martedì 31 maggio 2022

Un, due e tre... Kafka !!!

Nel 1969, Elias Canetti pubblica "L'altro processo", il suo libro sulle lettere di Kafka a Felice; nel 2005, Ricardo Piglia pubblica una raccolta di saggi dedicati alla lettura -  "L'ultimo lettore" - uno dei quali riguarda proprio Kafka e il suo rapporto con Felice. Canetti e Piglia insistono, da prospettive diverse (e quindi complementari), sull'esasperante consapevolezza che Kafka aveva della materialità del proprio linguaggio/letteratura: come avviene, ad esempio, mediante il passaggio dalla lettera alla cartolina postale, o dalla scrittura manuale alla scrittura meccanica (dalla penna stilografica alla macchina da scrivere); cosa che trasforma le idee, le sensazioni, le percezioni che un soggetto ha di sé e del mondo circostante (e anche, soprattutto, del mondo possibile, vale a dire, di ciò che viene proiettato, immaginato e desiderato a partire dalla disposizione delle parole sulla pagina). Del resto, in tutto Kafka la narrazione è costellata di emissari, di copisti, di ambasciatori, di entità che vengono investite della responsabilità di dar conto di un discorso (sia attraverso le conversazioni e le conferenze ma anche nell'offerta del corpo stesso, come avviene nella Colonia Penale).

Ne "Le Città invisibili" (1972), Calvino fa di Marco Polo una sorta di punto di attraversamento delle informazioni del mondo al cospetto del sovrano - il viaggiatore è un punto allo stesso tempo immobile e mutevole, egli sta davanti al sovrano come se fosse una sorta di incarnazione di quello che è un «Impero multiplo e disperso» (nel libro che leggiamo, egli registra non tanto ciò che effettivamente vede, ma piuttosto quello che il desiderio del sovrano organizza  e ricostruisce nella sua mente; il fantasma del desiderio del sovrano è ciò che rende possibile l'opera di Marco Polo, così come il desiderio inaccessibile di Felice - o di Milena - rende possibile l'opera di Kafka).

In un romanzo del 1956, di Ignazio Silone, "Il segreto di Luca", il rapporto tra la costruzione della soggettività e l'infrastruttura comunicazionale viene reso nella maniera seguente: un uomo torna nella sua città natale dopo aver passato 40 anni in prigione, per incontrare, finalmente, l'uomo che, da bambino, scriveva le lettere che lui stesso riceveva poi in prigione (la madre del detenuto, analfabeta, lavorava in casa di quel ragazzo al quale chiedeva aiuto per leggere le lettere del figlio; e per poi scrivere le risposte). È la scrittura del ragazzo a dare forma alle emozioni della madre; è la voce del ragazzo a incarnare/rappresentare/aggiornare virtualmente le emozioni del prigioniero (il ragazzo costituisce un punto di attraversamento postale, un intermediario che non può riuscire a comprendere con precisione né i sentimenti della madre né quelli del figlio). Il ragazzo legge, scrive, registra nella memoria e spedisce; tutta questa dinamica rimane archiviata dentro di lui per venire rivisitata dopo decenni, quando finalmente incontra («Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch'io sono conosciuto.»; 1 Corinzi 13:12) Luca, il prigioniero che ora è libero, l'essere di carta che ora si trasfigura in un essere ora in carne e ossa e voce. 

fonte: Um túnel no fim da luz

lunedì 30 maggio 2022

Soldi facili !!

La fine della finanziarizzazione?
- Al posto del dollaro, Cina e Russia negoziano già con alcuni Paesi attraverso le loro valute, sostenute da materie prime come petrolio e gas. Qualcosa si sta muovendo nell'economia globale: la finzione della ricerca di rendite viene messa in discussione dalla sicurezza della produzione reale. -
di Marcio Pochmann - Pubblicato il 23 maggio 2022

Stiamo assistendo, all'inizio del terzo decennio del XXI secolo, a un processo di mercificazione monetaria che potrebbe mettere fine a mezzo secolo di funzionamento dell'economia globale, che si basava sul dollaro ed era sostenuta da attività finanziarie. La comparsa sulla scena di valute sostenute e garantite da materie prime, sembra prospettare l'indebolimento di quella che è stata la fase di predominio delle valute fiduciarie, prive di garanzie e senza alcuna reale convertibilità, che non fosse quella meramente finanziaria. In termini tecnici, stiamo parlando della possibilità di definire nuovamente il quadro monetario internazionale, una sorta di Bretton Woods III. Laddove, alla Conferenza di Bretton Woods, tenutasi negli Stati Uniti nel 1944, venne stabilito un insieme di disposizioni, concordate da 45 Paesi, che avrebbero costituito il sistema finanziario del periodo susseguente alla Seconda Guerra Mondiale. Per quasi tre decenni (1944-1973), il dollaro si trasformò nella valuta forte del settore finanziario globale, e divenne il parametro per tutte le altre valute, soprattutto quelle occidentali. In questo modo, ogni moneta nazionale sarebbe stata legata all'oro (al valore di 35 dollari), rendendo possibile a chiunque possedesse tale moneta, in qualsiasi parte del mondo, di cambiarla con il suo equivalente in oro. Affinché ciò diventasse possibile, vennero create istituzioni finanziarie associate al sistema delle Nazioni Unite (ONU), come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, che dovevano fungere da garanti del sistema finanziario globale. L'espansione economica, sancita e celebrata come i «30 gloriosi anni di capitalismo», si è espressa nella forma di una speculazione finanziaria racchiusa e contenuta in ampi ritmi di produzione, creazione di posti di lavoro e inclusione sociale.
A partire dal 1973, con la fine della convertibilità del dollaro in oro, la moneta degli Stati Uniti ha assunto un carattere fiduciario, così come le altre valute nazionali. Intorno alla predominanza del dollaro, e al mantenimento del suo ruolo di riserva finanziaria globale, si è costituita una sorta di Bretton Woods II . Di conseguenza, a partire da questo, gli ultimi cinque decenni sono stati caratterizzati da un'intensa volatilità dei tassi di cambio, dei tassi di interesse e delle disponibilità finanziarie. Senza le garanzie della produzione di merci e senza il ricorso al dollaro, nel mondo, il finanziamento tramite il  dollaro è diventato possibile solo grazie a un crescente processo di finanziarizzazione.

Pertanto, l'industria produttiva è stata sostituita dall'industria finanziaria associata ai derivati, agli hedge fund e alle cartolarizzazioni. Sotto la spinta e sulla scia della deregolamentazione neoliberista, la globalizzazione economica si è sviluppata sulla base della logica del credito globale orientato fondamentalmente alle attività finanziarie. Il risultato di tutta questa lunga fase del dollaro fiduciario, è stato quello di una decrescita del ritmo di espansione economica, il prevalere di una diffusa disoccupazione, insieme all'insicurezza del lavoro e a un aumento della povertà e delle disuguaglianze. In altre parole, il formarsi di una classe planetaria di oligarchi, ricchissimi grazie alla monopolizzazione dell'economia globale consentita dalle catene globali del valore, ha finito per relegare la politica all'interno delle nazioni in balia del mercato.
Le insistenti misure governative, volte a mantenere il dollaro come valuta fiduciaria di riferimento nel mondo, sembrano essersi ormai esaurite. Ne è un esempio la fine dei tassi di interesse negativi negli Stati Uniti (USA), in Giappone e nell'Unione Europea (UE), dopo la conclusione delle operazioni di creazione di ingenti quantità di denaro artificiale (quantitative easing), messe in atto a partire dalla grave crisi finanziaria del 2008, al fine di rimandare la catastrofe capitalistica, come rivela Nomi Prins nel suo libro "Collusion: How Central Bankers Rigged the World". Paesi come la Russia e la Cina, tra gli altri, non si sono arresi alle modalità di evocazione del denaro facile consentite dal quantitative easing (asservimento quantitativo alla finanziarizzazione). Per questo motivo, attualmente i bilanci delle loro rispettive banche centrali sono in ordine, a differenza di Stati Uniti, Unione Europea e Giappone. Anziché utilizzare il denaro che era stato messo a disposizione per ossigenare l'economia, ha prevalso la logica della ricerca della rendita, indirizzandolo all'acquisto di azioni di loro proprietà, con alti dividendi che sarebbero tornati nelle tasche degli azionisti.
I nuovi oligarchi del denaro rivelano le proprie disponibilità a partire dall'elevata vicinanza alle banche centrali che, nella loro condizione di indipendenza, costringono i governi ad allearsi con le loro controparti private e si riproducono attraverso la rotazione dei posti di lavoro dei loro dipendenti (banca privata - banca centrale - banca privata - banca centrale). In questo scenario, l'attuale andamento, che deriva dall'aumento dell'inflazione, è stato accompagnato da un aumento dei tassi di interesse, che rallenta le economie occidentali e favorisce il trasferimento di reddito e ricchezza alla classe planetaria degli oligarchi, soprattutto in Occidente. Se a ciò si aggiungono le sanzioni adottate contro la Russia, si può intuire quale si il potenziale rischio devastante per il sistema finanziario occidentale.

Finora si direbbe che la Russia si sia ispirata agli Stati Uniti del 1973, quando si è accordata con i Paesi del Medio Oriente per far loro accettare la sua moneta, senza più alcuna garanzia e convertibile in oro, come pagamento per il petrolio dei membri dell'Organizzazione Mondiale del Petrolio (OPEC). In qualità di maggior paese esportatore di energia al mondo, la Russia cerca ora di affermare la propria valuta (rublo) come riferimento per i mezzi di pagamento internazionali, e mentre che la Cina ha stabilito con l'Arabia Saudita che il pagamento del petrolio importato avvenga attraverso il Renminbi cinese. Allo stesso tempo, i due Paesi di riferimento, tra gli altri, in alternativa a Bretton Woods II sperimentano nuove modalità monetarie sostenute dalla produzione di materie prime (commodities). Per mezzo secolo, il «Dollaro fiat» ha governato il mondo attraverso la finanziarizzazione dell'economia, parallelamente al dominio politico degli oligarchi arricchiti dall'imposizione delle ricette neoliberiste. Bretton Woods III potrebbe rappresentare un'alterazione sostanziale dall'economia globale fondata sulla «moneta fiat», che sostiene il dollaro attraverso la finanziarizzazione, e un passaggio al nuovo sistema finanziario basato su valute sostenute da materie prime. In questo senso, la garanzia finanziaria (fittizia) verrebbe sostituita dall'assicurazione della produzione reale di merci derivante dal processo di mercificazione monetaria.

- Marcio Pochmann - Pubblicato il 23 maggio 2022 -

fonte: OutrasPalavras. Jornalismo de profundidade e pòs-capitalismo

domenica 29 maggio 2022

Sulla parola …

Secondo Plinio il Vecchio, se la vitalitas dell’uomo risiede nelle ginocchia, la memoria risiede «nell’orecchio». Relegare questa affermazione nello sgabuzzino delle curiosità sarebbe un errore. «La memoria dell’orecchio» infatti ha l’immediato potere di svelarci uno dei fattori determinanti nella formazione della cultura romana, la parola parlata. I Romani cioè, e molte altre testimonianze ce lo confermano, sono ancora consapevoli del fatto che i costumi, le norme, i rituali, il ricordo del passato si tramandano (e si ricostruiscono) per via aurale. Come recita un proverbio ghanese «le cose antiche stanno nell’orecchio». A Roma non solo la produzione letteraria, ma anche il diritto, la pratica dello ius, viveva di «parola parlata», tanto che ai caratteri dell’alfabeto essa oppose spesso un’abile resistenza. E che dire del destino, concepito non come una «porzione» di vita (móira), alla maniera dei Greci, ma come una «parola», fatum, pronunziata dall’una o l’altra divinità? Perfino la norma indiscutibile e suprema che regolava il giusto e l’ingiusto, il lecito e l’illecito, ossia il fas, traeva origine da questa sfera: fas est, celebre e solenne locuzione romana, altro non significava se non «è parola che», proprio come molti secoli dopo si dirà «sta scritto che». Anche a Roma, però, la parola è soprattutto un evento sonoro. Come rivela la meravigliosa tessitura di «armonie foniche» che avvolgeva gli enunciati della produzione poetica, religiosa e giuridica di Roma arcaica: «armonie foniche», cosí le definí il grande Ferdinand de Saussure, che fu tra i primi ad appassionarsene.

