevroticamente immagini e suoni, brandelli di discorsi, lampi di visi. Poi si sveglia all’improvviso. Qui Sciascia, prendendo spunto da una riflessione di Vittorini, si abbandona all’interrogativo girardiano: la letteratura gratuita del crimine è legata al moderno sentimento del sacro? Si potrebbero citare i presupposti eidetici con cui nasce la tragedia greca. Certo è che Simenon questa tragedia la suona in modo elegiaco, non abbandonando mai l’Es gogoliano che allunga i tentacoli e i periscopi dell’intuito nei legami fra le persone.
Se in Chesterton prevale il «soprannaturale lieto» con faticosi sillogismi nella lotta tra il bene e il male, lo scrittore di Liegi mette in chiaro le incrinature, gli accenti, i barbagli della trascendenza. La linea epistemologica che separa, all’incirca, il teologo o il filosofo dal mistico o dal poeta. Il metodo di Maigret non è deduttivo, ma induttivo; non è filosofico-scientifico, ma poetico; non coincide con l’art pour l’art di Conan Doyle, ma è una carta assorbente del reale, un tremolio di mistero. Non lontani da quest’orizzonte paiono Ciccio Ingravallo, protagonista di quello che Sciascia considera «il miglior giallo della letteratura italiana», e il capitano Bellodi. Come ricorda Squillacioti, non lontano è il modo in cui sono costruiti La scomparsa di Majorana e L’affaire Moro. Il modo in cui «Machiavelli si ingaglioffava a giuocare a cricca». Ossia, macchinalmente.

- Alberto Fraccacreta - Pubblicato su Alias di Domenica 18.3.2018 -

Interruzioni di liquidità

crisis

Ecco cosa secondo J.P.Morgan potrebbe causare la prossima crisi finanziaria
- di Ryan Vlastelica -

Il salvataggio di ieri diventerà il rischio di domani?
Per il mercato azionario statunitense sono passati dieci anni dalla crisi finanziaria che ha scatenato quella che si è rivelata essere una profonda depressione, che ha provocato alle persone la perdita di milioni di posti di lavoro e delle loro case, ed ha decimato il mercato azionario, con l'indice S&P 500 che ha perso più della metà del suo valore. I governi e le banche centrali di tutto il mondo hanno adottato misure massicce per fermare la crisi, ma, ironia della sorte, queste misure potrebbero semplicemente rivelarsi come le basi per la prossima crisi. Questo secondo J.P.Morgan che in una recente nota ha analizzato sia le cause che le risposte alla crisi. Secondo la banca di investimento, l'economia continua ad essere sostenuta dalle misure straordinarie adottate nel 2008, ma i cambiamenti che queste misure hanno causato rispetto all'ambito - che hanno già cominciato ad operare e che accelereranno già nel prossimo anno - costituiscono un rischio che viene sottovalutato.
Un primo passo fondamentale, compiuto durante la crisi finanziaria, è stato quello di un massiccio stimolo monetario, ivi incluso il Troubled Asset Relief Program - a partire dal quale, il governo ha acquistato asset tossici da istituzioni finanziarie indebolite - ed il Quantitative Easing, a partire dal quale la Federal Reserve ha acquistato titoli di Stato al fine di abbassare i tassi di interesse e stimolare maggiori investimenti, e rendere così le azioni più attraenti. Complessivamente, le banche centrali hanno acquistato qualcosa come 10.000 miliardi di dollari in asset.
«Ora ci si aspetta che questo aggiustamento si inverta, in misura rilevante a partire dal 2019. Un tale deflusso (o la mancanza di nuovi afflussi) potrebbe portare ad un declino delle attività e ad interruzioni di liquidità, e potenzialmente potrebbe causare una crisi finanziaria,» ha scritto J.P.Morgan. «La caratteristica principale della prossima crisi saranno le gravi interruzioni di liquidità, in quanto risultato di quegli sviluppi del mercato avvenuti a partire dall'ultima crisi.»
Le modifiche alla politica della banca centrale vengono ampiamente considerate come un rischio per le azioni, che in una certa misura si sono trovate nel più lungo rialzo di mercato mai avvenuto dopo l'abisso della crisi. Barry Bannister, direttore della "institutional equity strategy" presso la Stifel, ha scritto recentemente che le azioni si trovavano nella "zona di pericolo", e che l'aumento dei tassi di interesse potrebbe innescare un mercato al ribasso con «le azioni che crollano più rapidamente di quanto la Fed possa reagire.»
Separatamente, la Fed ha ridotto le dimensioni del suo bilancio, che per mezzo dei vari cicli di quantitative easing era stato aumentato fino a 4.500 miliardi di dollari. L'inversione del bilancio patrimoniale viene visto come il costante segnale di allarme da parte di Wall Street.
J.P.Morgan si è riferito al suo ipotetico scenario come alla "grande crisi di liquidità", ed ha affermato che il momento in cui potrebbe verificarsi «verrà in gran parte determinato dalla velocità cui avverrà la normalizzazione della banca centrale, dalle dinamiche del ciclo economico, e da vari eventi particolari come l'escalation della guerra commerciale condotta dall'attuale amministrazione statunitense,» come si può leggere sul rapporto.
Le modifiche alla politica monetaria avranno implicazioni anche per quanto riguarda il mercato obbligazionario. Dopo aver toccato il suo minino del 1,4%, nel luglio del 2016, il rendimento a dieci anni del titolo del tesoro statunitense è salito al 2,97%. Questo significa che i prezzi delle obbligazioni sono scesi, in quanto i prezzi e i rendimenti si muovono in maniera inversa gli uni rispetto agli altri. Se il giugno del 2016 segna un punto di svolta per il mercato obbligazionario in crescita, questo potrebbe avere delle implicazioni significative per quanto riguarda il rischio per tutte le classi di attività.
«Negli ultimi vent'anni, la maggior parte dei modelli di rischio, per compensare il rischio azionario, si basavano (correttamente) sulle obbligazioni. Al punto di svolta della correzione monetaria, questo assunto molto probabilmente fallirà. Ciò aumenta il rischio di coda per i portafogli multi-asset», ha scritto J.P.Morgan. «Nella prossima crisi, probabilmente le obbligazioni non saranno in grado di compensare le perdite azionarie (a causa dei tassi bassi e degli ampi bilanci).»
Il mese scorso, Jeffrey Kleintop - chief global investment strategist alla Charles Schwab - ha avvertito circa il fatto che il livelli globali di indebitamento potrebbero esacerbare l'aggravamento della prossima grida finanziaria.
Citando i dati provenienti dall'International Monetary Fund, ha scritto che alla fine del 2016 - il periodo più recente in cui sono a disposizione i dati -  il debito globale si è attestato sui 164.000 miliardi di dollari. Ciò rappresenta il 225% del PIL globale, e una crescita di 50.000 miliardi di dollari rispetto ai livelli precrisi finanziaria.
«Mentre un elevato onere del debito non è necessariamente un problema di per sè, esso aumenta però la vulnerabilità del sistema in caso di shock - in particolare, uno shock che alzerebbe i tassi di interesse,» scrive Kleintop. «In teoria, tutto quel debito significa che le potenziali perdite derivanti da un aumento dei tassi di interesse verrebbe ad essere più costoso rispetto al passato, specialmente se combinato con un dollaro più forte che fa salire il costo in dollari dei debiti al di fuori degli Stati Uniti.»
J.P.Morgan non ha previsto una crisi nel breve termine, affermando che gli attuali squilibri nell'economia USA sono «ampi ma non eclatanti», e che «la mancanza di gravi squilibri suggerisce che la prossima recessione avrà meno probabilità di innescare una crisi nello stile di quella del 2018.» Lo scenario di recessione più probabile, aggiunge, «sembra più mite di quello del 2008 e più simile a quello del 1990 o del 2001.»
Attualmente, viene assegnato un 25% di probabilità che nel prossimo anno abbia inizio una recessione, «non lontana da quella che è la media storica del 17%.»

- Ryan Vlastelica - Pubblicato il 12 settembre 2018 -

fonte: MarketWatch

sabato 29 settembre 2018

Umanesimo radicale

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Il messaggio dimenticato di Karl Marx
- A duecento anni dalla nascita, il filosofo tedesco è ancora studiato in tutto il mondo. Ma più che per l’analisi dei processi storici, nell’era dell’automazione il suo pensiero è attuale soprattutto per la sorprendente fiducia nell’individuo -
di Paul Mason

La foto, un po’ sfocata, sembra cogliere Lev Trotskij a metà di una frase. Siamo a casa di Frida Kahlo nel 1937. A sinistra c’è Natalia Sedova, la moglie di Trotskij. A destra ci sono Kahlo e, seminascosta dietro di lei, una giovane donna che ascolta attentamente: è Raja Dunaevskaja, la segretaria di Trotskij. Non sappiamo quale sia l’argomento della conversazione, ma non abbiamo dubbi sulle sue premesse: tutte le persone presenti nella fotografia sono marxiste. Le loro idee sulla politica, l’economia, l’etica e l’arte sono state influenzate dagli scritti di un uomo nato in Germania duecento anni fa. Trotskij sarà assassinato nel 1940, e da quel momento Sedova riverserà tutta la sua rabbia contro il potere sovietico. Kahlo diventerà una delle artiste più straordinarie del novecento. Ma è Dunaevskaja a costituire il collegamento tra il marxismo classico e l’unica forma in cui la teoria elaborata dal filosofo tedesco può avere senso oggi. “Il marxismo”, sosteneva Dunaevskaja, è una forma di “umanesimo radicale”. Il 5 maggio si è celebrato il duecentesimo anniversario della nascita di Marx, ma il dibattito sulle sue idee non accenna a finire. La scorsa estate l’estrema destra statunitense ha manifestato a Charlottesville, in Virginia, accusando la città di essere schiava del “marxismo culturale”. Il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, avverte che il marxismo potrebbe tornare d’attualità a causa della disoccupazione legata all’automazione e delle disuguaglianze. In Cina, intanto, è stata risuscitata una forma di marxismo che è diventata la nuova dottrina di stato. Per capire quello che può e non può sopravvivere del marxismo, dobbiamo chiederci che senso hanno i suoi insegnamenti nelle condizioni profondamente diverse di oggi.

