sabato 29 settembre 2018

Umanesimo radicale

2018_18_marx_second

Il messaggio dimenticato di Karl Marx
- A duecento anni dalla nascita, il filosofo tedesco è ancora studiato in tutto il mondo. Ma più che per l’analisi dei processi storici, nell’era dell’automazione il suo pensiero è attuale soprattutto per la sorprendente fiducia nell’individuo -
di Paul Mason

La foto, un po’ sfocata, sembra cogliere Lev Trotskij a metà di una frase. Siamo a casa di Frida Kahlo nel 1937. A sinistra c’è Natalia Sedova, la moglie di Trotskij. A destra ci sono Kahlo e, seminascosta dietro di lei, una giovane donna che ascolta attentamente: è Raja Dunaevskaja, la segretaria di Trotskij. Non sappiamo quale sia l’argomento della conversazione, ma non abbiamo dubbi sulle sue premesse: tutte le persone presenti nella fotografia sono marxiste. Le loro idee sulla politica, l’economia, l’etica e l’arte sono state influenzate dagli scritti di un uomo nato in Germania duecento anni fa. Trotskij sarà assassinato nel 1940, e da quel momento Sedova riverserà tutta la sua rabbia contro il potere sovietico. Kahlo diventerà una delle artiste più straordinarie del novecento. Ma è Dunaevskaja a costituire il collegamento tra il marxismo classico e l’unica forma in cui la teoria elaborata dal filosofo tedesco può avere senso oggi. “Il marxismo”, sosteneva Dunaevskaja, è una forma di “umanesimo radicale”. Il 5 maggio si è celebrato il duecentesimo anniversario della nascita di Marx, ma il dibattito sulle sue idee non accenna a finire. La scorsa estate l’estrema destra statunitense ha manifestato a Charlottesville, in Virginia, accusando la città di essere schiava del “marxismo culturale”. Il governatore della Banca d’Inghilterra, Mark Carney, avverte che il marxismo potrebbe tornare d’attualità a causa della disoccupazione legata all’automazione e delle disuguaglianze. In Cina, intanto, è stata risuscitata una forma di marxismo che è diventata la nuova dottrina di stato. Per capire quello che può e non può sopravvivere del marxismo, dobbiamo chiederci che senso hanno i suoi insegnamenti nelle condizioni profondamente diverse di oggi.