(dal risvolto di copertina di: Maurizio Bettini, "Roma, città della parola", Einaudi, pp.424, €29)

Quando un antico romano tirava le orecchie voleva soltanto bloccare un ricordo
- di Giorgio Ieranò -

Se un antico romano vi tirasse le orecchie, sappiate che lo fa per una ragione ben precisa: vuole ricordarvi qualcosa. La sede della memoria diceva infatti Plinio il Vecchio, sta nell'orecchio. Lo dimostrano anche alcuni camei di età imperiale dove si vede una mano che afferra il lobo di un orecchio, mentre una scritta in greco chiarisce il concetto sottinteso al gesto: mnemòneue, «ricorda». Ma perché la memoria, secondo i romani, è collegata all'orecchio? Lo spiega Maurizio Bettini in questo libro affascinante, profondo e originale: perché le cose importanti, le cose fondamentali sono state a lungo affidate, anche nella società romana, soprattutto alla voce e all'ascolto; perché la memoria individuale e collettiva, anche quando l'uso della scrittura si era ormai diffuso, passava largamente attraverso l'oralità; perché ciò che veniva letto era talvolta più importante di ciò che veniva scritto. Soprattutto se si trattava di parole scandite in modo solenne e recitate in contesti che ne garantivano l'autorità. Prendiamo per esempio, suggerisce Bettini, la parola fatum: il fato, il destino. Per esprimere lo stesso concetto, i greci usavano il termine moira, che si riferisce letteralmente a qualcosa che è stato «diviso», alla parte assegnata a ciascuno. Fatum deriva invece dal verbo fari, che significa «dire». Il fatum, dunque, è propriamente «ciò che è stato detto», la sorte che è stata proclamata da Giove o dalle Parche, e quindi, nel momento stesso in cui viene pronunciata, è stabilita irrevocabilmente. Le Parche, le divinità del destino, si identificavano talvolta con gli stessi fata. Poi la parola scivola dal neutro plurale al femminile, dal generico all'individuale: «i Fata» diventano «le Fate», e ci ritroviamo così nel mondo delle fiabe. Ma anche fabula, termine con cui i romani traducevano il greco mythos, oppure fama, la parola pubblica che crea o distrugge la reputazione degli uomini sono connesse al verbo fari. Anche fabula e fama sono cose che vengono dette e che si trasmettono in modo quasi autonomo, indipendente dai singoli parlanti; sono le testimonianze di un discorso che, a volte, può essere anche considerato ingannevole, ma che ha una sua forza e una sua potenza intrinseca. Le fabulae e la fama vivono quasi di vita propria, si diffondono da sole, senza avere alle spalle un parlante preciso. Basti pensare alla rappresentazione che Virgilio ci offre della fama personificata, un mostro dalle mille orecchie e dalle mille bocche, la cui potenza si spande per il mondo. Fari, ci ricorda Bettini, rispetto ad altri verbi latini, come loui o dicere, designa un parlare autorevole: il parlare dell'indovino o del pontefice, ma anche del pretore. Il pretore applica la legge pronunciando parole solenni, è il suo dire che conferisce efficacia a una norma. Persino le famose XIII Tavole, le leggi della Roma arcaica, erano affidate al tramite della memoria: erano, come dice Cicerone, un carmen, una cantilena che i bambini imparavano a ripetere a scuola, come oggi si fa con le tabelline.

Bettini, maestro dell'antropologia applicata agli studi classici, ci invita così ancora una volta, con questo libro, a guardare gli antichi da una prospettiva inconsueta. Quando pensiamo al passaggio «dalla cultura orale alla civiltà della scrittura» (per citare il titolo italiano di un libro, giustamente famoso, di Eric Havelock) lo vediamo quasi come un passaggio senza ritorno: più o meno ai tempi di Platone, le cose importanti, come la poesia, non vengono più affidate alla recitazione ma consegnate alla forma del libro. I romani, quando, nel III secolo a.C., avviano la loro letteratura, con i loro Annali e le loro tragedie copiate dai greci, si inserirebbero così nel solco di un mondo che ha ormai dimenticato l'importanza dell'oralità. Ma Bettini dimostra che la questione è più complessa. E, scendendo fin nei minimi dettagli di quei versi saturni che caratterizzavano i testi della Roma arcaica, svela quanto essi siano legati al dire e al cantare, al fari e al carmen, e come il loro tessuto fonico sia quasi, per così dire, prevalente su quello dei significati. Del resto, ricorda Bettini, anche di Virgilio gli antichi sottolineavano un aspetto che a noi potrebbe sembrare secondario: la sua voce, quella voce con cui «dettava» i suoi versi, e ne riascoltava le sonorità.

Insomma, il libro di Bettini racconta come la parola parlata avesse ancora, nell'antica Roma, un'importanza maggiore di quanto spesso siamo portati a credere. Eppure non dovrebbe sembrarci così strano: anche noi viviamo in un mondo in cui, con l'avvento dei mass-media (radio e televisione), le parole dette sono diventate altrettanto importanti, se non addirittura più importanti, di quelle scritte. «Lo ha detto la Tv» non è frase molto diversa da «Lo racconta la Fama». In ogni caso, ricorda Bettini, il famoso verba volant, scripta manent è proverbio medievale e non antico. Per i romani le parole non volavano affatto, ma anzi restavano. MAgari con l'aiuto di una tirata d'orecchi.

- Giorgio Ieranò - Pubblicato su Tuttolibri del 23/4/2022 -

sabato 28 maggio 2022

Preludio …

La guerra di decomposizione del capitalismo russo
di Pablo Jiménez C.

La guerra in Ucraina sta svolgendo il ruolo di fungere da preludio al processo di implosione del capitalismo mondiale - attualmente al collasso in quella che è la sua piena crisi ecologica - che si sta svolgendo sotto forma di guerra economica e militare tra i soggetti moderni; vale a dire che si sta disintegrando al ritmo di quella stessa colonna sonora che lo aveva visto nascere con la rivoluzione economica e militare del XIV e XV secolo: guerra, sangue e violenza. Per comprendere appieno l'attuale processo di contrapposizione bellica e di competizione economica inter-imperialista, bisogna analizzarlo sotto la prospettiva della totalità del movimento storico. L'invasione militare da parte della Russia - l'ultimo caposaldo di quel regime di modernizzazione capitalista arretrata che era l'URSS - ai danni dell'Ucraina - una delle ex repubbliche sovietiche che all'epoca della Rivoluzione russa era stata integrata in quello Stato attraverso il processo di controrivoluzione bolscevica - implica e comprende diverse dimensioni economiche, politiche, culturali, sociali e storiche, che costituiscono una totalità complessa e diversificata, la quale mantiene il suo asse di unità in quello che è il movimento di produzione e riproduzione allargata del capitalismo globale. Considerato su larga scala, la situazione attuale del capitalismo russo comincia a chiudere un ciclo che si era aperto tra il 1923 e il 1927, con l'ascesa di Stalin alla guida dello Stato sovietico e con l'inizio del processo di accumulazione originale accelerata, che avrebbe portato l'URSS a diventare una superpotenza capitalistica mondiale tra il 1945 (con la vittoria sulla Germania nella moderna guerra industrializzata) e il 1949 (con la detonazione della prima bomba atomica sei mesi dopo la fondazione della NATO). A partire dal 1947 e fino alla sua dissoluzione ufficiale nel 1991, l'URSS si è costituita come polo di accumulazione del capitale globale, in competizione con le potenze occidentali per l'egemonia mondiale all'interno del modo di produzione capitalistico. Tuttavia, la sua arretratezza rispetto alle potenze capitalistiche occidentali è stata il fattore determinante della sua dissoluzione quando, con la ristrutturazione capitalistica degli anni Settanta, è apparsa sempre più incapace di competere nella sfera produttiva, con l'industria ancora una volta in ritardo rispetto alla delocalizzazione dei processi produttivi; rispetto all'intervento sul mercato mondiale di quei Paesi asiatici come Singapore e Hong Kong che hanno completamente compromesso le esportazioni industriali della Germania Est e della Cecoslovacchia; e rispetto alla rivoluzione microelettronica e alla massificazione dei consumi.