Oltre l’ortodossia

Nel luglio del 1850 Karl Marx era già un teorico della sconfitta. Nel Manifesto del partito comunista (1848) aveva scritto che la missione della classe operaia era abolire la proprietà privata e introdurre il comunismo. Ma aveva capito subito che ci sarebbe voluto un po’ di tempo. Dopo aver cercato per due anni di spingere le rivoluzioni democratiche in corso in Francia e Germania nella direzione della giustizia sociale, aveva ammesso il suo fallimento e si era rifugiato a Londra. Tuttavia, nella stanza sopra a un pub di Soho, davanti a una pinta di birra, Marx continuava a rassicurare il suo compagno d’esilio, Wilhelm Liebknecht, sul fatto che la speranza non era ancora morta. Aveva appena visto il prototipo di un treno a trazione elettrica in mostra a Regent Street: l’era del vapore sarebbe finita presto e sarebbe cominciata quella dell’energia elettrica. Liebknecht scrisse: “Marx, tutto entusiasta e rosso in viso, mi disse: ‘Adesso il problema è risolto, e le conseguenze sono imprevedibili. Alla rivoluzione economica deve necessariamente seguire quella politica, perché la seconda è solo l’espressione della prima”. Tra i fumi del tabacco, Marx aveva delineato una versione semplificata della concezione materialistica della storia. A quella ne sarebbe seguita una più complicata. Nella prefazione al saggio Per la critica dell’economia politica (1859) Marx spiega che il cambiamento sociale nasce dal conflitto tra due realtà create dagli esseri umani: le forze produttive – cioè la tecnologia e le competenze necessarie per usarla – e i rapporti di produzione, il modello economico necessario per dar vita alla tecnologia. Insieme, sostiene Marx, la tecnologia e il modello economico costituiscono la “struttura” su cui in ogni sistema si fondano le “sovrastrutture”, cioè le leggi, le istituzioni politiche, le culture e le ideologie. Le rivoluzioni scoppiano quando il sistema economico ritarda il progresso tecnologico. Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848, Marx dedicò la sua vita a due progetti complementari: la creazione di partiti della classe operaia che difendessero gli interessi dei lavoratori e li preparassero a conquistare il potere, e l’analisi delle dinamiche del capitalismo industriale. Solo una volta, in un quaderno rimasto inedito per più di cent’anni, Marx azzardò un’ipotesi sulla forma che la rivoluzione tecno-economica avrebbe potuto assumere. Nel Frammento sulle macchine, scritto nel 1858, Marx immagina un’epoca in cui le macchine fanno la maggior parte del lavoro e in cui la conoscenza, diventata “sociale”, si incarna in quello che il filosofo chiama “intelletto generale”. Dato che il capitalismo si basa sui profitti generati dai lavoratori, non può sopravvivere a un livello di progresso tecnologico che elimini la necessità del lavoro. Il conflitto tra proprietà privata e conoscenza sociale condivisa, dice Marx, farà “saltare in aria” le fondamenta del capitalismo. Questa profezia, così palesemente anticipatrice della nostra epoca di robot e conoscenza condivisa, è rimasta negli archivi fino agli anni sessanta. Nei cinquant’anni successivi alla morte di Marx, nel 1883, le sue idee subirono tre reinterpretazioni. All’inizio il suo collaboratore Friedrich Engels cercò di sistematizzare il pensiero di Marx in una teoria onnicomprensiva, che non si fermava alla storia ma teneva insieme perfino la fisica, l’astronomia e l’etnografia. Questo era il marxismo che studiarono i leader dei primi partiti socialisti, i quali ne fecero una seconda revisione, sostenendo che le teorie di Marx conducevano a un socialismo parlamentare pacifico, non alla rivoluzione. Infine, a partire dal 1899, emerse un marxismo basato sulla lotta di classe, che metteva la forza di volontà dell’essere umano e il suo slancio organizzativo al di sopra dell’ineluttabilità dello sviluppo storico. Questo era il marxismo che Trotskij e Sedova avevano imparato nei movimenti clandestini in Russia, e che nel 1902 li aveva costretti all’esilio a Parigi. Secondo questa teoria, la Russia sarebbe potuta diventare democratica solo sotto la guida della classe operaia. Per questo bisognava organizzare i lavoratori in partiti agguerriti e gerarchizzati proprio come gli stati governati dagli zar e dai kaiser che i lavoratori stessi volevano abbattere. Le loro armi dovevano essere gli scioperi e le barricate, non le elezioni e l’attivismo culturale. Ma il marxismo dei primi del novecento conteneva anche una teoria della classe operaia opposta a quella di Marx. Per il filosofo tedesco le rivoluzioni del 1848 erano fallite perché il capitalismo non era ancora maturo per essere abbattuto. Per Lenin, nel 1902, erano i lavoratori a non essere pronti. E non lo sarebbero mai stati senza la guida di un’élite, senza l’avanguardia di un partito clandestino che li spingesse all’azione. Lenin sosteneva che l’intera classe operaia specializzata del mondo sviluppato ormai era stata comprata dai guadagni dell’imperialismo: fare la rivoluzione era compito dei lavoratori non specializzati in occidente e dei popoli dei paesi meno sviluppati. Più o meno a partire dal 1910 le rivolte nazionaliste e le guerre per la terra scoppiate in Messico, Cina, Irlanda e infine in Russia sembrarono confermare questa teoria. Trotskij e Sedova avevano assistito alla nascita di questo nuovo marxismo rivoluzionario. La generazione di Kahlo e Dunaevskaja conosceva invece solo questa versione. Dunaevskaja era nata nel 1910 da genitori ebrei nell’odierna Ucraina ed era emigrata a Chicago con loro nel 1922. Era entrata nel Partito comunista a 14 anni, durante uno sciopero scolastico. Avrebbe lasciato il partito quattro anni dopo, quando fu gettata giù dalle scale per aver criticato l’espulsione di Trotskij dal Comintern e dal Partito comunista sovietico. Trotskij era stato uno dei leader della rivoluzione del 1917. Poi aveva partecipato all’abolizione del controllo delle fabbriche da parte dei lavoratori e alla repressione delle opposizioni di sinistra. Ma a partire dal 1923, davanti alla nascita di una nuova élite di burocrati, aveva lanciato un suo movimento di opposizione. Negli anni trenta era ormai arrivato alla conclusione che lo stalinismo e il fascismo erano “gemelli”, separati esclusivamente dalle teorie economiche su cui si basavano. Nel movimento trotskista Dunaevskaja aveva il compito di curare, da un ufficio di New York, un giornale in lingua russa distribuito nell’Unione Sovietica. Era arrivata in Messico nel luglio del 1937 per lavorare come stenografa e traduttrice di Trotskij, mentre le grandi purghe cominciavano a decimare le loro reti clandestine. Kahlo era entrata a far parte del movimento dei giovani comunisti messicani nel 1928, a 21 anni. “Sono comunista per natura”, avrebbe scritto in seguito. Per la generazione dei giovani intellettuali messicani attratti dal comunismo, quest’identità politica implicava non solo la sperimentazione sessuale e artistica, ma anche un profondo impegno nei confronti delle culture indigene e un grande entusiasmo per le rivolte dei contadini guidate da Emiliano Zapata. Le persone ritratte nella fotografia condividevano una serie di idee di fondo che potremmo riassumere così: le rivoluzioni di solito scoppiano nei paesi arretrati; richiedono una guerriglia mobile, l’occupazione di terre e una lotta spietata contro i ricchi; un partito marxista deve guardarsi dal conservatorismo della classe operaia occidentale e difendere piuttosto i popoli indigeni e quelli oppressi; la classe operaia è il “soggetto rivoluzionario” intrinsecamente nemico del capitalismo, anche se momentaneamente fuorviato. Erano tutte persone pronte al sacrificio e disposte a usare la manipolazione e la violenza per raggiungere il loro obiettivo. Ma ognuna si sforzava, a modo suo, di preservare un marxismo dal volto umano, di resistere alle menzogne, agli omicidi di massa e alla repressione della libertà innescata dallo stalinismo. La tragedia è che nessuno di loro aveva compreso quanto profondamente umanista fosse il marxismo quando era stato concepito. Solo Dunaevskaja un giorno lo avrebbe capito. Marx non amava la filosofia: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo, quello che conta è cambiarlo”, scrisse. I Manoscritti economico-filosofici – scritti nel 1844 a Parigi, ma pubblicati a Mosca solo nel 1932 – dimostrano come arrivò a quella conclusione: attraverso una critica alla filosofia dell’illuminismo, profondamente imbevuta di umanesimo, e che discende direttamente da un concetto di natura umana riconducibile ad Aristotele attraverso sant’Agostino e Hegel. Lo scopo degli esseri umani, dice Marx nel 1844, è liberarsi. Sono schiavi non solo del capitalismo e di uno specifico tipo di società basata sulle classi, ma di un problema che nasce dalla loro stessa natura sociale, che li obbliga a lavorare in gruppo e a collaborare tra loro usando il linguaggio e non solo l’istinto. Quando noi esseri umani produciamo un oggetto, o scopriamo una nuova idea, tendiamo a proiettare il nostro concetto di “io” in quest’oggetto o idea: è il processo che Marx chiama alienazione, o estraniazione. Poi consentiamo ai nostri prodotti, mentali e materiali, di esercitare un potere su di noi, sotto forma di religioni o superstizioni, idolatrando i beni di consumo o rispettando insensatamente routine e forme di disciplina che ci siamo imposti da soli. Per superare l’alienazione, Marx sostiene che l’umanità deve liberarsi di tutte le gerarchie e le divisioni di classe, il che significa abolire sia la proprietà privata sia lo stato. I manoscritti del 1844 contengono un’idea che nel marxismo è andata perduta: il concetto di comunismo come “umanesimo radicale”. Il comunismo, diceva Marx, non è semplicemente l’abolizione della proprietà privata, ma la “riappropriazione dell’essenza umana da parte dell’uomo e per l’uomo… Il totale ritorno dell’uomo a se stesso come essere sociale (cioè umano)”. Quindi, sostiene Marx, il comunismo non è l’obiettivo finale della storia umana. È solo la forma che la società assumerà dopo quarantamila anni di organizzazione gerarchica. Il vero obiettivo della storia umana è la libertà, la realizzazione personale di ogni singolo individuo. Nel 1932, quando pubblicarono questi quaderni, gli accademici sovietici li trattarono come un errore imbarazzante dell’autore. Accettare quelle idee avrebbe significato ammettere che alla base dell’intera concezione materialistica della storia – fatta di classi, rapporti di produzione, tecnologia contrapposta all’economia – c’era un profondo umanesimo con una serie di implicazioni morali. Dunaevskaja, che riuscì a mettere le mani su una versione russa dei Manoscritti negli anni quaranta, passò quasi dieci anni a cercare di venderne la sua traduzione inglese, fino a quando non decise di pubblicarla da sola a metà degli anni cinquanta. Aveva capito che i Manoscritti mettevano in discussione tutte le precedenti interpretazioni di Marx. Per i burocrati sovietici, il contrasto tra l’idea marxiana di libertà e la loro squallida e opprimente realtà era evidente. Per il marxismo occidentale, che ormai era ossessionato dallo studio delle strutture permanenti, ecco che Marx non parlava più di forze impersonali ma di un concetto chiaro e quasi aristotelico di natura umana, di autonomia e benessere. Era forse possibile, si chiedeva Dunaevskaja, che tutte le disgrazie capitate alla sinistra marxista fossero dovute alle rigide teorie divulgate da Engels? Era possibile che la spietatezza del bolscevismo, sempre giustificata dall’obiettivo di dare il potere alla classe operaia, fosse inconciliabile con il comunismo immaginato da Marx? Era possibile che, dopotutto, il comunismo non costituisse una rottura con l’umanesimo filosofico dell’illuminismo, ma ne fosse invece l’espressione più compiuta? Queste furono le domande che Dunaevskaja si fece, sulla base delle quali stabilì nuove priorità pratiche. In futuro la sinistra avrebbe dovuto costruire le sue politiche partendo dall’esperienza dei singoli esseri umani e dalla loro ricerca della libertà. Negli Stati Uniti degli anni cinquanta questo significava non solo appoggiare la lotta degli operai nelle fabbriche, ma anche sostenere il femminismo, i diritti civili dei neri, i diritti dei popoli indigeni e le lotte antimperialiste del sud del mondo. E significava anche sostenere inequivocabilmente le rivolte contro lo stalinismo che esplosero in Germania nel 1953 e in Ungheria nel 1956. Quando i ricercatori alla fine degli anni sessanta scoprirono e pubblicarono il Frammento sulle macchine, Dunaevskaja capì che era l’ultima tessera del puzzle: non era una teoria sul crollo economico del capitalismo dovuto al calo dei profitti, ma una teoria della liberazione tecnologica. Marx aveva previsto che, liberato dal peso del lavoro grazie ai progressi dell’automazione, il genere umano avrebbe usato le sue energie “per il libero sviluppo dell’individuo”, non per realizzare un’utopia collettivistica. Frida Kahlo prese invece una strada diversa. Il suo ultimo quadro la mostra seduta sotto un ritratto di Stalin. Aveva avuto una storia d’amore con Trotskij e lo aveva visto mentre veniva ucciso in casa sua. E aveva praticato un tipo di pittura surrealista che Trotskij apprezzava ma che Mosca considerava degenerata. Perché aveva deciso di celebrare l’uomo che aveva ordinato l’uccisione di Trotskij? Anche se Frida Kahlo non poteva saperlo, il tema centrale della sua arte era sempre stato il concetto marxista di alienazione. La pittrice considerava l’io il luogo in cui sarebbe stata raggiunta la liberazione umana; nei suoi quadri aveva esplorato l’alienazione del suo sesso, della sessualità, della disabilità e dell’etnicità. Le sue efficaci rappresentazioni dell’infelicità e dell’isolamento l’hanno fatta diventare, a partire dagli anni settanta, una specie di santa patrona del femminismo. Ma è chiaro che l’artista considerava non marxisti e antipolitici i suoi quadri oggi più famosi. Una volta li definì “piccoli e poco importanti, pieni di temi personali che interessano solo a me e a nessun altro”. I veri quadri politici erano quelli di suo marito Diego Rivera. L’idea che anche il personale è politico non apparteneva alla sua generazione. Durante la guerra fredda, mentre tutto il mondo si schierava con l’occidente o con l’Unione Sovietica, Kahlo fece la stessa scelta di molte altre persone di sinistra: si iscrisse al Partito comunista messicano e rinnegò Trotskij. Anche i suoi quadri cambiarono. Cominciò a dipingere grandi allegorie sociali, come Il marxismo guarirà gli infermi (1954), in cui non comparivano più gli aspetti mistici e metaforici delle sue prime opere. Non fu una scelta da dilettante della politica. Nel 1952 aveva scritto sul suo diario: “Non sono mai stata trotskista. Capisco perfettamente la dialettica materialista di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Tse. Li amo e li considero i pilastri del nuovo mondo comunista”. La traiettoria politica di Kahlo è un chiaro esempio di quello che succede al marxismo quando si allontana dall’umanesimo. La pittrice doveva tenere il suo interesse artistico per i traumi psicologici e per la libertà sessuale nettamente separato dall’ideologia del materialismo dialettico. Il suo accento sull’io indifeso, sulla bellezza della persona oppressa, sull’ineludibile potere della natura, era frutto della stessa idea di libertà che Marx aveva espresso nel 1844. Ma Kahlo non riusciva a conciliarlo con il marxismo della propaganda sovietica. E alla fine ebbe la meglio la propaganda.