Oltre l’ortodossia

Nel luglio del 1850 Karl Marx era già un teorico della sconfitta. Nel Manifesto del partito comunista (1848) aveva scritto che la missione della classe operaia era abolire la proprietà privata e introdurre il comunismo. Ma aveva capito subito che ci sarebbe voluto un po’ di tempo. Dopo aver cercato per due anni di spingere le rivoluzioni democratiche in corso in Francia e Germania nella direzione della giustizia sociale, aveva ammesso il suo fallimento e si era rifugiato a Londra. Tuttavia, nella stanza sopra a un pub di Soho, davanti a una pinta di birra, Marx continuava a rassicurare il suo compagno d’esilio, Wilhelm Liebknecht, sul fatto che la speranza non era ancora morta. Aveva appena visto il prototipo di un treno a trazione elettrica in mostra a Regent Street: l’era del vapore sarebbe finita presto e sarebbe cominciata quella dell’energia elettrica. Liebknecht scrisse: “Marx, tutto entusiasta e rosso in viso, mi disse: ‘Adesso il problema è risolto, e le conseguenze sono imprevedibili. Alla rivoluzione economica deve necessariamente seguire quella politica, perché la seconda è solo l’espressione della prima”. Tra i fumi del tabacco, Marx aveva delineato una versione semplificata della concezione materialistica della storia. A quella ne sarebbe seguita una più complicata. Nella prefazione al saggio Per la critica dell’economia politica (1859) Marx spiega che il cambiamento sociale nasce dal conflitto tra due realtà create dagli esseri umani: le forze produttive – cioè la tecnologia e le competenze necessarie per usarla – e i rapporti di produzione, il modello economico necessario per dar vita alla tecnologia. Insieme, sostiene Marx, la tecnologia e il modello economico costituiscono la “struttura” su cui in ogni sistema si fondano le “sovrastrutture”, cioè le leggi, le istituzioni politiche, le culture e le ideologie. Le rivoluzioni scoppiano quando il sistema economico ritarda il progresso tecnologico. Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848, Marx dedicò la sua vita a due progetti complementari: la creazione di partiti della classe operaia che difendessero gli interessi dei lavoratori e li preparassero a conquistare il potere, e l’analisi delle dinamiche del capitalismo industriale. Solo una volta, in un quaderno rimasto inedito per più di cent’anni, Marx azzardò un’ipotesi sulla forma che la rivoluzione tecno-economica avrebbe potuto assumere. Nel Frammento sulle macchine, scritto nel 1858, Marx immagina un’epoca in cui le macchine fanno la maggior parte del lavoro e in cui la conoscenza, diventata “sociale”, si incarna in quello che il filosofo chiama “intelletto generale”. Dato che il capitalismo si basa sui profitti generati dai lavoratori, non può sopravvivere a un livello di progresso tecnologico che elimini la necessità del lavoro. Il conflitto tra proprietà privata e conoscenza sociale condivisa, dice Marx, farà “saltare in aria” le fondamenta del capitalismo. Questa profezia, così palesemente anticipatrice della nostra epoca di robot e conoscenza condivisa, è rimasta negli archivi fino agli anni sessanta. Nei cinquant’anni successivi alla morte di Marx, nel 1883, le sue idee subirono tre reinterpretazioni. All’inizio il suo collaboratore Friedrich Engels cercò di sistematizzare il pensiero di Marx in una teoria onnicomprensiva, che non si fermava alla storia ma teneva insieme perfino la fisica, l’astronomia e l’etnografia. Questo era il marxismo che studiarono i leader dei primi partiti socialisti, i quali ne fecero una seconda revisione, sostenendo che le teorie di Marx conducevano a un socialismo parlamentare pacifico, non alla rivoluzione. Infine, a partire dal 1899, emerse un marxismo basato sulla lotta di classe, che metteva la forza di volontà dell’essere umano e il suo slancio organizzativo al di sopra dell’ineluttabilità dello sviluppo storico. Questo era il marxismo che Trotskij e Sedova avevano imparato nei movimenti clandestini in Russia, e che nel 1902 li aveva costretti all’esilio a Parigi. Secondo questa teoria, la Russia sarebbe potuta diventare democratica solo sotto la guida della classe operaia. Per questo bisognava organizzare i lavoratori in partiti agguerriti e gerarchizzati proprio come gli stati governati dagli zar e dai kaiser che i lavoratori stessi volevano abbattere. Le loro armi dovevano essere gli scioperi e le barricate, non le elezioni e l’attivismo culturale. Ma il marxismo dei primi del novecento conteneva anche una teoria della classe operaia opposta a quella di Marx. Per il filosofo tedesco le rivoluzioni del 1848 erano fallite perché il capitalismo non era ancora maturo per essere abbattuto. Per Lenin, nel 1902, erano i lavoratori a non essere pronti. E non lo sarebbero mai stati senza la guida di un’élite, senza l’avanguardia di un partito clandestino che li spingesse all’azione. Lenin sosteneva che l’intera classe operaia specializzata del mondo sviluppato ormai era stata comprata dai guadagni dell’imperialismo: fare la rivoluzione era compito dei lavoratori non specializzati in occidente e dei popoli dei paesi meno sviluppati. Più o meno a partire dal 1910 le rivolte nazionaliste e le guerre per la terra scoppiate in Messico, Cina, Irlanda e infine in Russia sembrarono confermare questa teoria. Trotskij e Sedova avevano assistito alla nascita di questo nuovo marxismo rivoluzionario. La generazione di Kahlo e Dunaevskaja conosceva invece solo questa versione. Dunaevskaja era nata nel 1910 da genitori ebrei nell’odierna Ucraina ed era emigrata a Chicago con loro nel 1922. Era entrata nel Partito comunista a 14 anni, durante uno sciopero scolastico. Avrebbe lasciato il partito quattro anni dopo, quando fu gettata giù dalle scale per aver criticato l’espulsione di Trotskij dal Comintern e dal Partito comunista sovietico. Trotskij era stato uno dei leader della rivoluzione del 1917. Poi aveva partecipato all’abolizione del controllo delle fabbriche da parte dei lavoratori e alla repressione delle opposizioni di sinistra. Ma a partire dal 1923, davanti alla nascita di una nuova élite di burocrati, aveva lanciato un suo movimento di opposizione. Negli anni trenta era ormai arrivato alla conclusione che lo stalinismo e il fascismo erano “gemelli”, separati esclusivamente dalle teorie economiche su cui si basavano. Nel movimento trotskista Dunaevskaja aveva il compito di curare, da un ufficio di New York, un giornale in lingua russa distribuito nell’Unione Sovietica. Era arrivata in Messico nel luglio del 1937 per lavorare come stenografa e traduttrice di Trotskij, mentre le grandi purghe cominciavano a decimare le loro reti clandestine. Kahlo era entrata a far parte del movimento dei giovani comunisti messicani nel 1928, a 21 anni. “Sono comunista per natura”, avrebbe scritto in seguito. Per la generazione dei giovani intellettuali messicani attratti dal comunismo, quest’identità politica implicava non solo la sperimentazione sessuale e artistica, ma anche un profondo impegno nei confronti delle culture indigene e un grande entusiasmo per le rivolte dei contadini guidate da Emiliano Zapata. Le persone ritratte nella fotografia condividevano una serie di idee di fondo che potremmo riassumere così: le rivoluzioni di solito scoppiano nei paesi arretrati; richiedono una guerriglia mobile, l’occupazione di terre e una lotta spietata contro i ricchi; un partito marxista deve guardarsi dal conservatorismo della classe operaia occidentale e difendere piuttosto i popoli indigeni e quelli oppressi; la classe operaia è il “soggetto rivoluzionario” intrinsecamente nemico del capitalismo, anche se momentaneamente fuorviato. Erano tutte persone pronte al sacrificio e disposte a usare la manipolazione e la violenza per raggiungere il loro obiettivo. Ma ognuna si