Robert Kurz, a differenza della maggior parte dei suoi contemporanei, aveva compreso che l'implosione del socialismo di caserma - una forma capitalistica di modernizzazione arretrata realizzata sotto la bandiera del marxismo - costituiva l'anticamera del collasso del processo di modernizzazione globale. Tuttavia, questo processo di collasso non doveva essere inteso come il crollo imminente e immediato del sistema capitalistico, ma come il fallimento già in atto di un modo di produzione storico che si va sempre più a scontrare con i propri limiti interni ed esterni. Pertanto, il crollo dell'URSS non ha comportato immediatamente il crollo del capitalismo russo in quanto tale, ma piuttosto la sua riorganizzazione e il suo adattamento alle nuove circostanze storiche create dal processo di globalizzazione capitalistica. L'ascesa di Putin al vertice gerarchico dello Stato russo, avvenuta nell'ultimo giorno dello scorso millennio, ha significato tanto la riorganizzazione del capitalismo russo quanto l'inizio del suo processo di decomposizione nel contesto di uno stato di eccezione permanente rispetto alla società. In realtà, il suo vero «merito» storico - se ragioniamo secondo l'ideologia della morte propria del soggetto illuminista - sarebbe invece proprio la stabilizzazione del capitalismo russo e la formazione di uno Stato imperialista arci-autoritario e indipendente - in grado di competere con l'Occidente - che ha interrotto i continui sforzi occidentali, volti a trasformare la Federazione Russa in una periferia asservita al neo-imperialismo occidentale. L'Occidente, che oggi sparge lacrime di coccodrillo sulla violazione della sovranità dell'Ucraina - con un governo di orientamento occidentale - e per i bombardamenti sulla popolazione civile, non ha avuto alcun riguardo per tale sovranità quando, nell'ambito di una strategia più ampia, ha cooperato per spodestare il governo filorusso di Yanukovych e separare il Paese dall'orbita geopolitica del capitalismo russo. In effetti, l'obiettivo fondamentale, e il punto focale dell'intervento occidentale in Ucraina nel 2014 - nel quale si evidenziavano le differenze tra gli Stati Uniti e l'UE, in particolare la Germania, sempre più indipendente - è stato quello di impedire la costituzione di un blocco di potere in grado di competere a lungo termine con le potenze atlantiche, una minaccia latente che avrebbe potuto frenare le ambizioni occidentali nello spazio post-sovietico e, cosa particolarmente preoccupante per la leadership di Washington, aprire la possibilità di un'alleanza economica e politica alternativa nello spazio orientale dell'UE. In tal modo, i piani dell'imperialismo russo per costruire un simile blocco, a est e nello spazio post-sovietico, vennero sabotati con il crollo del governo ucraino, lo scoppio di una guerra civile e la formazione di battaglioni apertamente neonazisti che negli ultimi anni, con il tacito sostegno dell'élite europea e il silenzio dei media occidentali, hanno terrorizzato la regione del Donbass. Questa offensiva dell'Occidente e la sua espansione geopolitica verso Est sono state accompagnate dalla crescente erosione del capitalismo russo e dei suoi satelliti, in quanto risultato della crisi di valorizzazione del capitalismo mondiale. Di fatto, l'élite del Cremlino si è trovata a essere sempre più sulla difensiva sulla scena internazionale. Nella regione del Caucaso, in Bielorussia e, quest'anno, in Kazakistan, il blocco di potere articolatosi dopo il crollo dell'Unione Sovietica attorno al rinnovato imperialismo russo, ha cominciato a mostrare crescenti segni di erosione e di logoramento. Pertanto, le ambizioni neo-imperiali dell'élite moscovita si sono viste coinvolte in un processo di erosione accelerato dalla crisi socio-ecologica, la quale ha iniziato a colpire prima i suoi satelliti. E nel 2020, la Bielorussia - governata autoritariamente da Lukashenko dal 1994 - ha cominciato a mostrare i segni di una stagnazione economica, rimanendo intrappolata in una situazione politica ed economica apparentemente irrisolvibile, innescata dallo scoppio di proteste di massa che hanno avuto un carattere simile a quelle che avevano scosso il capitalismo internazionale nel 2019. La risposta a questa crisi è stata una repressione spietata e un ulteriore avvicinamento di Lukashenko a Mosca, per rimanere al potere. Di conseguenza, il sogno neo-imperiale russo, di un blocco economico indipendente tra l'UE e la Cina - attraverso la "Nuova Via della Seta" -, ha iniziato a scontrarsi con la realtà economica e geopolitica dell'attuale crisi socio-ecologica. Nel contempo, il capitalismo russo avrebbe dovuto anche lottare con la forza delle armi e delle merci per poter mantenere il suo status di potenza centrale, cercando allo stesso tempo anche di arrestare il processo di disintegrazione della sua sfera di influenza. In realtà, l'élite russa, con Putin in testa, si trovava con le spalle al muro già prima dell'invasione dell'Ucraina, e la situazione è stata aggravata dallo scoppio di un grande incendio sociale in Kazakistan nei primi giorni di quest'anno.

A proposito di quest'ultimo punto, si potrebbe dire che la rivolta sociale in Kazakistan è stata l'anticamera diretta del processo bellico cui stiamo oggi assistendo. Ex repubblica sovietica, oggi satellite del regime del Cremlino, il Kazakistan concentra sul proprio territorio quelle che sono tutte le caratteristiche del deterioramento delle condizioni di vita che ben presto colpiranno anche le popolazioni delle potenze centrali del capitalismo globale. Il continuo aumento del costo della vita e l'impoverimento della popolazione, sommato all'aumento del prezzo del gas, sono stati il fattore che ha scatenato una rivolta con caratteristiche simili a quella che ha scosso la regione cilena nel 2019, con la differenza che questa ribellione è stata affogata nel sangue grazie alla politica terroristica congiunta del governo kazako e delle forze armate russe, senza che alla popolazione venisse offerto alcuno spettacolo democratico, come invece è stato quello che il capitalismo di tipo cileno ha intrapreso per contenere la dimensione sovversiva della rivolta. Il Kazakistan e la sua rivolta, oggi già dimenticata dall'opinione pubblica mondiale, e soprattutto dagli isterici antifascisti nazionali [*1] che inneggiano alla politica militare dell'imperialismo russo, ha portato a un rafforzamento dello stato di eccezione permanente in cui la popolazione vive fin dalla disintegrazione dell'URSS; e dove la classe dirigente di quel Paese sa consapevolmente che d'ora in poi dovrà rafforzare la già dura repressione quotidiana della popolazione per tentare di perpetuare il suo posto nel capitalismo mondiale: una lezione che i suoi superiori a Mosca dovranno presto applicare. In questo senso, la rivolta in Kazakistan indica sia l'impoverimento delle condizioni di vita su scala globale, che si fa sentire con particolare forza nei Paesi della periferia delle catene globali delle merci, sia le caratteristiche specifiche che questo processo assumerà nelle regioni della modernizzazione ritardata del XX secolo. Su quest'ultimo punto, va notato come la struttura autoritaria dei loro regimi sembri essere proprio una caratteristica di queste regioni, determinata dalla loro collocazione sia nel mercato capitalistico globale sia nella rete di relazioni competitive tra le potenze capitalistiche. In effetti, un regime democratico, in uno qualsiasi dei Paesi che ancora rimangono nella sfera di influenza della Russia, o nella Russia stessa, lascerebbe spazio all'intervento occidentale; un rischio che l'élite politica e imprenditoriale a capo di questo Stato - e le varie bande ad essa collegate - non possono permettersi.

Così, le rivolte in Kazakistan (2022) e in Bielorussia (2020-21) ci lasciano intravvedere il rafforzamento di un regime di costante repressione della popolazione, in un contesto storico nel quale le condizioni materiali di vita non potranno che peggiorare. Nel contesto della crisi socio-ecologica del tardo capitalismo avanzato, potremmo rovesciare una famosa frase del Capitale per dire che i Paesi periferici stanno semplicemente mostrando ai Paesi più avanzati l'immagine di quello che sarà anche il loro stesso futuro. L'acuirsi di questa crisi che si è aperta quest'anno in Kazakistan, è stata una manifestazione locale della crisi globale, ma simultaneamente anche un'anticipazione di quale sarà il futuro della sua metropoli imperiale con sede a Mosca, la quale, nell'ultimo decennio, si è mossa tra la competizione per conquistare un posto egemonico all'interno del capitalismo globale, attraverso la ricerca della formazione di un blocco euro-asiatico (soprattutto nel suo avvicinamento alla Germania), da una parte, e dall'altra l'avanzata della NATO verso est, attraverso l'integrazione delle ex repubbliche sovietiche in quell'organizzazione, insieme alla crisi socio-ecologica che ha colpito sotto forma di incendi boschivi massicci, disboscamento, scioglimento del permafrost, nonché calo dei consumi e inflazione nel mercato interno. Vale anche la pena di notare che il cambiamento climatico - secondo una dichiarazione dello stesso Putin - sta avanzando nella regione russa ben 2,5 volte più velocemente rispetto alla media globale; il che non significa che questo sia servito a cambiare la configurazione del capitalismo russo, ma piuttosto che la produzione di gas e carburante per l'esportazione ha subito un'accelerazione. Sembra essere questa la logica conseguenza dello sviluppo storico della modernizzazione capitalista: morire di miseria in mezzo alla ricchezza. Infatti, una delle catene più deboli del capitalismo globale, a causa della sua posizione arretrata rispetto all'Occidente, è allo stesso tempo anche una superpotenza militare, che ha ereditato un enorme arsenale di armi e un'infrastruttura di sviluppo scientifico e tecnologico; cosicché la perpetua continuità al potere di Putin costituisce sia un'eredità del capitalismo «concentrato», lasciato in eredità dal regime sovietico, sia una necessità imposta dal carattere assai specifico che gli impone il proprio processo storico di modernizzazione. È solo grazie a questo permanente e aperto stato di eccezione che il capitalismo russo ha potuto perpetuarsi fino ad oggi, e questa è anche una delle cause immediate per cui, in un momento decisivo della sua competizione con le potenze occidentali, e dell'avanzata della NATO verso est, l'invasione militare dell'Ucraina si è imposta come una necessità per la sopravvivenza del capitalismo russo, il quale vede sgretolarsi le proprie fondamenta economiche, politiche e sociali dentro ai propri confini e a quelli dei suoi alleati nello spazio post-sovietico.

La propaganda anti-russa che viene diffusa massicciamente da tutti i media occidentali, e che presenta Putin come il nuovo arci-nemico della democrazia, dimentica opportunamente che la Russia sta lottando per la sopravvivenza nel contesto dell'aggravarsi della crisi sistemica del capitalismo mondiale, per evitare di essere ridotta a periferia di quel neo-imperialismo occidentale che ha persistentemente silurato e bloccato l'ascesa della Russia a grande potenza. Il confronto bellico ed economico nella regione eurasiatica non è altro che l'espressione del processo di declino socio-economico indotto dalla crisi socio-ecologica del capitalismo mondiale; è una lotta che si svolge all'interno di una nave che sta affondando. Così, nel bel mezzo di quella che è una crisi generalizzata, l'Occidente democratico vede in che modo - nonostante tutti gli sforzi che ha fatto negli ultimi decenni per sabotare la rinascita di una superpotenza nell'Europa orientale - la Russia si stia ergendo come potenza militare ed economica in grado di competere con l'Occidente utilizzando gli stessi metodi di espansione imperialista. Questo processo segna la fine della politica tedesca - il Paese che si era costituito come nucleo egemonico dell'Europa occidentale - di contenimento e inclusione del capitalismo russo nella struttura economica dell'Unione Europea, poiché d'ora in poi dovrà affrontare la contraddizione, posta dall'intero sviluppo economico degli ultimi decenni, in cui la Russia ha occupato una posizione periferica come fornitore di materie prime ed energia, mentre si è fatto di tutto per minimizzare la sua influenza nell'Europa orientale e nello spazio post-sovietico.