Di fronte al dilemma
Cosa rimane del marxismo nella nostra era di euforia tecnologica e di catastrofi ambientali? Di certo non la sua idea di classe: nonostante la forza lavoro del pianeta sia raddoppiata, gli operai dei paesi in via di sviluppo sono intrappolati nella società borghese quanto lo erano i loro colleghi bianchi del novecento. Le agitazioni sul lavoro continueranno, ma il capitalismo ha imparato a evitare che si trasformino in rivoluzioni. Tutto questo sembra tragico solo se non si sono mai letti i Manoscritti economico-filosofici. Il Marx del 1844 teorizzava prima il comunismo e poi il ruolo dei lavoratori nel realizzarlo. Il comunismo non era il punto finale della storia ma, come disse una volta usando un’immagine quasi poetica, la fine della preistoria. Per il Marx di quei primi scritti, i lavoratori avrebbero realizzato il comunismo grazie al loro desiderio di auto-educarsi e di formare associazioni cooperative, non comportandosi come automi, spinti solo dai propri interessi materiali. All’inizio degli anni sessanta il filosofo francese Louis Althusser “risolse” il problema dei Manoscritti dichiarandoli antimarxisti. A suo avviso, rappresentavano il “Marx più lontano da Marx”, una filosofia umanistica che sarebbe dovuta “tornare nell’ombra”. Eppure Althusser riconobbe che la loro pubblicazione era stata un “evento importante per la teoria”. In effetti ancora oggi chi si definisce di sinistra deve farci i conti. Una volta che i Manoscritti furono portati alla luce, il dilemma apparve chiaro: o il marxismo è una questione di liberazione dei singoli esseri umani o è una questione di forze impersonali e di strutture che possono essere studiate ma a cui raramente si può sfuggire. o esiste una “essenza umana” che possiamo riscoprire abolendo la proprietà e le classi o siamo solo un mucchietto di ossa condizionato dall’ambiente che ci circonda e dal nostro DNA. o sono gli esseri umani a fare la storia, come aveva detto Marx, o è la storia a fare la storia. Negli ultimi cinquant’anni il pensiero accademico di sinistra ha seguito in buona parte la strada anti-umanista tracciata da Althusser. Dunaevskaja, come gli altri che dopo la guerra e il genocidio avevano abbracciato l’umanesimo, fu molto apprezzata ma anche considerata fuori dagli schemi. Tuttavia, il Marx che contribuì a riscoprire è tutt’altro che irrilevante per il nostro futuro. Se vogliamo difendere i diritti umani dal populismo autoritario e se pensiamo che gli esseri umani debbano poter limitare e tenere a freno le attività delle macchine pensanti, dobbiamo avere un preciso concetto di umanità da difendere.

Il soggetto rivoluzionario
Se il Marx del 1844 ha ragione, l’ideale della liberazione umana e del comunismo può sopravvivere all’atomizzazione e alla dispersione della classe operaia che avrebbe dovuto realizzarlo. Come hanno dimostrato le primavere arabe del 2011, le grandi masse umane oggi hanno la stessa capacità di agire autonomamente, di educarsi e di collaborare che Marx ammirava nella classe operaia parigina degli anni quaranta dell’ottocento. Come aveva ben capito Dunaevskaja, a far scattare l’impulso verso la libertà non è solo lo sfruttamento, ma anche l’alienazione, la repressione del desiderio, le sistematiche umiliazioni subite dalle vittime del razzismo, del sessismo e dell’omofobia. Dovunque persegue obiettivi che calpestano l’umanità delle persone, il capitalismo suscita rivolte. Lo vediamo ogni giorno intorno a noi. Nel prossimo secolo, come aveva previsto Marx, è probabile che l’automazione combinata con la socializzazione della conoscenza ci offra l’opportunità di liberarci dal lavoro. Questo fenomeno farà “saltare in aria” il capitalismo. E il sistema economico che lo sostituirà dovrà avere come obiettivo quello delineato dal filosofo tedesco nel 1844: la fine dell’alienazione e la liberazione dell’individuo. Se potessi dialogare con le persone ritratte in quella fotografia del 1937, dopo essermi congratulato per la loro magnifica vita di resistenza e sofferenza, gli direi: “Il desiderio di un marxismo umanista che state reprimendo, l’impulso verso la liberazione individuale, in realtà sono già in Marx e aspettano solo di essere scoperti. Perciò dipingete quello che volete, amate chi volete. Al diavolo il partito. Il vero soggetto rivoluzionario è l’io!”.

- Paul MasonPubblicato su L’Internazionale dell’8 giugno 2018 -

venerdì 28 settembre 2018

Latte e Vinile

ANders Grand Central Terminal, New York, 1940

Tesi sulla teoria dei bisogni -  di Günther Anders -
(seguita da una discussione fra: Theodor W. Adorno, Günther Anders, Bertolt Brecht, Hanns Eisler, Max Horkheimer, Herbert Marcuse, Hans Reichenbach, Berthold Viertel)

Nota di JPB de "Les Amis de Némésis":
Questa discussione ebbe luogo il 25 agosto 1942, probabilmente a casa di Theodor Adorno, negli Stati Uniti, e vediamo qui riunita quella che era una cerchia di sodali di Horkheimer e di Adorno. Molte discussioni di questo genere sono state conservate e pubblicate nel contesto del XII volume delle "Gesammelte Schriften" [“Opere Complete”] di Marx Horkheimer (Fischer Verlag, 1985), e questa discussione può essere trovata alle pagine 579-586. Tuttavia si tratta di una delle rare discussioni in cui si vede apparire Günther Anders, il quale in questo caso è l'autore delle Tesi che sono oggetto della discussione. Come Anders fa notare altrove, benché fosse in confidenza sia con Herbert Marcuse - a casa del quale aveva provvisoriamente vissuto - che con Bertolt Brecht - di cui era stato segretario particolare - egli non faceva parte di questa stretta cerchia di discussioni, e non godeva di particolare considerazione [*1]. Abbiamo evidenziato, mettendoli fra parentesi, i termini tedeschi la cui traduzione in francese ci è sembrata particolarmente suscettibile di controversie.

Tesi sui «bisogni», sulla «cultura», sul «bisogno di culture», sui «valori culturali», sui «valori»
(Thesen über « Bedürfnisse », « Kultur », « Kulturbedürfnis », « Kulturwerte », « Werte »)

Obiettivo: chiarire la domanda emersa nel corso di queste discussioni: «tutti i bisogni che riguardano dei valori culturali o morali elevati devono essere considerati come artificiali?»