sforzava, a modo suo, di preservare un marxismo dal volto umano, di resistere alle menzogne, agli omicidi di massa e alla repressione della libertà innescata dallo stalinismo. La tragedia è che nessuno di loro aveva compreso quanto profondamente umanista fosse il marxismo quando era stato concepito. Solo Dunaevskaja un giorno lo avrebbe capito. Marx non amava la filosofia: “I filosofi hanno solo interpretato il mondo, quello che conta è cambiarlo”, scrisse. I Manoscritti economico-filosofici – scritti nel 1844 a Parigi, ma pubblicati a Mosca solo nel 1932 – dimostrano come arrivò a quella conclusione: attraverso una critica alla filosofia dell’illuminismo, profondamente imbevuta di umanesimo, e che discende direttamente da un concetto di natura umana riconducibile ad Aristotele attraverso sant’Agostino e Hegel. Lo scopo degli esseri umani, dice Marx nel 1844, è liberarsi. Sono schiavi non solo del capitalismo e di uno specifico tipo di società basata sulle classi, ma di un problema che nasce dalla loro stessa natura sociale, che li obbliga a lavorare in gruppo e a collaborare tra loro usando il linguaggio e non solo l’istinto. Quando noi esseri umani produciamo un oggetto, o scopriamo una nuova idea, tendiamo a proiettare il nostro concetto di “io” in quest’oggetto o idea: è il processo che Marx chiama alienazione, o estraniazione. Poi consentiamo ai nostri prodotti, mentali e materiali, di esercitare un potere su di noi, sotto forma di religioni o superstizioni, idolatrando i beni di consumo o rispettando insensatamente routine e forme di disciplina che ci siamo imposti da soli. Per superare l’alienazione, Marx sostiene che l’umanità deve liberarsi di tutte le gerarchie e le divisioni di classe, il che significa abolire sia la proprietà privata sia lo stato. I manoscritti del 1844 contengono un’idea che nel marxismo è andata perduta: il concetto di comunismo come “umanesimo radicale”. Il comunismo, diceva Marx, non è semplicemente l’abolizione della proprietà privata, ma la “riappropriazione dell’essenza umana da parte dell’uomo e per l’uomo… Il totale ritorno dell’uomo a se stesso come essere sociale (cioè umano)”. Quindi, sostiene Marx, il comunismo non è l’obiettivo finale della storia umana. È solo la forma che la società assumerà dopo quarantamila anni di organizzazione gerarchica. Il vero obiettivo della storia umana è la libertà, la realizzazione personale di ogni singolo individuo. Nel 1932, quando pubblicarono questi quaderni, gli accademici sovietici li trattarono come un errore imbarazzante dell’autore. Accettare quelle idee avrebbe significato ammettere che alla base dell’intera concezione materialistica della storia – fatta di classi, rapporti di produzione, tecnologia contrapposta all’economia – c’era un profondo umanesimo con una serie di implicazioni morali. Dunaevskaja, che riuscì a mettere le mani su una versione russa dei Manoscritti negli anni quaranta, passò quasi dieci anni a cercare di venderne la sua traduzione inglese, fino a quando non decise di pubblicarla da sola a metà degli anni cinquanta. Aveva capito che i Manoscritti mettevano in discussione tutte le precedenti interpretazioni di Marx. Per i burocrati sovietici, il contrasto tra l’idea marxiana di libertà e la loro squallida e opprimente realtà era evidente. Per il marxismo occidentale, che ormai era ossessionato dallo studio delle strutture permanenti, ecco che Marx non parlava più di forze impersonali ma di un concetto chiaro e quasi aristotelico di natura umana, di autonomia e benessere. Era forse possibile, si chiedeva Dunaevskaja, che tutte le disgrazie capitate alla sinistra marxista fossero dovute alle rigide teorie divulgate da Engels? Era possibile che la spietatezza del bolscevismo, sempre giustificata dall’obiettivo di dare il potere alla classe operaia, fosse inconciliabile con il comunismo immaginato da Marx? Era possibile che, dopotutto, il comunismo non costituisse una rottura con l’umanesimo filosofico dell’illuminismo, ma ne fosse invece l’espressione più compiuta? Queste furono le domande che Dunaevskaja si fece, sulla base delle quali stabilì nuove priorità pratiche. In futuro la sinistra avrebbe dovuto costruire le sue politiche partendo dall’esperienza dei singoli esseri umani e dalla loro ricerca della libertà. Negli Stati Uniti degli anni cinquanta questo significava non solo appoggiare la lotta degli operai nelle fabbriche, ma anche sostenere il femminismo, i diritti civili dei neri, i diritti dei popoli indigeni e le lotte antimperialiste del sud del mondo. E significava anche sostenere inequivocabilmente le rivolte contro lo stalinismo che esplosero in Germania nel 1953 e in Ungheria nel 1956. Quando i ricercatori alla fine degli anni sessanta scoprirono e pubblicarono il Frammento sulle macchine, Dunaevskaja capì che era l’ultima tessera del puzzle: non era una teoria sul crollo economico del capitalismo dovuto al calo dei profitti, ma una teoria della liberazione tecnologica. Marx aveva previsto che, liberato dal peso del lavoro grazie ai progressi dell’automazione, il genere umano avrebbe usato le sue energie “per il libero sviluppo dell’individuo”, non per realizzare un’utopia collettivistica. Frida Kahlo prese invece una strada diversa. Il suo ultimo quadro la mostra seduta sotto un ritratto di Stalin. Aveva avuto una storia d’amore con Trotskij e lo aveva visto mentre veniva ucciso in casa sua. E aveva praticato un tipo di pittura surrealista che Trotskij apprezzava ma che Mosca considerava degenerata. Perché aveva deciso di celebrare l’uomo che aveva ordinato l’uccisione di Trotskij? Anche se Frida Kahlo non poteva saperlo, il tema centrale della sua arte era sempre stato il concetto marxista di alienazione. La pittrice considerava l’io il luogo in cui sarebbe stata raggiunta la liberazione umana; nei suoi quadri aveva esplorato l’alienazione del suo sesso, della sessualità, della disabilità e dell’etnicità. Le sue efficaci rappresentazioni dell’infelicità e dell’isolamento l’hanno fatta diventare, a partire dagli anni settanta, una specie di santa patrona del femminismo. Ma è chiaro che l’artista considerava non marxisti e antipolitici i suoi quadri oggi più famosi. Una volta li definì “piccoli e poco importanti, pieni di temi personali che interessano solo a me e a nessun altro”. I veri quadri politici erano quelli di suo marito Diego Rivera. L’idea che anche il personale è politico non apparteneva alla sua generazione. Durante la guerra fredda, mentre tutto il mondo si schierava con l’occidente o con l’Unione Sovietica, Kahlo fece la stessa scelta di molte altre persone di sinistra: si iscrisse al Partito comunista messicano e rinnegò Trotskij. Anche i suoi quadri cambiarono. Cominciò a dipingere grandi allegorie sociali, come Il marxismo guarirà gli infermi (1954), in cui non comparivano più gli aspetti mistici e metaforici delle sue prime opere. Non fu una scelta da dilettante della politica. Nel 1952 aveva scritto sul suo diario: “Non sono mai stata trotskista. Capisco perfettamente la dialettica materialista di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Tse. Li amo e li considero i pilastri del nuovo mondo comunista”. La traiettoria politica di Kahlo è un chiaro esempio di quello che succede al marxismo quando si allontana dall’umanesimo. La pittrice doveva tenere il suo interesse artistico per i traumi psicologici e per la libertà sessuale nettamente separato dall’ideologia del materialismo dialettico. Il suo accento sull’io indifeso, sulla bellezza della persona oppressa, sull’ineludibile potere della natura, era frutto della stessa idea di libertà che Marx aveva espresso nel 1844. Ma Kahlo non riusciva a conciliarlo con il marxismo della propaganda sovietica. E alla fine ebbe la meglio la propaganda.