D'ora in poi, le potenze europee dovranno muoversi tra la minaccia latente di un confronto militare con una superpotenza nucleare (che è stata superata di decenni in quello che è lo sviluppo scientifico e tecnologico delle armi ipersoniche; armi che hanno sconvolto l'equilibrio di potere de facto tra le potenze nucleari) e la necessità delle loro forniture energetiche, principalmente petrolio e gas. Il neo-zar Vladimir Putin e la sua nidiata di scagnozzi hanno capito perfettamente questa situazione, e nella loro falsa coscienza la sfrutteranno fino in fondo: persecuzioni, incarcerazioni, leggi dittatoriali e polizia politica dovranno sedare i disordini sociali che stanno aumentando a causa della guerra e delle sanzioni economiche dell'Occidente (che faranno soffrire la classe operaia e la classe media in declino), e allo stesso tempo continuare l'avanzata militare fino alla realizzazione dei suoi obiettivi strategici, sapendo di avere alla gola la Germania e il resto dell'Europa, con le loro armi ipersoniche a portata di mano. In altre parole, sapranno come affrontare la fame del popolo russo, mettendo a tacere le sue lamentele con il manganello elettrico, ma non verrà fermata l'avanzata, considerando che possono sempre chiudere il rubinetto del gas. In effetti, è solo in questo senso che Putin è stato veramente sincero, cioè quando ha sbattuto in faccia ai genocidi occidentali quella che è la natura comune, sottolineando che la Russia fa parte del sistema commerciale mondiale, e non farà mai nulla per minare quel sistema di cui fa parte, quindi continuerà le sue azioni militari per ottenere con la forza le sue pretese sull'Ucraina e, a tal fine, accetterà anche il peso delle sanzioni che le sono state imposte. Dopo tutto, ciò che la Russia rischia nel lungo periodo, e per cui sta combattendo oggi, nonostante le tristi illusioni della sinistra nostrana, è il suo posto al tavolo della distribuzione della massa globale di plusvalore.
Del resto, con l'arrivo nei centri stessi del capitalismo globale di una crisi segnata dall'aumento del costo della vita, dall'ascesa della nuova destra e dai post-fascismi [*2] emersi con le crisi economiche e con la rottura della promessa di una classe media universale, le potenze della NATO stanno abbandonando sempre più la loro retorica liberale a favore di una glorificazione della guerra come risposta alla crisi, e i media ufficiali stanno già iniziando ad alludere al fatto che una guerra con la Russia non solo migliorerà l'economia, ma potrebbe persino avere un impatto sulla riduzione del riscaldamento globale.
Inoltre, nel breve termine, l'élite capitalista statunitense ha già raggiunto un obiettivo strategico, riuscendo ad aprire una breccia tra Germania e Russia, evitando così momentaneamente lo spettro di un'alleanza eurasiatica che, insieme alla «Nuova Via della Seta» cinese, avrebbe aggiunto un ulteriore fattore di erosione a quella che è già la sua indebolita egemonia mondiale. Pertanto, l'attuale processo consentirà agli Stati Uniti di consolidare un'alleanza oceanica che si estende dall'Atlantico (NATO) al Pacifico (Giappone, Corea del Sud e Taiwan), e che è apertamente diretta contro l'ascesa della Cina ai vertici del capitalismo mondiale.
In questo modo possiamo dire che l'invasione dell'Ucraina segna l'inizio di una nuova era, in cui le potenze centrali del capitalismo mondiale - raggruppate in campi imperialisti ben definiti, ma con interessi indipendenti e contraddittori tra le potenze che li compongono - saranno sempre più spinte al conflitto armato, soprattutto ibrido, come modo per nascondere le conseguenze di una crisi generalizzata che non può essere risolta in questo modo, ma che - tra l'aggravarsi della crisi socio-ecologica e la guerra tra le potenze - ci fa già intravvedere il declino storico del capitalismo.
Di fatto, la guerra come strumento strategico di sottomissione politica diventerà d'ora in poi sempre più attraente per gli Stati che navigano nella crisi del tardo capitalismo avanzato, i quali ora iniziano senza esitazione a muovere truppe, propaganda e masse per perseguire i loro obiettivi politici ed economici.
La pulsione di morte che si impadronisce dei Paesi in conflitto, questa fascinazione per la guerra e per la morte che investe diversi settori della popolazione, soprattutto ultranazionalisti e neo-reazionari di diverse tendenze - anche quelle che sventolano bandiere antifasciste - deve essere intesa come un'ideologia di morte che esprime il grido universale di disperazione di un'umanità che si sta autodistruggendo in quella che è la sua forma di socializzazione capitalistica globale. Coloro che temevano il crollo della civiltà non devono più avere dubbi, perché la barbarie è già qui e, a partire da ora, le forze emancipatrici devono riunirsi intorno alla critica radicale di queste nuove condizioni, e alla promozione di un nuovo paradigma di emancipazione sociale che sia all'altezza tanto della catastrofe che stiamo vivendo quanto delle possibilità latenti nella scienza e nella tecnologia del capitalismo del XXI secolo [*3].

- Pablo Jiménez C. - 11/5/2022 -

NOTE:

[*1] - In Cile esiste una lunga tradizione di antifascismo e antimperialismo, che oggi convergono in una sorta di critica tronca del capitalismo. Così, questo antifascismo spazia da gruppi di ultra-sinistra legati all'anarchismo e al leninismo nelle loro diverse tendenze, e arriva alle varianti progressiste della sinistra che si battono istericamente contro il "fascismo" di Kast  (l'ex candidato alle presidenziali), ma che rimangono sospettosamente in silenzio quando l'attuale presidente, che si suppone "antifascista", invia i militari a reprimere violentemente le comunità mapuche, o quando gli stessi militari maltrattano violentemente gli immigrati che fuggono dal collasso sociale in Venezuela.

[*2] -  Quando parlo di post-fascismo, mi riferisco in particolare ai movimenti neofascisti che si sono diffusi in diverse parti del mondo, come nel caso dell'Ucraina o degli Stati Uniti, che, pur avendo un legame formale e simbolico con il fascismo "originario" del XX secolo, presentano tuttavia caratteristiche specificamente postmoderne, che reagiscono allo scatenarsi della pulsione di morte della competizione e alle attuali condizioni di crisi della modernizzazione capitalistica. Per questo motivo ho dato loro un nome diverso dal fascismo in quanto tale, poiché si tratta di un fenomeno diverso.

[*3] -  Per chiarire quest'ultima affermazione, è importante sottolineare che attualmente esistono diversi mezzi materiali che ci permetterebbero di eliminare rapidamente diversi problemi sociali che derivano direttamente dalle dinamiche capitalistiche: fame, malattie curabili e così via. Tuttavia, non possiamo adottare acriticamente la scienza e la tecnologia, al contrario, dobbiamo sottolineare il loro legame diretto con la forma di valore e, collegato a questo, il carattere distruttivo e la base per l'autodistruzione e la distruzione che le sottende.

fonte: Nec plus ultra. Crítica despiadada de todo lo existente

venerdì 27 maggio 2022

Estati sempre più emozionanti ...

Regno del valore e distruzione del mondo
Sandrine Aumercier, Benoît Bohy-Bunel e Clément Homs a nome del Comitato di Redazione del Collectif Jaggernaut -

«La teoria non conosce altra "forza costruttiva" se non quella che consiste nell'illuminare, servendosi del riflesso della catastrofe più recente, i contorni della preistoria devastata dal fuoco, al fine di intravvedere ciò che, in essa, corrisponde a questo disastro.» ( da Theodor W. Adorno, Société : Intégration, Désintégration, p. 60 )

Lo spettro che ossessiona il mondo moderno ci porta sempre meno a credere che possa esserci un futuro radicalmente diverso da una devastazione irreversibile. In tal senso, l'estate 2021 non è stata meno emozionante degli anni precedenti: devastanti inondazioni in Germania, Belgio, a Londra e in Giappone; in Canada (un luogo simile alla Bretagna in tempi normali) le temperature sono arrivate a 49,6°C, a 48°C in Siberia, a 50°C in Iraq; Nuova Delhi ha dovuto affrontare quella che è stata la peggiore ondata di calore negli ultimi dieci anni; il Madagascar sta ancora soffrendo una grave carestia a causa della siccità; La California, la Siberia, la Turchia e Cipro sono in fiamme; il Golfo del Messico è coperto da una gigantesca fuga di gas; la città di Jacobabad in Pakistan, insieme a Ras Al Khaimah nel Golfo Persico vengono ora considerate inabitabili a causa del riscaldamento globale; e più vicino a noi, gli incendi hanno inghiottito la regione del Var. Il riscaldamento globale, addirittura si intensifica e si consolida grazie al  rilascio di una maggior quantità di gas serra, a causa dello scioglimento del permafrost. Attraverso le fonti di ricchezza sociale astratta aperte dal capitale, ora scaturisce e scorre non solo un'enorme quantità di merci, ma anche la sua contropartita: una quantità inesauribile di inquinamento e di nocività. Il regno del valore - il quale non è altro che la distruzione della socialità - rimette in discussione le basi stesse dell'esistenza sulla terra in generale, e dell'umanità in particolare, la quale ora si trova così di fronte alla necessità assoluta di abolire la forma sociale capitalista, pena la propria scomparsa. È fin troppo evidente la contraddizione tra gli imperativi sempre più aggressivi della crescita economica, da un lato, e la limitatezza delle risorse materiali e l'incapacità dell'ambiente naturale di assorbire i rifiuti, insieme all'inquinamento prodotto dalla civiltà guidata dal movimento del capitale, dall'altro lato. Certo, è vero che la negazione della crisi ecologica è fortunatamente quasi scomparsa in tutto il mondo, e che da tempo non mancano più gli ammonimenti e gli allarmi. Nessuno che abbia un minimo di credibilità scientifica o intellettuale, mette in dubbio il fatto che il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità e l'esaurimento delle risorse naturali ci stiano portando verso una situazione catastrofica. E nessuno mette in dubbio il fatto che il margine di manovra per un cambiamento strutturale che mitighi il corso della catastrofe sia estremamente ridotto. Ma mentre fallisce una conferenza sul clima dopo l'altra, le emissioni globali di gas a effetto serra continuano a crescere senza sosta, con sullo sfondo un imperativo di crescita che non è mutato. È noto, ad esempio, che - a eccezione del calo che c'è stato durante l'anno di recessione del 2009, e più recentemente durante i mesi di lockdown - le emissioni globali di CO2 continuano ad aumentare in maniera inesorabile, e si prevede che già nel 2023  verrà raggiunto un nuovo record mondiale. I risultati ottenuti, sui mercati del carbonio, nella lotta contro il cambiamento climatico non potrebbero essere peggiori.  Tra il 1995 e il 2020, dalla COP3 alla COP24 (Conferenze di Parti delle Nazioni Unite), le emissioni globali di CO2 sono aumentate di oltre il 60%. L'aporia sistemica, implicita in una protezione del clima che non mette in discussione il capitalismo, è stata involontariamente dichiarata dal ministro verde-presidente del Baden-Württemberg, Winfried Kretschmann, nel marzo 2021, allorché ha confessato alla stampa, con sgomento, che «la critica secondo cui, noi siamo troppo lenti è vera. E che dovremmo cambiare è altrettanto vero. Vorrei solo sapere come fare.» Quindi, sebbene vi sia un accordo sempre maggiore sulla diagnosi degli scienziati, e una consapevolezza sempre maggiore della gravità della minaccia, vi è anche un diffuso sgomento e disaccordo circa quale sia il significato storico della crisi socio-ecologica. Le accese battaglie politiche su come rispondere ad essa, riflettono in realtà una falsa unanimità e un persistente fallimento nell'identificare il principio operativo di questa traiettoria. In questi ultimi anni, per spiegare tale situazione, il termine Antropocene è diventato il principale concetto ambientale, particolarmente popolare nelle scienze naturali e sociali. Lanciato nel 2002 dal chimico premio Nobel Paul Crutzen, il concetto sostiene di cogliere l'alterazione globale dei cicli naturali del mondo, iniziata con l'invenzione della macchina a vapore durante la prima rivoluzione industriale, e designa una nuova «epoca geologica dominata dall'uomo», la quale segue l'Olocene, che a sua volta è seguito all'ultima grande era glaciale (il Pleistocene), circa 11.500 anni fa. In questo Antropocene, è l'«essere umano» - anthropos - ad aver preso il controllo dei cicli biogeochimici del pianeta, diventando pertanto una forza geofisica. Avrebbe iniziato a trasformare la biosfera fino al punto di arrivare a minacciare la capacità del pianeta di dare continuità alla storia della vita. L'alterazione del ciclo del carbonio, del ciclo dell'azoto e la massiccia erosione della biodiversità stanno portando a quelli che sono oramai dei veri e propri punti di svolta planetari irreversibili, che vengono quantificati da degli eserciti di scienziati, e vengono regolarmente annunciati con grande clamore da tutti i principali media, ipnotizzando alcuni e rendendo castrofisti gli altri, mentre nel frattempo prosegue  invariata la medesima traiettoria. Nutriti dalla Collassologia, alcuni strati urbani e privilegiati della popolazione, oggi soffrono di un'«eco-ansia» - o «solastalgia» - che viene indecentemente confusa con l'angoscia delle popolazioni indigene i cui spazi vitali vengono devastati. La diffusione di questi concetti va a completare quello che è un quadro di impotenza e di depoliticizzazione, dove le nuove ansie devono essere trattate alla stregua dei disturbi comportamentali. In breve, basterebbe solamente «imparare a convivere» e praticare la «resilienza».