1 - Il carattere di artificialità è proprio della natura umana. In altre parole, la domanda che si manifesta nell'uomo supera ab ovo l'offerta contenuta nel mondo. Di conseguenza, l'uomo è costretto a produrre egli stesso un mondo che sia in grado di soddisfare i suoi bisogni. La produzione di questo mondo e di questa società, vale a dire questo divenire culturale (Kultivierung), non si esaurisce affatto in un dominio riservato, la «cultura», ma esso ha come oggetto il mondo e la società umana tutta intera.
2 - Il carattere artificiale dell'uomo viene inoltre ulteriormente accentuato dal fatto che quest'ultimo diventa il prodotto dei suoi stessi prodotti. In quanto, soprattutto in un sistema economico che non si adegua ai bisogni degli uomini ma a quelli del mercato, in cui l'uomo non è adatto ad affrontare le esigenze dei suoi stessi prodotti, nasce una differenza, uno «scollamento» (Gefälle) fra l'uomo ed il prodotto. Inoltre, per soddisfare i suoi propri bisogni, l'economia deve produrre dei bisogni nell'uomo: tali «bisogni nati nel vassallaggio» sono certamente artificiali, ma in nessun caso essi meritano di venire considerati come altrettanti bisogni culturali, benché l'economia si sforzi di farli passare per tali.
3 - Il divenire culturale del mondo e della società si trasforma in dominio specifico denominato «cultura» facendo ricorso ai seguenti processi: 1) La direzione del divenire del mondo rimane sempre nelle mani della classe dominante. Essa è monopolio dei gruppi sociali più elevati. Il dominio monopolistico dei gruppi sociali elevati diviene un dominio «elevato» (ad esempio, il potere del clero in Israele). 2) Dove le forme di dominio, di organizzazione e di cultura (A e B) entrano in collisione sotto l'egida di un terzo dominio (C), quest'ultimo impedirà loro di impegnarsi in uno scontro reale: da quel momento in poi, A e B devono rispettarsi reciprocamente, senza perciò convertire l'altro: ciascuno diviene per l'altro un «valore culturale». Per Filone di Alessandria, che era un ebreo ortodosso, nonostante la sua ripugnanza per ogni rappresentazione immaginaria, le rappresentazioni animali egizie avevano «del valore» poiché nel mondo ellenistico alessandrino coesistevano sia la religione egiziana che quella ebraica. Quindi, un «valore culturale» non è altro che un potere neutralizzato. Questo concetto di cultura è il concetto moderno. Poiché la nostra cultura comincia con la fine delle guerre di religione: la Summa teologica di Tommaso d'Aquino è diventata un valore culturale anche per i protestanti.
4 - Una volta che è stato rimosso dalla vita quotidiana, una volta neutralizzato, ciascun fenomeno rassomiglia ad un’«opera d'arte». Cominciamo a godere di quello che non si ha il diritto di combattere.
5- L'atteggiamento che si adotta nei confronti del mondo «neutralizzato» della cultura, viene chiamato come «essere colto» (die Bildung).
6- La neutralizzazione del dominio culturale, prodotta dalla pacificazione delle religioni e dallo spirito di tolleranza, viene quindi completata per mezzo del carattere mercantile proprio del capitalismo. Ma nei confronti del mondo della cultura servito su un piatto attraverso la merce, non è possibile essere «colti». Il «bisogno di cultura» viene prodotto esso stesso, e non si differenzia in alcun modo da qualsiasi altra sete di merce che viene prodotta dal capitalismo. - Il termine di «valore» che fa parte dell'espressione «valore culturale» non ha più niente a che vedere col fatto di dare valore (Wertschätzung), che era stato all'origine dei valori culturali, ma che ora designa niente più che un semplice valore di mercato.
7- Il «valore» nel senso della filosofia dei valori è anche una categoria che viene illusoriamente sublimata (verblümte). Generalmente, questo «valore» è un fine che viene sublimato (l'obiettivo del dominante, formulato ad uso e consumo dei dominati) oppure una proprietà sublimata (la proprietà del dominante, formulata ad uso e consumo dei dominati). Colui che presenta un fine come se fosse un «valore universale» non fa altro che nascondere il suo interesse particolare. Questa operazione («il potere anonimizza sé stesso») è particolarmente evidente nel concetto di dovere (des Sollens), il quale si presenta come un comandamento senza comandante. Fino a Nietzsche, nessuno aveva percepito la mostruosità di un comandamento senza comandante.
8- La domanda dalla quale siamo partiti non può quindi trovare una risposta semplice, come «» o «no», poiché è costituita da delle categorie evanescenti che si diluiscono nelle nostre mani. Ad essere decisivo è che: sotto l'effetto del monopolio del potere, il processo del divenire culturale si è trasformato in dominio; originariamente, l'azione finalizzata a rendere culturale l'insieme della vita sociale riguarda dei «valori» specifici, e non una religione specifica. La famosa consegna del mezzo litro di latte ("Pint Milk"), se fosse realmente prevista o veramente realizzata, sarebbe la realizzazione culturale più autentica [*2]. Cosa che per me non è né una metafora né un paradosso.

- Günther Anders -

anders soviet

DISCUSSIONE

Reichenbach: Anders ha fatto uso del concetto di valori culturali in maniera che ha incluso in esso categorie positive e negative. Ma ci si può anche riferire ai valori culturali esclusivamente in senso positivo, e allora non possiamo trattarli come se fossero dei vecchi mobili. Si deve perciò far ricorso alla critica culturale (Kulturkritik).

Anders: Il concetto di cultura non esisteva nell'Antichità, e neppure nel Medioevo.

Reichenbach: Poteva non esserci il concetto, ma c'era la cosa.

Anders: Nella filosofia greca, la discussione estetica non faceva mai riferimento all'arte, ma alla bellezza di un corpo o a quella di una tecnica. Per Platone, la musica fa parte della politica.

Reichenbach: Credo che tu stia confondendo estetica ed arte.

Marcuse: Nell'Antichità, la funzione svolta dagli oggetti artistici era così totalmente differente da quella odierna che difficilmente può essere classificata nell'arte.

Reichenbach: Ma ciò che voi oggi designate come arte può essere pensato in modo tale da includere anche la pratica dei Greci.

Marcuse: Una prima di Eschilo non era un prodotto artistico, si veniva letteralmente risucchiati.

Horkheimer: Credo che Reichenbach abbia visto qualcosa di decisivo quando ha detto che ad essere determinante non è solo quello che pensavano i Greci a proposito della loro produzione artistica, ma che per fare teoria dobbiamo anche tener conto del significato che aveva una stele o una tragedia. Affermare che in questa materia era decisivo solo lo spirito greco sarebbe altrettanto erroneo che dire che dobbiamo fare uso solo dei nostri concetti artistici moderni.

Adorno: Io credo che le categorie fondamentali che hanno portato al concetto di arte autonoma fossero in gran parte preformate già nell'Antichità. Sarei incline a credere che ad Atene la tragedia greca non fosse più integrata in maniera così diretta rispetto al mondo religioso come vuole farci credere Wilamowitz-Moellendorff. L'opera d'arte relativamente autonoma e compiuta è già esistita nei periodi più decisivi dell'Antichità.

Marcuse: Se seguiamo questa strada, perdiamo di vista il fatto che l'arte greca non conosceva affatto il momento della cultura.

Adorno: A Pompei, non c'è altro che cultura

Brecht: Trovo assai utile la divisione dei concetti di cultura e di arte.

Marcuse: L'arte non deve per forza far parte dei valori culturali.

Anders: Credete che in Nuova Guinea vi siano arte e cultura? Per decidere, non c'è bisogno di prendere in considerazione l'insieme della vita sociale che c'è laggiù [*3]. E comunque non possiamo affrontarlo con le nostre categorie.

Reichenbach: Io continuo a credere che fra la cultura della Nuova Guinea e la nostra si possano fare benissimo dei confronti.

Anders: Ma fra quelle popolazioni non esiste nemmeno la parola per designare la cultura, e ciò che non può essere designato attraverso una parola non esiste.

Adorno: La modalità di unificazione quale si presenta attraverso il concetto di cultura mira ad un'unificazione della società a partire dai suoi obiettivi sociali. Abbiamo inventato la cultura solo a partire dal momento in cui si è posta la questione di un aumento della barbarie.

Horkheimer: Il concerto di libertà, come appare in Anders, mi sembra un po' problematico. Dopotutto, gli uomini non si sono creati una forma di società, ma si sono stabiliti sotto la pressione della situazione esterna. Questo fale fino ad oggi, fino al capitalismo monopolistico.

Anders: A differenza dell'animale, il quale continua a produrre sempre di nuovamente dei prodotti stereotipati ed uno stile di vita immutabile, l'uomo crea tipi di mondo differenti, ed ha quanto meno una libertà passiva.

Horkheimer: Riguardo alla terza parte del testo fornito da Anders, vorrei sollevare un'obiezione storica: tu dici che Nietzsche, Stirner e Marx avrebbero rimesso in discussione il dovere (das Sollen), io vorrei dire che è stato tutto l'insieme della cultura borghese ad averlo fatto. Alla base di questa cultura si trova la consapevolezza che non esiste alcun dovere. Il dovere è un'ipotesi di assistenza, che viene formulata allorché è già stata persa la fede nella cose. Su questo soggetto si incontrano, sia Sade che tutto il movimento dell'Illuminismo. La borghesia è quella classe che, in fondo, non ci crede. Bisogna perciò includere nella comprensione della cultura questo fatto che essa esiste solo in quelle epoche in cui non si crede più ai valori culturali. E' solo per delle ragioni di prestigio sociale che si appendono alle pareti delle case dei bei dipinti. Ed è Schopenauer ad aver ragione quando dice, a proposito del comandamento morale, che gli uomini non avrebbero più osato nemmeno attraversare la strada se fossero state governate solo dalla religione e dalla morale. La morale non ha il peso che le viene attribuito. Nel mondo borghese, è chiaro che tutta la cultura proviene solamente dal dominio. Gli uomini sanno che la società ha una tendenza immanente a non dover essere governata da un Potere. L'idea di una società senza classi non è nata nel cervello di Marx, ma piuttosto essa è inerente a ciascuna azione volta ad instaurare una società umana. Il potere ha sempre una cattiva coscienza, i potenti hanno sempre dovuto parlare a bassa voce, la bocca vicino all'orecchio. E' sempre stato necessario convincere gli uomini che niente è possibile senza i comandamenti ideologici. In tutto ciò che chiamiamo arte o poesia si trova l'intuizione di quel che sarebbe il mondo senza alcun potere. Quando si dibatte di cultura, non si dovrebbe trascurare tale aspetto. E' a causa del fatto che si è costretti a dare alla masse qualcosa come la cultura, che si ammette tacitamente che l'utopia vive e pulsa nel fondo dei loro cuori. La cultura, significa inchinarsi davanti al bene che c'è nell'uomo. Vorrei riassumere:
1) La società borghese è caratterizzata dall'assenza di fiducia nella morale, nella bellezza, ecc..
2) Il fatto di aver sempre bisogno della cultura rende evidente che nella massa esiste un'intuizione della vera società, della società senza classi. Tutto ciò che io trovo degno di essere affermato, si avvicina alla società senza classi, il resto diventa polvere, come avviene con le bugie.

Anders: La questione di sapere perché si debba dovere (warum man sollen soll) è stata senza dubbio espressa ovunque, non solo dagli autori che tu citi, ma la borghesia stessa non ha mai avuto dubbi a riguardo. Si è creduto al dovere, cosa che gli ha dato molto forza.

Horkheimer: Si, ma solo perché l'universale era contenuto. I nostri padri non facevano il bene per rispetto del dovere, ma perché pensavano che fosse preferibile che farlo fosse meglio per tutti. Erano solo i kantiani a credere al dovere. L'esigenza di offrire agli uomini dei valori culturali è sempre stato puramente ideologico. I bisogni primari degli uomini non si pongono affatto in questa prospettiva.

Reichenbach: Posso immaginare una società nella quale verranno realizzati dei valori culturali, ma senza che per questo vengano misurati come mezzi al servizio delle classi dominanti

Brecht: Non temi che la cultura possa sempre essere fondata sui bisogni della classe dominante? Che questi valori culturali possano tutti essere espressi in termine di profitto?

Reichenbach: Questo non mi sembra inevitabile.

Anders: I valori virtuosi posso essere definiti in maniera diversa rispetto a quelli che vengono definiti in termini di potere e di dominio? Non esistono valori se non quelli che sono tali per un particolare gruppo sociale dominante.

Reichenbach: Allora una società socialista non conoscerebbe più alcun valore culturale.

Brecht: La produzione culturale potrebbe ancora esistere, ma più sotto forma di beni culturali.

Anders: Se attraversi un villaggio e senti cantare un bambino, questo può essere definito come cultura, ma non si tratterebbe di un bene culturale, non sarebbe una merce.

Horkheimer: E' difficile dire come sarà una società socialista. Ai nostri giorni, in ogni caso, i dischi in vinile esistono essenzialmente per rovinare l'idea di una società socialista. Perché dovremmo definire come valore culturale una cosa di cui sappiamo solo che non serve a nient'altro che a impedire l'avvento di una società senza classi? I bisogni, come quelli legati al latte, devono essere soddisfatti. Ma in una situazione come quella attuale, in cui periscono innumerevoli persone, non si possono mettere sullo stesso piano di uguaglianza, i bisogni in generale ed il bisogno di latte.

Reichenbach: Io credo che anche il latte possa essere usato per consolidare il dominio di classe, tanto quanto la cultura. La società capitalista utilizza tutto. Il problema posto da una critica della cultura consiste nel domandarsi che cosa, nella cultura, meriterebbe di essere salvato.

Brecht: Anders direbbe che vogliamo salvare la musica. Oggi. è il latte quello che vogliamo salvare, perché vediamo che, per mancanza di latte, le persone deperiscono. La musica, quanto ad essa, non fa altro che ostacolare il passaggio alla società senza classi.

Reichenbach: in questo senso, non vedo alcuna differenza fra latte e vinili.

Horkheimer: Per prima cosa, devi mostrarci, da che punto in poi dobbiamo essere contro il latte. Reclamare del latte è immediatamente politico, non lo è reclamare musica.

Reichenbach: Ma cosa succede se il disco contiene un messaggio rivoluzionario?

Marcuse: In quel caso il messaggio rivoluzionario diviene esso stesso un valore culturale.

Horkheimer: Nel momento in cui così tanti esseri umani muoioni di fame, ed in cui il momdo minaccia di trasformarsi in macchina del terrore, non possiamo dare valore a dei dischi.

Eisler: Il latte può essere usato come una leva per la cultura, ma sicuramente non vale il contrario. Il latte riunisce la verità più profonde, mentre i dischi trasmettono la più deplorevole mediocrità.

Adorno: L'idea di un salvataggio per trasferimento, come quello dell'eredità Lukacsiana. contiene qualcosa di sbagliato, poiché presenta l'accesso alla società senza classi come se fosse un luogo sotto l'autorità dei guardiani, che decidono per esempio che conviene salvare Bach, mentre Schumann dev'essere gettato via. L'idea del salvataggio verso l'altra riva contiene l'immagine di un'istanza, di un meccanismo di selezione, rispetto al quale la società senza classi dovrebbe al contrario rimanere estranea. Mentre la questione si presenta sotto la seguente forma: fra un bel po' di latte, oppure meno latte ma dei dischi in più, si deve scegliere il latte.

Reichenbach: Non si tratta di creare un'istanza, ma nel momento in cui si salva la cultura bisognerà domandarsi: cosa succederebbe, e cosa vogliamo? La critica culturale è parte della lotta di classe.

Horkheimer: Questo significa che oggi cultura significa criticare la cultura.

Marcuse: L'idea di salvare per trasferimento è sbagliato a partire dal fatto che i valori culturali in questione non esistono più.

Brecht: Bisognerebbe per esempio distinguere fra le arti ed i prodotti artistici. La cultura non ha grandi possibilità di sopravvivenza se, come dice Reischenbach, si lascia coinvolgere nella lotta di classe, se abbandona il suo carattere di merce?

Reischenbach: Ma noi non combattiamo affatto il carattere della merce. La musica per esempio potrà essere salvata solo se un giorno esisteranno ancora delle persone in grado di ascoltarla adeguatamente.

Marcuse: Cos'è che rende Hölderlin un valore culturale?

Brecht: La situazione attuale nel suo insieme.

Reichenbach: Anche se salviamo dei libri, ci saranno degli uomini capaci di leggerli?

Viertel: Perché mai dovremmo decidere che cosa gli uomini dovranno leggere, lo sceglieranno da soli.

Reichenbach: Non credo affatto che in una forma sociale migliore, tutto sarà automaticamente in ordine.

anders foto

POST-SCRIPTUM DEL TRADUTTORE [dal tedesco al francese]
Di solito, il tedesco «Kultur» si traduce con il francese «civiltà». Il testo di cui sopra, tuttavia, non ci consente di farlo, dal momento che la Kultur si trova ad essere sottomessa ad una polisemia fluttuante: a volte significa la civiltà, nel senso largo dell'insieme degli atti di una medesima forma storica di società umana, e a volte essa designa la cultura in senso stretto (nel senso della sfera culturale). Dal momento che il proposito delle Tesi di Anders è proprio quello di denunciare l'attuale illusione che fa della cultura (in senso francese) una sfera separata, presunta come superiore alle altre, e dimostrare che al contrario, almeno in una società di mercato, l'insieme dei comportamenti e delle pratiche dominanti, «culturali» o meno, che vengono prodotti secondo la medesima artificialità ed al servizio dei medesimi obiettivi di «avvassalamento» nei confronti del sistema dominante, il termine «culturale» assume quindi un'estensione variabile e testimonia, ci sembra, fino a che punto l'industria culturale sia diventata esemplare, paradigmatica, prototipica, per il sistema di produzione nel suo insieme, anticipando quindi, almeno a questo riguardo, quella teoria dello spettacolo che svilupperà e renderà coerente una simile idea una quindicina di anni più tardi, in Francia (allo stesso tempo si vedrà fino a che punto, nel 1942, la coscienza di questo punto nodale fosse rimasta frammentaria e solitaria, al punto che i partecipanti alla discussione si mostrano in tal senso particolarmente reticenti e indigenti). Quindi, per conservare il carattere unico del termine in tedesco, l'abbiamo tradotto sistematicamente con «cultura», senza mai alternarlo con «civiltà», come avremmo potuto fare. Va notato che l'ampia portata del termine, che si giustifica in una prospettiva critica come quella che abbiamo evocato, vale a dire per opporsi ad una civiltà che scimmiotta la cultura e si nasconde continuamente dietro di essa, ha oramai portato a termine il compito di generalizzarsi nel discorso corrente, positivo ed elogiativo, dal momento che ormai esistono pochissime occasioni, atteggiamenti e, soprattutto, stupidità, rispetto alle quali non si senta dire che siano «culturali» oppure che «è la loro cultura» (indossare un chador, ed il regolamento interno di un'impresa; una bevanda gassata, e il tatuaggio sul culo; l'aggressione in piena strada, e l'utilizzo del telefono cellulare; il matrimonio omosessuale, e i fumetti; e pure tutto il resto). Quel che voglio dire, è semplicemente che tutto questo non dovrebbe essere discusso, in quanto si tratta, come diceva Anders, di un «valore culturale» (della cultura come valore). Quanto a sapere se un tale «valore» è davvero, come ha aggiunto Anders, un «potere neutralizzato», non c'è niente di meno sicuro: la presunta neutralizzazione rivela più una questione di come questi diktat appaiono nella loro realtà, piuttosto che come un Potere neutralizzato, e sarebbe preferibile parlare di una neutralità detournata dal Potere, poiché in questa miscela è evidente che è il Potere che rimane in ultima analisi l'elemento dominante, e che mantiene la sua traiettoria. Semplicemente, ormai è riuscito a far prendere la servitù per una libertà, e questo non è affatto un piccolo successo; e non si tratta più del potere specifico di questa o di quella ideologia, ma di un Potere universale della forma merce, e della mentalità che essa diffonde in quanto ideologia materializzata. I pretesi «valori» si sono uniti al valore, rispetto al quale, essi, che già non erano poi questa gran cosa, sono poco più che un improbabile parte che viene estratta. Quanto alla vergogna dovuta ad una simile confusione, inedita e assolutamente incredibile, fra servitù e libertà, l'umanità impiegherà un certo tempo a farla dimenticare, qualunque cosa accada: poiché si tratta di una vergogna che, senza dubbio, getta su di essa un'ombra duratura e pesante. In tutta la memoria dei bipedi, siamo mai caduti così in basso?

Dal punto di vista che viene difeso su questo sito, si può aggiungere che, tanto l'esposizione di Anders quanto la successiva discussione, soffrono di una concezione monolitica e invasiva del bisogno. Dal momento che tutto è bisogno, non può che trattarsi di differenziarlo, perfino di mettere gli uni contro gli altri dei bisogni «reali» e dei bisogni «artificiali», dei bisogni «buoni» e dei bisogni «cattivi», dei bisogni «naturali» e dei bisogni «culturali», ecc., vale a dire opporre la sopravvivenza proletaria al lusso borghese. Un po' più avanti, nello stesso volume di inediti di Horkheimer, possiamo leggere questa frase orripilante: «Fra i bisogni ci sono delle differenze di valore, e noi abbiamo bisogno di una scala di valori» (p.576). Un dibattito così erroneo non può portare altro che ad opporre le sciocchezze degli antichi (che considerano come più «nobili», più «elevati», più «umani», i bisogni meno immediatamente materiali) a quelle dei moderni («il senso artistico può essere pensato solo come legato al mezzo litro di latte. La cultura comincia con l'alimentazione.  I bisogni più bassi si basano sulla coltivazione, quelli più elevati sulle bistecche. Abbiamo bisogno di forza per fare il burro, e non abbiamo bisogno di forza per la gioia [*4]», (ivi). Questa visione dell'essere umano come stomaco da riempire (o come esteta da soddisfare) e della società vista come istanza che rifornisce il cosiddetto riempimento ha altrettanta dignità del discorso pubblicitario che ci stordisce in ogni supermercato. In un tale contesto, quello di cui non abbiamo mai «bisogno» è della libertà attiva, dell'umanità pratica, del dialogo decisionale, della verità applicata, del piacere intelligente (dell'intelligenza come piacere): dal momento che tutto questo, infatti, eccede la presunta sfera del bisogno, il quale non è altro che il falso concetto del consumo (sull'argomento si può leggere l'esposizione che ne fa Luc Vendramin in "Desiderio e bisogno". Ma nonostante l'oscurità di un orizzonte reso plumbeo dal concetto di bisogno, grazie ad Anders possiamo notare alcuni importanti chiarimenti:

1 - Innanzitutto, Anders introduce un tema che in realtà è molto marxiano (visto che è proprio Marx che nella sua "Introduzione alla critica dell'economia politica" scriveva che «la produzione non produce solo un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l'oggetto» [*5] a cui nell'insieme dei suoi scritti darà molteplici formulazioni e sviluppi, contrapponendo alle stupidaggini sui bisogni umani i bisogni del sistema e, in particolare, quelli dell'economia di mercato. Questo punto, assolutamente centrale per ogni seria critica del capitalismo, permette di gettare immediatamente un meritato discredito sull'ipotesi naturalistica o utilitaristica dei «bisogni umani» (che cosa diventa il concetto di «bisogno» se lo può avere anche la logica economica astratta, o il funzionamento di una macchina?); ma ci consente anche di verificare quanto sia inutile dissertare a proposito di una qualsiasi natura umana, dal momento che nello stato di individuo alienato l'essere umano non è altro che una mediazione passiva ed un semplice passaggio obbligato per la realizzazione del valore, mentre quest'ultimo - ed esso solo - è il principio attivo del mondo. Non si tratta più di lamentarsi circa dei presunti bisogni umani più o meno soddisfatti male dall'economia, e renderli gratuiti, ma di bisogni ermeticamente intrinseci al sistema di dominio economico, non esistendo altro presupposto che esso. L'alienazione non si riduce più ad una deviazione rispetto ad una sostanza preesistente, ma culmina nella proliferazione della sua stessa logica, della sua stessa necessità: il terreno dell'illusione realmente esistente sperimentato nel corso di millenni nella sola sfera della religione, e che per tutto questo tempo è rimasto estraneo alla produzione materiale. Questa separazione ormai è stata abolita, e la menzogna religiosa ha assunto il controllo di tutta la vita profana, come era stato annunciato sin dall'inizio dal nascente protestantesimo. Per riassumere questo nuovo dominio generalizzato, nel 1967 Debord aveva scritto che «Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso.» (La società dello spettacolo, tesi n°9). E nel 1956 Anders, da parte sua, precisava: «quando il fantasma diventa realtà, il reale diventa fantasmatico [...] la menzogna si realizza come verità, in breve: il reale diventa rappresentazione delle sue rappresentazioni [...] la totalità è meno vera della somma delle verità dei suoi elementi; ovvero, rovesciando la famosa frase di Hegel: la totalità è la menzogna, e la totalità soltanto [...]» (Die Antiquiertheit des Menschen, passim, Tome I, Beck, 1987). Quindi, se quelli che chiamiamo i bisogni umani non sono altro che una mimesi sociale meccanica il cui senso rimane del tutto trascendente, allora il termine di «bisogno» non può più essere mantenuto. D'altronde, e la Discussione che abbiamo pubblicato lo dimostra, tutti quelli che intendono mantenere questo concetto vengono necessariamente respinti dall'attacco adottato da Anders: ne è la prova il fatto che nessuno risponde su quel terreno, che tuttavia, contrariamente a ciò che verrà davvero discusso, è di grande interesse, e riesce a catturare una "libido sciendi" abbastanza assopita da tutto il resto.

2 - E' questo il senso profondo di ciò che Anders chiama in maniera maldestra Kultivierung del mondo, il suo «divenire culturale». Anders lo esprime chiaramente quando scrive che il carattere artificiale, eterogeneo della «cultura» (come sistema di bisogni, vale a dire come bisogno del sistema) non riguarda affatto la sfera separata della cultura, ma la totalità del processo sociale. Se la cultura è stata storicamente la prima sfera della produzione ad essere interamente nelle mani della borghesia (XIX secolo), che poi attraverso la merce «democratizzata» (XX secolo), una zona remota lontana dal bisogno materiale profano che non dipende da un'equipaggiamento produttivo avanzato (il romanzo si scrive con una penna e con la carta), essa potrebbe per questa ragione perfino servire da modello per la distruzione e la ricostruzione sul mercato della totalità delle altre parti della produzione (generalizzazione della passività dello spettatore o del lettore nella figura antropologica del consumatore). In Anders questo corrisponde rigorosamente alla necessità di criticare l'arte in quanto tale, necessità che era stata alla radice di tutti i movimenti artistici temporaneamente rispettabili, e poi, alla fine, alla radice di quella teoria dello spettacolo, che ne fu la conclusione coerente. Le palinodie sulle qualità culturali da preservare implicano che il divenire merce dell'arte sia presente come uno straripamento dell'economia verso un settore più autentico, come se fosse il bacio velenoso dato del denaro all'ispirazione poetica, ma, quali che siano gli elementi che permetto di sostenere effettivamente un analisi di questo genere (come la dialettica interna di un'opera, su cui Adorno ha fornito delle magnifiche intuizione per quanto riguarda il campo musicale), trascura quello che è centralmente il ruolo di pioniere giocato dall'arte nel processo di globalizzazione del mercato. In altri termini, non ha alcuna lezione da dare alla realtà profana, ma non si possono analizzare e comprendere le forme, ed il successo, dell'alienazione moderna senza servirsi delle tecniche di soggiogamento sperimentate dall'arte. In un'epoca in cui tutti i ruoli e tutte le funzioni sociale sembrano essere screditate e ricoperte di vergogna, come avviene nel periodo successivo al '68, solo l'artista trova ancora l'impudenza di affermare il proprio orgoglio professionale, di presentarsi come «creatore»: prova così che quell'ambito, assai prima della sua attuale caricatura mediatica, si era letteralmente fuso con il sistema dominante. L'estensione permanente dello spettacolo va esattamente di pari passo con il travestimento in opera d'arte di qualsiasi oggetto utile; e, con l'invenzione di una miriade di oggetti nuovi che rivendicano la stessa dignità, anche se rimane fuori dalla loro portata perfino il carattere utilitario più modesto.

3 - Nel corso della discussione, nessuno reagisce all'utilizzo che fa Anders della citazione di Platone, che a noi appare invece essere particolarmente opportuna. A proposito di Platone, si è soliti osservare che egli sosteneva che i poeti dovevano essere banditi dalla Città (La Repubblica), attribuendogli stupidamente una sorta di rigidità dovuta alla sua ammirazione per Lacedemone, e odio per la bellezza (alcuni secoli dopo, Rousseau subì il medesimo processo, a proposito della sua Lettera a d'Alembert, così spesso premonitrice dello spettacolo moderno). Andres sembra averlo capito assai meglio: a Platone, l'attività specifica della poesia non sembrava utile ai fini di una pratica di bellezza, ma piuttosto la considerava dannosa in tal senso. La bellezza, agli occhi di Platone, si collocava nel grado di perfezione che poteva essere raggiunto per mezzo di un'azione, nel modo in cui, per parlare come Hegel, univa il proprio concetto e si mostrava all'altezza della sua stessa verità. Quindi, è l'insieme delle attività e degli oggetti umani ad essere sottoposto al giudizio estetico; il quale giudizio estetico perciò non è più semplicemente estetico, ma rientra piuttosto nella ricerca della verità. E' proprio a causa della sua opposizione al feticismo di una sfera specializzata (e non solo in quanto imitazione delle speculazioni pitagoriche sull'argomento) che Platone, come sottolinea Anders, era arrivato a mettere la musica nella sfera della politica. Quindi, ciò che agli occhi di un lettore moderno potrebbe essere considerato come una sorta di refuso tipografico, al contrario è giustificato a partire dall'unita profonda nella sua ricerca dell'armonia, nella musica così come nella politica. E' questo ad esempio quello che non comprende il matematico Reichenbach, che replica: «tu confondi l'estetica con l'arte».

Tutte queste incertezze relative all'arte e alla cultura, nel cui proseguimento speriamo più o meno segretamente, rispecchiano sul loro terreno un errore ancora più deplorevole, da parte dei partecipanti a questa discussione, e che attiene alle prospettive del capitalismo stesso. Questi intellettuali esiliati dalla vecchia Europa, arrivati nel bel mezzo del produttivismo americano, subiscono l'illusione di trovare lì, davanti ai loro occhi, una vigorosa fonte di abbondanza che avrebbe potuto, una volta sconfitti i nazisti, essere generalizzata a tutto il pianeta (in seguito, il piano Marshall avrebbe preso una tale direzione), fare progredire la popolazione mondiale tutta intera, sopprimere la mancanza e la penuria, «soddisfare i bisogni». Va precisato fino a che punto una simile credenza si sia rivelata insufficiente, per non parlare del carattere embrionale della loro analisi del capitalismo, della sua natura, dei suoi limiti? Questo capitalismo, appare loro come il male (secondo un giudizio etico), come un sistema spregevole ma forte, in grado di trionfare in maniera durevole (secondo un giudizio storico). In sostanza, i suoi presunti nemici comunicavano con i suoi propagatori per proclamare, sebbene con rammarico, la loro propria utopia. Così, Horkheimer confidava, nel corso di una discussione su «Bisogno e cultura in Nietzsche»: «se il capitalismo incomincia nel presente a soddisfare i bisogni materiali, compresa quella di calmare le nostre inquietudini, noi dobbiamo comprendere che il nostro pensiero, perfino quello di Nietzsche, subirà una traformazione radicale, non appena gli uomini verranno tutelati rispetto alle minacce immediate» (ivi, p.565). Ancora una volta, è Brecht a mostrarsi come quello più lucido, facendo notare (durante una discussione su Huxley e sul suo "The Brave New World"): «credo che il socialismo non abbia mai avuto come obbiettivo quello di "soddisfare" i bisogni materiali. Il socialismo trova davanti a sé uno stato di mancanza pianificata, che vuole sopprimere. Allora dove, in realtà, esisterebbe attualmente una vera tendenza a soddisfare realmente, e su grande scala, i bisogni?» (ivi, p.575). Dunque, la mancanza di coesione e la precarietà teorica caratterizzano assai chiaramente questa discussione. Se paragoniamo, per esempio, rispetto a questi errori, il testo dal titolo "Preliminari per una Definizione dell'Unità del Programma Rivoluzionario", scritto da Debord e Canjuers nel 1960, si può facilmente vedere come l'unica via di uscita consisteva in realtà, e consiste sempre, nell'abbandonare la contemplazione artistica per l'azione rivoluzionaria sperimentale, e sostituire il consumo della cultura con la costruzione della vita.