Di fronte al dilemma
Cosa rimane del marxismo nella nostra era di euforia tecnologica e di catastrofi ambientali? Di certo non la sua idea di classe: nonostante la forza lavoro del pianeta sia raddoppiata, gli operai dei paesi in via di sviluppo sono intrappolati nella società borghese quanto lo erano i loro colleghi bianchi del novecento. Le agitazioni sul lavoro continueranno, ma il capitalismo ha imparato a evitare che si trasformino in rivoluzioni. Tutto questo sembra tragico solo se non si sono mai letti i Manoscritti economico-filosofici. Il Marx del 1844 teorizzava prima il comunismo e poi il ruolo dei lavoratori nel realizzarlo. Il comunismo non era il punto finale della storia ma, come disse una volta usando un’immagine quasi poetica, la fine della preistoria. Per il Marx di quei primi scritti, i lavoratori avrebbero realizzato il comunismo grazie al loro desiderio di auto-educarsi e di formare associazioni cooperative, non comportandosi come automi, spinti solo dai propri interessi materiali. All’inizio degli anni sessanta il filosofo francese Louis Althusser “risolse” il problema dei Manoscritti dichiarandoli antimarxisti. A suo avviso, rappresentavano il “Marx più lontano da Marx”, una filosofia umanistica che sarebbe dovuta “tornare nell’ombra”. Eppure Althusser riconobbe che la loro pubblicazione era stata un “evento importante per la teoria”. In effetti ancora oggi chi si definisce di sinistra deve farci i conti. Una volta che i Manoscritti furono portati alla luce, il dilemma apparve chiaro: o il marxismo è una questione di liberazione dei singoli esseri umani o è una questione di forze impersonali e di strutture che possono essere studiate ma a cui raramente si può sfuggire. o esiste una “essenza umana” che possiamo riscoprire abolendo la proprietà e le classi o siamo solo un mucchietto di ossa condizionato dall’ambiente che ci circonda e dal nostro DNA. o sono gli esseri umani a fare la storia, come aveva detto Marx, o è la storia a fare la storia. Negli ultimi cinquant’anni il pensiero accademico di sinistra ha seguito in buona parte la strada anti-umanista tracciata da Althusser. Dunaevskaja, come gli altri che dopo la guerra e il genocidio avevano abbracciato l’umanesimo, fu molto apprezzata ma anche considerata fuori dagli schemi. Tuttavia, il Marx che contribuì a riscoprire è tutt’altro che irrilevante per il nostro futuro. Se vogliamo difendere i diritti umani dal populismo autoritario e se pensiamo che gli esseri umani debbano poter limitare e tenere a freno le attività delle macchine pensanti, dobbiamo avere un preciso concetto di umanità da difendere.