Ma se l'«epoca geologica dominata dall'uomo» ci porta a una situazione in cui l'esistenza umana potrebbe essere compromessa, allora ciò vuol dire che nella visione di questo dominio della natura ridotta a un «substrato dominato» c'è qualcosa di assai problematico. Dopo tutto, bisogna che ci sia qualcosa di inumano, o di «oggettivante», in questo tipo di dominio da parte dell'«essere umano», il cui risultato potrebbe essere proprio l'estinzione degli esseri umani. In ultima analisi, l'Antropocene si rivela come una rottura non pianificata, non voluta, non controllata, vale a dire, come l'effetto collaterale di un «metabolismo sociale con la natura» (Marx) che è stato messo in moto dal capitalismo industriale e che è sfuggito di mano, andando fuori controllo. Questo può essere facilmente illustrato a partire da degli esempi. La combustione di carburanti fossili, per i sistemi industriali e di trasporto, non avrebbe potuto fare altro che provocare immancabilmente la perturbazione del ciclo del carbonio. L'estrazione massiccia di carbone ha avuto inizio in Inghilterra, durante la rivoluzione industriale, in modo tale che, grazie a questa nuova fonte di energia disponibile, le industrie potessero venire spostate, rispetto alle dighe, in modo da essere dislocate nelle città, dove si poteva trovare manodopera a buon mercato. Non c'era alcuna intenzione di manipolare il ciclo del carbonio, o provocare consapevolmente il riscaldamento climatico. E tuttavia, il risultato è stato che nel XXI secolo la concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera ha già superato il limite di sicurezza di 350 ppm, il cui rispetto è indispensabile per la sostenibilità a lungo termine della vita umana. Perfino lo stesso ciclo dell'azoto è stato interrotto dall'industrializzazione dell'agricoltura e dalla produzione di fertilizzanti; industrializzazione che comporta la fissazione dell'azoto atmosferico per mezzo del processo Haber-Bosch. Tuttavia, il limite annuale, di 62 milioni di tonnellate di azoto che può essere rimosso dall'atmosfera, è già stato ampiamente superato, arrivando nel 2014 a 150 milioni di tonnellate. Nessuno ha pianificato tutto questo in maniera cosciente, non più di quanto sia stata pianificata l'eutrofizzazione dei laghi o il collasso degli ecosistemi. La stessa cosa sta avvenendo per ciò che riguarda la perdita di biodiversità, l'interruzione del ciclo del fosforo o l'acidificazione degli oceani. Da questo punto di vista, l'«epoca geologica dominata dall'uomo» assomiglia molto di più a un prodotto del caso e dell'incoscienza, piuttosto che allo sviluppo di una capacità di padroneggiare i cicli bio-geofisici planetari, malgrado i riferimenti che Crutzen fa a Vernadsky e a Teilhard de Chardin, i quali invece miravano piuttosto ad «aumentare la coscienza e il pensiero» e «il mondo del pensiero» (la noosfera). «Non sanno cosa stanno facendo, ma lo stanno facendo»: è questo ciò che Marx dice riguardo l'attività sociale feticizzata mediata dalla merce, in cui va vista la chiave per una comprensione critica dell'Antropocene. Nondimeno, parlare di casualità e di incoscienza non vuol certo dire che la questione della responsabilità sia stata superata ed eliminata. Chi è questo anthropos, questo essere umano che fa capolino nel discorso sull'Antropocene? Si tratta della specie umana in generale, in maniera indifferenziata, di quell'umanità che non viene solo presa nel suo insieme (che non esiste), ma che è anche astratta da tutte le determinazioni storiche concrete? Questa immensa vaghezza concettuale, consente di giustificare la geoingegneria climatica - sostenuta da Paul Crutzen - o anche le ideologie dello sviluppo sostenibile, dell'economia circolare che dà la caccia ai rifiuti particolari, oppure il neo-malthusianesimo, il quale vede la causa del problema nella demografia dei Paesi periferici. Così facendo, ecco che l'anthropos finisce per essere colui che distrugge, ma anche allo stesso tempo colui che ripara; in modo da conservare così la doppia figura del progresso, prometeica e demoniaca, ereditata dalla prima era industriale e dall'Illuminismo. Affogando la responsabilità in un'umanità che in realtà è di fatto responsabile in maniera disuguale, così come ne rimane colpita in maniera altrettanto disuguale, la nozione di Antropocene appare chiaramente scorretta, e dà luogo a numerose discussioni circa le «soglie» storiche, oltre che a dei negoziati terminologici, nelle quali ciascuna parte tenta di dare un nome tanto all'agente quanto al paziente del disastro. Donna Haraway, per esempio, alla colonizzazione delle Americhe sostituisce il termine «Plantacionocene», come marcatore di questa nuova epoca e, più recentemente, «Chtulucene» - per invitarci ad «abitare il disordine», cioè a vivere e invecchiare nelle rovine: «siamo tutti compostaggio», sostiene Haraway. Per estetizzare la catastrofe, non c'è modo migliore di quello di diluire la responsabilità di questa situazione recente nella grande storia batterica del pianeta Terra. Tutti questi tentativi concettuali non colgono l'occasione di problematizzare l'origine logica della trasformazione e del soggetto che ne è portatore.

Va in un altro modo con il termine «Capitalocene», proposto da Andréas Malm o da Jason Moore, che cerca di spiegare i limiti del concetto di antropocene? La nozione di «capitale fossile», sviluppata da Malm a partire dai materiali storici che evidenziano la coincidenza storica tra l'ascesa del capitalismo industriale e quella dei combustibili fossili, porta alla curiosa immagine di un Antropocene il cui agente sarebbero i combustibili fossili, e i cui responsabili sarebbero coloro che, tutt'oggi, continuano a difendere e a impiegare questi combustibili. Bisognerebbe, pertanto - è ovvio - metterli fuori legge. In linea generale, c'è una parte del marxismo dissanguato che negli ultimi vent'anni si è riciclata in un eco-socialismo che non ha mai abbandonato il dogma dello «sviluppo delle forze produttive»: ma ora è necessario buttarsi a capofitto nella produzione di pannelli solari e mulini a vento, e strapparne così la proprietà dalle grinfie dei capitalisti aggrappati alle loro ciminiere di carbone e ai loro pozzi e oleodotti. Ne deriva una concezione, non solo «leninista» ma anche ... lenitiva delle «energie rinnovabili». Ed è proprio da loro che Malm e gli eco-socialisti si aspettano la salvezza ecologica; in perfetta coerenza con la retorica ufficiale che ci promette un futuro verde e sostenibile, senza dire nulla a proposito dell'intensificazione estrattiva e della crescente devastazione mineraria che essa comporta. Nel frattempo, Total Energies sta giocando su entrambi i lati della barricata - verde e fossile - mentre Joe Biden, celebrato per la sua promessa di ripristinare gli accordi di Parigi, firma più permessi di trivellazione petrolifera in un anno di quanto ne abbia fatto Donald Trump in quattro anni. È quindi sempre più documentato, fino a che punto le energie rinnovabili non solo sono fonte di vera e propria devastazione, ma anche il modo in cui esse si aggiungono, semplicemente, alla traiettoria globale, senza modificarla minimamente. Se non si vuole sdoganare il fatto che le «élite» siano coinvolte in questo doppio livello, ci si può solo interrogare sulla natura di questa cieca compulsione, la quale non conosce interruzioni e che sembra essere inesorabilmente destinata a spedirci tutti all'inferno, nel mentre che i giovani, simultaneamente, disgustati dall'inerzia del sistema, cercano di fare pressione sul dibattito parlamentare, con il rischio di rafforzare ulteriormente la gestione tecnica e l'adattamento al disastro. Ragion per cui sono molti - e non solo gli esperti - quelli convinti che un felice mix di tecnocrazia, de-carbonizzazione dell'economia, geoingegneria, transizione energetica, piccoli gesti ecologici, buona volontà e innovazione commerciale possa essere sufficiente a realizzare la «transizione» verso un nuovo capitalismo verde. In realtà, tutto ciò si sta mettendo sulla strada che va verso uno stato di eccezione permanente in cui tutti saranno chiamati a dare il loro contributo al prolungamento dell'agonia. E in tutto questo, le sofferenze e i compromessi del soggetto ordinario non sono meno determinanti di quelli dei decisori, i quali saranno incaricati dalla forma politica moderna di rappresentare il loro mandato fondamentale: la crescita. Tutti i portatori di funzione sono strettamente accomunati dalla medesima relazione sociale, rispetto alla quale sono impegnati a non sapere nulla, e della quale si incolpano l'un l'altro. In questo modo, con l'avanzare della crisi ecologica, l'angoscia si sta impossessando anche di coloro che, fino a poco tempo fa, negavano la realtà del cambiamento climatico: ormai, a fronte di un elettorato disperato, tutto l'intero spettro politico è ora ossessionato e innamorato dell'«urgenza climatica». Perfino l'estrema destra ha cominciato ad assimilare l'ecologia tra i suoi temi preferiti.  Neo-malthusianesimo, darwinismo sociale, difesa armata del territorio e dell'identità nazionale, survivalismo, atti di terrorismo a sfondo ecologico: tutte queste tendenze in ascesa, segnalano la neo-fascistizzazione di una frangia della società che costituisce solo la punta di diamante di quelle che ora sono tendenze politiche trasversali. L'erezione di muri e l'abbandono al loro destino delle popolazioni superflue, a livello globale non meritano più alcuna giustificazione, e nell'indifferenza stanno diventando un luogo comune.
Nel frattempo, vediamo che alcuni sono impegnati a predicare valori umanistici e a fare campagne per il riconoscimento del crimine di ecocidio, o a favore dei «diritti» che la forma giuridica borghese dovrebbe concedere alle entità naturali. Il biocentrismo che fino a poco tempo fa caratterizzava l'ecologia profonda, è diventato in pochi anni il cavallo di battaglia di un'ecologia anti-specista, talvolta associata al veganismo, innamorata della conservazione e del ripristino della natura. Una natura trasformata in spettacolo, dove gli occupanti indigeni vengono evacuati o vessati; una natura spesso assai poco compresa dai suoi promotori, come dimostrano, tra gli altri, Charles Stepanoff e Guillaume Blanc nelle loro opere recenti. Questo, dal momento che l'ontologia naturalista moderna rimane inseparabile dal capitalismo, e può quindi essere trovata solo nelle sue ideologie affermative di crisi. Il concetto moderno di «natura» si trova a essere interamente plasmato dalla forma-merce e dalla forma-soggetto borghese. Le scienze naturali moderne - seguendo Immanuel Kant - avevano presupposto un soggetto puramente formale, identico a sé stesso, in grado di sintetizzare la diversità dell'intuizione sensibile. Questo soggetto astratto rimaneva indipendente dall'empiria, e poneva la natura come se essa fosse un'esteriorità radicale che doveva essere sottoposta a giudizio. Questa soggettivazione moderna istituisce una dualità soggetto-oggetto, insieme a una natura puramente separata che non sono indipendenti dal processo di valorizzazione del valore. Istituisce inoltre un tempo astratto e uno spazio omogeneo che devono essere quantificati per poter essere controllati. La «natura» moderna è stata sottoposta a una logica di matematizzazione, cosa che ha permesso, tra l'altro, di ridurre tutto il non umano allo status di risorsa sfruttabile, in quanto componente del capitale costante. Allo stesso modo, il tempo di lavoro deve essere misurato, e la sua qualità concreta dev'essere negata, ai fini della sua gestione razionale e dell'estrazione del relativo plusvalore. Ciò che accomuna le scienze naturali e le scienze economiche, è la loro tendenza a quantificare sistematicamente ciò che è eterogeneo rispetto all'ordine del quantitativo: esse sono incapaci di cogliere ciò che rimane non identico alle forme omogenee della razionalità e della produzione moderna, vale a dire, la sofferenza del vivente senziente e consapevole, il contenuto qualitativo della forma astratta.

Analogamente, il capitale variabile e quello costante, anch'essi costituiti da individui vivi e sofferenti, vengono ridotti al rango di risorse valorizzabili e quantificabili, in un processo di produzione che li naturalizza e li reifica. Sono proprio queste stesse tecnologie ecologicamente distruttive a rendere sempre più superfluo il lavoro vivo. Nel momento stesso in cui il capitale fa del tempo di lavoro la fonte e la misura di tutta la ricchezza, esso tende anche a ridurre questo tempo di lavoro produttivo a un minimo sempre più precario. È una tale contraddizione a essere al centro di ogni soggetto del capitale. L'orrore del capitalismo risiede in ultima analisi nel fatto che non c'è nessuno che siede dietro il sipario e che tira le fila. Nessuno controlla il movimento di valorizzazione del capitale su scala globale: esso avviene attraverso il mercato, come processo a partire dal quale il denaro deve diventare altro e più denaro attraverso la produzione di merci e per mezzo del loro consumo. Perfino i capitalisti più potenti sono soggetti a questa coercizione; riassunta da Karl Marx con il termine feticismo sociale. La responsabilità del disastro, pertanto non può essere intesa solo in termini di quella che è l'identità di classe degli individui, ma piuttosto in termini di identificazione più o meno consensuale che ciascuno pone in atto con la forma di vita capitalistica. Il capitalismo mobilita e utilizza le scienze naturali per poter così stabilire un soggetto solipsistico e narcisistico. il quale deve rendersi «padrone e possessore della natura» (Cartesio). Le moderne scienze naturali confezionano e realizzano tecnicamente i loro esperimenti, a partire dalla configurazione di una natura che possa essere omogenea al calcolo matematico. Quella che viene tematizzata, non è affatto una «natura» disordinata e qualitativa, ma una natura tecnicamente elaborata, sterilizzata, che viene assegnata a un soggetto astratto identico a sé stesso. Allo stesso modo in cui le tecniche implicano, nella produzione, una reale sussunzione del lavoro concreto sotto il lavoro astratto, così avviene anche una sempre più reale sussunzione della natura sotto il valore. È questo il modo in cui, la logica della concorrenza e la logica dell'estrazione del plusvalore relativo, spingono sempre più lontano l'automazione della produzione, fino alla recente rivoluzione microelettronica (1970-80), fino a distruggere sempre più il pianeta, ma anche fino a condannare il capitalismo a un processo irreversibile di de-sostanzializzazione del valore. Il limite esterno (la crisi ecologica) e quello interno (la crisi economica) del capitalismo sono sottilmente intrecciati, come mostra il «frammento sulle macchine» dei Grundrisse. Di conseguenza, il superamento del capitalismo non potrà essere realizzato a partire da una scienza «positiva», e neppure dall'economia. Un pensiero critico che rimetta in discussione l'egemonia del calcolo e della quantità, e che tematizzi le sofferenze e i desideri dei soggetti, visti nella loro dimensione irriducibile, può essere anche in grado di criticare il rovesciamento feticista-mercantile tra astratto e concreto, tra mezzi e fini.

Il soggetto solipsistico che porta strutturalmente avanti il progetto naturalista-capitalista, è il soggetto maschile, occidentale, bianco. È la scienza naturale, che costruisce tecnicamente una natura quantificabile modellata dalla forma-merce, che consolida, come prima cosa, la dissociazione sessuale. La natura «informe» e «caotica», che deve essere inquadrata e disciplinata, è stata associata (fin da Bacone) al femminile. Come viene spiegato da Roswitha Scholz (1992), la dissociazione forma-contenuto è una dissociazione specifica relativa al genere. In seno alla moderna dissociazione sessuale, la forma-valore rimanda al soggetto della concorrenza competitiva, razionale e illuminista, il quale è tipicamente un soggetto maschile, laddove invece il contenuto irrazionale, che può essere riferito alla sensibilità, alla cura, alla sfera riproduttiva e all'erotismo, viene assegnato al (non) soggetto femminile. Questa struttura dissociativa appare essere inseparabile dalla moderna economia disincarnata, la quale separa funzionalmente le sfere della produzione di valore (maschile) e della riproduzione privata (femminile). Il dominio della natura esterna è inseparabile dal dominio di una natura interna, femminilizzata, dichiarata senziente, informe e irrazionale. Analogamente, non si suppone che gli indigeni abbiano quella razionalità critica che ha trionfato con Kant e l'Illuminismo. Il naturalismo  viene quindi proposto come una vera e propria unità escludente, e come una totalità spezzata. Pertanto oggi è impossibile distinguere in maniera rigorosa tra la storia del sovra-sfruttamento coloniale e le questioni legate al dominio della natura «esterna», dal momento che si tratta del medesimo soggetto astratto che, nella modernità, ha sviluppato questo naturalismo capitalista multidimensionale. Quindi, oggi, la critica alla distruzione di ciò che è vivente presuppone anche la critica radicale delle scienze positive oltre che delle tecniche moderne, ma anche la comprensione di quella che appare come un'intima connessione tra crisi ecologica, sociale ed economica. E presuppone anche una critica del patriarcato produttore di merci, insieme a quella di un razzismo strutturale e naturalizzante. Al giorno d'oggi, le specializzazioni e le compartimentazioni impediscono di vedere questi fenomeni multidimensionali. Tali specializzazioni teoriche sono a immagine della divisione capitalistica del lavoro, e sono esse stesse alienate di per sé. Come scrive Kurz nel 1° capitolo de La sostanza del capitale, a essere totalitaria non è la critica della totalità. E ciò perché il valore distruttivo è rappresentato proprio da questa totalità (spezzata), ed è questa totalità che deve essere assolutamente criticata. La critica della totalità capitalista non mira a postulare questa totalità a scapito del non-identico - come le rimprovera il pensiero postmoderno - ma pretende di elevare la critica all'altezza del totalitarismo della forma. Una «critica» sparpagliata o frammentaria riproduce quelle separazioni e quelle compartimentazioni delle scienze positive, le quali si mantengono entro i limiti stabiliti dalla moderna divisione del lavoro. La critica del capitalismo non può adottare la prospettiva naturalista e vitalista che è alla base della modernità. Non mira a salvare una «natura» idealizzata, e neppure un'«umanità» idealizzata come specie, e ancor meno un capitalismo che concepisce sé stesso come se fosse una forza della natura. Non può allearsi con le diverse varianti politiche di questo naturalismo, le cui contraddizioni attualmente tendono a essere superate per mezzo di una gestione sempre più totalitaria della vita, della salute e della popolazione. Questa critica si basa invece su un'epistemologia della natura che tiene conto del fatto che possiamo parlarne solo in seconda battuta, e che quindi possiamo difendere la natura solo difendendo la possibilità di una società veramente umana. Stabilire in maniera critica le condizioni per l'emancipazione della società, è l'unica via per un'ecologia radicale, anche se di fronte all'urgenza e all'aumento delle catastrofi molti saranno tentati di rifugiarsi nelle ideologie della crisi di cui abbiamo appena mostrato alcuni scorci. La critica epistemologica del concetto di natura, rappresenta una deviazione teorica che non è una vana raffinatezza, e non è neppure «tempo perso a detrimento dell'urgenza dell'azione», ma prende piuttosto in considerazione lo statuto della «seconda natura». Inoltre, mira ad articolare la critica marxiana dell'economia politica insieme a una critica delle tecnologie, delle scienze e delle forze produttive moderne.

Sandrine Aumercier, Benoît Bohy-Bunel e Clément Homs a nome del Comitato di Redazione del Collectif Jaggernaut -
- Editoriale della Revue Jaggernaut n°4, Crise & Critique, 2022, 16 euros. -
Disponible en librairie (France, Suisse, Belgique) ou en livraison sur le site Crise & Critique

giovedì 26 maggio 2022

Pragmatici e no !!???

La linea rossa
di Slavoj Žižek

Nelle ultime settimane l'opinione pubblica occidentale è stata ossessionata dalla domanda: «Cosa passa per la testa di Vladimir Putin?» Gli esperti occidentali si chiedono se le persone che lo circondano stanno dicendo tutta la verità. È malato o sta impazzendo? Lo stiamo spingendo in un angolo dove non vedrà altra via d'uscita se non quella di accelerare il conflitto verso una guerra totale?

Dobbiamo smetterla con questa ossessione della linea rossa, con questa incessante ricerca del giusto equilibrio tra il sostegno all'Ucraina e l'evitare la guerra totale. La «linea rossa» non è un dato oggettivo: Vladimir Putin stesso la smentisce continuamente e noi, con le nostre reazioni alle azioni della Russia, contribuiamo a che lo faccia. Una domanda tipo quella che chiede se «la condivisione dell'intelligence statunitense con l'Ucraina ha superato il limite?» ci fa perdere di vista la questione principale: è stata la Russia a superare il limite, attaccando l'Ucraina.  Pertanto, anziché considerare noi stessi come se fossimo il gruppo che reagisce solo a Vladimir Putin - ritenuto un imperscrutabile genio del male - dovremmo rivolgere lo sguardo verso noi stessi: che parte vogliamo avere noi - il «libero Occidente» - in tutto questo? Bisogna analizzare l'ambiguità del nostro sostegno all'Ucraina con la stessa spietatezza con cui analizziamo la posizione della Russia. Dobbiamo andare oltre i due pesi e le due misure, che oggi stiamo applicando a quelle che sono le fondamenta stesse del liberalismo europeo. Ricordiamo come, nella tradizione liberale occidentale, la colonizzazione sia stata giustificata nei termini dei diritti dei lavoratori. John Locke, grande filosofo illuminista e difensore dei diritti umani, giustificò la conquista dei territori dei nativi americani da parte dei colonizzatori bianchi, facendo uso di un'argomentazione contro l'eccessiva proprietà privata, che suona stranamente come di sinistra. La premessa di quel ragionamento, era che un individuo dovrebbe avere il diritto di possedere solo la porzione di terra che sarà in grado di utilizzare in modo produttivo, e non le grandi estensioni di terra che poi non sarà in grado di utilizzare (e che quindi affitterà ad altri). In Nord America, secondo Locke, i nativi utilizzavano vaste porzioni di terra per lo più solo per la caccia, e quindi i coloni bianchi che volevano utilizzarle per l'agricoltura intensiva avevano tutto il diritto di prenderle a beneficio dell'umanità.

Nell'attuale crisi ucraina, entrambe le parti presentano le loro azioni come qualcosa di semplicemente necessario: l'Occidente doveva aiutare l'Ucraina a rimanere libera e indipendente; la Russia era costretta a intervenire militarmente per garantire la propria sicurezza. L'esempio più recente, è stata la dichiarazione del ministro degli Esteri russo secondo cui, se la Finlandia entrerà nella NATO, la Russia sarà «costretta ad adottare misure di ritorsione». No, essa non sarà «costretta», così come la Russia non è stata «costretta» ad attaccare l'Ucraina. Questa decisione appare come una «costrizione» solo se si accetta l'insieme dei presupposti ideologici e politici che stanno alla base della politica russa.
Tutti questi presupposti andrebbero analizzati più da vicino, senza alcun tabù. Spesso si sente dire che bisogna tracciare una linea netta di separazione tra la politica di Vladimir Putin e la grande cultura russa, ma questa linea di separazione è assai più labile e fragile di quanto possa sembrare. Dobbiamo respingere con decisione l'idea che, dopo anni di pazienti tentativi di risolvere la crisi ucraina attraverso i negoziati, la Russia sarebbe stata infine costretta ad attaccare l'Ucraina - non si è mai costretti ad attaccare e annientare un intero Paese. Le radici sono più profonde; sono disposto a dire che sono addirittura propriamente metafisiche. Anatoli Chubais, il padre degli oligarchi russi (è stato lui ad aver orchestrato, nel 1922, la rapida privatizzazione in Russia) ha dichiarato nel 2004: «Negli ultimi tre mesi ho riletto tutti i libri di Dostoevskij. E provo un odio quasi fisico per quell'uomo. È certamente geniale, ma la sua idea dei russi, visti come un popolo speciale e sacro, il suo culto della sofferenza e le false scelte che propone mi fanno venire voglia di farlo a brandelli». Per quanto non ami Chubais per la sua politica, credo che su Dostoevskij abbia ragione, visto che è stato lui ad aver dato l'espressione "più profonda" a ciò che contrappone Europa e Russia: individualismo contro spirito collettivo, edonismo materialista contro spirito di sacrificio.

Ora, la Russia rappresenta la sua invasione come se essa fosse un nuovo passo nella lotta per la decolonizzazione, contro la globalizzazione occidentale. In un testo pubblicato proprio questo mese, Dimitri Medvedev, ex presidente della Russia, e ora vice segretario del Consiglio di sicurezza della Federazione Russa, ha scritto che «il pianeta sta aspettando il crollo dell'idea di un mondo incentrato sull'America e l'emergere di nuove alleanze internazionali basate su dei criteri pragmatici» (ovviamente, «criteri pragmatici» significa ignorare i diritti umani). Perciò dovremmo tracciare anche delle linee rosse, ma dobbiamo farlo in modo da rendere evidente la nostra solidarietà con il terzo mondo. Medvedev prevede che, a causa della guerra, «in alcuni Stati, ci potrebbero essere problemi di carestia dovuti alla crisi alimentare»; una dichiarazione che testimonia un sorprendente cinismo. Nel maggio del 2022, a Odessa ci sono circa 25 milioni di tonnellate di grano che stanno lentamente marcendo, sulle navi o nei silos, e questo perché il porto è bloccato dalla marina russa. Il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite (WFP) ha ammonito a proposito del fatto che milioni di persone «andranno verso la fame, se non verranno riaperti i porti dell'Ucraina meridionale, che sono statichiusi a causa della guerra», ha spiegato il Newsweek. Ora, l'Europa promette di aiutare l'Ucraina a trasportare il grano, sia su rotaia che su strada, ma è chiaro che questo non sarà sufficiente. È necessario un ulteriore passo: una chiara richiesta di apertura del porto per le esportazioni di grano, che includa l'invio di navi militari sul posto. Non per l'Ucraina, ma a causa della fame di centinaia di milioni di persone in Africa e in Asia. È qui che dev'essere tracciata la linea rossa.

Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha recentemente dichiarato: «Immaginate se [la guerra in Ucraina] stesse accadendo in Africa, o in Medio Oriente. Immaginate se l'Ucraina fosse la Palestina. Immaginate se al posto della Russia ci fossero gli Stati Uniti». Come c'era da aspettarselo, il paragone tra il conflitto in Ucraina e la situazione dei palestinesi «ha offeso molti israeliani che ritengono che non vi siano analogie», ha osservato Newsweek. «Per esempio, molti sottolineano il fatto che l'Ucraina è un Paese democratico e sovrano, ma non considerano la Palestina uno Stato». Certo, la Palestina non è uno Stato, ma proprio perché Israele nega il suo diritto di essere uno Stato; proprio come la Russia nega all'Ucraina il diritto a essere uno Stato sovrano. Per quanto io ritenga ripugnanti le osservazioni di Lavrov, a volte egli manipola abilmente la verità. Certo, è vero, l'Occidente liberale è ipocrita, in quanto applica i suoi elevati standard in maniera selettiva. Ma qui l'ipocrisia significa che si violano gli stessi standard che si proclamano, e in questo modo ci si apre alla critica immanente: quando noi critichiamo l'Occidente liberale, usiamo i suoi stessi criteri. Quello che la Russia sta offrendo, invece, è un mondo senza ipocrisia: questo a partire dal fatto che non ha standard etici globali, praticando perciò solo un pragmatico «rispetto» delle differenze.

Abbiamo visto chiaramente cosa questo significa quando, dopo aver dominato l'Afghanistan, i Talebani hanno immediatamente stretto un accordo con la Cina. La Cina accetta il nuovo Afghanistan, mentre allo stesso tempo i Talebani ignorano ciò che la Cina fa con gli Uiguri: ecco, in nuce, la nuova globalizzazione propugnata dalla Russia. E l'unico modo che abbiamo per difendere ciò che vale la pena salvare della nostra tradizione liberale, è insistere spietatamente sulla sua universalità. Mentre, invece, nel momento in cui applichiamo due pesi e due misure, non siamo meno «pragmatici» della Russia.

- Slavoj Žižek - 25/5/2022 - Originariamente pubblicato su The Guardian -

fonte: Blog da Boitempo

Le armi della felicità e la felicità delle armi !!

 
Il diritto di portare armi è il diritto di essere liberi. Così recita un emendamento alla costituzione americana, quella stessa costituzione che sottolinea, fra le altre cose, il diritto...alla felicità!
Ne ha avuto di conseguenze, questo emendamento! E non sto parlando dell'associazione che fino a poco tempo fa era presieduta da Charlton Heston (magari "Ben Hur" sognava un Jesus Christ Superstar, armato di Uzi). Sto parlando dello splendido ciclo di fantascienza de "I mercanti d'armi di Isher" di Alfred Van Vogt. Sto parlando, ad esempio, dell'utilizzo che, dell'emendamento, ne fece - a suo tempo - il Black Panther Party, mandando in giro i propri militanti armati di fucili a pompa.

Non so perché (oppure, forse, lo so benissimo, ma non importa), ma sono queste le cose cui penso quando, a fronte di un avvenimento, come quello di ieri, che ha portato alla morte di 33 persone in un campus americano, si comincia ad invocare l'intervento dello Stato americano perché vanifichi l'emendamento sulle armi, allineando così gli Stati Uniti al resto del "mondo democratico", circa le modalità di armarsi. C'è anche da dire, a onor del vero, che alcuni stati americani hanno già provveduto in tal senso.
Non so se quell'emendamento sia stato pensato, o abbia dimostrato di essere un numero sufficiente di volte, come un argine al monopolio della violenza, e delle armi, da parte dello Stato - potrebbe anch'essere, i padri fondatori in fondo erano anche un po' burloni - ma mi piace immaginarlo.

(già pubblicato sul blog; scritto il 18/4/2007)

mercoledì 25 maggio 2022

Padrona della sua fertilità !!

La Preistoria è stata a lungo narrata al maschile. Le donne, quando venivano menzionate, erano sempre dipinte e raccontate come creature indifese, spaventate, dipendenti dalla protezione dei possenti uomini cacciatori. Chi erano, ad esempio, le donne che hanno ispirato le statue delle veneri preistoriche? Per 150 anni, i ricercatori, privi di indizi archeologici sulla loro vita quotidiana, hanno sottovalutato il loro ruolo. Queste donne sono diventate prigioniere dei cliché. Mentre l'uomo cacciava, inventava, creava, disegnava, la donna, confinata all'educazione dei suoi figli, era ridotta ai soli compiti domestici. Tutto è stato detto... o quasi. Negli ultimi quindici anni, una nuova generazione di ricercatori, molti dei quali donne, ha messo in dubbio questo modello. Queste scienziate, grazie all'etnoarcheologia, allo studio del Dna e alle ossa, hanno creato protocolli di analisi rivoluzionari, hanno definito nuovi metodi di scavo per rendere finalmente visibile l'invisibile. E così è emerso il ruolo essenziale e lo status talvolta prestigioso delle donne preistoriche. Queste donne del passato tornano in vita per la prima volta davanti ai nostri occhi e svelano una nuova storia delle nostre origini.Lady Sapiens ripercorre questa entusiasmante e appassionante ricerca e ci offre un ritratto inedito della donna nel periodo preistorico, una figura più vicina a noi e al nostro tempo, di quanto avremmo potuto pensare.

(dal risvolto di copertina di: “Lady Sapiens”, di Thomas Cirotteau, Jennifer Kerner e Èric Pincas. Piemme. pp.224, €17,50)

Ingioiellata e col neonato nel marsupio anche Lady Sapiens ha fatto la preistoria
- Ossa e corredi funerari ridimensionano la teoria dell'uomo cacciatore» e della donna sedentaria che invece pescava, raccoglieva frutti e cereali che poi macinava, portandosi la prole al seguito -
di Simona Regina

La preistoria è stata a lungo narrata al maschile. Del resto, nello studio di questa disciplina nata attorno al 1860, non abbiamo fatto altro che sovrapporre alla società del passato il modello dominante della società dell'epoca, che teneva ai margini le donne. E così abbiamo cancellato anche la donna preistorica. Che quando viene menzionata, è per lo più dipinta come una creatura indifesa, dipendente dalla protezione dei possenti uomini cacciatori, dedita alla prole e guardiana del focolare. Ma erano davvero così le donne preistoriche? E che ruolo avevano all'interno della tribù?
Partendo da queste premesse, necessarie secondo Sophie A. de Beaune, dell'Università Jean Moulin Lyon III, e Marylène Patou-Mathis, del Centre National de la recerche scientifique, Lady Sapiens risponde a queste e altre domande. Passando in rassegna indizi archeologici - ossa, corredi funerari... - e attraverso una coralità di voci – paleo-genetiste, storici dell'arte, paleo-antropologhi, etnoarcheologi... - il libro di Jennifer Kerner (antropologa), Èric Pincas (storico) e Thomas Cirotteau (regista) ci coinvolge in una sorta di indagine poliziesca. Molto avvincente. Via via, infatti, seguendo le piste suggerite dagli scavi archeologici e dalle analisi di laboratorio, gli autori riescono a comporre un ritratto poliedrico della nostra antenata vissuta nel Paleolitico superiore. tra 40 mila e 10 mila anni fa.

Se analizzando il Dna è possibile identificare il sesso dei fossili antichi, leggendo le ossa riesumate si possono ricavare tante altre informazioni: carenze alimentari, gravidanze, uso prolungato di alcuni muscoli in particolare. Ed è così che oggi è possibile affermare che Lady Sapiens fosse una donna d'azione. Non conduceva cioè una vita sedentaria, ma era impegnata in diverse attività quotidiane, innanzitutto per procacciare il cibo per il gruppo. Se nell'immaginario collettivo la fa infatti da padrona la «teoria dell'uomo cacciatore» - così come è stata presentata nel 1966 al convegno di Chicago «Man the Hunter» -, le indagini che presentano Cirotteau, Herne e Pincas svelano un quadro ben diverso in merito alle occupazioni quotidiane dei nostri antenati. In gruppi non troppo numerosi, ogni membro doveva partecipare alla vita collettiva. Quindi, non solo gli uomini andavano alla ricerca di cibo, e non solo loro si dedicavano all'artigianato.
Il corpo del resto ha memoria e lo studio approfondito delle ossa, dell'usura degli scheletri femminili, «ci autorizza a elaborare una ricostruzione della routine di Lady Sapiens». Cacciava, pescava, raccoglieva frutti, ghiande, cereali selvatici, che poi macinava per ricavarne farina, e riusciva a farlo anche con prole al seguito. A quanto pare, infatti, già nel Paleolitico le donne avevano l'abitudine di legarsi il neonato sul dorso, per avere le mani libere e poter assolvere alle incombenze giornaliere. In altre parole, il marsupio era un'invenzione estremamente pratica per la nostra antenata cacciatrice-raccoglitrice. Che sa da un lato pare allattasse a lungo, anche fino a quattro anni, dall'altro era anche «padrona della sua fertilità: conosceva infatti piante abortive che le consentivano di gestire un'eventuale gravidanza nel caso non desiderasse procreare». E non è da escludere - sostengono gli autori - che sia stata proprio Lady Sapiens pioniera della medicina, grazie alla sua conoscenza del mondo vegetale.

Alta, muscolosa, meticcia, dalla pelle scura e gli occhi chiari, «desiderava piacere e piacersi» scrivono, sulla base delle finiture dei vestiti che, oltre a essere utili contro il freddo e l'umidità, rivelano un certo gusto estetico. Gusto che si riflette anche nella produzione e nell'uso di gioielli (non prerogativa solo delle donne). Tessitrici, sarte, orafe... Ogni capitolo è una sorta di biglietto per un viaggio indietro nel tempo, alla scoperta della quotidianità delle nostre antenate. Il linguaggio chiaro e accessibile e la narrazione accattivante prendono per mano lettrici e lettori non abbandonandoli fino alla fine. Anzi. Chiuso il libro, si ha voglia di vedere l'omonimo documentario per continuare il viaggio alla scoperta del «ruolo cruciale che le donne hanno avuto nello sviluppo culturale delle società preistoriche».
Ruolo che sarebbe dimostrato anche dai «segni di prestigio» che caratterizzano alcune sepolture femminili. «Se è vero infatti che il potere non si trasforma in un fossile» da poter analizzare, le sepolture testimoniano il rispetto dei membri del gruppo per il defunto. E grande allora doveva essere il rispetto della comunità nei confronti della «Donna del Caviglione», sepolta con magnificenza nel complesso delle grotte dei Balzi Rossi sulla costa ligure. Quale potere e quale status avesse non lo sappiamo. Ma gli autori confidano nel progresso delle tecniche e degli strumenti di indagine per rispondere a tante domande ancora aperte sull'origine dell'umanità. Perché, come dicono, «l'avventura di Lady Sapiens in fondo è solo all'inizio».

- Simona Regina - Pubblicato su Tuttolibri del 16/4/2022 -

martedì 24 maggio 2022

Interferenze !!

Le lettere di questo stupefacente epistolario sono in gran parte indirizzate ad Allen Ginsberg, Jack Kerouac, Paul Bowles e pochi altri, uniti dalla convinzione di essere destinati a qualcosa di grandioso, e guidati dallo stesso Burroughs, guru sui generis e artefice di un «lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi». Seguiremo così el hombre invisible – come lo avevano soprannominato gli arabi – per i vicoli di Tangeri, lo vedremo sperimentare, fino al limite, ogni tipo di droga e cercare ovunque strumenti per scardinare «il film fraudolento» della realtà. Come un ricercatore folle chiuso nel suo laboratorio, che coincide con il cosiddetto mondo, Burroughs si espone a tutti i virus, a partire dalla parola, ma sonda anche altre vie, meglio se astruse e pericolose: dall’orgone di Wilhelm Reich alla dream machine di Brion Gysin, dal mitico yage amazzonico a Scientology. E riesce a sopravvivere. Il racconto di amori, amicizie, avventure esotiche ilari e turpi, prigionie, ricoveri, e perfino dell’uccisione accidentale della moglie, documenta inoltre la nascita di quella singolare forma narrativa che verrà poi identificata con Pasto nudo, dove Burroughs trasforma le sue ossessioni, quasi sempre di carattere sessuale, in brani di una musica verbale distorta, acida, aliena. Rivolgendo il suo occhio clinico in primo luogo verso se stesso, Burroughs coglie anche manie e fobie americane, dal dopoguerra a oggi, patite sulla propria pelle e restituite con gli interessi alla comunità – e l’autoritratto disegnato dalle lettere si rivela così un’impietosa radiografia del suo paese.

(dal risvolto di copertina di: William S. Burroughs, "Il mio passato è un fiume malvagio. Lettere 1946-1973". Adelphi, € 24,00 )


Racconto epistolare di vite stupefacenti
- di Raffaele Liucci -

«Credo che gli Usa si stiano trasformando in uno stato di polizia di stampo socialista non troppo diverso dalla Russia»; «Credimi, socialismo e comunismo sono sinonimi ed entrambi sono il male assoluto, e lo Stato assistenziale è il cavallo di Troia». Siamo alla vigilia del Natale 1949, a Città del Messico. Chi scrive al poeta Allen Ginsberg non è un reazionario anticomunista musclé, ma William S. Burroughs (1914-1997), uno dei padri della Beat Generation, il movimento politico-culturale che farà di tutto per smascherare l’ipocrisia del sogno americano. Anticonformista anarcoide, pecora nera di una agiata famiglia di Saint Louis nota per la produzione di macchine calcolatrici, Burroughs era ossessionato «dalle interferenze» dello Stato «negli affari di ogni singolo cittadino», come spiegherà qualche giorno più tardi allo scrittore Jack Kerouac. Per fortuna il Messico, dove si era trasferito in fuga da un mandato di cattura per traffico di stupefacenti, era libero dalla «tirannia piagnucolosa formata da burocrati, assistenti sociali, psichiatri e rappresentanti sindacali». È in Messico che Burroughs inizia a lavorare alla Scimmia sulla schiena, in cui racconta con linguaggio freddo e analitico la storia della sua tossicodipendenza e i tanti personaggi macabri e stravaganti incrociati negli anni. Se Ginsberg lo trova un memoir autoassolutorio, lui replica: «Non giustifico niente con nessuno. Di fatto il libro è l’unico racconto veritiero che abbia letto sui veri orrori della droga». Uscito nel 1953 sotto lo pseudonimo di William Lee, resterà una delle sue rare opere non sperimentali, scritte con linguaggio piano e scorrevole. Nel frattempo, aveva dovuto lasciare precipitosamente il buen retiro messicano, dopo aver ucciso la moglie sparandole per sbaglio alla testa mentre giocavano a Guglielmo Tell durante una festa alcolica. «Senza la morte di Joan», spiegherà in seguito, «io non sarei mai diventato uno scrittore», trasfigurando sulla carta i propri demoni.

«Burroughs non conosce noia», osserva Ottavio Fatica nella postfazione a questo epistolario, che raccoglie soprattutto lettere indirizzate agli altri due santoni della Beat Generation, ossia i già citati Allen Ginsberg (il più impegnato politicamente, del quale diventerà anche amante) e Jack Kerouac (il più talentuoso). Ma ci sono anche Brion Gysin (artista poliedrico, inventore della Dream Machine, una lampada rotante psichedelica) e Truman Capote (destinatario di una lettera feroce). Forse la maggior opera di Burroughs è stata proprio la sua vita raminga e convulsa, interamente dedita – per dirla con Rimbaud – a un «lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi». Da un lato la droga, della quale fu sin dalla giovinezza un consumatore metodico, come può esserlo un ricercatore che si inietta un virus per osservarne i risultati; dall’altro il sesso, vissuto liberamente in un’epoca in cui gli omosessuali non erano ancora usciti dalle catacombe (nelle sue lettere, molti crudi episodi al riguardo). Dopo il Messico, è la volta del Sud America, fra Colombia e Perù, dove Burroughs organizza una spedizione nella giungla amazzonica alla ricerca dello yage, il leggendario allucinogeno dai poteri telepatici. «Non è paragonabile a nient’altro», confessa a Ginsberg: «Non è la sferzata chimica della coca, l’orribile lucida stasi asessuata della roba, l’incubo vegetale del peyote, o l’ilare stupidità dell’erba. È un folle e soverchiante stupro dei sensi» (il loro romanzo epistolare ’lisergico’ sarà raccolto nel volumetto Le lettere dello yage, 1963, ora disponibile, come tutti i principali titoli di Burroughs, per i tipi di Adelphi). Altrettanto conturbanti sono i luoghi varcati. Lima è «una città di spazi aperti, terreni coperti di merda e parchi enormi, avvoltoi in cerchio nel cielo violaceo e ragazzini che sputano sangue nelle strade».

Nel 1954 Burroughs approda a Tangeri, «il polso sintomatico del mondo», «l’unico posto che mi fa venir voglia di restare invece di essere da un’altra parte», scrive a Ginsberg e Kerouac. Città di rinnegati ed espatriati, dove tutto era permesso, Burroughs vi si aggira come un «uomo invisibile» (così viene soprannominato dalla gente locale). Conosce Paul Bowles (autore del Tè nel deserto, da cui Bertolucci trarrà nel 1990 l’omonimo film), Timothy Leary (lo psicologo di Harvard, guru dell’Lsd) e Brion Gysin, che lo introdurrà al cut-up narrativo, una sorta di montaggio casuale di testi dalla provenienza più disparata. Sono gli anni del travagliato laboratorio del Pasto nudo, pubblicato a Parigi nel 1959, il suo libro più celebre. «La forma del romanzo», preannuncia nel 1954 a Kerouac, «è del tutto inadeguata a esprimere quel che voglio dire». Infatti ne uscirà un libro impossibile, paranoico, scandaloso, racconto stralunato dell’inferno di un tossicomane. Ma anche – ha osservato Fernanda Pivano – «spietata, sadica satira di qualsiasi genere di totalitarismo». Giudicato da Bobi Bazlen, in un parere per Einaudi, «assolutamente impubblicabile» per la sua «sfilza ininterrotta di oscenità», in Italia uscirà nel 1964 con SugarCo. Gli anni Sessanta segnano il ritorno in Occidente, fra Parigi, Stati Uniti e Londra, dove grazie a un medico riesce a disintossicarsi dalla droga, la sua musa. Nel 1973 si stabilisce a New York, andando a vivere in un appartamento senza finestre, soprannominato «il bunker». I suoi libri, pur non vendutissimi, hanno esercitato grande influenza su artisti come David Bowie, Lou Reed e Patti Smith. Quando, nel 1983, il «fuorilegge della letteratura» è ammesso all’American Academy of Arts and Letters, lui commenta al vetriolo: «Quella gente vent’anni fa andava dicendo che il posto più adatto per me era la galera. Adesso vanno fieri che io appartenga al loro gruppo. Non li ho mai ascoltati prima e non gli darò certo retta adesso». Dopo aver trascorso una vita «stupefacente», Burroughs si spegne il 2 agosto 1997, per infarto, alla bella età di 83 anni. Viene sepolto insieme alla sua «38 special» a canna corta, che di notte teneva sotto il cuscino.

- Raffaele Liucci - Pubblicato su Domenica del 17/4/2022 -