- Les Amis de Némésis - Pubblicato domenica 20 luglio 2003 -

anders Brecht

NOTE:
[*1] - In particolare, Anders ricorda che: «E' interessante constatare come in questi anni critici venne fatto un tentativo di di mettere intellettualmente in relazione due cerchie che non erano strettamente legate, la cerchia brechtiana e quella della Scuola di Francoforte. Nel corso di uno dei seminari, tenni una breve conferenza che conteneva già la filosofia della cultura (Kulturphilosophie), che ho poi presentato nel mio volume letterario e filosofico "Mensch ohne Welt", soprattutto nella sua prefazione. Allora abitavo a casa di Herbert Marcuse. Probabilmente era stato lui a proporre che io partecipassi a quel seminario. Inoltre frequentavo Eisler e Brecht, e anche loro due vennero associati al progetto, in modo che c'è stato veramente questo tentativo di raggruppare due formazioni di musica da camera, che suonavano separatamente, per farne una piccola orchestra» (op.cit., p.361). Quanto a Brecht, egli aveva annotato nel suo "Arbeitsjournal" (p.510): «13/8/42 - Horkheimer, Pollock, Adorno, Marcuse, Eisler, Stern (Anders), Reichenbach e Steuermann discutono a casa di Adorno di Brave New World di Huxley. Questo Huxley si preoccupa per alcuni fenomeni dei tempi moderni. Constata un abbassamento dei bisogni culturali. Crescono gli acquisti di ghiacciaie, diminuisco gli acquisti di Huxley. Se si soddisfano troppo i bisogni fisici (il vicepresidente Wallace ha già promesso un bicchiere di latte per ogni abitante), ne soffrono i bisogni spirituali. E' la sofferenza ad aver fondato la cultura; perciò, se la sofferenza scompare, allora ci sarà la barbarie? Il dott. Pollock, economista dell'Istituto di Ricerca Sociale (un tempo a Francoforte, adesso a Hollywood) è convito che il capitalismo sia in procinto di sbarazzarsi delle sue crisi, semplicemente per mezzo di opere di interesse pubblico. Marx non poteva prevedere che un giorno il governo avrebbe fatto costruire delle strade! Eisler ed io, piuttosto stanchi per quanto abbiamo camminato, siamo impazienti e ci "siamo seduti dalla parte del torto", in mancanza di un altro posto dove metterci. 22/ 8/42 - A casa dei Francofortesi. Reichenbach come tutti i socialdemocratici è preoccupato, "l'eredità" deve potersi rifugiare senza alcun danno nella società senza classi. La questione del salvataggio dei beni culturali non lo lascia dormire, mentre io mi assopisco. Invano gli si spiega che i beni culturali hanno la stessa funzione di tutti gli altri beni, la funzione di merce. La sinfonia di Beethoven sottomette semplicemente il proletario al resto della "cultura", che per lui è una barbarie. Naturalmente, verranno salvate solo le arti che partecipano al salvataggio dell'umanità. La cultura deve abbandonare il suo carattere di merce, per diventare cultura. Ma come si può preservare la comprensione per la cultura? Sono le arti ad incaricarsene (producendo questa comprensione), la musica di Schönberg rende comprensibile quella di Beethoven. I proletari devono liberare la produzione tutta intera dalle sue catene, e la produzione artistica così come tutte le altre.»
[*2] - L'espressione di "Pint Milk" si riferisce alla promessa fatta dagli uomini politici del New Deal (in particolare dal ministro dell'agricoltura Henry A. Wallace, membro dell'ala di sinistra dell'amministrazione Roosevelt) di fornire ad ogni bambino un mezzo litro di latte al giorno, Nel 1954, Mendés-France, un altro progressista, obbligherà i bambini a bere in classe il loro latte quotidiano.
[*3] - Il testo tedesco presenta una lacuna che l'editore tedesco ha colmato in questo modo. Al contrario, a noi sembra probabile che Anders abbia voluto dire esattamente il contrario, ossia che è impossibile attenersi a delle categorie occidentali moderne già bell'e pronte, semplicemente esportandole, e che invece è necessario prendere in considerazione l'insieme della vita sociale in Nuova Guinea, al fine di situare ogni pratica in maniera appropriata, cioè alla luce di questa totalità.
[*4] - Ripresa dello slogan nazista «Kraft durch Freude» («La forza attraverso la gioia»), volto ad ispirare una pratica burocratica della ginnastica.
[*5] - Marx Engels Opere, Volume 13, p.624.


fonte: Les Amis de Némésis

giovedì 27 settembre 2018

Raccontane un'altra!

jokester

La barzelletta e il suo rapporto con la coscienza
- di Carlo Frabetti -

Isaac Asimov era uno che raccontava un mucchio di barzellette. «E' la modestia ad impedirmi di dire qui, che fra tutti i presenti sono io ad avere grande repertorio di barzellette, ed essere quello che le racconta meglio; ma se non fossi modesto lo direi», era solito proclamare alle feste e alle riunioni. Ed era anche solito scherzare a proposito delle sue misteriose origini - quelle delle barzellette, non di Asimov - sostenendo che essere facevano parte di un esperimento condotto da un'avanzatissima civiltà extraterrestre, arrivando a scrivere un racconto a partire da questa ipotesi. «The Jokester» ["Il barzellettiere" 1956]. In questa storia, facente parte della serie Multivac, il supercomputer arriva alla conclusione che tutte le barzellette davvero divertenti ripetono quelli che sono alcuni schemi di base molto antichi, di cui non si conoscono gli autori per la semplice ragione che questi autori non sono, e non sono mai stati, fra noi. Ma ascoltiamo quel che dice il Gran Maestro Noel Meyerhof, il protagonista umano del racconto.

« Senta: circa un mese fa passai una serata a raccontare barzellette. Come al solito, ne raccontai un mucchio, e come al solito quei fessi risero. Forse pensavano davvero che le storielle fossero molto divertenti, e forse si prendevano semplicemente gioco di me. In ogni caso, uno di loro si permise la libertà di rifilarmi una pacca sulla schiena, dicendo: "Meyerhof, lei conosce più barzellette di qualunque altra persona che io conosca". Sono certo che avesse ragione, ma la cosa mi fece pensare. Non so quante centinaia o forse migliaia di barzellette io ho raccontato in questa o quell'occasione della mia vita: tuttavia è un fatto che io non ne ho inventata neppure una. Neppure una. Le ho soltanto ripetute. Il mio solo contributo è stato di raccontarle. All'inizio, le avevo sentite oppure le avevo lette, e la fonte delle mie cognizioni in proposito non le aveva certamente inventate. Non ho mai conosciuto nessuno che si vantasse di aver ideato una barzelletta. (...) Allora, chi è che crea le barzellette?" »

Incuriosito, il Gran Maestro, dopo aver fornito tutte le informazioni rilevanti e dopo aver raccontato un certo numero di barzellette, pone la domanda a Multivac, ed il supercomputer finisce per dare una spiegazione quanto meno inquietante: le barzellette sono state create da una super-intelligenza extraterrestre, per essere diffuse fra gli esseri umani e studiare la loro risposta ad un tale stimolo.
E' possibile che Asimov e Multivac non fossero poi così fuori strada. E' probabile che, in effetti, sia davvero una super-intelligenza a comporre le barzellette; anche se non è affatto extraterrestre, bensì molto terrestre: un'intelligenza collettiva che seleziona ed elabora materiali spontanei. C'è qualcuno che racconta un aneddoto divertente, oppure incorre in un buffo lapsus ; quelli che ascoltano l'aneddoto, o sono testimoni del lapsus, trasmettono l'informazione a loro volta, modificandola leggermente, o infiorettandola per renderla ancora più divertente; e mentre passa di bocca in bocca, l'aneddoto o il lapsus si condensano e si ripuliscono, come se si trattasse di una pietra che rotola, fino ad arrivare ad assumere la forma canonica di una barzelletta.
Ne "Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio" ["Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten" 1905], Freud analizza alcune barzellette ebraiche, fra le quali quella del rabbino che dice:  «Io faccio un bagno all’anno, che ne abbia o no bisogno». A Freud non interessa la genesi delle barzellette, ma la loro funzione psichica (la quale, secondo lui, consiste nel castrare simbolicamente il padre), e non ci dice niente a proposito della loro possibile origine. In questo caso, quale potrebbe essere? Immaginiamo due uomini che stanno parlando delle loro abitudini igieniche; uno di loro dice che fa il bagno una volta al mese, e l'altro gli domanda se non sente la necessità di doverlo fare più spesso; il primo - che lo dica sul serio o per scherzo - risponde che lui non se sente la necessità neppure una volta al mese, ma che però la considera come una sana abitudine. Prendiamo il dialogo, ampliamo iperbolicamente il periodo estendendolo da un mese ad un anno, condensiamo l'aneddoto e aggiungiamo un pizzico di antisemitismo - non necessariamente in quest'ordine, e non una volta sola - ed ecco che abbiamo una barzelletta pronta per una diffusione di massa.
Questo ci porta al secondo aspetto notevole di tutta la questione: la velocità fulminea con la quale alcune barzellette si diffondono. In casi simili, è frequente - ed è indubbiamente appropriato - fare riferimento alla vertiginosa crescita che avviene secondo una progressione geometrica: si racconta qualcosa a due persone e ciascuna di quelle due persone la racconta ad altre due, che a loro volta... Però si dovrebbe parlare anche, e soprattutto, di successo riproduttivo. Perché alcune barzellette vengono così tanto accettate, mentre altre muoiono prima ancora di nascere, vale a dire, prima di arrivare a raggiungere il loro pieno sviluppo in quanto barzellette? La teoria dei memi, proposta dal biologo Richard Dawkins, la quale estende il concetto di gene anche ai prodotti della mente, descrivendo la forma in cui si diffondono determinate «unità di informazione culturali»; però ci dice poco circa le chiavi di adattamento all'ambiente e circa il processo evolutivo dei diversi tipi di meme, non svela il segreto della sua eventuale «viralità».

Forse, qualcuno dovrebbe riprendere l'idea di Asimov ed eseguire - o ripetere - l'esperimento. Immaginiamo di mettere insieme un'equipe selezionata composta di umoristi, psicologi, sociologi e matematici, i quali mettono a punto, classificano e raccontano tutta una serie di barzellette inedite, per poi misurare la velocità e l'ambito della loro diffusione, così come la loro capacità di creare tendenza, di suscitare imitazioni o di proporre nuovi modi di dire linguistici. Impareremmo sicuramente qualcosa sul funzionamento della mente umana e sulla nostra problematica società.

- Carlo Frabetti - Pubblicato su Jot Down Cultural Magazine nel mese di settembre 2018 -

mercoledì 26 settembre 2018

L'anti-valore?!?

harvey

Come funziona la circolazione del capitale? Quali sono le regole della sua accumulazione? Ma soprattutto, è vero che l'economia di mercato favorisce un aumento del nostro benessere? Secondo David Harvey, "le analisi di Marx sono ancora più pertinenti oggi di quanto non fossero all'epoca in cui scriveva. Quello che ai suoi tempi era un sistema economico dominante solo in un piccolo angolo del mondo ora si estende su tutta la terra". Harvey si mette sulle tracce del pensiero di Marx per ricostruire l'architettura del capitale e aggiornare all'evoluzione tecnologica e industriale degli ultimi centocinquant'anni le analisi del filosofo tedesco che ha cambiato definitivamente il modo di pensare l'economia, stravolgendo il destino di popoli e Paesi. E va alla ricerca di casi esemplari delle nuove forme di alienazione e di disuguaglianza, per provare che oggi la stessa logica del valore di scambio esplorata da Marx continua a seguire il proprio percorso, la propria "danza folle", senza alcuna considerazione per le esigenze reali delle persone. Dopo L'enigma del capitale e Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Harvey propone una nuova lettura del gigante del pensiero economico e del suo classico monumentale, "Il capitale", per rivelarne la straordinaria attualità rispetto alle teorie contemporanee, che con la crisi finanziaria del 2008 si sono rivelate insufficienti. Per mostrare a tutti, lettori più o meno esperti, che l'opera di Marx è il miglior manuale d'interpretazione non solo dell'economia contemporanea, ma anche del mondo in cui viviamo.

(dal risvolto di copertina di: David Harvey: Marx e la follia del capitale, Feltrinelli)

Virtuosi contrasti dentro un laboratorio sempre aperto
- di Benedetto Vecchi -

Due secoli separano il presente dalla nascita di Karl Marx. E come ogni bicentenario che si rispetti, sono in preparazione convegni, seminari, pubblicazioni di saggi e monografie. Finora sono annunci di iniziative organizzate da comunità intellettuali non accademiche o di titoli o ristampe da parte di piccole e indipendenti case editrici, ma c’è da augurarsi che abbiano la capacità di porre le basi per una apertura non episodica o rituale di un laboratorio marxiano. L’autore del Capitale non ha infatti goduto negli ultimi lustri di buona fama presso i grandi gruppi editoriali o presso le istituzioni culturali e c’è da augurarsi una qualche renaissance non effimera. D’altronde, non c’è proprio bisogno di una rilettura dell’opera marxiana privata di quella tensione alla trasformazione sociale interna che l’anima, come già proponeva Jacques Derrida negli Spettri di Marx, o come un teorico ante litteram della globalizzazione, secondo quanto va sostenendo da alcuni anni quell’agit-prop settimanale del liberismo che è l’Economist. Operazioni di normalizzazione culturale che stridono con la diffusione, lo scorso fine settimana, di una dichiarazione del presidente della Banca d’Inghilterra sul rischio di un ritorno politico in grande stile del pensiero marxiano se non verranno varati provvedimenti per attenuare le disuguaglianze sociali e la povertà dovute alla disoccupazione presente e prossima ventura dovute all’automazione dei processi lavorativi. La disoccupazione tecnologica e la crisi sono stati due temi ampiamente analizzati da Marx sin dalla prima stesura di quell’introduzione alla Critica dell’economia politica dove illustrava un ambizioso progetto di ricerca di un ’analisi scientifica del Capitale.
Per gran parte della sua vita, tuttavia, Marx scrisse molto, ma pochi, in rapporto ai materiali lasciati in eredità, sono stati i libri «finiti». La montagna di appunti stilati per chiarirsi le idee, per circostanziare le sue critiche al capitalismo attendono ancora di essere sistematizzati. È toccato a Engels mettere ordine in una parte di quei materiali, magari per pubblicarli in un secondo momento, come è accaduto al secondo e terzo libro del Capitale. Che l’opera marxiana sia da ritenere un’opera aperta ne erano e ne sono convinti molti marxisti. Ne è consapevole anche David Harvey, che apre il nuovo libro pubblicato da Feltrinelli, Marx e la follia del capitale (pp. 240, euro 22), mettendo in rilievo le contraddizioni presenti nell’opera marxiana, considerandole indicazioni di percorsi da intraprendere; segnali cioè di una ricchezza analitica che fanno della critica marxiana dell’economia politica un elemento indispensabile nell’analisi del presente e delle possibilità di trasformare l’esistente. Coglie il punto Harvey quando scrive che in Marx non c’è una teoria dello stato come regolatore dei processi di valorizzazione, che è assente una teoria marxiana del prelievo fiscale, delle politiche di sostegno alla domanda, delle istituzioni pubbliche come strumento della governance tesa alla riproduzione sociale. Non sottacere i limiti e l’incompletezza dell’opera di Marx è l’unico modo per mettere nuovamente al lavoro la sua critica all’economia politica. Nella sua rilettura, Harvey si è avvalso delle discussioni avute con studiosi conosciuti all’interno dei suoi interessi disciplinari – la geografia – e dei suoi campi di studio, come è stata l’urbanistica o l’economia mondiale. Le sue riflessioni sono state arricchite dal diritto alla città di Henri Lefebvre, dalla critica al postmoderno di Frederic Jameson, dall’economia mondo di Giovanni Arrighi e Immanuel Wallerstein. Ha fatto inoltre tesoro degli «studi culturali» e delle genealogie di Michel Foucault sul neoliberismo. Ne ha tratto materiale buono da condensare in una serie di lezioni introduttive al libro I e II del Capitale che una volta «postate» in Rete sono diventate uno dei successi del web in termini di materiale scaricato o di vision on line.

Per svelare l’arcano del capitale, Harvey propone di considerarlo come una totalità che ha subito interventi e mutamenti propedeutici a rendere fluida l’interdipendenza tra produzione, distribuzione e consumo. Una fluidità cercata nell’aggirare i limiti e vincoli costituiti dalle differenze dello spazio e del tempo nei quali ognuno dei tre momenti si esplica. È noto che la produzione non è più concentrata in un solo luogo, ma disseminata nel pianeta. Le distanze tra nuclei produttivi vanno dunque annullate sincronizzando le differenze temporali affinché i frammenti vengano ricomposti in una unità dotata di logica e dove la produzione di plusvalore sia resa possibile. Si può produrre un manufatto tra il Laos, la Germania, il Brasile e la Spagna, ma poi i suoi componenti vanno assemblati e dunque spostati da diversi luoghi che hanno un orologio diversificato. Da qui l’importanza della logistica sia per sincronizzare i nodi della rete produttiva, ma anche per far giungere al mercato o al consumatore finale le merci.
Il sistema di macchine messo in campo sia nella produzione che nella distribuzione e nel consumo non serve quindi solo ad aumentare la produttività individuale e sociale, ma va considerato come una vera e propria tecnologia organizzativa per sincronizzare e potenzialmente annullare tanto le differenze spaziali che temporali. Ovvio che l’organizzazione produttiva si avvalga di droni, intelligenza artificiale, di reti telematiche, di smartphone e dispositivi che rendono possibile stabilire l’esatta posizione di un manufatto dalla sua produzione all’assemblaggio con altri manufatti e dal prodotto finito alla sua destinazione finale. E che abbia bisogno di tanto sudore: quello dei camionisti, dei facchini, dei riders che consegnano le merci.
L’immagine che meglio illustra il funzionamento della produzione di merci è un flusso che deve scorrere senza strozzature o barriere, pena il blocco del processo di valorizzazione. Ma se l’analisi si fermasse qui, scrive Harvey, la critica dell’economia politica rimarrebbe bloccata al I libro del Capitale. Ogni innovazione teorica è quindi benvenuta per completare quel II libro e III libro. Harvey affronta così il tema del capitale fittizio (il denaro dato in prestito per finanziare la produzione ma soprattutto per ricavare profitti dovuti agli interessi maturati), della finanza, ma soprattutto delle sacche inoperose del capitale: ambito, questo, di conflitti sociali che possono mettere in discussione il capitalismo. I servizi sociali, la sanità, la casa, la mobilità, la formazione, la ricerca scientifica, il consumo critico hanno costituito le sacche inoperose del capitale ma sono stati gli ambiti dove si sono manifestati conflitti sociali aspri, continuativi nel tempo e nello spazio, proprio quando la lotta di classe negli atelier della produzione sembrava un ricordo del passato. Allo stesso tempo, anche la riproduzione sociale del capitalismo (cioè il lavoro di cura di donne e uomini), le attività autogestite, le comunità autonome, gli spazi occupati, le comuni agricole, le lotte per la riqualificazione produttiva delle metropoli e dell’ambiente fanno parte di quell’antivalore che stride con le logiche mercantili dominanti nel capitalismo.
Per gestire la follia del capitale occorre dunque, questo il messaggio nella bottiglia di Harvey, politicizzare questi ambiti che attengono alla realizzazione monetaria del valore o alla riproduzione sociale. Senza cadere in una paralizzante visione nichilista dove il capitalismo è visto come un moloch o una totalità che non lascia margini di manovra, i temi affrontati da Harvey possono tuttavia essere letti anche come gli ambiti dove i processi di valorizzazione prevedono una rimessa in discussione da parte capitalista della separazione tra lavoro produttivo e improduttivo e dove la finanza, più che dimensione parassitaria, acquisisce il ruolo di governance del processo di valorizzazione. È nel ripensare la tensione tra produzione, distribuzione e consumo che il laboratorio marxiano può manifestare la sua capacità innovativa. Fa bene David Harvey a soffermarsi sugli aspetti meno indagati dell’opera di Marx, ma il sentiero di ricerca che indica – tutto rimane invariato, conta solo di colmare le lacune della teoria – è però quello già ampiamente battuto proprio dalla tradizione marxista dalla quale l’autore prospettava una presa di distanza indispensabile per non diventare prigionieri del già noto. Non si tratta di rompere con la tradizione, ma di cercare di far entrare nel laboratorio marxiano l’intelligenza, la creatività, il desiderio di una vita in comune che vengono mantenuti latenti nel capitalismo. Quel che serve è farli irrompere nel trittico che compone il regime di accumulazione, evitando le trappole di una governance interessate solo a mantenere costante e senza barriere il flusso ordinato di produzione e consumo.

- Benedetto Vecchi - Pubblicato sul Manifesto del 18.4.2018 -

*** una critica del libro di Harvey, scritta da Giordano Sivini e svolta dal punto di vista della Critica del Valore può essere letta sull'Anatra di Vaucanson

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