Il soggetto rivoluzionario
Se il Marx del 1844 ha ragione, l’ideale della liberazione umana e del comunismo può sopravvivere all’atomizzazione e alla dispersione della classe operaia che avrebbe dovuto realizzarlo. Come hanno dimostrato le primavere arabe del 2011, le grandi masse umane oggi hanno la stessa capacità di agire autonomamente, di educarsi e di collaborare che Marx ammirava nella classe operaia parigina degli anni quaranta dell’ottocento. Come aveva ben capito Dunaevskaja, a far scattare l’impulso verso la libertà non è solo lo sfruttamento, ma anche l’alienazione, la repressione del desiderio, le sistematiche umiliazioni subite dalle vittime del razzismo, del sessismo e dell’omofobia. Dovunque persegue obiettivi che calpestano l’umanità delle persone, il capitalismo suscita rivolte. Lo vediamo ogni giorno intorno a noi. Nel prossimo secolo, come aveva previsto Marx, è probabile che l’automazione combinata con la socializzazione della conoscenza ci offra l’opportunità di liberarci dal lavoro. Questo fenomeno farà “saltare in aria” il capitalismo. E il sistema economico che lo sostituirà dovrà avere come obiettivo quello delineato dal filosofo tedesco nel 1844: la fine dell’alienazione e la liberazione dell’individuo. Se potessi dialogare con le persone ritratte in quella fotografia del 1937, dopo essermi congratulato per la loro magnifica vita di resistenza e sofferenza, gli direi: “Il desiderio di un marxismo umanista che state reprimendo, l’impulso verso la liberazione individuale, in realtà sono già in Marx e aspettano solo di essere scoperti. Perciò dipingete quello che volete, amate chi volete. Al diavolo il partito. Il vero soggetto rivoluzionario è l’io!”.

- Paul MasonPubblicato su L’Internazionale dell’8 giugno 2018 -

Nessun commento: